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Raccolta di testi in prosa di Paolo Pozzi
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Pirati

Le lenzuola sulle quali ero sdraiato erano bagnate del mio sudore. La stanza da letto di mia nonna era all’ombra solo per via delle persiane socchiuse, ma l’estate entrava lo stesso.

 

«Eravamo sempre in tre a saltare per primi sulle navi: io, barbagrossa e pugno di legno»

 

«Ma non avevi paura?»

 

«Sempre! Ma avere al fianco i miei fedeli compagni mi dava coraggio. Insieme riuscivamo a vincerla»

 

Come per le sbarre di una cella, il sole spingeva violentemente sul verde delle persiane. Si aggrappava con i suoi raggi alle strette fessure, cercando inutilmente di allargarle.

 

«Ho caldo papà» - lamentarmi era l’arma più forte che avevo in quel momento per sentire fresco.

 

Ogni spallata del sole sulle persiane terminava con l’esplosione in mille pezzi dei suoi fragili raggi. La maggior parte delle schegge rimbalzavano sugli alberi e sui sassi del cortile illuminandoli. Quelle più fortunate rotolavano all’interno della stanza, spegnendosi nei suoi colori.

 

«Anche barbagrossa lo diceva sempre. Era il più alto di tutti, grande e forte come un orso. Era talmente peloso che faticavo nel distinguere l’enorme barba dai peli del petto»

 

«Per questo si chiama barbagrossa

 

«Esatto. E con la sua grossa voce non faceva altro che ripetere sempre la stessa cosa: Ho caldo! Ho caldo! Ho caldo! Ho caldo!»

 

Si potevano percepire i diversi colpi del sole sulle persiane ad ogni vampata di calore. Più erano forti, e maggiore era il disperato tentativo di abbattere quelle sbarre.

Mio padre indossava pantaloncini corti che terminavano sopra le ginocchia, mentre il torso magro era nudo. Piccole gocce di sudore lasciavano testimonianza del loro passaggio sulla pelle della fronte e del petto, cancellate ad ogni passaggio del fazzoletto di stoffa che teneva nella tasca sinistra.

 

«E tu non avevi caldo?»

 

«Sì, ma avevo imparato a pescare il mare»

 

«Davvero? E come??»

«Mentre la nave solcava le onde spinta dal vento, legavo un secchio di legno a una cima e lo buttavo in acqua. Con le mani stringevo forte la corda lasciandolo giocare un po’ con le onde, fino a quando una di loro non decideva di entrarci. A quel punto tiravo con tutte le mie forze la corda riportandolo a bordo»

 

«Ma eri fortissimo papà!»

 

«Dopo essermi rovesciato il mare appena raccolto sopra la testa, andavo in prua alla nave per farmi rinfrescare dal vento»

 

«E pungo di legno non aveva caldo?»

 

Mia nonna entrò in quel momento portando su un vassoio due bicchieri colmi di ghiaccio e una bottiglia di tè al limone. Amavo bere il tè freddo, soprattutto quando ascoltavo le storie sulle vite mai vissute di mio padre, ma a dieci anni credevo sinceramente fossero vere.

 

«No, lui amava il sole. Era come una lucertola, rimaneva per ore fermo sotto il sole cocente»

 

Ci eravamo trasferiti da mia nonna da circa una settimana. Con la nascita di mia sorella i miei genitori decisero di allargare casa acquistando l’appartamento vuoto di fianco al nostro. I lavori di ristrutturazione erano appena iniziati, e per tre settimane sette persone sarebbero vissute in un grande bilocale.

 

«E perché si chiama pugno di legno

 

«Durante uno scontro un soldato gli tagliò la mano con la spada, e al suo posto si fece mettere una mano di legno chiusa in pugno. Era la sua arma preferita durante le battaglie»

 

«E combattevi anche tu che sei dentista?»

 

«Certo! Usavo delle enormi pinze per spaventare i nemici, e quando staccavo dei denti li tenevo per farmi una collana. Per questo mi chiamavano il pirata dentista»

 

Altra spallata del sole, forse la più violenta. Il fazzoletto di stoffa faticava nell’assorbire le piccole strade di sudore sul corpo di mio padre. Ma il bicchiere di tè ghiacciato iniziò a dare l’effetto desiderato.

