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Raccolta di testi in prosa di Giuseppina Rando
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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La paura#controviolenzadonne

La paura

 

 Rannicchiata nel letto, la donna suda per lo sgomento : la febbre divora il corpo del bimbo  il  cui volto diventa sempre più spento.

 Il padre nella stanza accanto è divorato dal male dell’io, corroso dall’oro, dal denaro e dalla passione di voler piegare tutto e tutti alla propria volontà, al proprio demone.

 Un  moto  incessante d’odio lo avvolge, per il figlio   malato , per la moglie che vuole curarlo.

   Non dice una parola, estraneo a tutto ciò che accade attorno, lontano all’amore che la donna vorrebbe offrirgli.

 Vortici di sentimenti, incapaci di trasformarsi in presenze costruttive, s’aggirano sotto le architravi  di silenzio che  sorreggono la dimora.  

 

 Per notti e notti la donna sta chinata sul letto, il suo corpo mezzo vivo abbraccia il corpo del figlio mezzo morto , s’intrecciano le loro ossa fragili sì da formare un’unica massa vivente.

La notte non ha fine e l’uomo è sempre là, con lo sguardo  di pietra ,il cuore avvelenato .

S’alza lentamente la donna, s’affaccia alla finestra: è buio fitto. Neanche una stella in cielo. La casa è isolata e la farmacia lontana.

 

E’ naturale vivere con la morte,  ma non è naturale  lasciare che il marito/padre, dalla stanza accanto ,  con gli occhi di pietra e il riso di Satana, ti rubi  il figlio.

Le pareti della stanza crollano sulle membra tremanti della madre, la risucchiano; cerca il figlio, non lo trova .   Gli ossicini del  bimbo  frantumati   dalla febbre e dal disamore del genitore  rientrano nel  ventre materno.

 In quel teatro di prigione però le ombre acquistano colore in quadri di speranza.

 

I resti   delle due creature avanzano con i giorni, corrono con le ore.

Anni e anni di lotta danno alla donna la coscienza che niente più può fermare il  viaggio verso i sogni che hanno riempito  sempre la sua vita.

Il desiderio di  smarrirsi nell’ideale  cade morbido sul suo fragile corpo come veste di seta e la spinge ad andare.

 

Il cammino è avvolto dalla notte, ma lei procede con sicurezza.

  All’improvviso i suoi passi vengono interrotti da una barriera: un mare immenso invalicabile le è davanti.

All’angoscia del limite se ne aggiunge un’altra: una marea di uomini a cavallo la circonda da ogni parte.

 E’ l’esercito dell’uomo dallo sguardo di pietra e dalla risata satanica dell’odio annientatore.

Davanti il mare, dietro Satana che incalza, ai lati il deserto, invivibile.

La notte rende ancora il mare più minaccioso, un manto fluido fatto di notte che fa riemergere paure  lontane: il terrore dello sguardo di pietra, il terrore  dell’uomo  che non conosce l’amore  .

 

Un intreccio magico di raggi , prima gialli, poi verdi, poi fosforescenti si staccano dal nero cielo, s’avvicinano sempre più, prendono  la forma di un veliero sottile.

 La donna   fissa la piccola imbarcazione a lungo e, come per incantesimo, si trova davanti  la  casa di un tempo, quando era solo una bambina.

Là si rifugia: è la  navicella dei sogni.

Un soffio di vento la solleva e la spinge verso l’inaccessibile ignoto.

 E’ leggera,   sfida la corrente, vola sulle onde. Cielo e mare  negli occhi della donna protesa verso l’orizzonte, tra le sue  braccia  torna il figlio emaciato, ma sorridente.

 

 Veleggia sui sogni la donna.

 Finalmente approda  nel porto di una città tranquilla .

 Il figlio, cresciuto, vuol  mettere i piedi a terra, insieme vagano per le strade e i mercati. Osservano  le vetrine di negozi mai visti: frutta, ortaggi, vestiti, gioielli,vasi : è tutto un luccichio di colori.

Madre e figlio si perdono  nelle cose, vogliono assorbire  con gli occhi tutto l’odore, il sapore , il colore del mondo. Il figlio ammira, annusa, tocca tutto ciò che può.

A volte le sue mani restano per lunghi minuti ad accarezzare la superficie lucida di una brocca di rame o quella rugosa di un’arancia. La madre lo lascia fare.

