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Raccolta di testi in prosa di Romana Ricciardi
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Una lunga estate calda

Un brivido freddo corse improvviso tra le foglie. Il vento era cambiato.
Il viale d'accesso alla vecchia casa di campagna era presidiato da due file di ulivi secolari, maestosi ed attempati come reduci alla parata militare, con il corpo fiaccato dal tempo e lo sguardo ancora lucente di antica fierezza. 
Nei campi, poco oltre, le zolle divelte dalla solerzia dell'aratro mugugnavano malumori al cielo, già troppo stanco di nubi per badare agli effluvi di terra bagnata provenienti dal basso.
Ma dopotutto, l'arrivo dell'autunno era stato un sollievo.
Solo tre mesi prima ardeva, il terreno, sotto i colpi inferti da un sole impietoso e tutto, intorno, giaceva sotto una coltre calda e spettrale, mentre la nenia infinita di grilli e cicale stonava le ore, senza riguardo.
Anche il giorno del funerale, l'afa mordeva. 
Prima in chiesa, giù in città, dove l'incenso sposava l'olezzo dei fiori, davvero troppi -davvero- e dove le preghiere si scioglievano in un  salmodiare soffocato di lacrime e pianti che echeggiava tra le navate, salendo fino a lambire le volte affrescate, per poi ricadere giù, stancamente, tra i banchi gremiti; poi, poco più tardi, al cimitero del paese, dove una teoria di tombe assolate scandiva il percorso, e lo spazio, così geometrico e ordinato, dimostrava, con logica marmorea, l'assurdità covata in ogni gesto. Una volta concluso lo straziante cerimoniale della tumulazione, di tutti quei fiori, davvero troppi  -davvero-  non si sapeva che cosa farsene; non c'era modo di sistemarne che una minima quantità e anche quelli, avrebbero retto ben poco sotto il fuoco incrociato dei raggi in agosto. E infondo, forse era meglio così; meglio seccare in fretta, folgorati dal bacio del sole, che marcire lentamente nell'attesa.
Ora, dopo tre mesi, a tornare in quel vetusto casale di famiglia, dove da anni si trascorrevano le vacanze estive, sembrava tutto diverso. 
Eppure era tutto ancora uguale. 
Il cancello sbilenco, il viale dissestato, le persiane di legno sempre sul punto di cadere, da anni, e da anni ancora miracolosamente al loro posto, la vecchia lampada arrugginita sul portone d'ingresso e la sedia, abbandonata davanti casa, vuota. 
Solo la luce, sì, la luce era cambiata. Le note isteriche a picco sul mondo si erano finalmente smorzate. La sua bellezza sferzante s'era fatta discreta, pacata, e accarezzava dolcemente ogni forma, ogni contorno, con l'amorevolezza struggente di una madre che veglia sul sonno incipiente del figlio. 
C'era un figlio, infatti, che dormiva nella tomba, e la tomba era un giaciglio senza tempo, anche se il tempo, inspiegabilmente, non si era fermato quell'estate. Aveva rallentato, questo è vero, o almeno così era parso, come se avesse fatto un cenno, togliendosi il cappello. 
Ma non si era fermato. 
E andava così, tenendo il passo e appoggiandosi ogni tanto al suo bastone da passeggio, più per vezzo che per necessità, risalendo lungo il viale, tra file di ulivi davvero troppo vecchi, e troppo stanchi -davvero- per poterlo ancora salutare.

*

Il morbo di Venere - parte seconda

È da cinque giorni che siamo chiusi nei rifugi sotterranei.

