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Raccolta di testi in prosa di Costanzo Rapone
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Narciso

NARCISO

 

 

-Alberto Mariiiaaaa! – La mamma aveva una voce cavernosa e un po’ rauca. Si ostinava a chiamarlo Alberto Maria e lo faceva in un modo curioso che lo mandava in bestia. Partiva con la voce bassa fino ad arrivare alla “i” di Maria, aumentava allora di intensità raggiungendo un picco nasale che rimaneva costante quanto il tempo che lui impiegava a rispondere, per poi acquietarsi nuovamente trascinando la “a” fino a farla morire in un bisbiglio: quasi il nitrito di un cavallo asmatico.

 

Il cognome era Alberti: un vero pasticcio.

 

Alberto, perché tua madre ti chiama anche Maria? Sei Alberto o Maria? Perchè ti hanno chiamato Alberto? Lo sapevano che ti chiamavi Alberti…Da bambino, i compagni di scuola non gli avevano dato tregua.

 

Acqua passata. Ora il nome Alberto Maria Alberti faceva un gran figura sul biglietto da visita. Alberto Maria Alberti  - Psichiatra  - : aumentava il distacco con il paziente, che si afflosciava sulla poltrona e pagava senza fiatare.

 

Va bene  i pazienti, ma per sua madre era Alberto e basta perché Alberto Maria era un bambino imbranato con i pantaloni alla zuava di velluto blu, che a giugno inoltrato correva appresso al pallone saltellando come un canguro per non rovinare le scarpe di vernice  e che sudava come una bestia dentro la dolce vita di seta grigia: così elegante sul pantalone blu!

 

-Sto uscendo! Non c’è bisogno di gridare! – La “i” del suo nome, pronunciata dalla madre, aveva una frequenza capace di fracassare i vetri, provocare valanghe, scuotere il sistema nervoso. Molti dei suoi pazienti avevano una madre come la sua.

 

Puntò gli indici sugli zigomi e spinse la pelle all’indietro fino a far sparire le rughe che segnavano gli angoli della bocca. Rimase un attimo a guardarsi allo specchio: il lifting poteva essere una soluzione temporanea, ma sarebbe arrivato il giorno in cui tutta la pelle arrotolata dietro le orecchie non sarebbe bastata.

 

Fece un passo indietro per guardarsi in tutta l’altezza, gonfiò il muscolo del tricipite e si girò di fianco. Puntava il piede indurendo il polpaccio in una posa da culturista, quando vide sua madre nell’angolo dello specchio.

 

-Mamma! Te l’ ho detto mille volte: questa è casa mia. Se vuoi venire a trovarmi devi passare dalla porta e suonare il campanello! Non entrare dalla finestra. Se continui così cambio casa. –

 

Alla morte del padre, la grande casa in cui era nato era stata divisa in due: camere e salone di rappresentanza per lui, cucina e lavanderia per sua madre. Ingressi indipendenti e balcone in comune.

 

A vederlo così, a sua madre venne da piangere: quasi quarant’anni, capelli a zero, bandana rossa, occhiali a specchio appoggiati in testa e quel costume indecente, lucido ed aderente come una seconda pelle con lunghe bretelle che lasciavano libera all’aria la folta peluria nera di cui aveva coperto il torace, la schiena e le spalle. Quasi una scimmia, non fosse stato per il fisico armonioso e quel bel viso rotondo con grandi occhi dolci castano chiaro: gli stessi del padre. Era così bello da bambino, pensò la mamma suo malgrado, mentre asciugava con le dita le lacrime che le rigavano il volto.

 

-Oddio! Adesso la tragedia!! Mamma per favore! Dicevo per scherzo…Dai che non cambio casa…-

 

Sua madre avrebbe voluto dirgli che non le importava dove viveva ma come viveva: senza regole, senza famiglia, senza veri amici o amiche, senza amore per nessuno all’infuori di sé. Anche il lavoro era ridotto al minimo indispensabile a finanziare sport estremi, viaggi esotici, orologi d’oro, beauty farms e donne: tutto consumato in fretta alla ricerca continua della novità di cui Alberto Maria aveva una fame ossessiva.

 

Con Alberto Maria aveva sbagliato tutto: perché lui era bello, perché lui era bravo, perché non era colpa sua, perché era solo un ragazzo e andava aiutato.

 

-Adesso scusami. - Tagliò corto Alberto Maria accompagnando la mamma alla porta.

 

-Copriti che fa freddo…-

 

Doccia, crema idratante, una spruzzata di profumo.

 

Camicia bianca di sartoria aperta sul petto, pantalone di cotone blu, mocassino di camoscio e catena d’oro al collo.

 

Si guardò allo specchio per controllare l’effetto dell’abbronzatura sulla camicia bianca. Niente male pensò, scoprendo denti e gengive. Soffiò sul palmo della mano e soddisfatto del profumo di menta che emanava il suo alito, si diresse verso la cassaforte da dove tirò fuori un astuccio di cuoio con cinque orologi. Messo al polso un cronografo subacqueo in oro con il quadrante blu, prese le chiavi della macchina ed uscì di casa.

 

Ogni sera, al tramonto, c’è un attimo in cui il tempo si ferma: il profilo di cupole e pini marittimi della città resta impresso come un ricamo nell’aria fiammeggiante di arancio, rosso e viola. Il blu della notte incornicia l’immagine e la Roma del Papa Re appare in tutto il fascino immortale che ha ammaliato nei secoli, poeti, soldati, rivoluzionari e viaggiatori del Gran Tour .

 

Il canto delle cicale, di cui l’aria era piena, copriva ogni altro suono e la spider di Alberto Maria filava in silenzio attorno ai giardini della Mole Adriana. Alberto Maria aggiustò la posizione sul sedile gustando la facilità con cui i calzoni di cotone scivolavano freschi sui sedili di pelle. Guidava veloce, le braccia tese sul volante, vibranti d’asfalto.

 

Curva a destra, curva a sinistra. Di nuovo a sinistra tagliando la curva. Giù attraverso gli archi del passetto di borgo. A tutta velocità sui sampietrini e poi sparato nel sottopassaggio verso trastevere. E’ ora di cena, pensò con soddisfazione: tutti “a magnà”. In un attimo sono a testaccio. Gran figa Tatiana. Tutte Tatiana le Russe. O è Ucraina? Grande pure Tony, che  fatto i provini a lei ed all’amica e mi ha telefonato. Stasera prova generale.

 

Pestò sui freni come un pensionato in gita domenicale. L’uscita del sottopassaggio era chiusa da un muro di macchine in fila. Blocca, sblocca: l’ABS fece del suo meglio, ma una frenata ignorante come quella non se l’erano immaginata nemmeno i tecnici tedeschi al momento del collaudo in pista. La macchina si fermò ad un centimetro dalla fila. Qualcuno fece un fischio. C’era una gran puzza di freni e la camicia di Alberto Maria mostrava due grandi chiazze di sudore in prossimità delle ascelle.

 

Alberto Maria sentiva addosso gli occhi della gente che si era girata a guardare l’incidente. Accese lo stereo ed infilò un chewingum in bocca. Peccato aver smesso di fumare, pensò. Tutto bloccato: un tappeto di macchine strombazzante di cui non si vedeva la fine. Al lato, un fiume vociante e colorato di gente di ogni età: Noantri.

 

- Cazzo! Tutti gli anni la stessa storia.- disse tra i denti Alberto Maria picchiando stizzito il volante con la mano.

