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Raccolta di testi in prosa di Giovanni Baldaccini
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Di scatolette e fiori

 

 

Ora, davvero ci si stanca di questa ovvietà del camminare, che a rimanere fermi ci fa freddo e la neve ti sferza.

Muoversi: verso dove? Più che altro un pensiero, unica forma di astrazione lieve che senza fare un passo muove il mondo. Ma anche questo è ovvio.

Come lo è il potere: ignora, se non osteggia.

Occorre allora inventarsi qualche cosa, magari un processo al mal di testa, come a Gerusalemme, ma non mi sembra sia servito a molto.

Forse esiliandosi, se non fosse che l’esilio va nel nulla, come dimostrano i fatti di ogni giorno, ammesso che gli esiliati vengano raccolti per lo meno – dico una scatola – almeno.

Riconoscere, quindi, si diceva, un cammino diverso. Costellato in ogni caso di ovvietà. Ad esempio: cos’è la letteratura? E la poesia? Ma perché questo bisogno di definire, declinare, incasellare? Ah, l’ignoto trasformato in consueto. La rassicurazione chiude il mondo; ma non sembra fare la paura che dovrebbe.

Dunque parlarne senza preoccuparsi di dover dire ancora, ma il silenzio è un’indagine sospetta: non ne parla nessuno.

Ma perché quando incontriamo qualcosa che appare come un tempio che ci sembra una parentesi sospesa tra l’esperienza e il non pensato; o un quadro, dove il mondo si aggira radunandosi in empietà più simili al sublime dell’empietà dei giorni, perché poi ne dobbiamo parlare, riducendo l’istante a un campo vecchio, mentre dovremmo soltanto limitarci, almeno qualche volta, a viverne?

La dinamica dell’ovvio stronca il senso, ma anche il più sensato dei pensieri alla fine si invecchia. Bisognerebbe allora ripensare e delle cose farne sempre altre. Quando le hai fatte, farne diverse ancora, fino a quando avrai finito l’infinito. Che si chiude, ma ricomincia altrove.

Ad esempio a Pietroburgo, dove non si mangiava carne in scatola: nelle lattine si mettevano fiori. Ma nei cortili si lavorava sodo perché il Partito non consentiva odori. Dunque una vita al minimo: quel poco che si riusciva a leggere.

Muoversi, allora: dove?

Anche la sera, sul Baltico, quando le isole si prendono per mano, si muove solamente la deriva.

 

*

Il limite

L’alba indicava il limite del cielo tra la notte e il pensiero quando il pensato torna dentro il giorno. Quella mattina un professore si svegliò confuso.

Una questione antica, si disse, ma non ha molto senso. Tra l’altro, si accostava novembre.

Scese dal letto e dall’ultimo riflesso della notte.

Dopo una breve colazione, entrò nel suo studio. Sedette alla consueta scrivania. Radunò le sue carte.

Quella mattina doveva tenere la sua ultima lezione. Anni di studio e adesso la pensione; quella lezione sarebbe stata l’ultima.

Avrebbe dovuto illustrare il già pensato; quanto al nuovo, non lo aspettava più.

Uscì tenendo sottobraccio una cartella colma di spartiti. Dimenticati per duecento anni, tornavano alla luce insoddisfatti. Occorreva deviare dall’ignoto e compiere un riconoscimento dovuto. Sembrava spettasse a lui.

La strada era ancora semivuota e un autunno quasi inverno trasportava nuvole distanti. Il professore si sentiva distante. Quando arrivò, gli venne voglia di andarsene.

L’aula era ovale, con banchi a semicerchio disposti verso l’alto, come un teatro antico. Il professore si accomodò al centro e distribuì gli spartiti sulla cattedra. Inforcati gli occhiali, diede un rapido sguardo al suo discorso: in fin dei conti, era semplicissimo.

La musica di Bach, disse, sfiora l’assurdo, ma è una matematica perfetta. Sembra disgiungere, sorvolare, affidare l’incauto che la ascolta a un viaggio senza fine verso nulla.

Ineffabile e pura, induce matematici terrori: non c’è mai un risultato, almeno in apparenza. Tuttavia è affermazione: esiste l’indicibile.

La fuga cui si affida rasenta l’infinito e ad esso tende, ma c’è sempre un ritorno. Qualsiasi scala, qualsiasi serie di scale, apertura o distanza, qualsiasi sia la fuga o sovrapposte fughe in alternanza, c’è sempre una nota che ritorna. L’infinito si chiude.

Dunque, anche il suo tentativo di oltrepassare il corpo dell’umano, per quanto ci introduca nel sublime, dal sublime decade: l’umano ha la sua fine. E l’infinito.

Richiuse tutto, scese dalla cattedra, se ne andò. Non si sa dire dove.

 

 

 

 

 

*

Andromeda domani

 

 

                             A tutto ciò che sfugge

 

 

 

Vagare altrove, come sempre la vita.

Dunque la notte: stelle.

 

E tuttavia altre forme.

Come una donna d’acqua: naufragare.  E l’impalpabile sapore della sete.

Acqua di acqua dentro forme d’acqua come di mare estremo fonte azzurra inesplicabile sosta del mio dire. Stare, tra molte braccia ancora.

E le forme salmastre.

 

 

Calipso: vento di terra alta a fronte mare: inafferrabile selvaggio sovrastare lungo i tuoi fianchi afosi gola infranta, lancio il mio ciglio al tuo spasmo d’avere.

 

 

Quindi la pazza (morbida) lato di madre oscura. E gli incantesimi a travisare il mondo.

I suoi seni perfetti: abbacinare. Mentre raggio di luna spande sogni al margine di fosse non colmate (sempre qualcuno al passo) di una soglia finita.