E sono cinque giorni che il dott. Nidhish, l'interprete ufficiale del Monastero, non mi dà tregua.
Quando io e i miei colleghi arrivammo sul pianeta Venere, due anni or sono, sapevamo fin troppo bene che il compito affidatoci  dall' EST, l'Ente Spaziale della Terra, era di vitale importanza. La missione "aurora" infatti, ha come scopo quello di scoprire l'esatta natura del rapporto che lega i nostri pianeti, da sempre chiamati "gemelli ". Per questo ora ci troviamo al Monastero, un polo scientifico all'avanguardia sorto sulle rovine di un antico edificio di culto, dove sono custoditi documenti risalenti nientemeno che agli albori della civiltà venusiana, e dove, secondo l'EST, dovremmo trovare la prova di un misterioso legame tra le nostre specie; un legame dal quale, a quanto pare, dipenderebbe la sopravvivenza stessa del pianeta Terra. 
Ma non vedo proprio che cosa potremmo avere in comune noi umani con questi esseri dal livello emotivo di uno zombie. 
Da quando qualche giorno fa una enorme Tempesta Siderale ci ha costretto a rimanere confinati nei rifugi sotterranei a stretto contatto con il personale venusiano, la convivenza è diventata assai problematica. Soprattutto a causa del dott. Nidhish. 
Mi sento osservata; ovunque io vada me lo ritrovo sempre e comunque tra i piedi. Credo che mi stia tenendo d'occhio e non so proprio il perché.
E pensare che lo chiamano pure "mediatore culturale"!
Ricordo ancora il giorno che arrivammo sul pianeta. Eravamo appena sbarcati al porto astrale di Rashi e lui ci venne incontro per le identificazioni ufficiali. Quando sentì pronunciare il mio nome, mi  fissò con degli occhi così inespressivi da far venire i brividi e, senza la minima inflessione vocale, disse solo: "Eve, come la prima donna della mitologia cristiana ?".  Poi senza neanche aspettare una risposta, si allontanò.
Già da allora, non so perché, pensai che ci fosse qualcosa di strano in quel venusiano. Non che gli altri siano dei gran simpaticoni, come ebbi modo di appurare in seguito, ma hanno un contegno british che sul lavoro è una qualità assai apprezzabile. L'unico di loro che però ha mostrato un vero interesse nei nostri confronti, è stato il direttore del Monastero, il prof. Bashar e non credo che dipenda esclusivamente dal suo ruolo in questa missione o dal semplice fatto che a differenza degli altri può comunicare con noi direttamente, grazie ad un microchip che gli è stato impiantato. Ho osservato in lui non solo una spiccata curiosità intellettuale verso ciò che è culturalmente nuovo e diverso, ma anche una capacità tipicamente "umana" di confronto interpersonale e di adattamento all'ambiente. Ciò nonostante, quello che è accaduto ieri mi ha lasciato assolutamente interdetta.
La tempesta infuriava ed io ero rimasta bloccata nella capsula di attraccaggio, a corto di ossigeno, e nonostante il tassativo coprifuoco, il professore non ha esitato un istante a correre in mio soccorso. 
Lo so che è scientificamente impossibile, perché i venusiani ne sono geneticamente immuni, eppure l'istinto femminile mi dice che... 
 
 
 

*

Il ’Morbo di Venere’

È da cinque giorni che siamo chiusi nei rifugi sotterranei.

La tempesta era stata preannunciata, ma non se n'è mai vista una simile. Riusciamo a tenere sotto controllo la situazione esterna solo grazie ai Grandi Occhi, dei sensori disseminati sulla superficie del pianeta, anche se la densità dei detriti portati dal vento solare è tale da oscurare ogni cosa. 
Noi venusiani siamo abituati alle Grandi Piogge Siderali, ma per i terrestri è la prima volta.
Sono arrivati da noi due cicli solari fa.  Una piccola delegazione sbarcò al porto astrale di Rashi, dopo una fitta serie di colloqui bilaterali tra i nostri paesi e si stabilì nella valle del Lago Dorato, in quello che durante l' Epoca Antica era un monastero e che ora è stato trasformato in laboratorio scientifico all'avanguardia. 
I sotterranei sono stati adibiti a rifugi proprio a causa delle Piogge Siderali, che di anno in anno si fanno sempre più intense e sempre più durature, paralizzando di fatto il normale svolgersi delle attività di superficie. Nonostante il parere discorde della maggior parte dei venusiani ad ospitare gli alieni, il Sommo Triumvirato ha autorizzato la loro presenza, nella speranza di trovare una soluzione alla sopravvivenza di Venere.
Data la mia conoscenza della lingua e della storia del pianeta Terra, sono stato arruolato in questa missione in qualità di interprete e di mediatore culturale.
E non vedo proprio come questi esseri inferiori possano in alcun modo esserci d'aiuto.
Da quando la tempesta ci ha costretti a questa  convivenza forzata e troppo ravvicinata, ho avuto l'occasione di osservare gli umani nel loro quotidiano. È strano pensare che molto tempo fa anche noi venusiani eravamo vittime delle medesime debolezze, ed é solo grazie alla determinazione del Sommo Triumvirato ad applicare senza eccezioni la De-Programmazione, se ora possiamo dirci una civiltà scientificamente e culturalmente evoluta. La De-Programmazione inizialmente consisteva nel cauterizzare ad ogni neonato la zona di corteccia cerebrale che regola lo sviluppo dell'emotività. Nel giro di appena due generazioni i risultati furono giudicati così esaltanti che si decise di passare ad una definitiva modificazione genetica. Da allora il nostro pianeta vive in pace, dedito solo al progresso e all'autoconservazione. Sarebbe andato tutto a meraviglia, se non fosse stato per queste Tempeste Siderali, che rischiano di mettere in serio pericolo la vita sul nostro pianeta. 
Il prof. Bashar è il direttore del Monastero e da quando gli umani sono arrivati è stato costretto a lavorare con loro a stretto contatto. Per questo gli è stato impiantato un microchip per le traduzioni simultanee, che gli permette di comunicare in tempo reale senza bisogno della mia presenza. Ma ora che siamo qui rinchiusi, mi rendo conto che il prof. Bashar è cambiato. 
Avevo già notato il suo strano contegno quando è vicino alla terrestre, la dottoressa Eve, ma ieri, quando il professore ha deciso di uscire in superficie nonostante il tassativo coprifuoco in vigore durante la tempesta, rischiando la sua vita per salvare l'umana,  che era rimasta bloccata nella capsula di attraccaggio, mi sono reso conto della gravità della situazione e ho deciso di fare immediatamente rapporto ai miei superiori. 
Conosco bene i sintomi della malattia che lo ha colpito, perché noi interpreti siamo stati scrupolosamente addestrati a riconoscerli e a denunciarli alle autorità, affinché si provveda tempestivamente alla profilassi obbligatoria.
Si tratta di una patologia estremamente rara e molto pericolosa. Gli scienziati che l'hanno scoperta la chiamano " Morbo di Venere", ma i terrestri,
i terrestri lo chiamano "amore".
 