 

Già gli sembrava di sentire l’odore disgustoso di wurstel, pizzette e porchetta scaldati sulla piastra, gli altoparlanti gracchianti delle bancarelle del tiro a segno, i megafoni dei sindacati.

Noantri! Sembrava aspettassero tutto l’anno per riversarsi nelle strade. Lui in tuta da ginnastica, lei fianchi e pancia straripanti dalla minigonna jeans con cerniere e bulloni. I piccoli, con le bandiere rosse, il fischietto e lo zucchero filato in mano. I più anziani, rigorosamente in calzoncini corti, canotta di lana, calzini bianchi e ciabatte di plastica.

 

 Dopo aver masticato furiosamente il chewingum per cinque minuti, Alberto Maria regalò agli spettatori un altro brivido: venti metri in retromarcia a seimila giri, sterzata, testa coda  e parcheggio con sgommata. Dennis, l’ex pilota di rally che gli aveva insegnato a guidare a quel modo, sarebbe stato orgoglioso di lui. Frenata esclusa.

 

-Tony…No, non ce la faccio…E’ tutto bloccato…la Festa de’ Noantri…Cosa? Significa: noi altri….Lascia perdere…Senti, venite voi verso di me: lascia la macchina a Porta Portese e prosegui a piedi. Ci vediamo a Santa Maria in Trastevere. Si… Chi arriva prima aspetta. Ciao.-

 

Tirò giù l’aletta parasole e si diede un’occhiata allo specchio. Gran cosa l’abbronzatura, pensò. Copre le rughe che è una meraviglia. Tatianona bella, aspettami…! Si alzò fischiettando, chiuse la portiera e tirò fuori dal portabagagli una specie di matassa di alluminio che trasformò  in bicicletta con poche, abili mosse. Si allontanò infine come un orso da circo, sotto gli occhi increduli di un gruppetto di ragazzi, ancora intenti a commentare la manovra di parcheggio.

 

Le campane suonavano a stormo quando la Madonna Fiumarola fece il suo ingresso in Piazza Santa Maria in Trastevere. Si dice che la processione non fu interrotta neppure sotto il bombardamento di San Lorenzo, durante la seconda guerra mondiale, quando i trasteverini portarono la Vergine in processione, al buio ed a piedi scalzi. Non erano certo quattro disperati finti No Global che potevano intimorirla. I ragazzi, ubriachi, erano intenti a sfasciare la vetrina di un bar. Si girarono a guardare la Vergine come i magi verso la stella cometa. e prima che potessero muoversi ancora, la Celere li aveva già impacchettati e portati via.

 

La gente prestò poca attenzione all’episodio. L’aria vibrava d’estate, spensieratezza e voglia di divertirsi. Alberto Maria fece un rapido calcolo: madonna e baldacchino erano non meno di una tonnellata e mezza, i portatori erano trenta. La Madonna arrivava in barca da Ponte Sant’Angelo fino a Ponte Garibaldi e poi in spalla fino a Piazza Santa Maria in Trastevere passando da Via della Lungaretta: meno di un chilometro a piedi ma con cinquanta chili a testa sulle spalle. Giovani e vecchi insieme, muovevano i passi cadenzati come un grande millepiedi. I due a destra si assomigliavano, forse erano padre e figlio. Il Padre, avanti, dava il ritmo aprendo la strada ed il figlio teneva dietro, pronto a sostenerlo al primo inciampo.

 

Alberto Maria si guardò attorno nervoso. Forse Tony ci aveva ripensato ed ora era solo a spassarsela con le due russe.

 

Al diavolo Tony e le russe. La piazza era piena di gente che si divertiva.

 

Solo! Pensò. Come gli inglesi, gli americani, i tedeschi, che girano da soli e se ne fregano… 

 

Si ricordò di quando da ragazzo, prima di scendere in spiaggia, guardava per individuare il posto giusto per piazzare l’asciugamano. Bionda, alta, jeans e maglietta aderenti e…Fucsia! La ragazza si piegò per raccogliere la bottiglietta dell’acqua che le era sfuggita di mano lasciando fuori dai pantaloni metà del sedere, appena disegnato da un perizoma fucsia. E soprattutto sola, pensò Alberto Maria avvicinandosi. Americana di sicuro.

 

Le campane si erano quietate e subito la banda dei vigili urbani aveva attaccato un marcetta militare, tutta timpani e ottoni, che sembrava essere il vero motivo delle lacrime della Vergine. Istintivamente i portatori avevano preso a marciare e la Vergine pareva pronta a spiccare il volo da un tappeto elastico. La scena era ridicola e giustificava ampiamente un commento

 

-This is quite a music for the Virgin Mary…I swear she wasn’t crying before…- disse a voce alta Alberto Maria girando appena lo sguardo per accertarsi che la ragazza lo avesse notato. C’era molta gente che si accalcava per arrivare alla prima fila dove la gente allungava la mano per toccare la Vergine o per lasciare un’offerta. Quando la statua si fece più vicina, la spinta fu tale che Alberto Maria finì addosso alla ragazza in jeans.

 

-I am sorry…- disse Alberto Maria simulando imbarazzo.

 

- Aho! Che tocchi? Guarda che so de Trastevere e vedi de falla finita che si nun te ne vai via subbito chiamo l’omo mio che t’aprer culo comen portone. Ma vedin po’ che ggente…-

 

Non è americana, pensò Alberto Maria allontanandosi velocemente dalla ragazza che già faceva cenno ad un energumeno pochi metri più avanti.

 

Tony dove cazzo stai!

 

Alberto Maria fece due passi e si fermò a Largo San Giovanni de Matha dove sul palco, sotto lo striscione “Come ‘na vorta a Trastevere” un attore declamava i sonetti del Belli. Rimase un po’ ad ascoltare. Erano divertenti: tutti su medici, pazienti ed ospedali. L’ultimo “Er rimedio der cazzo” gli fece passare la voglia di cercare Tony e le due Russe. Il protagonista “avanti d’infrugasse Dorotea” pigliò un po’ di budello d’agnello e “se conciò l’uscello”, ma il rudimentale preservativo non servì ad evitargli “marfrancese scolazzione e ggomorrea” e “s’empì” di “pulenta e dde tinconi”.

 

Alberto Maria se lo sentì sparire nelle mutande.

 

- Se riempì de pustole e bubboni! – tradusse graziosamente con una risata catarrosa il signore che gli era a fianco: vero estimatore del Belli. 

 

C’era vicino a lui un ragazzo. Aveva la faccia butterata dall’acne, un naso aquilino enorme, i capelli unti. Rideva felice stringendosi alla sua ragazza: una cicciona con la faccia suina e le labbra sottili, su cui era disegnata con il rossetto la bocca carnosa che avrebbe voluto avere. Li immaginò a letto mentre facevano l’amore ed ebbe quasi un conato di vomito. Cercò di immaginare come potesse essere la vita di uno che tutte le mattine si sveglia con quella cicciona nel letto, va in bagno a pisciare e vede quella faccia allo specchio. Uno che scivola in mezzo alla folla cercando di passare inosservato perché sa di avere un aspetto ripugnante e che un bel giorno decide che il mondo fa schifo e che lui ne è la prova vivente e allora incomincia a godere della sua bruttezza; decide di non lavarsi, di indossare per giorni la stessa camicia di poliestere fino a puzzare di formaggio rancido. Lo immaginò mentre gli si avvicinava e gli si sedeva al fianco fissandolo negli occhi per godere della smorfia di disgusto provocata dal contatto con il suo essere ripugnante. Si sfilò dalla folla, che d’un tratto immaginò coperta di bubboni purulenti.