 Intorno tanto rumore e movimento di gente.

 

Tra la gente la donna scorge un uomo che la fissa con  lo sguardo di pietra, sono gli occhi del  nemico,   padre del bimbo inghiottito già una volta dal deserto e dall’odio .

Si sente penetrata dallo sguardo del  disprezzo gelido e le sue membra s’irrigidiscono, diventano  come pietre. E’ il nemico che  torna.

 Il terrore invade la donna che afferra il figlio e insieme corrono verso il porto.

 

“Ci sarà un’altra terra a cui arrivare ? “ chiede il ragazzo alla madre tremante, seduta sulla panchina del porto. Oscuro silenzio.

 Scende ancora  il buio  a sovrastare  ogni cosa.  La paura dell’uomo dallo sguardo di pietra paralizza  madre e   figlio, in perfetta simbiosi.

   Mente  e  arti bloccati.

Ormai andare avanti o tornare indietro è la stessa cosa per lei.

 

 E’ la  paura a distruggere  più dell’uomo dagli occhi di pietra, più dell’uomo che odia è la paura a distruggere.

E’ la paura il nemico più pericoloso, è lei la morte, prima ancora della morte.

Sulla panchina del porto resta seduta la donna, si trasforma in  statua di pietra , sul volto è scolpita la paura.

 Nella paura annegano i sogni, nella paura si spegne la vita .

*

Lettera ai miei morti

Miei cari,

 dal giorno che abitate il luogo dell’assenza il mio amore per voi si è intensificato.

Quando mi avete lasciato ,  la vostra dipartita  mi è sembrata come un’evasione nella notte, verso un luogo di silenzi solenni e profondi, dove “la bianca signora “, che era ad attendervi, vi avrebbe dato consolazione. Come il poeta dell’Infinito mi sono immaginata per voi interminabili spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete.

 Assenti sì, ma presenti e non solo nei miei pensieri. Mi sembra spesso di percepire la vostra  incorporea figura tra gli elementi della natura: nella pioggia che bagna l’arida terra, nei fiori che sbocciano, nel vento lieve che mi accarezza, nell’acqua dei fiumi che scorrono verso il mare, negli uccelli che volano liberi nell’aria, nelle nuvole che si compongono e scompongono in cielo.

Nelle notti  lunari, sotto lo smalto del cielo, vestito di stelle, vi cerco, lassù, sul filo del pensiero, ma… mi sommerge… l’oceano del silenzio.

 Mi risuonano “dentro”, come echi lontani, soltanto le vostre antiche parole.

Tra voi arde l’eternità e brucia il tempo. Uno dopo l’altro, i vostri volti, nitidi,  mi sfilano davanti come per ricordarmi che avete scoperto la vita con gli occhi del pianto e che la saggezza non consiste nel conoscere molti libri o nel possedere molte nozioni, ma nel saper leggere il libro della vita.

Quando eravate qui, accanto a me, vi ho apprezzato per il modo di vivere, di  riflettere e vi ho amato profondamente. Adesso il vostro silenzio mi brucia.

Sulla strada della mia vita, dal corteo delle persone che mi accompagnano, se ne stacca una -di tanto in tanto -  quasi in sordina -  e si perde nel buio della notte. Il mio corteo diventa così sempre più esiguo perché solo apparentemente giungono altri sulla strada per camminarmi accanto.

 Voi, che siete stati con me fin dall’inizio del cammino, siete rimasti i più vicini al mio cuore.

Gli altri sono semplici compagni di viaggio. Da voi - che ho tanto amato e che mi avete amato - ho ricevuto quella fiaccola che mi illumina lungo il cammino.

Ricordo, Tom, come  fosse stato ieri, ma  sono trascorsi moltissimi anni,( ero allora una ragazza ! )   ciò che mi hai detto, al crepuscolo tremolante di un triste giorno.

 Eravamo nella terrazza sul mare, sotto un cielo striato di nuvole, a strisce d’argento e piombo: “… se non sarai una celebre letterata o  se non sarai una grande filosofa , non sarà per te una rovina, ma se non saprai vivere, se non saprai vivere sì , sarà una rovina per te...”

Imparare a vivere, Tom, tu stesso ne hai fatto esperienza, non è facile. Ancora…io non ho imparato!