*

Sono io

Avevo esattamente diciotto anni quando un giorno, improvvisamente, il mondo mi cascò addosso.

Bastò una telefonata e la mia infanzia finì nel cesso, senza che avessi neanche il tempo di tirare lo sciacquone.
Frequentavo l'ultima classe di liceo e non avevo la benché minima idea di che cosa avrei fatto in seguito. Ricordo che l'anno precedente, quando mio fratello doveva scegliere la facoltà universitaria, in casa non si parlava d'altro e ora che toccava a me, silenzio. Forse mio padre pensava che ci fosse ancora del tempo, ma si sbagliava. Un pomeriggio come tanti, nonostante il fatto che in quegli ultimi tempi avessimo discusso spesso a causa di una mia fase acuta di ribellione adolescenziale, prima che uscisse ci salutammo con un abbraccio. In quel momento pensai che gli volevo bene. Ovviamente, non glielo dissi. 
Fu l'ultima volta che lo vidi vivo.
 
Dunque, con un padre appena morto, una madre debole ed un fratello stronzo, il numero delle opzioni riguardanti il mio futuro era diminuito drasticamente.
Dicono che il dolore unisce le persone. Vero niente.
Il dolore è egoista, pensa solo a sé stesso. 
Allora presi esempio.
Regola numero uno: non credere che ci sia sempre tempo, non è detto.
Regola numero due: se vuoi bene a qualcuno, non avere paura di dirlo. L'amore è un vanto. Mai, una vergogna. 
Regola numero tre: non guardarti indietro più del necessario, soprattutto se fa male. La vita va avanti. Tu, seguila. 
Fu così che lasciai  città, casa e famiglia. Mi iscrissi all'università, trovai un lavoro part-time e una stanza in affitto. Poi laurea, matrimonio, maternità ( non in quest'ordine, ad essere sincera).
 
Sono passati un po' di anni e di merda  ne ho dovuta spalare. 
Non sono più tanto giovane, non più tanto bella, non più tanto innocente. 
Ma sono viva, cazzo. E sono io.

 

*

La strada nel bosco

 

Proprio laggiù, in fondo a quella strada, ho perso qualcosa di mio. 
 