 

Passeggiava lento con le mani in tasca gettando l’occhio sulle vetrine scure dei negozi, che gli restituivano l’immagine rassicurante di un uomo elegante, slanciato e ben vestito. D’un tratto, l’odore intenso dell’aglio appena soffritto gli solleticò l’appetito. Il cuoco, dietro al bancone,  faceva saltare gli spaghetti aglio, olio e peperoncino su una enorme padella. Di lato, una bella ragazza, con un seno florido ben esposto sul balconcino quadrato del costume da locandiera dell’ottocento, spillava vino bianco ghiacciato dei castelli romani. Quando il cuoco prese una manciata di prezzemolo fresco tritato fino e lo spruzzò sugli spaghetti dorati, Alberto Maria decise che avrebbe cenato da solo: al diavolo Tony e le russe.

 

I tavolini erano di legno con la tovaglia bianca di carta. Alberto Maria aggiustò tavolo e sedia, in cerca di un equilibrio precario sui sampietrini sconnessi, si versò un bicchiere di vino e fece cenno alla bella locandiera.

 

-Hai un costume splendido. -

 

-E’ quello tradizionale che indossavano le contadine della campagna romana nei giorni di festa. E’ una manifestazione organizzata dal comune di Marino. Spaghetti?-

 

Alberto Maria avrebbe voluto approfondire usi e costumi della campagna laziale, ma la locandiera era già sparita con la sua ordinazione mentre altre ragazze vestite come lei sfilavano nella piazza antistante. Pastori e contadine si fronteggiavano su due linee. Uomini e donne si muovevano simmetricamente, al ritmo del tamburello: un passo avanti sollevando indietro l’altro piede, poi un passo indietro, uno a destra ed uno a sinistra. Le due file si sovrapponevano a tratti l’una all’altra come i battenti di un telaio. L’uomo e la donna ballavano guardandosi negli occhi. Lei, mano sinistra sull’anca, apriva e chiudeva con la destra il grembiule, accompagnando il movimento con una leggera estensione del busto. Era un corteggiamento che sembrava nascondere nella forma imposta dall’uso, una passione intensa, primitiva e carnale.

 

Gli spaghetti erano al dente, piccanti e fragranti di prezzemolo. Il vino ghiacciato scivolava giù a spegnere la sete ed Alberto Maria incominciava a sentirsi uno de Noantri. 

 

Si era formato attorno ai ballerini un circolo di persone che battevano le mani assieme ai tamburelli. Alcuni, presi per mano dai ballerini, giravano vorticosamente, agganciati in una tarantella improvvisata. Il tavolo di Alberto Maria era in prima fila. Una bella contadina lo invitò ad alzarsi ed un attimo dopo anche Alberto Maria girava assieme agli altri agganciando ad ogni giro i fianchi di una donna diversa.

 

Niente male, pensava palpeggiando i fianchi della dama di turno, altro che quelle mosse disarticolate che fai da solo in discoteca.

 

-Dottor Alberti!-

 

I fianchi di Marina Casale erano larghi e rotondi. Aveva la schiena nuda lucida di sudore e gli sguisciò di mano come un’anguilla. Alberto Maria continuò a girare: una signora di mezz’età che puzzava di deodorante, un uomo, una ballerina, una bambina con gli occhiali e le lentiggini e, finalmente Marina Casale. La tenne stretta e la fece girare fino al suo tavolo.

 

-Signorina Marina Casale. – disse con voce da medico, simulando lo sforzo di memoria.

 

-Marina e basta. Guarda che non sono una tua paziente. – Capelli neri, pelle bianchissima. Le  sopracciglia ben marcate ed il naso, lungo e sottile, le davano un’aria decisa ed impertinente. La bocca era invece grande e sensuale.

 

-Non lo sono mai stata. Mi serviva per la tesi…- aggiunse, pronta a spiegare.

 

Alberto Maria  era senza fiato ed avvampava in volto. Voleva fare il fico e stava per fare una figura da coglione. Bofonchiò un: cosa vuole dire, non capisco….Se ne rese conto mentre pronunciava quelle parole. Lei! Le stai parlando in terza persona! Vecchio rincoglionito che non capisci un cazzo! Questa ti ha preso per il culo per tre mesi e tu gli dai del lei.

 

- Ma come, non te ne sei accorto?- disse Marina con un sorriso senza malizia. Alberto Maria era nel pallone. Pensò alle ricette di antidepressivi che aveva firmato, poi ipotizzò un disturbo del pensiero di origine schizofrenica, infine concluse che era ubriaco e che non glie ne fregava un cazzo.

 

-Le medicine che…-

 

-Ma no… – disse ridendo – Non ho  preso nulla…Mica sono scema. – Già, mica è scema. Alberto Maria pensò a quanto fosse sottile la linea che divide il medico dal paziente, la mente sana da quella malata.

 

- Sei carino a preoccuparti di me. – abbassò gli occhi giocherellando con una forchetta.

 

-Non vuoi sapere come sono arrivata da te? Beh! Stai a sentire che te lo dico. - aggiunse senza dargli tempo di rispondere.

 

-Abito vicino a Villa Pamphili e ti vedo passare in bicicletta quando vado a fare jogging. Ci ho messo un po’ a riconoscerti. Come ti conci quando vai in bici!? Ho delle amiche a medicina e ti avevo visto all’università. Allora mi sono detta, se proprio ci devo andare meglio questo in calzoncini e bandana piuttosto che uno di quei vecchi bavosi che ti sdraiano sul lettino e ti guardano le cosce mentre ti chiedono a che età hai incominciato a masturbarti.. E tu?-

 

-Io cosa?-

 

-Beh, non lo so. –

 

-Io le cosce non te le guardavo. –

 

-No, hai ragione, non sembri proprio uno psichiatra. –

 

-Io mi faccio una media. La vuoi pure tu? – disse Marina fischiando alla cameriera.

 

- OK, ho capito, niente birra, mezzo litro di Marino va bene. Offro io, mi devo far perdonare. -      

 

  -Non rispondi al telefono?- Alberto Maria, pensava alle cosce di Marina che non erano le cosce di una paziente ed ora le poteva guardare quanto voleva.  Marina e basta. Prese il telefono, lo spense e lo mise nuovamente in tasca.

 

- E se fossi stata io a chiamare? Magari in preda ad una delle mie crisi di pianto…Marina rideva. Quello era stato uno degli argomenti ricorrenti durante le sedute. Alberto Maria aveva preso appunti.

 

- Ok scusa.- disse poi ricomponendosi.

 

-E ora? Come ti senti ora? – Imbecille, pensò Alberto Maria. Come vuoi che si senta? Sta bene, te lo ha detto, ti ha preso per il culo!

 

-Bene… - Marina si fece seria.

 

-Perché mi guardi così? – Che fa? Non mi crede? Forse c’è veramente qualcosa che non va.  

 

Alberto Maria la guardava incantato. Sembrava essere alla ricerca di chissà quale sintomo ed invece era solo ubriaco e lei una ragazzina. Marina rideva per qualsiasi cosa e parlava ininterrottamente pronunciando le vocali aperte, con le labbra carnose schiuse come i petali di un fiore.  Infilava e sfilava dal dito una sottile fedina d’oro bianco e pavè. Muoveva la testa ravviandosi di continuo i capelli da un lato e dall’altro come in cerca dell’inquadratura giusta. Era bella perché era giovane. Non rideva di lui. Era estate, stava per andare in vacanza con gli amici, la mattina dopo si sarebbe svegliata a mezzogiorno.  Rideva e basta.