Mi è di conforto il filosofo  Seneca quando scrive : “Non v’è arte più difficile del vivere… a vivere si deve imparare attraverso l’intera vita;… e vi stupirà ancor più, attraverso la vita, si deve imparare a morire”.

Vorrei che tu mamma , papà, nonna Peppina, amatissimo fratello Mimmo che proprio nel giorno del Signore, Domenica delle Palme  sei volato via, e voi tutti, amiche ed amici, rompeste  questo crudele silenzio per parlarmi di voi, dell’Altrove in cui vi trovate.

Sono certa, esistete !

Eppure nessuna vostra parola giunge al mio orecchio, nessun segnale, nessuna dolcezza del vostro amore riempie più il mio cuore. Silenzio che brucia.

 Nelle mie sofferenze essenziali, nelle speranze disperate, nelle attese deluse, nelle tristezze radicali ho sempre cercato-  scioccamente? - conforto in un vostro sostegno,  suggerimento, -così, come quando eravate qui – ma… non ricevendolo, la mia anima si è nascosta nelle pieghe di se stessa.

Forse volete che io vi dimentichi? Non si può dimenticare chi si ama. Nessuno può sostituirvi.

Mi hanno insegnato (e  voi me lo avete sempre ripetuto) : “Chi muore nell’amore di Dio- l’Eterno Presente- la sua vita non è tolta, ma mutata nell’eterna, sconfinata pienezza di vita”.

Perché allora, spesso, mi sembra che voi siate tanto lontani da me, proprio come se non esisteste più?  Forse che la luce del  Sempre Presente, la luce di Dio, in cui voi siete entrati, è così debole che non riesce a  giungere fino a me?

 Anche Dio mi sembra morto come i morti. Eppure sento di amare Dio così come amo voi .

 Intanto, tacete voi e tace Dio.

 Il silenzio e l’assenza sono le condizioni, forse, per poter  penetrare nell’eternità?

 Già, il silenzio è più profondo della notte, più misterioso del cielo stellato.

Mi piace, allora, intendere il vostro silenzio non come assenza di voci, ma come l’involucro teologico di una presenza.

 Sarà -certamente- perché il mio amore possa svelarsi che il vostro amore si copre di silenzio.

Se Dio si mostrasse a me, non sarebbe necessario che io lo cercassi. Per trovarlo devo, quindi, uscire dalla mia finitezza, staccarmi dal concreto, dal fluire della vita.

 Voi, che siete entrati nell’eternità, imitate il silenzio di Dio. Le vostre parole d’amore per me  si sono fuse con l’amore infinito di Dio.

 Il vostro tacere altro non è che l’eco del tacere di Dio.

 Possa, allora, l’amore che nutro per voi diventare una prova della mia fede in Dio.

Possa io saper ascoltare e comprendere il vostro silenzio, quel silenzio che è l’intima parola del vostro amore.

L’anima mia è vicina a voi e al Dio del silenzio, al Dio di tutti coloro che vivono in Lui, il Sempre Presente, il Dio dei viventi.

O  Dio dei viventi e voi , miei cari, non vi dimenticate - vi prego- della “morta” che sono io.

 Giora

16 aprile 2014 

*

Un clone

Un clone

Camminava lentamente con passo stanco lasciando orme profonde lungo il bagnasciuga .

Mentre affondava i piedi nella sabbia lucida e molle, voci strane e cupe risuonandogli dentro dipingevano sul suo volto, dai tratti scavati, il color della cenere.

 Era vecchio Gelio: sulle sue spalle i ricordi di una lunghissima vita, un Noè  dall’espressione triste, condannato a rivedere qualcosa di già visto, costretto a constatare che tutto torna, tutto si ripete.

Il suo sguardo opaco era quello di chi non ha più curiosità, che guarda la vita attraverso un filtro che ne sfuma i contorni.

Accanto lo seguiva, come ombra , una giovane donna, sua amica, Eva.

 Era bellissima, la carnagione rosea, due occhi chiari, capelli castani. La sua bellezza non conosceva ancora l’usura del tempo.

Un colpo di tosse stroncò il discorso che Gelio stava per iniziare e si perse nel mormorio delle onde.