 

 

Altrove, la regina feacia s’allargava forma di corpo estatico. La figlia? Un’immatura con evidenti tratti d’altruismo (traduzione: pericolosa forma idealizzante, soprattutto se il padre è insufficiente). M’hanno dato una nave per disperazione.

 

 

A Marrakesch c'erano troppo lune. Inoltre, di diseguali variabili colori. Io m'avvinghiavo all'aria roteando la corda ancora tesa come una variabile incostante.

Quella guizzava, sbattendomi ogni dove, ma io niente: testardamente appeso. Molti applausi intorno.

Quindi a cena, nei vicoletti spenti del mercato: tracannare. Spiedini anche.

Qui si potrebbe inventare una canzone. O una storia non spesa.

Malinconico alquanto, pizzicavo le mie corde slegate da una chitarra viola (l'avevo chiesta al cameriere poco prima).

Dunque inventare storie, al suono bandolero di un addio. Piacciono soprattutto quelle di mare.

Che sciacquola, straborda, sdilinguisce le mie penne annodate. (Doccia assicurata ad ogni onda). Gabbiani.

 

 

Qualche miglio più in là. Parigi, tra languori e tosse a colazione. Suonavo il pianoforte dispensando tossiche variazioni della notte a signorine apatiche, colme di lontananza. M’accostavo. Loro cadenti pallide pendevano dai suoni del mio male. Ma altrove, su uno spartito asburgico: una fine scontata.

Molti anni più tardi: dissonanze.

 

 

L’altra sera Monica soccombeva a desideri fossili incarniti (sarebbe a dire: io).

Putrido evanescente la abbrancavo per ogni possibile location. Lei mugolava gatta.

Quindi la tosse interrompeva l’incontro non previsto allucinale. Mi sono ammalato? Le allucinazioni contagiano? Ah povera ragazza… lei neppure era presente! Cosa ne può sapere!

La rammento ventosa. Cioè, quando girava bene era senz’altro veleggiabile. Quando il contrario, meglio sorvolare.

 

Nel teatro improvviso: conturbante. Con lo Stato Maggiore in visibilio e file al camerino.

 

Lei, misurata al massimo, virginale, castigata – ah, tutte cose che non è certamente. E la maschera d’avorio sopra il calice del bavero. (A. Schmidt, Alessandro o della verità).

 

Qualche volta i ricordi.

 

 

Io seminavo fiori nel deserto, con Alessandro a sterminare il mondo, mentre Aristotele avvelenava acque per fermarci sul ciglio. *(Secondo alcune fonti, fu lui a inviare l’acqua avvelenata che lo uccise. In realtà, morto di malaria).

Sapeva vivere il dispensatore (d’ultime tracce). Sul carro; e canti forsennati delle donne. Io ero otre, colma di vino folle e ciarle dispensate dalla luna quando s’innalza e cade nei miei occhi finiti. Ero sabbia e penuria, vento a volte, a confondere l’aria della sera. Senza meta distinta. Roteavamo allora l’ingordigia, ebbri, con Dioniso al fianco, mentre le Erinni invano lanciavano anatemi di sera. Scorticate due o tre, così per noia.

Ero forma di niente per godere dell’infinito estatico apparire: voglie, ogni passo a cavallo. Mi facevo peluria per spiare come godono i pazzi; e strofinacci arcaici assiepati sopra letti congiunti. E il macello, ogni sole che sorge.

Non l’ho più visto se non dentro i sogni. Pazzo come una forma arcana di pazzia.

 

 

Parigi ancora (se l’assaggi ritorni). Travestito da nano e sotterfugi estremi per godere quello che il corpo nega.

Come forme di cosce: disegnare (vendevo mica male: cartelloni). Ma accontentarsi è dura e la matita logora la mano quando non resta altro.

Tra fisarmoniche bistrò vicoli chiusi: la mia malinconia.

Nostalgica, come un mantello appeso ad asciugare. 

Quando riesco cado nel tombino: una forma di sera.

Musica nella testa: sobbalzare. E quelle vesti in aria sfoggio antico: io dipanavo materie da spalmare sul mio cervello ateo.

 

 

Isole senza fondo isole ancora; divaganti le luci sulla luna, Stelle come fermaglio d’universo.

E la sposa diffusa: noia a volte. Come un eterno telo da disfare.

Tuttavia, lamento nella testa anima al collo, braccio ingessato gamba malandata, infranto il cuore = tornare tornare tornare.

 

 

Ma divagare divagare ancora.

 

E dunque mare annaspo sfondo mura, mente selvaggia intossicante fusa, affabilmente priva d’infinito. Chi arrampica l’altrove non ha scampo. Ma non è colpa mia.

Onda di onda navigavo brina. Schiuma a volte. E in quei casi oceano.

Senza vela di sera: ero acqua. E come tale instabile, ineludibile variabile acquazzone a primavera.

Nuvola anche. Friabile, destinata a sparire. Meglio cadere dove mi raddenso.

 

 

Al mercatino c’era uno Chagall che nessuno sapeva. Uno di quei fantasmi sulla scopa e stelle sulla scia di una cometa. Indaco blu cinabro bianco a volte giallo assiepato sfusa primavera. Andante come un Mozart adagiato.

L’ho comperato per quattro sigarette per regalarlo a una signora triste che vendeva residui di stagioni, la sera, quando la Senna è viola.

Mi ha ringraziato con un bacio vecchio, di quelli con la puzza (aglio cipolla vino di giornata). E tuttavia l’amavo: la sua tristezza spersa, come una scia di luna al cabaret.

Mi ricordava tutti i miei abbandoni. Andromeda domani: non ci sarò in autunno.