 

Tony era al centro della piazza, in cima alla gradinata, abbracciato alle due russe: una mano sul seno a destra, mentre baciava la guancia dell’altra a sinistra. Incrociò lo sguardo di Alberto Maria ed alzò un braccio per farsi vedere. Prima che Tony si avviasse a raggiungerlo, Alberto Maria si alzò facendogli segno di aspettare.

 

-Marina, mi devi scusare, devo andare…- Marina lo fissò stupita. Sembrava una bambina.

 

-Ho fatto male a spegnere il telefono. - Mentì Alberto Maria.

 

-Devo richiamare. Vado a cercare un posto tranquillo e ne avrò per un po’.-

 

Marina lo immaginò in ospedale, con il camice. Non le importava se la mollava così, al tavolo. Può succedere. Peccato, le sue amiche stavano per raggiungerla.    

 

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Un spiffero d’aria gelata finì di asciugare il sudore di quella notte d’estate. Alberto Maria rabbrividì cercando con mani tremanti la chiave del cancello. Dormivano tutti: Noantri, Tony, le russe, Marina, le cicale…Era rimasto solo. Aveva la camicia aperta fino all’ombellico ed il collo macchiato di rossetto. Il sangue gli pulsava nelle tempie in cerca d’una via d’uscita ma l’ascensore era troppo piccolo, la testa troppo grande. Appoggiò la fronte sullo specchio in cerca di un po’ di sollievo. La luce gialla della plafoniera dava forma ai suoi occhi gonfi disegnando sul volto due semicerchi scuri e flosci.

 

E’ così che mi dovresti vedere, Marina. Era tanto tempo fa. Ho continuato a ridere, come ridi tu. Continuo a giocare, perché il tuo gioco è anche il mio. Sono diventato bravissimo e non è più divertente.  

 

Quando aprì la porta del suo appartamento, volarono in aria fogli di carta assieme a foglie secche ed aghi di pino. Prima che Alberto Maria riuscisse a chiudere la finestra del balcone, anche un vaso di fiori si rovesciò a terra e sua madre era lì, girata su un fianco, vicino all’armadietto delle medicine.

 

Non serve essere medico per riconoscere una maschera vuota. La gonna, tirata giù da un lato, lasciava scoperto un gluteo: non aveva mai imparato a fare le iniezioni. Aveva paura di sbagliare, diceva che le sue natiche non erano come le arance su cui Alberto Maria le diceva di esercitarsi e che alla fine, se anche fosse stata un’emergenza, se anche l’infermiera fosse stata irreperibile e la badante in vacanza, c’era sempre lui, suo figlio: Alberto Mariiiia! E’ solo un’iniezione!                                 

 

A terra, il telefonino di sua madre era vivo e continuava a lampeggiare: Alberto Mariiia! Alberto Mariiia! Alberto Mariiia! Alberto Mariiiiiiiiia!

 

Non lo avrebbe più chiamato. Non sarebbe più entrata in casa dal balcone per offrire il tè alle sue pazienti. La casa tutta per sé...?

 

Si inginocchiò e ricompose la gonna indosso alla mamma. Da bambino, le solleticava i fianchi per liberarsi dal suo abbraccio. La guardò. Erano passati trent’anni ed erano trent’anni che non la guardava a quel modo. Era dimagrita. I capelli, di un colore diverso, ora crescevano bianchi. La pelle si era assottigliata e luccicava di crema.

 

Alberto Maria fece scorrere le mani sui pantaloni in cerca del suo telefono, mentre le ultime lacrime di bambino gli rigavano il volto.  

 

L’elenco delle chiamate non risposte scorreva in silenzio sovra impresso sul suo volto: il sorriso di plastica, lo sguardo ammiccante impostato dal fotografo. I numeri, liquidi delle sue lacrime, si mescolarono l’uno con l’altro mentre pigiava furiosamente sul telefono. Dal primo all’ultimo e poi di nuovo da capo. Sempre lo stesso sorriso. Uno ad uno scomparivano tutti. Li conosceva a memoria. Il numero di sua madre era quello più ricorrente. E nello schermo del telefono, quello della foto continuava a ridere, insensibile al suo dolore, ignaro degli altri, pieno solo di sé.

 

 

*

Oltre Frontiera

OLTRE FRONTIERA


-Quanto manca? Che palle! Ancora un controllo! Ma chi cazzo ci vuole venire in questo paese di merda? Cosa controllano? La prossima volta, dai retta a me, ce ne andiamo a Forte a casa del Bepi, che adesso sicuro scopa come un riccio…Altro che vacanze avventura!-

Il pullman è un vecchio Mercedes arrugginito, ha i sedili sfondati in finta pelle e la moquette lercia. Entra ed esce cigolando dalle buche che la pioggia ha scavato sulla strada sterrata, per poi fermarsi con un barrito da animale preistorico a pochi centimetri dall’asta di legno che segna il confine.

-Dio! Che puzza!-

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-Quanto manca? Non ce la faccio! Le mani! Sento che stanno per aprirsi-

- Avvicinati che ti aiuto. Pensa a quando saremo arrivati! Credo ci siano anche i grattacieli. Attento a non perdere la lettera…E’ nella loro lingua, vedrai che quando l’avranno letta non ci manderanno indietro. -

Dalla marmitta squarciata esce fumo denso di piombo che l’albero di trasmissione frulla assieme alla polvere rossa dell’Avenue du Progrés. L’odore acre del sudore che emana dalle magliette tirate su a proteggere il viso, invece, profuma di casa.

-Un giorno torneremo a casa?-

La frontiera è in fondo al pullman: nessuno si è mai avvicinato tanto; nessuno è mai tornato.

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-Ho le chiavi di casa, i miei sono in vacanza. Quando arriviamo ci facciamo due settimane da paura…La doccia…Il bagno schiuma…Senti questi come puzzano. E adesso questo che vuole?-

-Non fare lo stronzo, vuole vedere il passaporto. Ecco: questo è il mio. -

-Sono venuti dritti da noi. Quanto mi stanno sul cazzo! Sono patetici, con tutte quelle stellette, fibbie e mostrine appese a quello straccio di divisa. Vuoi la borsa? Guarda pure! Ci sono magliette, calzini e mutande sporche, ma non te le fregare che sono Calvin Klein e costano una cifra. -

Il militare afferra la borsa ed incomincia a frugare. Poi urla all’indietro e passa la borsa ad un altro soldato, che la prende e la lancia a terra attraverso il finestrino del conducente.

-La mia borsa!-

La canna del fucile lo tocca appena sul petto.

-Siediti. Cazzo! Te l’avevo detto di non fare lo stronzo cosa hai messo in quella borsa? Dice di seguirlo. Stai calmo, fai parlare me. -

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Un militare gira attorno al pulman, poi si inginocchia e guarda sotto, raschia a casaccio con la baionetta. E’ scuro sotto al pullman, fa per accendere la torcia quando un collega gli piazza un calcio in culo. Si allontanano ridendo.

-Se ne vanno. – Si abbracciano, aggomitolati assieme come gattini, i denti brillano bianchi sullo sfondo di ruggine e ferro del cassetto che il conducente ha ricavato nel vano motore.

-Ora partiamo ed andiamo oltre frontiera. Ce l’ hai sempre la lettera? -

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-Cazzo, mi sei costato 50 dollari. Cosa te ne fai delle conchiglie? Lo sapevi che è vietato prenderle. –

-Dio! No! Ci fermiamo di nuovo! Guarda dietro! Porca puttana abbiamo investito qualcuno!