Riprese la parola come se parlasse a se stesso:

-         Platone sognava la Repubblica dei filosofi, oggi tutti sognano la  Repubblica “del viver a lungo”.  Ci sono riusciti. La scienza mi ha dato una lunghissima vita, ma mi ha tolto la gioia di vivere, non provo più emozioni. Sono carne senza anima.-

-         Perché parli così Gelio? Tu sei  ancora un uomo di rara intelligenza, un amico eccezionale che mi ha dato luce, forza, coraggio. Tu sei l’artista, il  poeta, lo scrittore che mi ha fatto e mi fa sognare.

-         La vita è un sogno, Eva. Il mio spirito anela ad uscire da questa gabbia di cellule, da questo corpo divorato dall’autocorrosione. Il mio spirito anela a volare libero.-

Un’ onda più lunga bagnò i calzoni di Gelio e gli spruzzi il viso di Eva. Un gabbiano, dopo un ampio volo su di loro, si posò in cima allo scoglio di fronte. Si fermarono.

-         Vedi, Eva, riprese il vecchio, spesso sogno di essere un gabbiano. Forse in un'altra vita sarò stato un gabbiano, avrò cantato un canto senza parole; solo suoni. Un canto di chi vinto non si rassegna. Il passato è dimenticato, è instabile, è come il mare interiore comunicante con il mare dell’oceano della vita tutta, dove si può sfociare se non ci si aggrappa ad un angolo di terra ferma, visibile per qualche istante per poi essere di nuovo sommersa.-

Il mare divenne a poco  a poco scuro, lenta scendeva già la notte. Nel cielo poche stelle. Eva sentiva il respiro ansimante di Gelio, dal quale nonostante gli acciacchi fisici si sentiva sempre più attratta. Aveva tanto desiderio di scavare nel suo passato di conoscere la sua vita intima e così disse:

 - Ho saputo che hai avuto una passione di fuoco per una bella donna. Com’era quella donna? Descrivila, Gelio.-

L’amico si girò per guardarla e come se la vedesse solo allora : - Era come te, era il tuo doppio - mormorò accigliandosi.

. – Un sosia , un clone della mia immagine ? –

Un lungo, lunghissimo silenzio. Poi Gelio riprese:

-Si, ma il cervello non è replicabile mia cara amica. L’ipotesi dell’immortalità dovrà fare i conti con un vissuto neuronale che è già vecchio.”

-  Già , aggiunse Eva, come scrisse Seneca  Quam bene vivas refert, non quam diu  ( non importa quanto si vive , ma come si vive). Ancor oggi è così. –

Stanchi per la passeggiata e ancor più per la difficile conversazione i due amici tornarono in albergo.

Salirono nelle rispettive camere, una di fronte l’altra.

 Eva era turbata. Sentiva rumore nella camera di Gelio: temeva che soffrisse, oppresso dalla sua sempre più tetra fatica di vivere. Eppure lo amava, lo amava anche senza speranza.

 La consolò  il pensiero di essere un clone

 

*

Vuoto

 Vuoto  

 

S’intersecano nei solchi della tela le linee interne del quadro

provengono dalla fessura della porta.

Ciò che è rappresentato è assente.

 

 Più in là  la scodella di rame  del viandante  - di tanto in tanto-

brilla nelle sillabe disperse  lungo  la via - fra notte e notte - .

Sulle foglie oscillare di visioni  molteplici  forme s’inseguono

nella brezza  che spazza  frammenti di fatica.

Sul volto rugoso dello straniero  si nascondono  i segreti

 che già un tempo furono le parole del Re da tempo immemorabile

 assente.

 

Vuoto il posto costruito  come il  precario  muro della certezza

 sullo svanire   di farfuglii bigi . Sovrasta  l’ombra del ritmo

 che regola la  terra semisepolta da parvenze mute inerti,  potenti.

 I loro nomi non dicono, disperdono.

Nulla si aspetta l’errante . Conosce la propria appartenenza al niente.

 

 

 Ciò che è rappresentato  è assente, attraversato da ombre fugaci.

Sullo sfondo della tela  fluiscono da alberi scorticati -come fosse  sorgente-

buchi neri - crani rovesciati - macchine assordanti  in cerca di ragione.

Attorno    s’insinua  tra polveri e vapori  un’aria cristallina   

silenzio  che trascina all’altro capo del filamento.