 

«E non lo fai più il pirata?»

 

I gemiti di mia sorella ci avvisarono che si stava svegliando. Aveva dormito per qualche ora, nonostante il caldo torrido di quel pomeriggio. Avvolta nel suo anno di vita era tranquillamente sdraiata al mio fianco. Dopo i primi lamenti iniziò a muovere braccia e gambe come farebbe una tartaruga sdraiata sul dorso.

Mio padre la guardò sorridendo per qualche istante prima di alzarsi per prenderla in braccio.

«Ora non più»

 

Riempì per entrambi un altro bicchiere di tè, nel ghiaccio quasi completamente sciolto.

 

«Ma ricordo bene l’isola dove ho nascosto il baule»

 

«E cosa ci hai messo dentro?» - la mia curiosità scalpitava

 

Con un lungo sorso finì il suo bicchiere.

 

«I vestiti da pirata, la mia pinza da battaglia e le mappe dei tesori che non sono ancora riuscito a trovare»

 

Aveva in braccio mia sorella, cullandola nella sua innocenza. Lei aprì gli occhi allungando il piccolo braccio verso la sua barba.

Si sorrisero entrambi.

 

«E non vuoi andare a cercarli?»

 

Prima di rispondere mi guardò porgendomi lo stesso sorriso.

 

«Non tutti i tesori sono fatti per essere trovati»

 

«Perché?»

 

Il sole diede un altro colpo alle verdi persiane, spingeva per entrare. Quale carcerato cerca in tutti i modi di entrare in una cella, e non di uscirne?

 

«Un giorno capirai che la loro ricchezza risiede nella loro mancanza»

 

Forse chi ha paura della libertà.

*

Libertà di pietra

(Testo ispirato dall’opera Le chateau des Pyrénées - Magritte)

 

 

 

 

Judite era impassibile.

L’unico amico in grado di accarezzarla era il vento. Ogni tanto, una carezza più decisa, permetteva ai suoi capelli di giocare con l’aria. Solo in quel momento gli occhi sembravano sorridere, ma l’immobilità del suo corpo era severa. Il sole allungava i suoi raggi tra le imperfezioni del cielo, riuscendo a scaldarla nel suo fugace abbraccio. Le voci delle nuvole si imponevano nel silenzio del loro passaggio, grandi mucchi bianchi disegnavano confini nell’infinito spazio blu. I profumi trasportati dalle carezze raccontavano storie diverse. Terre lontane si presentavano a ogni respiro, riempiendo i polmoni di curiosità e fantasia. Lo sguardo era fisso verso l’orizzonte, in attesa di scoprire tutti i colori che il cielo aveva imparato a essere.

Il tempo trascorreva in compagnia dei suoi pensieri. Ogni battito del suo cuore era il motore per proseguire in quei profondi viaggi. Le ore passavano tra loro il testimone della sua fantasia, sedendosi al suo fianco una volta trascorse per continuare ad ascoltarla. Le sue parole erano le sue emozioni, che comunicava solamente attraverso il colore della sua pelle.

 

Judite era bella.

La sua giovane età manteneva la freschezza della sua anima. Il fiore della sua vita era appena sbocciato, liberando nel giardino della vita il suo dolce profumo. L’azzurro dei suoi occhi sorrideva al sole. Il chiarore della sua pelle si emozionava del suo calore mostrandosi timidamente arrossata, protetta in gran parte dal delicato vestito rosa. Il colore chiaro dei suoi capelli giocava con le ombre ad ogni passaggio delle silenziose amiche nel cielo, risplendendo ad ogni raggio di sole. La sedia limitava ai suoi confini i suoi. Le permetteva di stare ben dritta, mettendo in risalto il soffice corpo sotto la seta del lungo vestito. Non indossava altro che quel leggero vestito, sicura nel desiderio di freschezza sul suo corpo.

 

Judite era libera.

Non avrebbe mai permesso alla sua granitica quiete di opprimere il suo fluido spirito. Era nata padrona di sé stessa, non costretta all’immobilità. Il suo corpo era chiuso in una torre impenetrabile, ma ogni finestra era un fantasia verso il mondo.