Una striscia scura traccia la sabbia. E’ rimasto qualcosa a terra, a pochi metri dal confine: una bambola, forse un ragazzo.

Il conducente guarda nello specchio retrovisore e riparte mandando il motore fuori giri. I militari sparano in aria ma il pullman continua a viaggiare: è oltre frontiera. Un foglio vola via risucchiato dal vento e finisce a terra in mezzo alle ruote. Le gomme sono lisce e non lasciano traccia.

*

Bonnie e Clyde

BONNIE e CLYDE


Piazza del Popolo era un braciere ardente. In fondo a Via del Corso, al margine estremo della zona d’ombra che schiudeva la porta di quell’inferno, l’appuntato Capecelatro prendeva fiato e studiava il percorso. Decise infine per il portico della chiesa dal quale avrebbe raggiunto il bar Rosati e poi, lungo il cono d’ombra dell’obelisco, Marija: al centro della piazza.

Prese posto in un tavolino all’ombra ed ordinò un bicchiere d’acqua minerale con una fettina di limone, raccomandandosi che fosse ben freddo. Aveva bisogno di riordinare le idee.

Il cameriere lo guardò con disprezzo: a Roma, d’estate, con quel caldo, c’erano solo giapponesi e sfigati e Capecelatro non era giapponese.

Con il dorso della mano, si asciugò il sudore che gli imperlava la fronte. C’è chi nasce col malocchio, chi nasce fortunato e chi nasce carabiniere. Una maledizione, pensò Capecelatro, mentre si tamponava il collo con una manciata di tovaglioli di carta. Era nato carabiniere e rimaneva tale anche quando non era in servizio. Era smontato dalla notte, aveva tempo. I ragazzi sarebbero stati contenti se li fosse andati a prendere al mare: fare su e giù con la metropolitana era da poveracci, meglio la scuola.

Capecelatro approfittò della giornata libera per fare qualche domanda in giro ma Nino Carosi, “er Califfo” di Porta Portese giurava di non sapere nulla. Lavorava spesso con i nomadi, che per lui segnavano i citofoni delle case disabitate: i lavoretti semplici li facevano loro, quelli più seri, li organizzava lui. Tutta la refurtiva finiva poi nei suoi magazzini.

Con Capecelatro era d’accordo: quando c’era da fare qualche arresto, il Califfo gli dava una dritta e Capecelatro chiudeva un occhio sul suo commercio. L’importante è sapere e controllare. Esercitare una giusta pressione.

Quella del capitano era stata una telefonata strana, che gli aveva fatto cambiare idea. Due giorni prima, i colleghi del reparto scorte avevano accompagnato in caserma tale Garimberti. Dopo un silenzio iniziale, che Capecelatro non seppe spiegare, il Dottor Garimberti, (segretario particolare dell’onorevole Bianco, ci tenne a precisare) incominciò a raccontare, tutto incazzato, che gli avevano fregato la borsa.

Capecelatro lo aveva fatto accomodare, aveva lasciato che si sfogasse, aveva raccolto la denuncia, lo aveva accompagnato alla porta assicurandogli che avrebbero fatto tutto il possibile ed aveva infine messo il foglio al mucchio: una pila informe di denunce di furti e scippi che teneva parcheggiato sulla scrivania in attesa dell’arrivo dell’archivista.

Poi, quella mattina, il maresciallo a “doppia botta” Beccafico gli aveva chiesto se per caso un tale Garimberti avesse presentato denuncia di furto. Beccafico, si aggiustava la bandoliera soffermando le dita sulle barrette argentate in campo rosso che luccicavano sulle spalline. Aveva chiamato il Capitano, che era stato chiamato dal Colonnello.

Difficile capire come fosse il messaggio in origine, fatto sta che l’onorevole si era interessato ed il Capitano era stato chiaro in proposito: non era il caso di perderci tempo.

- Capecelatro, metta pure al mucchio. – Era lui il capo, si dava del tu con il capitano ed il Colonnello. E poi questi cazzo di politici! A chi vogliono dare ordini?
Capecelatro non riusciva a farsene una ragione. Due zingari rubano in un appartamento (di proprietà della moglie dell’onorevole Bianco), ci trovano l’assistente, gli fregano la borsa e l’onorevole Bianco, che è in vacanza in Sardegna, chiama il Comando Generale e scatena quel putiferio di telefonate per far sapere che non è il caso di perderci tempo?

Proprio lui! Quello del pacchetto sicurezza: campi extra – urbani per i nomadi, impronte digitali per i senza fissa dimora, esercito per l’ordine pubblico, multe alle prostitute.

Sentiamo Marija e poi al mare dai ragazzi.

Papà li hai presi i brutti? Il mondo era diviso in brutti e cattivi da un lato e buoni dall’altro. Capecelatro acchiappava i brutti prima che potessero fare del male ai buoni. All’americana: inseguimenti e sparatorie. Si fermava solo di fronte alle bombe, tutto il resto ce l’aveva pure lui, come alla televisione.

Quasi tutto, perché per arrivare al processo ci volevano anni, lo chiamavano a testimoniare e non si ricordava più nulla, l’avvocato gli faceva fare una figura da coglione e nel frattempo il reato si era prescritto. Se pure qualcuno finiva in galera, c’era sempre l’indulto che arrivava puntuale a svuotare le carceri.

Fare le leggi, giudicare e tenere i delinquenti sotto chiave non era compito suo. Quel Garimberti però… Con quell’aria da fighetto… Gli stava proprio sul cazzo! Lui e tutti quelli come lui. Che modo è questo? Rischio la vita per quattro soldi, pago le tasse e Garimberti, Bianco e tutto il suo staff (sedici stronzetti come Garimberti) girano a farsi i cazzi loro con l’auto di servizio. Perché Garimberti, aveva saputo Capecelatro, in quell’appartamento c’era andato con l’auto di servizio e per fare prima si era pure fatto precedere dalla scorta a sirene spiegate.

La sera del furto, in caserma, era venuta una ragazza: le avevano rubato un anello, di nessun valore, forse non era il caso di fare una vera e propria denuncia, e poi che probabilità c’erano di ritrovarlo?

Non è che ci mettiamo a cercare l’anello, le disse Capecelatro, ma la denuncia la faccia. Me lo descriva bene, perché non si sa mai.

- E’ una fascia d’argento con tre cristalli rossi a forma di cuore. Sono tre anni che stiamo insieme, aggiunse con un sorriso timido. -

L’indirizzo era lo stesso.

- E Garimberti lì che ci faceva? Aveva appuntamento con l’onorevole? - Capecelatro voleva capire. Garimberti era stato avido di particolari. Anzi, poco c’era mancato che non gli dicesse di farsi i cazzi suoi.

-Chi è Garimberti?- Giacca blu, camicia bianca aperta sul petto…No, lo stemmino del Rotary sul bavero non se lo ricordava (Capecelatro era un maniaco dei particolari), ma il faccione rotondo e gli occhi a palla erano i suoi

-Attilio! E’ il segretario della padrona di casa! Viene tutti i mesi a riscuotere l’affitto. Fa tutto il fico perché arriva con l’autista e poi ci prova…-

E bravo l’Onorevole… Pensava Capecelatro, mentre odio ed invidia gli montavano agli occhi. Le case a nome della moglie, le camere affittate in nero agli studenti (erano in dieci a pagare l’affitto), il segretario a riscuotere la pigione: scorta ed auto blu.