*

I maledetti

I maledetti

 

 

In fuga i maledetti  sotto la pioggia . Gambe nere, lucide grondanti di sangue  verso l’ignoto.

Permanente esilio cantilenante crepuscoli e fantasmi su chitarre accordate al pianto brontolante del cielo, al vento di parole vane.

Per   un lembo di terra affrontano la minaccia, sfidano la morte.

 Mani fredde scansano sassi,  braccia proiettili, nel caos estraneo.

 

Nel gelo il sangue batte alle tempie. Soffocano. Aprono la bocca in una smorfia di dolore nell’ aria gelata che brucia fino ai polmoni.  Nuovo veleno scorre nelle vene col   sangue.  Negli occhi cresce il terrore . Altra notte. Altra notte. Altra notte.

 Altre pietre per un pugno di buio. Solo nero, non altro.

 Nel tempo le pietre. Nelle pietre il tempo.

 

 Crollano ormai le baracche. Il sangue si è raggrumato giù per la gamba del ragazzo nero sporca di fango.  Pioggia nella frattura del corpo . Negli occhi polvere nera.

 Ansimano tra gente che nessuno conosce e ricorderà.

 A spirale il filo del niente come varco al delitto dell’inferno tra la riva del buio e l’ultima aurora.

 

All’orizzonte ogni cosa lontana da ogni suo tempo da ogni colore. Da un cosmo straniero le idee sorridono. Nella piana  corpi giganti stesi sul selciato.  Uomini colpiti a morte.

 La benda di neve sugli  occhi lenisce la collera dei maledetti vivi.

  In fuga inversa   visioni  di molteplici speranze.

 

Aspettano che il mondo si rovesci in un colpo solo.

 Si nutrono volontariamente di menzogne alla mensa dei lupi. Ma le parole non tornano a sera: s’infrangono con le onde sugli scogli.

 Nulla è più indifeso delle piaghe che si scavano lentamente attorno alla parole, attorno ai giorni.

 

In fuga i maledetti  verso altri fuochi accesi a caso nel buio  tra la notte e il mondo .

Nelle strade della città straniera ombre , esseri umani  in cerca di nuovi alloggi di cartone  schermati dai cumuli di  rifiuti.

Dietro l’angolo la trappola del silenzio.

 Quasi fosse legge partorita dal connubio tra architettura  e apartheid.

 

Al di là del fiume c’è chi grida :” La casa deve essere fatta. Sarà fatta, ma non c’è posto per tutti.”

 