Era un gennaio fin troppo mite ed incolore per i miei gusti. 
Un pomeriggio, durante una delle mie passeggiate a caccia di immagini da fotografare, avevo lasciato la strada e avevo diretto i miei passi verso i campi incolti che costeggiavano silenziosi la ferrovia. 
L'erba era alta ed il terreno irregolare. Andavo avanti alla ricerca di qualche soggetto interessante da ritrarre e benché fossi distratta e svogliata, non volevo tornare indietro. Vagavo tra quello che era ormai diventato un dedalo inospitale di rovi, quando intravidi tra la sterpaglia un piccolo sentiero. 
Mi fermai, incerta. 
Ero curiosa di sapere dove conducesse quell'inaspettato viottolo nel bel mezzo del nulla, così mi incamminai.           
Man mano che procedevo, il sentiero si faceva più netto, più agevole, quasi mi invitasse a proseguire. Ed io andavo, sempre più spedita, sempre più leggera. Sempre più curiosa.
Intanto i rovi erano diventati cespugli alti e fitti e senza rendermene  conto mi ritrovai in un boschetto di rami scheletriti. Per terra sterpaglie nodose ed intricate  soffocavano il verde che a stento cercava di sopravvivere a quel tiepido inverno. Del sentiero, all'improvviso, si perdevano le tracce. Guardai indietro. Da lì non riuscivo più a vedere né la strada, né la ferrovia.
Stavo cominciando a pensare che quella desolazione  fosse la mia misteriosa destinazione, quando una voce dal nulla mi fece sussultare. "Non avere paura" disse " Sono qui a tagliare un po' di legna da ardere nel camino. Abito laggiù, vedi, in quella casetta".
Presa alla sprovvista, sussultai. Diedi una rapida occhiata all'uomo che mi stava davanti. Il primo impulso fu quello di allontanarmi in fretta. 
Se ne accorse. 
"Forse è meglio che torni da dove sei venuta. Non credo che qui ci sia qualcosa per te." 
Sorrise.
Allora lo guardai meglio.  Poteva avere all'incirca la mia età. Altezza e corporatura medi, aspetto curato, gradevole. Aveva uno sguardo serio ma caldo. Ma soprattutto aveva una voce pacata, profonda. 
"Stavo solo facendo due passi, ma senza rendermene conto mi sono allontanata troppo", dissi.
Cominciammo a parlare. Come capita alle volte con gli sconosciuti, entrammo subito in sintonia, come se fossimo amici di vecchia data. Mi parlò della sua famiglia, del suo lavoro e della sua passione per la pittura.
Poi, ad un tratto mi disse: "Facciamo un gioco? "  Io annui incuriosita. "Appoggia la mano sinistra sul ceppo", continuò. 
L'appoggiai e alzai lo sguardo su di lui, aspettando che proseguisse . Poi lo vidi sollevare l'ascia e, in una frazione di secondo, compresi l'orrore. 
Il buio più fitto si accese di miriadi di luci impazzite. Il silenzio divenne ronzio, il ronzio rombo e il rombo un urlo strozzato spezzato dal tonfo secco del mio corpo sul terreno. 
Poi, più nulla....
                                            
È primavera, oramai,  e sto tornando a casa dalla clinica dove ho passato gli ultimi tre mesi. Mentre il treno prosegue ignaro la sua corsa lungo i binari che costeggiano quel boschetto, guardo fuori dal finestrino e rifletto.
Si può vivere senza una mano? 
Si, si può, naturalmente.
Ma non è facile. Soprattutto quando sai perché l'hai persa. E la cosa peggiore  è che alle volte hai la netta sensazione che sia ancora lì, al suo posto, attaccata al tuo corpo, ossa, nervi, muscoli, sangue, ogni cosa dove è sempre stata, e dove avrebbe potuto ancora essere. 
Se solo non avessi seguito quel sentiero, lì, proprio in fondo a quella strada....

*

Viva la libertà

Oggi le pareti della stanza sono fredde da morire.

Mi appoggio come al solito - le gambe, a volte, non bastano - ma sento il sangue gelarsi nelle vene e il freddo irradiarsi e diffondersi,  lento e doloroso - ostile, sì- fino alla più desolata delle mie periferie.
Allora forse, i muri non gradiscono il contatto del mio corpo. 
Sono calda. È la mia natura di essere vivente. Più o meno umano.
A volte più. A volte talmente meno, che dubito. 
Allora mi appoggio.
Non è facile, all'inizio.
Mi respingono, le pareti. Almeno così io credo. Sembra che non vogliano saperne di me. Eppure anche io, come tutti, immagino, vorrei sentirmi sempre a casa, tra le mura domestiche. 
Domestiche in effetti, ma non addomesticate, fin tanto che io, la mia permanenza di corpo irradiante a temperatura costante, diciamo trentasei gradi su per giù, fintanto che...
O io scaldo il muro o il muro gela  me. 
Devo confessare però, trattarsi di lotta impari.
Io ho un vantaggio, assolutamente non trascurabile, e cioè le gambe di cui sopra-sopra nel testo, sotto nel corpo, e nel corpo del testo, a testa in giù- .
"Saran belli gli occhi neri, saran belli gli occhi blu, ma le gambe..", 
ma le gambe mi permettono di spostarmi.
Allora è semplice. Io posso decidere se restare attaccata a sto' muro di ghiaccio, o andare in qualunquealtropostomiaggradi.
Nel frattempo, mentre rifletto sulla scelta da fare, rimango nell'usata condizione ancora un po', perché mi sento stanca, alquanto - ché altrimenti non avrei avuto bisogno di appoggiarmi-.
E poi, a dire il vero, c'è sta' strana sensazione. 
O la parete si è scaldata, o io mi sono abituata , perché non riesco mica più a percepirla tanto bene, la differenza di temperatura...