-Vuole ancora ghiaccio? Magari un’altra fettina di limone?-

Capecelatro pagò l’acqua e lasciò il doppio del conto in mancia. Senza parole, che non era tipo da farsi sfottere dal quel cretino in giacca bianca.

Al centro della piazza una macchia nera: Marija.

-Signore…Signore…Buongiorno, Buongiorno…- Non appena Capecelatro fece scudo al sole, partì in automatico la supplica falsa e gracchiante di Marija, come azionata da un termostato.

Faccia a terra, coperta di stracci, santino della madonna in mano. Marija riconobbe il tocco leggero della scarpa di Capecelatro ed alzò lo sguardo.

-Me ne vado, Maresciallo…-

-Lascia stare, non sono qui per questo. -

-Ho la residenza! Non ci potete cacciare!- Maria fece per prendere la carta d’identità: il campo zingari occupava lo stesso terreno a ridosso del Tevere da più di dieci anni. Marija aveva la residenza in Viale Tor di Quinto e riceveva regolarmente la posta.

-Lo sai che non dipende da me. Stammi bene a sentire. Hanno rubato una borsa. In un appartamento. Due dei vostri. Un maschio ed una femmina.-

Marija a terra. Capecelatro in piedi. Comandare, ubbidire. La gerarchia offriva una soluzione facile per tutto. Non da spaccarsi la testa, che a Capecelatro studiare non gli era mai riuscito. E poi la divisa era bella. Specie la grand’uniforme, quella col pennacchio. Alla festa del paese faceva una gran figura: in prima fila, avanti al parroco, subito dietro allo stendardo della confraternita delle anime sante.

Capecelatro aveva indossato la divisa ed aveva rimediato una moglie ed un posto da cui comandare (poco) ed ubbidire (tanto). Moglie e maresciallo, sopra. Carabinieri, carabinieri scelti ed ausiliari, sotto. Semplice. Quelli come Bianco e Garimberti, invece… Erano passati avanti senza fare la fila. Non c’era una regola chiara. Chi lo conosce a questo Bianco? La gente vota il partito ed ecco che il giorno dopo spuntano i manifesti dell’Onorevole Bianco che ringrazia. E poi incarichi, nomine, commissioni…Alla fine esce fuori pure Garimberti, che all’università non c’era andato neppure lui. Capecelatro ne era sicuro: quello aveva una grafia da prima elementare, non una bella firma con lo svolazzo finale da professore.

- Marija non mi fare incazzare, che da qui ti mando via per sempre. -

La minaccia fece il suo effetto, Marija in quel posto faceva pure cento euro, in una giornata buona. Si alzò e guardò Capecelatro dritto negli occhi. Aveva le sopracciglia nere unite al centro.

-Che fai? Mi vuoi leggere la mano?- Scherzò Capecelatro, improvvisamente a disagio. Non che ci credesse, ma gli occhi di Marija erano occhi che avevano visto tutto e tutto sapevano riconoscere. L’alito fetido, quegli stracci luridi, il volto segnato da rughe tristi e profonde, nere di smog. Qualsiasi cosa avesse visto e sapesse riconoscere, non era certo una vincita al lotto.

Quelle come Marija, se ne infischiavano dei Carabinieri. Insisteva a chiamarlo Maresciallo e sapeva che era solo appuntato. Conosceva pure il codice di procedura penale.

Tutto si rivelò troppo facile. Aveva chiesto e Marija, invece di fingersi svenuta o abbozzare la solita litania piena di implorazioni benedizioni ringraziamenti saluti invocazioni lamenti disgrazie sfortune e lusinghe, con l’occhio cattivo aveva subito vomitato tutto su Jamal e Selina.

- Quella ruba… - sibilò con voce rauca. Negli occhi di Marija c’era Selina bella, Selina giovane, Selina che è cosa sua, Selina che si ribella, Selina che fugge.

Marija afferrò sibilante Capecelatro per un braccio, perché quella era una troia, una schifosa, una che ruba.

Capecelatro ebbe un moto di ribrezzo e con un gesto brusco liberò il braccio. Marija sputò a terra.

Un turista giapponese chiedeva del negozio di Gucci: si inchinava e sorrideva, mostrando la brochure dell’albergo con la foto del negozio.

-Signore….Signore…Buongiorno, buongiorno…- Marija supplicava, santino in mano. Il giapponese continuava ad inchinarsi sorridendo mentre sbirciava il santino. Marija prendeva tutto: yen, dollari, rubli. Cambiava e dava il resto, Marija. Dov’è Gucci?

Capecelatro si allontanò a passi veloci. Voleva tuffarsi a mare, tornare a casa con i suoi figli, raccontare una storia di brutti e buoni.

I miei sono maschi, pensò Capecelatro con sollievo.

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-Garimberti! Cosa fa lì impalato? Vada! Si muova!Accompagni i nostri ospiti!-

Una lussureggiante cascata verde di felci, muschio e piante esotiche scendeva ondeggiante dai giardini del Pincio insinuandosi morbida tra i tavoli. Sottili zampilli d’acqua tintinnavano scintillanti di luce profumata. Le candele davano ombre e luci discrete, fatte per celare baci di innamorati e segreti industriali, suggellare patti politici ed affari confidenziali.

Bianco era un ospite abituale all’Hotel de Russie, come un tempo lo era stato Napoleone Girolamo Giuseppe Carlo Bonaparte. Così recitava la targa in marmo sulla facciata dell’albergo. Napoleone c’era morto e questo non era di buon auspicio. Quel Napoleone non aveva fatto nulla di buono, in fondo. Un personaggio minore. Bianco la immaginava la sua targa ….quasi un brivido di falsa modestia…”In questo storico albergo, l’onorevole Carlo Roberto Bianco…”

Aggiustò il sedere imponente sulla poltrona di vimini, facendo scrocchiare il telaio sulla ghiaia. Li guardò arrivare con casuale indifferenza, come si addice all’uomo di potere. Quando furono ad un passo, con misurata lentezza si alzò e stese la mano in avanti, facendo con l’altra cenno di accomodarsi. Con un fulmine dello sguardo intimò a Garimberti di indirizzare gli ospiti verso i loro posti, mentre i camerieri accostavano le sedie ed accendevano le candele attorno al centro tavola di fiori e frutta.
Perfetto.

Un cinque stelle extra lusso: questo l’albergo che sarebbe stato costruito in quel terreno abbandonato, ricettacolo di spazzatura, nomadi e sfasciacarrozze. Al centro di Roma, sul fiume Tevere, a due passi da Ponte Milvio. Il teatro della vittoria di Costantino su Massenzio, della difesa di Belisario contro i Goti di Vitige. Roba da non credere! Ma grazie a lui, Carlo Roberto Bianco, ospite abituale dell’Hotel de Russie…

Era stato necessario far circolare qualcosa… Le spese, la burocrazia…Gli americani avevano pagato senza fiatare…Gente di mondo…Capaci di fare una guerra per difendere i diritti umani e consolidare le risorse di petrolio, pagare mazzette e sostenere la ricerca sul cancro. Gente che sa bombardare e ricostruire.

Ci aveva rimesso l’ultima rata. Colpa di quell’imbecille di Garimberti che si era fatto fregare la borsa. Un giovane promettente, solo un po’ incauto. E comunque erano cazzi suoi, perché avrebbe lavorato senza paga per i prossimi due anni.