*

Distacco

Distacco
L’aria della stanza era pesante, immobile, retaggio di una notte insonne,agitata da incubi.
All’alba Cristiana lasciò il letto e si diresse verso la finestra, l’aprì e per un po’ stette con lo sguardo fisso verso il cielo che man mano si colorava delle sue stesse, più intime, profonde ferite.
La malattia di Carlo le aveva fatto scoprire il linguaggio del cielo, quello che, nel dolore e nell’angoscia, le permetteva di mantenere viva nel suo cuore la fiamma della speranza, le comunicava la forza di procedere, di avanzare tra gli schianti e le macerie visibili e invisibili, ancora roventi, le dava la forza di affrontare il nuovo giorno.
Andò di qua e di là per la casa come una sonnambula come un automa , infine entrò nella stanza di Carlo e lo svegliò.
Il bambino si stropicciò gli occhi ed emise incomprensibili suoni gutturali, fece qualche resistenza alla madre mentre lo trascinava in bagno e poi a tavola,ove era già pronta la sua colazione, una tazza di latte con orzo che egli rifiutò quasi capisse che c’era qualcosa nell’aria. La madre gli portò diverse volte la tazza alle labbra, ma lui a denti serrati alzò lo sguardo verso il soffitto e dette una spinta alla scodella che soltanto la mossa abile del braccio di Cristiana evitò che il latte si versasse sulla tovaglia.
Un bambino di sette anni Carlo, dagli immensi occhi neri inespressivi, come di vetro, i capelli a riccioli scuri come quelli della madre. La carnagione chiara, quasi diafana; le mani in continuo movimento esprimevano il disagio e la propria estraneità al mondo circostante.
A fatica Cristiana lo vestì. Lo lasciò seduto su una poltrona del soggiorno. Andò a rifare i letti e raccogliere qua e là pezzi di riviste che il figlio aveva strappato la sera prima.
L’ appartamento in cui vivevano in affitto, per quanto lei si sforzasse di renderlo accogliente, lo percepiva cupo, oscuro, opprimente : si trovava al quarto piano di un vecchio stabile e quando saliva le scale, al ritorno da una stressante giornata di lavoro, i calcinacci dei muri scrostati delle scale pungevano come spine sul suo esistere che ogni giorno si trascinava una solitudine lancinante.
L’angoscia e la paura della diversità , della estraneità del figlio l’allontanavano tanto dal controllo razionale e dalla decifrazione emozionale, quanto da ogni strategia di cura, che pure , nei modi e nei tempi a lei possibili, procurava al figlio, sempre senza alcun risultato.
E ciò la deprimeva, la scoraggiava.
Magra e fragile Cristiana era troppo debole per portare il peso che la vita le aveva riservato; ritmava i suoi giorni come quelli di un film in bianco e nero anche se nella parte più profonda di se stessa sognava un’esistenza altra, certamente a colori.
Finì di vestirsi, indossò su un vestito di maglia a fantasia una giacca di finto camoscio e un vezzoso cappellino.
Si avvicinò alla poltrona dove stava seduto il bambino e, come a voler spezzare quella lastra di ghiaccio che si era creata tra loro, chiese :
“ Ti piace ,Carlo, il mio cappellino? Usciamo. Sei contento?”
Carlo sembrava non averla sentita e continuava a guardare il soffitto, ma l’espressione del suo volto diventò ancora più tesa, lo sguardo si riempì di agitazione. Cristiana capì che,invece, aveva sentito. Andò a prendergli il giubbotto di pelle nell’armadio che le era costato più di una settimana di lavoro, ma a Carlo non piaceva, lui voleva sempre quella vecchia, una giacca rossa di lana che ormai gli stava stretta. Riuscì ad infilargli il giubbotto nuovo tra un brontolio ed uno scossone, poi gli aggiustò il collo della camicia e lo prese per mano.
Davanti alla porta c’era già pronta la valigia che Carlo guardò attentamente , ma soltanto perché era nuova.
“ Partiamo - disse la madre - andiamo in città “ ma il volto del bambino non cambiò espressione, impassibile.
“E’ tua Carlo ! E’ la tua valigia,dentro ci sono i tuoi vestiti, i tuoi giocattoli”.
Ma lo disse con voce tremante e con tono sbagliato. Il ragazzo sembrò non capire. “Prendiamo l’autobus, Carlo, andiamo in città!”
Non era mai stato su un autobus né era mai andato in città.
Dopo essersi accertata di aver spento le luci e il gas varcò la soglia con il figlio e la valigia. Chiuse la porta e fu subito investita da un mix di odori di cucina e di bagno, sgradevoli, detestava quel cocktail olfattivo cui si era rassegnata con dispettosa fatica.
Scendendo le scale, la valigia le sbatacchiava contro la gamba e se non si fosse sostenuta all’appiccicosa e sporca ringhiera di legno, avrebbe perso l’equilibrio e scivolato lungo le scale fino a raggiungere il pianerottolo sottostante. Qui c’era già ad aspettarla la signora Teresa, una anziana donna che per tanto tempo si era occupata di Carlo nelle ore in cui lei , era a lavoro; faceva da baby-sitter, ma negli ultimi mesi si era dichiarata incapace per quel difficile compito.
“ Ciao, mio caro,-disse rivolgendosi al ragazzino - ti ho preparato i biscotti alle mele che tanto ti piacciono! ”Carlo si girò verso il muro ed emise un grugnito.
Cristiana avrebbe voluto che almeno le facesse un sorriso o semplicemente prendesse i biscotti.
“Grazie, Signora Teresa - disse prendendo lei il pacchetto - lei è sempre tanto gentile!
Lo perdoni ! Purtroppo è la malattia che avanza. Ma sono sicura che i suoi biscotti gli piaceranno tanto.”
La signora Teresa ,aiutandosi col bastone , tenne aperta la porta che stava per chiudersi, e si allontanò singhiozzando. Cristiana sentì una fitta al cuore.
Povera Teresa ! anche lei aveva capito quanto straziante fosse la decisione che era stata costretta a prendere.
Alla fermata dell’autobus le persone, che erano là in attesa, puntarono tutti contemporaneamente gli occhi sul ragazzino, incuriositi dalla sua andatura dondolante e dal continuo movimento della testa, ora in avanti ora indietro.
Come avrebbe voluto dare una sberla a quei curiosi !
Grande sollievo per lei quando vide arrivare l’auto.
Con disinvoltura e ostentata indifferenza verso gli sguardi indiscreti degli astanti, aiutò il piccolo a salire e, dopo averlo sistemato nel sedile vicino al finestrino, si sedette accanto, lo accarezzò e gli scartò una caramella.
Carlo dimostrava nervosismo, saltellava sul sedile, apriva e chiudeva il portacenere e avrebbe voluto abbassare il vetro per sporgersi. Quando l’auto raggiunse una velocità costante , il piccolo si calmò e,dopo aver appoggiato, la testa sul seno della madre, si addormentò.