*

La quiete silenziosa della notte

Non la vedeva esattamente da un anno, e ora stava correndo da lei.

Aveva dovuto lasciarla all'improvviso, senza neanche dirle addio. 
L'aveva abbandonata a pochi giorni dal matrimonio. Senza una parola. Non aveva avuto scelta. 
 
Era partito -per dove, non se lo ricordava neanche più- e nell'istante stesso in cui aveva realizzato di averla persa, era sprofondato in un abisso angoscioso sordo ed incolore. Si era sentito come un fantoccio, un involucro cavo senza più sangue. Un'ombra. 
Nè fame, né freddo, né sonno, niente di niente. Solo un indicibile peso sul petto, un senso nauseante di inanità, un incubo sfocato e claustrofobico. 
E poi - quando, non avrebbe saputo dirlo- lei era riuscita a rintracciarlo e a mettersi in contatto con lui tramite una misteriosa donna, che da quel momento era stata il loro unico collegamento. 
Ma quella sera finalmente l'avrebbe riabbracciata, le avrebbe chiesto perdono, l'avrebbe stretta, baciata, amata e amata ancora. E poi di nuovo. Non l'avrebbe più lasciata. 
Mai si era sentito così leggero. Correva da lei e gli sembrava di volare...
 
Giunto finalmente davanti al portone, non ebbe nemmeno bisogno di bussare. La porta era socchiusa. Ebbe appena un attimo di esitazione. Poi entrò.
Lei era lì, in piedi in fondo alla stanza, bella e pallida come non mai. Lui fece un passo, ma poi si fermò, interdetto. 
Fremeva, lei, scossa da tremiti incontrollabili
"Ma che cosa hai? Dimmi, perché sei così stravolta? Stai male? Dimmi, amore mio, ti prego, parla" . 
Ma lei taceva, col viso terreo imperlato di sudore e la bocca contratta in una smorfia di dolore. "Che c'è, per l'amor di dio, perché mi guardi terrorizzata, come se avessi visto un fantasma?"
"Tu...tu..." balbettava la donna, incapace di controllarsi.
"Io che cosa, cosa..?""
"Tu SEI un fantasma" mormorò lei con un filo di voce. "Sei morto esattamente un anno fa".
"Ma che cosa dici, amore mio, sei impazzita? Che cosa ti è successo? Non vedi che sono qui davanti ai tuoi occhi, in carne ed ossa?"
In un impeto di impazienza, lui colmò i pochi passi che lo separavano da lei, per poterla abbracciare. Ma quando cercò di stringerla, fendette aria. Nient'altro.
Allora si guardò le mani. Poi si toccò il viso. E d'un tratto ricordò.
Esattamente un anno prima, il 31 ottobre, aveva accompagnato a casa Rowena dopo una cena da alcuni amici. Lei lo aveva invitato a restare per la notte, ma lui aveva preferito ripartire, anche se era stanco.  Poi l'incidente.
"Ma allora, perché sono qui?"
"Perché non potevo accettare di averti perso. Non mi davo pace. Non dormivo, non mangiavo. Ero viva, eppure, non vivevo più. Ma soprattutto, non so spiegarti come, io ti sentivo ancora vicino. Così mi sono rivolta ad una medium"
"Allora quella donna, quella che si metteva in contatto con me..."
"Si, lei. E non so spiegarti altro."
Tacque, rasserenata. Ora lo guardava di nuovo come lo aveva guardato sempre, con lo sguardo traboccante d'amore. E di lacrime sommesse.
"Non so che cosa succederà, adesso. Ma so che questo non è più il tuo mondo e che stavolta, dovrai partire per sempre"
"Ma io non posso dirti addio, proprio ora che ti ho ritrovata. Non voglio"
"Amore mio caro, questo non é un addio. Quando verrà il momento, sarò io a correre da te e saremo finalmente insieme"
 
Le parole di Rowena risuonavano ancora nell'aria, quando tutto, intorno, cominciò a sbiadire lentamente. Un senso di pace avvolse pietoso ogni ricordo, ogni dolore, ogni paura. Allora lui si lasciò andare, senza più resistenze e dolcemente sprofondò,  nella quiete silenziosa della notte.