Aria frizzante al de Russie quella sera. Gran pienone. Roba da grandi occasioni. Pare ci fosse a cena un oligarca russo, un principe arabo o qualcosa del genere…Garimberti non aveva ben capito e guardava con curiosità verso l’angolo opposto del giardino, dove attorno ad un tavolino per due c’era un gran andirivieni di camerieri.

Sembrava un ragazzino…Un uomo piccolo…Decisamente non era un nano. Giacca da sera, farfalla di seta nera. Si era rotto qualcosa sulla ghiaia. Ora anche altri ospiti guardavano in quella direzione. Il ragazzino aveva fracassato un altro bicchiere e rideva sonoramente.

Il cameriere si abbassò per raccogliere i cocci e Garimberti rimase come fulminato.

-Garimberti! Mr. Foskey vorrebbe avere chiarimenti in merito alla tempistica dell’operazione: sgombero dei terreni, delibere del consiglio comunale, atto di concessione in uso, data di consegna e così via… Lei che ha seguito tutto, faccia un po’ il punto. -

Garimberti, bicchiere in mano, aguzzava gli occhi. La luce delle candele andava e veniva senza dare certezza. I capelli folti e neri, l’incarnato dorato, gli zigomi alti, il collo sottile. La ragazza, quasi sentisse addosso lo sguardo, alzò gli occhi verso di lui e Garimberti non ebbe più dubbi. Era lei! Ma allora…Il ragazzino a fianco? La ragazza si girò subito verso il compagno che alzò il bicchiere in direzione di Garimberti senza smettere di ridere.

Bianco, Foskey e tutta la delegazione della International Luxury Hotels & Resorts, guidati dallo sguardo di Garimberti, si girarono verso il ragazzo. Foskey sorrise ed alzò il bicchiere in risposta al saluto.

- Brutta troia schifosa…Ed io che pensavo godesse…-

-Come dice Garimberti?- Bianco era ansioso di capire. Chi era quel ragazzino? Che stava succedendo? Foskey è una persona nota, un americano, amico dell’ambasciatore. Quel coglione di Garimberti, un puttaniere…Va bene essere giovani…Ma certi ambienti…Chi era quel ragazzino? Quella doveva rimanere una serata tra amici, in confidenza…

-Garimberti… - sussurrò tra i denti Bianco sgomitando discretamente.

- Chi è quel ragazzino? Garimberti non faccia cazzate…Questa non è la serata giusta.-
Garimberti inseguiva le parole dette, ricostruiva i fatti, focalizzava le immagini…

-Brutta troia…-

- Good night! – Bianco parlava un inglese pessimo. L’americano lo guardò perplesso. Bianco si rese conto di avere appena detto “Buonanotte” e decise di passare al vino rosso. Riempiva generosamente i bicchieri di vino alternando gesti a sorrisi, quando vide con orrore che dal tavolo del ragazzino partiva un cameriere con un secchio di ghiaccio ed una bottiglia di champagne.

-Garimberti…- ringhiò questa volta Bianco.

-Vada immediatamente dai suoi amici e metta fine a questa pagliacciata. –

Il ragazzino pareva incontenibile: ordinava una portata dopo l’altra, assaggiava con le mani e mandava indietro.

Garimberti faceva i conti. Vestiti, orologio, gioielli, il conto dell’albergo… Il ragazzino gli aveva fulminato almeno 20.000 Euro. Nella borsa ce n’erano 60.000.

-I ‘m sorry. – Garimberti si alzò, intercettò il secchiello con lo champagne e chiamò il maitre. Cento Euro. Il maitre annuiva, capiva, una cena di lavoro, i soliti scocciatori. La security dell’albergo non basta, pensò Garimberti impugnando il telefonino.

-Claudio? Ciao sono Attilio. Lascia stare…Ho bisogno del tuo aiuto. Mi hanno rubato dei soldi…No. Non è il caso. Non la polizia. Sono al De Russie. Quelli che usi per il recupero crediti. Si. Me ne rendo conto… -

Morbida, calda, quasi una carezza.

-Jamal…- la mano di Selina si poggiò sulla sua e Jamal ebbe paura. Il cuore gli batteva in gola. Era stato picchiato, Jamal, e dopo un po’ non fa più male. Lasci fuori il freddo e lo sporco, come una crosta che non ti tocca, e non sei mai solo quando sei solo. Lo sai, ti conosci, ti vuoi bene, ti fidi. Ti diverti persino, da solo. Lasci tutti fuori, assieme al freddo ed allo sporco e non corri rischi: sei duro.

Non abbastanza: una carezza e vorresti piangere. Allora devi nasconderti. Sei duro, ricordi? Ma la sua voce è dolcezza che ti entra dentro come fossi di burro. Lei ti guarda e ti fai piccolo. Gli scivoli in grembo e non te ne accorgi.

-Siediti qui, accanto a me…- Per la prima volta da quando erano scappati dal campo, gli occhi di Selina sorrisero senza paura.

-Grazie. – sussurrò Selina e Jamal avrebbe voluto ridere, urlare, spaccare tutto. Ma con un bacio tornò la paura. Una paura dolce, questa volta, che ti accompagna per mano fino a quando sarai pronto e ti potrà lasciare.

Mastino, all’anagrafe Alfio Birindelli, aspettava paziente di fronte all’ingresso. Niente foto, niente nome. Solo una descrizione sommaria. Come cazzo si fa a lavorare a questo modo? E se avesse preso la persona sbagliata? Come quella volta che aveva spezzato due dita ad un povero diavolo che era lì per caso e non c’entrava nulla. C’aveva sentimento il Mastino: se sbagliava poi ci stava male.

Jamal era ancora nella hall, quando istintivamente rallentò il passo. Fuori dall’albergo, dall’altro lato del marciapiede, Mastino fumava e gettava l’occhio al portone d’ingresso. Jamal e Mastino, al De Russie! Come si fossero fiutati a distanza si riconobbero senza conoscersi. Jamal strinse forte la mano a Selina e la tirò da un lato. Mastino buttò a terra la sigaretta, ci girò sopra il piede e gli andò incontro deciso.

Bianco sudava. Gli affari internazionali erano più complicati del previsto. L’americano parlava raffiche di mitragliatrice. Garimberti, stanco di tradurre, conversava disinvolto in quella lingua incomprensibile e sembrava essere entrato in sintonia con Foskey.

-Here are your friends again….- disse Foskey con un sorrisetto, facendo capire che l’agitazione con cui Garimberti aveva parato il colpo in precedenza, non era passata inosservata.

Bianco incominciò a deglutire asciutto. Jamal si sedette al tavolo sorridendo a destra e sinistra. Con un gesto ampio, quasi teatrale, invitò Selina a fare lo stesso, bevve un sorso dal bicchiere di Bianco e sputò tutto sul tavolo, tossendo rumorosamente. Fischiò al maitre.

- Che schifezza!Capo! Due bottiglie di champagne! Una per noi ed uno per quello lì! Giù in fondo! – disse indicando Mastino, fermo all’ingresso del giardino. Sorrise a Selina: non preoccuparti, ci sono qui io.

Il Maitre, questa volta, fece cenno alla security e due ragazzoni in blue, auricolare, spalle e capelli a coda di cavallo, si materializzarono alle spalle di Jamal.

Uno dei due si fece avanti, appoggiò le mani sullo schienale della sedia di Jamal e sussurrò minaccioso -Vuole gentilmente seguirci ? –

Jamal guardò Mastino che ora sorrideva, sicuro di averlo in pugno.