 

Judite era il mare, libero in un castello di pietra.

*

Ultima Parola

«Mamma, dillo...»

 

È il quarto giorno, e non sono ancora morta. Mancano due ore al pranzo e tredici al termine ultimo della mia vita. Mia figlia è rimasta al mio fianco dal primo giorno, come io al suo settantacinque anni fa.

 

«Sposta le tende per favore, non fanno entrare la luce del sole»

 

«Non ti sono mai piaciute le tende, vero mamma?»

 

Il letto sul quale sono sdraiata da quattro giorni mi abbraccia comodamente, anche se limita ai suoi confini i miei. Non voglio morire con il sapore del sole nascosto dalla stoffa di lino.

 

«Mamma» l’azzurro degli occhi di mia figlia sorride al sole «fra poco arriverà, sei pronta?»

 

«Dirò quella parola al momento opportuno, e non certo perché qualcuno mi obbligherà a farlo»

 

«Lo so mamma, ma sono passati quattro giorni. Nessuno è mai arrivato così tanto oltre»

 

Tra tutti i modi con cui la Natura poteva decidere di mettere termine alla nostra vita, ha scelto di farlo per mezzo di una parola. Potrei rimanere invalida in questa stanza per sempre, senza preoccuparmi di morire. L’evoluzione, invece, ha deciso di dare a ognuno la responsabilità del termine della propria vita. Nessuno ha compreso come questo sia possibile, ma è stato semplicemente accettato. Dare voce a questa parola comporta morire, ed è l’unica a essere usata una volta sola nella vita.

 

L’attenzione di mia figlia è catturata dalle voci decise che arrivano dal corridoio, passando indisturbate tra quei muri costruiti con l’unico scopo di separare.

 

«Mamma, credo sia arrivato»

 

I vetri ci riparano dal vento freddo della giornata, ma non dai suoi colori. Mentre mia figlia è attenta alle parole filtrate da un blocco di cemento, lascio i miei pensieri liberi di scorrere verso il mondo attraverso una piccola finestra.

 

«È lei?» Il funzionario governativo ansima leggermente, asciugandosi la fronte dalla fatica dei cinque piani di scale. Guarda mia figlia che annuisce leggermente.

 

«Il Governo, di cui sono l’ufficiale rappresentante, le porge i suoi più sentiti complimenti per il raggiungimento dei cent’anni, e profonde condoglianze per la sua imminente dipartita»

 

Stringendomi la mano mia figlia non riesce a nascondere i suoi pensieri.

 

«Ai sensi dell’articolo sette, comma tre e paragrafo otto della costituzione, lei ha il dovere di morire»

 

I raggi del sole entrano nella stanza per scaldarsi da questa fredda giornata. Si sdraiano comodamente sulle coperte lilla, riposandosi dal loro lungo viaggio.

 

«Signora, conosce bene quali sarebbero i problemi se nessuno di noi morisse. I nostri figli non avrebbero un futuro sostenibile per il numero eccessivo di persone in vita»

 

Ho passato cento anni e quattro giorni non potendo usare questa parola. Ci è stata tolta la possibilità di esprimerla, ma ho imparato a viverla. Quello che la Natura ha tolto come suono, l’ha donato come realtà.

 

«Mamma, come stai?»

 

Mia figlia è sempre stata molto attenta verso di me. I miei pensieri l’hanno sempre cullata come una bambina, nonostante la vita l’abbia resa madre e nonna a sua volta. È sempre stata al mio fianco, accompagnando il mio sorriso nei momenti felici e stringendomi per mano in quelli più bui. Ha gli stessi occhi di mio marito, che compiendo cent’anni cinque anni fa, si è trasformato in un’emozione. Quando guardo gli occhi di mia figlia lo rivedo, dentro di me la felicità di un secolo esplode in un battito di ciglia.

 

«Bene, piccola mia…»

 

Accarezzo il suo viso per l’ultima volta, salutando mio marito attraverso i suoi occhi. Finalmente posso liberare questa parola dalla sua prigionia, rendendomi libera insieme a lei:

 

«…grazie»