 

*

Erotica futura

Anno 2114, mese 1, giorno 20
Astrid era inquieta.
Sapeva già tutto sin da piccola, ma ora più ci pensava più le sembrava che non avesse senso.
La madre le aveva raccontato tante volte della Grande Epidemia che aveva decimato la popolazione umana ottant'anni prima.
Il morbo si era diffuso in modo così veloce ed esteso, che non era stato possibile arginarlo. Le autorità mondiali, quel poco che ne rimaneva, avevano dovuto prendere decisioni drastiche per evitare il ripetersi di una catastrofe simile, perché il genere umano non avrebbe potuto sopravvivere ad una nuova epidemia. Così era stato deciso di interdire ogni tipo di contatto fisico tra le persone. Ora la vita si svolgeva all'interno di abitazioni asettiche, chiamate gusci, realizzate grazie ad evolute tecnologie che rendevano ogni individuo perfettamente autonomo e capace di interagire con i suoi simili a distanza. Unica eccezione era concessa ai bambini, che avendo acquisito gli anticorpi materni, potevano rimanere con le madri fino all'età di diciotto anni.
Astrid aveva diciassette anni.
Fino a quel momento la sua vita, come quella di tutti gli altri, si era svolta sul web. Grazie alla connessione era sempre in contatto con il padre, con i nonni, con gli amici e con...lui. 
Si erano conosciuti alla scuola digitale di arte, musica e letteratura. Sì, perché anche se tutto era cambiato, niente era diverso. È vero che abitavano un mondo iper tecnologico,  ma nel profondo erano ancora come quegli uomini preistorici che avevano dipinto bisonti nelle caverne.
Dunque, Astrid e Lucius erano innamorati.
Avevano deciso di sposarsi appena compiuti i diciotto anni.
E qui, iniziavano i dolori. Perché sposarsi non significava andare a vivere insieme. La cerimonia, che sarebbe avvenuta in videoconferenza, aveva come unico scopo quello di legalizzare l'unione tra un uomo e una donna al fine della procreazione. Ovviamente, dal momento che i contatti corporali erano severamente vietati, l'inseminazione artificiale era il solo metodo permesso. Ma Astrid non ci stava.
La madre le aveva raccontato che l'ultima generazione nata in modo naturale era stata quella dei nonni e che anche lei era nata in provetta.
"Devi fartene una ragione, Astrid, il mondo è andato avanti".
"E non potrebbe tornare indietro, almeno un po'?"
La madre cercava di farle capire che c'era in gioco il futuro dell'umanità. Che quelle regole, se pur severe, erano necessarie alla salvaguardia del bene comune. Che ogni individuo doveva mettere da parte i suoi istinti egoistici per un fine superiore. 
Astrid allora sbuffava "Ma mamma io non voglio far l'amore con un'immagine allo schermo...io ho BISOGNO di lui... non è solo una necessità fisiologica, lo so che per quello basta prendere una fiala di Neo-org, ma é un'altra cosa...è...è...amore! Ma tu non puoi capire..."
E invece sì che capiva, sua madre. Capiva benissimo. Perché a dispetto di ogni regola, a dispetto di ogni ragionamento, a dispetto di ogni scrupolo, lei avrebbe mandato in malora tutto il maledetto genere umano anche per un'ora sola d'amore. Le bastava il ricordo del suo odore, a farla fremere di desiderio. Si', perché il sistema aveva una falla e lei... 
Ma questa, è un'altra storia.

*

Dolce come la neve

Quando era nato, novantadue anni prima, c'era la neve.