-Pupazzone, levati dalle palle! Capo! Lo champagne! Che cazzo di hotel è questo?- Non sarebbe stata la security a buttarlo in braccio a Mastino.

Non capiscono… Non capiscono l’italiano… Se solo non strillasse. Bianco sforzava sorrisi. Gli italiani! Eh! Così imprevedibili! Folklore! Folklore locale ! Siamo un popolo di commedianti…Dio!Un incubo! Sentiva il puzzo del suo sudore. Gli americani incominciavano ad innervosirsi. Foskey parlava al telefono in inglese.

-Garimberti! Dica al suo amico… - E poi, senza ritegno, asciugandosi il sudore in fronte con il tovagliolo - Il conto! Facciamoci fare il conto. Anzi, andiamo, andiamo pure, manderò domani qualcuno… -

Jamal guardò Mastino, guardò Bianco, prese per mano Selina e si alzò anche lui, pronto ad uscire assieme a Bianco.

- Garimberti! Lei è un idiota! Mi dia quel telefono! – Bianco fece un mezzo passo per allontanarsi da Jamal che gli si nascondeva dietro. Lanciò uno sguardo d’odio prima su Garimberti, che si mordeva il labbro e si sarebbe gettato addosso a Jamal e poi su quelli della security, che sembravano avere l’auricolare in corto circuito: lo premevano sull’orecchio e guardavano lontano in un posto indefinito dal quale aspettavano istruzioni.

Capecelatro era di turno al radiomobile: sei ore in macchina, il turno di notte non passa mai. Era capo servizio e spettava lui decidere. Una piccola pausa all’Accademia di Romania, giusto il tempo di farsi due chiacchiere con il portiere di notte che era un suo amico. Bip… birulibiruli…Bip …De Russie… Perchè diavolo non avevano anche loro una centralinista dalla voce sensuale come nei telefilm americani, invece di quel vocione baritonale triste… Ci sarebbe andato più volentieri al De Russie…Il solito turista ubriaco. A malincuore Capecelatro salutò l’amico che aveva già tirato fuori una bottiglia di nocino ed una rivista pornografica.

Gli venne incontro Michele, il portiere. Volavano bottiglie, bicchieri e posate. Capecelatro si attaccò alla radio per chiamare rinforzi.

“Scimmione” . Mastino non ci stava a farsi prendere per il culo da un ragazzino. Fanculo la prudenza, fanculo la discrezione, era partito dritto in mezzo ai tavoli come un toro. Jamal attaccato alla giacca usava Bianco come scudo. Bianco, terrorizzato, trottava intorno al tavolo con Mastino dietro. Rovesciato il tavolo, Mastino ci passò sopra portandosi appresso i ragazzi della security, uno per braccio. Bianco sotto.

C’era scritto “John Montebello” sulla targhetta della giacca. I Marines di servizio al corpo di guardia dell’ambasciata erano in grand’uniforme: guanti bianchi, berretto con sottogola e spadino. Con la sua telefonata Foskey era riuscito a dirottarne un paio al de Russie. Sono senza pennacchio, pensò Capecelatro. Foskey uscì di corsa dall’hotel agitando le braccia in direzione dei Marines. Capecelatro guardò la radio …birubirubirubiruli…Poi guardò i Marines indeciso: Montebello, un paesano… Una bottiglia fracassò la vetrata di accesso al giardino, Capecelatro allora si aggiustò il cinturone, respirò a fondo e disse: “OK Joe” correndo dentro appresso ai Marines…Quando lo racconto ai ragazzi…

Un attimo dopo Mastino era faccia a terra sulla ghiaia con cento chili di muscoli sulle spalle. Montebello sembrava non avere fretta, guardava Capecelatro in attesa d’istruzioni.

-Beh …allora…grazie…- Jamal abbozzò l’uscita disinvolto.

Bianco, ancora a terra, mugolava senza fiato indicando Jamal.

-Giovane…! - Capecelatro non aveva voglia di scherzare. Jamal si arrese senza fare resistenza.

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Lo sgombero del campo nomadi non era stata una cosa piacevole. Capecelatro aveva dovuto fronteggiare mamme inferocite, bambini che tiravano sassi, vecchi che piangevano. C’erano stati momenti di tensione: un orsacchiotto di peluche era finito sotto i cingoli di una ruspa, il bambino era corso a prenderlo e poco c’era mancato che finisse anche lui tritato sotto. La folla aveva rotto il cordone di sicurezza ed una recluta, presa dal panico, aveva sparato due colpi di pistola in aria.

In caserma, il maresciallo a “doppia botta” Beccafico tagliava corto.

- Cosa cerca Capecelatro? Lo scandalo? Le prove! Dove sono le prove?-

- Beh, veramente…Ci sarebbero i soldi e poi c’è la dichiarazione del ragazzo…-

-Capecelatro non mi faccia incazzare. Non ci sono riscontri. Uno zingaro che da mesi ruba in giro per gli appartamenti di mezza Roma le dice che ha trovato i soldi in una borsa e lei ci crede? – Poi in tono conciliante… - Capecelatro, lei ha fatto un buon lavoro. Se non fosse per quell’anello, che lei ha meticolosamente descritto nella denuncia e poi riconosciuto indosso alla ragazza non avremmo potuto arrestarli. Veramente bravo… “una fascia d’argento con tre cristalli rossi a forma di cuore”. Non faccia caso a Garimberti… non ha riconosciuto il ragazzo perché al momento del furto era in un’altra stanza. Vada Capecelatro, vada. Si vada a riposare che questa è stata una giornata lunga. Legga il giornale! Guardi qui: Bonnie e Clyde. Non ho idea di chi siano questi Bonnie e Clyde ma il pezzo parla di noi, anzi, parla di lei… – Beccafico si toccò la spallina destra soddisfatto: era in arrivo la promozione a maresciallo maggiore, tre barre d’argento in campo rosso.

A casa, i ragazzi erano davanti alla televisione. Howard Jones, il tenente dei reparti speciali. Dieci trafficanti di droga fulminati a terra dopo un inseguimento ed una sparatoria mozzafiato, poliziotti e doganieri corrotti in manette, il capo delle dogane preso in casa mentre sniffa la coca assieme ad una pornostar, il ministro si dimette, il presidente in persona a reti unificate elogia Howard Jones ed i reparti speciali.

Capecelatro scalda la minestra al micronde, mangia da solo in cucina e si chiude al bagno.

-Papà li hai presi i brutti?- Capecelatro tira la catena dello sciacquone e per un momento si sente sollevato.

-Papà ti vogliono al telefono! –

-Capecelatro…Si …capisco…la ragazza zingara…lei è il suo avvocato (!?) …- Stupore. Capecelatro si allenta il nodo della cravatta. Si siede.

-Ha incontrato Garimberti al campo!…Lo abbiamo sgomberato proprio oggi…L’appalto per la costruzione dell’Hotel…Ma come fa la ragazza a sapere queste cose?…Ha ragione, è proprio questo il punto…Ci sono i riscontri…E’ disposta a testimoniare?… Bene. Mi passi di nuovo il carabiniere di guardia. Grazie, a domani. – Capecelatro ora è in piedi, sorride, ammicca ai ragazzi, tira indietro le spalle, butta in fuori il petto: ci sono i riscontri…

-Caputo! Stammi bene a sentire…Chiama il Procuratore e prendi appuntamento per domani. Avverti Beccafico e digli che abbiamo appuntamento in Procura e che poi domani gli spiego. –

Tenente Howard Jones. Titoli di coda. Capecelatro spegne la televisione.