Anche Cristiana chiuse gli occhi e col pensiero rievocò i momenti più tragici degli ultimi sette anni della sua pur breve esistenza.
Rivide Carlo appena nato: un batuffolo rosa in perpetuo moto: fin dai primi giorni di vita non faceva sonni tranquilli e si contorceva ad ogni minimo rumore. Quando lei si rese conto che qualcosa non andava, pregò il padre di portare il figlio dal pediatra.
Le analisi e gli accertamenti furono lunghi e accurati, ma la diagnosi tardava ad arrivare.
Quando finalmente il medico convocò i genitori nel suo studio, parlò a lungo di una grave lesione cerebrale congenita che, difficilmente sarebbe guarita e la terapia sarebbe stata molto costosa e lunga. Prospettò anche la possibilità di un soggiorno negli Stati Uniti d’America per un consulto con gli specialisti del settore.
Dopo quel colloquio, il padre si disinteressò del figlio e lo considerò un estraneo,un essere che non gli apparteneva. Iniziarono le liti e la vita di Cristiana divenne un inferno: l’accusa più infamante, essere lei la responsabile della malattia di Carlo.
Così, senza altra spiegazione, l’uomo che l’aveva fatto sognare andò via.
Si erano uniti giovanissimi e contro il volere dei genitori di lei.
A quel tempo Cristiana aveva soltanto sedici anni e un solo desiderio : andare via di casa, lasciare la vita monotona di quel paesino dell’isola, vivere al nord, ove credeva di realizzare tutti i sogni colorati dell’adolescenza.
Si pentì quasi subito di essere andata così lontana dalla sua terra, dal suo mare e ancor più si afflisse quando i genitori, molto sensibili ,in seguito alla fuga dell’unica figlia, a poco a poco si consumarono e si spensero nel giro di qualche anno. Ma più di tutto si pentì della sua scelta, quando l’unione con l’uomo amato fallì e fu da lui abbandonata.
Restò in quella casa nella speranza che lui tornasse.
Per pagare l’affitto e poter sopravvivere assieme al figlio e procurargli le medicine indispensabili, andò a servizio come domestica ad ore presso le famiglie del luogo.
Impensabile sarebbe stato un suo ritorno al paese natio.
Come in visione le apparve il cielo sempre azzurro del suo paese , la casa a pochi passi dal mare, confusa tra quelle degli altri pescatori, rivide la grande barca con cui ogni sera il padre con i suoi uomini, andava a pescare e ritornava, all’alba, carica di pesci, rievocò i dolci momenti in cui papà voleva insegnarle a cavalcare le onde, ma lei, paurosa, non imparò mai .
Al rischio dell’onda alta preferiva stare sdraiata sulla terrazza, al sole, accarezzata dal profumo del bucato al vento.
Struggenti ricordi !
I sogni, nati tra i colori cangianti del mare e il calore del sole, sono finiti sotto l’aggressione della muta e grigia nebbia di quella maledetta città nordica, dove le stagioni si sono precipitosamente addensate e affondate nel silenzio.
O, se tutto potesse sparire ad un soffio e riapparire il papà e la mamma !

Un sussulto di Carlo ed i suoi brontolii la riportarono al presente; riuscì a calmarlo canticchiandogli sottovoce la filastrocca preferita..

L’autobus a poco a poco rallentò : erano già giunti in città.