Erano i primi giorni di Marzo, ma la primavera era ancora molto lontana.
La bufera aveva impazzato per tutta la notte e sua madre, rottesi le acque, aveva atteso in solitudine davanti al camino, con gli occhi fissi alle fiamme. Ma la levatrice non arrivava e non c'era più tempo. 
Albeggiava appena quando la ragazza decise di uscire a cercare aiuto. Il vento si era calmato, e i fiocchi cadevano radi e stanchi dopo la furia della notte. La campagna era scomparsa sotto la candida coltre e la strada si intravedeva appena. 
Le doglie stavano ormai montando, pure e dolorose. 
La ragazza camminava a fatica tra la neve alta,  sprofondando e risollevandosi, quando, allo stremo delle forze, cadde a terra priva di sensi. 
Fu in quella culla gelida e bianca che Aurelio venne alla luce.
Dalla casa in fondo al campo i vicini avevano visto sua madre arrivare, una piccola macchia scura sperduta nella distesa abbacinante, e le erano andati incontro appena in tempo per raccogliere il bambino dal suo grembo.
Erano passati tanti e tanti anni da allora, una vita intera, ed ora era Aurelio a lottare tra le coltri bianche di un letto d'ospedale, tra le fiamme ardenti della malattia. 
Era allo stremo. Il dolore mordeva, divorava. Stordiva. Brevi momenti di lucidità si alternavano a lunghi periodi di semi coscienza. 
Quando Aurelio vide avvicinarsi qualcuno,  pensò che fosse la solita infermiera venuta a somministrare la terapia antidolorifica. Ma poi si avvide del camicie bianco, di un lucore misteriosamente abbagliante e allora guardò meglio. Era una donna bellissima. I capelli scuri sulle spalle, la pelle diafana, gli occhi azzurri, limpidi come  piccoli vortici acquosi. La vide silenziosa, preparare la siringa. 
Lei chiese: "Sei pronto?"
 "Si, sono pronto" mormorò lui in un soffio "Solo, per favore, non farmi male"
"Non ti preoccupare" disse lei in un sussurro, con il sorriso tenero e sicuro di una madre al bimbo atterrito dalla notte. "Non ti preoccupare Aurelio. Vedrai, sarò dolce come la neve". 
E così come era arrivato tanti anni prima, Aurelio serenamente se ne andò.

*

E così sia

Una mattina la signora T. scese al piano terra della sua graziosa villetta per prepararsi un bel caffè. Appena entrata in cucina il suo sguardo fu attratto da qualcosa di scuro che si muoveva sul pavimento. Fece appena in tempo a riconoscere le sembianze di una lucertola, che quella si era già infilata al sicuro sotto un mobile. 

La signora T. non era certo il tipo da dare in escandescenze per gli sconfinamenti della natura in casa: quando si abita in campagna può capitare di trovarsi di fronte scorpioni, ragni, vespe, grilli, gechi e compagnia bella. In fondo l'unica presenza intollerabile  era quella di serpenti e ratti e quanto a quest'ultima categoria, in assoluto la più temuta, la nostra signora poteva dormire sonni tranquilli. Sì, perché si dà il caso che il suo giardino fosse allietato dalla presenza di una vivace famigliola di gatti, che benché venisse nutrita quotidianamente dalla benevola padrona di casa, sembrava soffrire di una fame atavica; sicché niente di commestibile poteva zampettare, strisciare, volare o saltare nelle immediate vicinanze, senza sfuggire  agli artigli di quei tigrotti del Bengala. 
Dunque la signora T. non si preoccupò affatto di quella innocua lucertola nascosta in cucina e pensò che prima o poi sarebbe uscita da sola per trovare da mangiare.
E però il tempo passava e del rettile clandestino non c'erano tracce. 
Il terzo giorno la signora T. decise che era giunto il momento di passare all'azione. Le possibilità erano due. O Lucy (come l'aveva candidamente battezzata la figlia della signora T.,una bambina che amava dare un nome a tutto) era riuscita a guadagnare la libertà, oppure,  divorata dalla fame e dalla sete, languiva allo stremo delle forze nel buio del suo nascondiglio. Nel qual caso la signora T. in qualità di perfetta padrona di casa, non avrebbe potuto tollerare che una sì palese violazione dei diritti animali si verificasse proprio sotto il suo tetto. 
No di certo. Le signore del circolo del burraco non avrebbero approvato. 
Così partì alla caccia, pardon, alla ricerca della sfortunata clandestina. E la scovò.
Armata di scopa e paletta intendeva invitare gentilmente l'ospite inatteso ad abbandonare casa sua, perché senz'altro c'erano posti più ameni nei quali una lucertola avrebbe voluto trascorrere i propri giorni. 
L'impresa si rivelò meno agevole del previsto, ma alla fine la signora T. grazie alla sua ostinazione prettamente femminile, con una piroetta, un colpo di scopa e un saltello, riuscì a caricare a bordo della sua paletta volante la povera Lucy  e a depositarla prontamente fuori dalla porta.
Ma, ahimè, la lucertola non fece in tempo a fare un metro che i famelici gatti le furono addosso. Mentre la povera codina, sottoposta a subitanea nonché coatta amputazione, ancora si dimenava sull'erba, la povera Lucy esanime penzolava tra le fauci feline. 
La signora T. assisteva basita al fiero pasto.
Dove aveva sbagliato?In fondo avrebbe voluto solo salvare un animaletto da morte certa e invece...No, si disse, non era stata colpa sua, ma della lucertola: era troppo lenta. Aveva avuto la sua possibilità e aveva fallito. E poi chi gliel'aveva detto di entrare? Se fosse rimasta al suo posto, a casa sua, forse sarebbe stata ancora viva. Ché pensava di trovare l'America nella sua cucina? E sì che era stata tollerante con lei, aveva cercato di aiutarla, ma con certi soggetti non c'é proprio niente da fare. Allora meglio che la selezione naturale faccia il suo corso! E così sia...

*

Caro diario

Caro diario,
mi sono innamorata di lui al primo sguardo. 
Ci incontravamo al mattino, quando io rientravo stanca al termine del turno di notte, e lui usciva per andare al lavoro fresco e riposato.
All'inizio cercavo di non passargli troppo vicino, perché non notasse il mio pallore, la stanchezza che mi segna il viso. Non è facile lavorare di notte e riposare di giorno, perché poi si finisce per non dormire mai veramente; la percezione del tempo si fa assai labile al punto che alle volte ho l'impressione che tutto vada avanti allo stesso modo da un'eternità. D'altra parte ad una osservatrice attenta come me di notte il mondo si offre in modi affascinanti e inaspettati. Sapessi quante ne ho viste...Eppure credo che la vita vera appartenga al giorno. Forse per questo sono rimasta affascinata da lui.
Alcune mattine ha l'aria insonnolita, è vero, ma la maggior parte delle volte ha un aspetto raggiante. Lo vedo  camminare con passo sicuro a schiena dritta, con una pelle dorata che è il ritratto della salute. Qualche volta si adombra, offuscato da chissà quale preoccupazione, ma poi di nuovo un sorriso gli illumina il volto ed io...non resisto.
Vorrei avvicinarmi, parlargli, toccarlo. 
Ma non posso.
Siamo troppo diversi. Io con i miei cambiamenti d'umore, la mia vita malinconica e solitaria, lui che invece sembra il padrone del mondo. 
Continueremo a guardarci ogni mattina ed ogni sera, ognuno dal suo lato della strada, senza mai incontrarci veramente. 
Caro diario, sono triste, ma mi ha fatto bene parlare con te del mio colpo di fulmine. Anzi, del mio colpo di Sole.
Tua,
                     Luna

*

La magnolia

Abitava, un tempo... No, abita ancora.

Io, abitavo un tempo un luogo. Di fronte, una giovane coppia di sposi.

Nel mezzo, un albero di magnolia. Altissimo, folto, maestoso.

In primavera grandi fiori bianchi, dolciastri e penetranti. A sera, le nere danze dei merli in amore. L'aria delicata. Le finestre aperte al cielo.

Poi un urlo.

Lungo, rauco. Agghiacciante.

Prorompe da quelle finestre, riempie il balcone, tracima, precipita a terra, si solleva sbalzato in aria, su per il tronco, assale i rami, irrigidisce le foglie, inorridisce i fiori, insegue i merli che tentano in volo la fuga e inarrestabile, raggiunge la casa, e il balcone e le finestre e le stanze e le mie orecchie e ME.

Lo conosco, dio mio, l'ho già sentito. L'ho sentito insorgere tanti anni fa dal profondo delle mie viscere, uscire dal petto, erompere dalla gola, farsi strada fra i denti e le labbra, e slanciarsi, liberarsi, fuggire, restando tuttavia incatenato al ventre che lo ha partorito. Mostruoso neonato latrante, imbrigliato al cordone ombelicale, incastrato tra la morte e la vita.

Abitava, un tempo, una giovane coppia di sposi. Ora, abita una vedova. Io sono altrove.

La magnolia, sta.