Dalla fermata dell’auto alla Associazione Oasi del Bambin Gesù il tratto da percorrere fu breve. L’Oasi era un centro- a carattere scientifico- al servizio dei soggetti con ritardo mentale per lo studio delle cause delle malattie cerebrali e dell’individualizzazione dei mezzi di prevenzione, cura e riabilitazione.
Una struttura consigliata già da tempo dal pediatra ma che lei, irrazionalmente, aveva sempre rifiutato.
All’accettazione Carlo fu attratto dalle lampade del soffitto che emanavano una luce bianca, ed incominciò a dondolare il corpo e la testa.
Cristiana dovette firmare delle carte.
Arrivò intanto un’infermiera, alta e snella, e rivolgendosi loro, disse:” Vieni, Carlo. Venga signora a vedere dove abiterà questo bel bimbo”.
Tornarono nell’ ingresso ed aspettarono l’ascensore, entrarono e l’infermiera pigiò il numero tre. All’uscita li investì un forte odore di disinfettante. Attraversarono un corridoio e l’infermiera aprì con la chiave una porta doppia che aveva una rete davanti ai vetri. Entrarono in un altro immenso corridoio lungo il quale erano allineati diversi lettini bianchi. Non c’era nessun altro e niente faceva pensare che lì vivessero dei bambini tranne un piccolo clown colorato appeso ad una parete.
“Questo è il tuo letto,Carlo” disse l’infermiera. Cristiana vi appoggiò la valigia.
Con voce metallizzata l’infermiera spiegò:”Preferiamo lasciar passare almeno sei mesi prima che i nuovi pazienti ricevano visite dai familiari. Così si abituano più in fretta, mi spiego? Adesso, se vuole, può salutarlo.”
Una spina le attraversò il cuore .
Con la mano tremante lentamente gli accarezzò la testolina .
”Tesoro!” disse, ma lui con la bocca aperta guardava le luci del soffitto. Gli diede un bacio: “Ciao, Carlo, ci vedremo stasera.”
Era il saluto giornaliero, prima di andare a lavoro.
Uscì dal reparto con l’infermiera e ripercorse il corridoio. Mentre quella apriva la porta con la chiave sentì un grido terribile, ma l’infermiera le diede un colpetto sulla spalla e la spinse delicatamente fuori.
Singhiozzando scese tutte le scale a piedi e diverse volte si dovette fermare. Nell’ultima rampa non vide un gradino e ruzzolò per un tratto. Si rialzò stordita.
Uscì finalmente nella strada e provò un certo sollievo nel respirare aria naturale.
Riprese lo stesso autobus per ritornare a casa.
Si lasciava alle spalle duri anni di amarezze, di rinunce, di umiliazioni, di solitudine.
Provò uno strano trasalimento contemplando la prospettiva di una vita diversa, senza Carlo.
Che cosa l’attendeva adesso? Il dolore del pensare o forse il film senza racconto di una verità ? o l’attesa spasmodica di una vita altra, magari a colori ? e poi … sarebbe arrivata ?
Scese dall’auto tutta sgualcita nell’abito e nei pensieri.
Camminò lentamente nella strada, incontrò qualcuno che la salutò. Non rispose. Forse non sentì. Alzò lo sguardo verso il quarto piano del vecchio stabile: dalla finestra del suo appartamento filtrava una pallida lama di luce, come se lei, uscendo, avesse dimenticato di spegnere la lampada.
Rifece le lunghe scale, arrivò al quarto piano, la chiave entrò rapida nella toppa. Aprì la porta e vide nel corridoio le vecchie scarpe di Carlo, a terra, e su una sedia ,l’ultimo album illustrato che aveva comprato per lui, qualche foglio strappato qua e là.
Senza rendersene conto disse ad alta voce:” Carlo, tesoro ,che hai fatto?”
L’afferrò la vertigine del vuoto dentro e fuori di sé : in lontananza il rombo di un tuono, alle sue spalle il tintinnio dei vetri della finestra per il vento che improvvisamente si era levato, forte.
In quel paese il vento segnava sempre il passaggio delle stagioni.
Guardò l’ora e si lasciò cadere sulla poltrona. Cercava di capire , di vedere chiaro nell’intrigo dei suoi pensieri. Alla fine soltanto una cosa comprese perfettamente : da quel momento in poi, nel film, in bianco e nero, della sua vita, sarebbe rimasto soltanto il nero.