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Raccolta di testi in prosa di Rosa Maria Melchionda
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Un ultimo bacio

-Stella, c’è uno al bar che ti vuole.- annunciò Sam.
-E chi è?!?- chiese curiosa a suo fratello. Poi: -Sam, vado; tu guarda dov’è il babbo, per favore, e se necessario vieni ad avvisarmi, va bene?-
Fece un cenno a sua cugina Antonella perché la seguisse e si avviò fuori dalla sala del banchetto, verso il bar; lì c’era Carlo ed il cuore iniziò a batterle sempre più forte. Per la felicità nel vederlo, ma soprattutto per il timore che suo padre lo vedesse. Perché considerava sua figlia troppo giovane anche solo per pensarle certe cose!
-Ciao Carlo. Sono felice di vederti…ma che ci fai qui? Come hai saputo che eravamo qui?-
-Un uccellino me l’ha detto. Come va la festa? Ti diverti?- le chiese sorseggiando una birra.
-Mi diverto, va tutto bene. Ci sono i miei cugini a rallegrare la cena. Ma dovevi dirmi qualcosa?-
Carlo assaporò un sorso di birra socchiudendo gli occhi, poi la guardò intensamente, infine le confessò: -Mi fai uscire pazzo! Non sopporto il fatto che te ne vai, non sopporto l’idea che non posso farci niente, ma proprio niente!- e bevve tutta la birra che aveva nel bicchiere.
-Ma che fai? Vuoi ubriacarti? Perché bevi così? Non serve a niente, non cambierai le cose e sapevi fin dall’inizio che sarebbe andata così. E lo so, quando arriva il momento fa male lo stesso. Lo so bene anch'io...- ammise Stella allungando una mano e sollevandogli il mento per guardarlo negli occhi, occhi persi nel bicchiere vuoto, quasi a cercare una soluzione fra i lembi di schiuma che adornavano il vetro come i merletti sulle finestre. Fu sorpresa nel vedere lo sguardo annebbiato di Carlo annaspare sul suo volto, farsi duro, infiammarsi di un rosso acceso e brillare fra le lacrime trattenute.
-Non te ne andare…non farlo! Sono stato di nuovo troppo bene con te…Domani ce la farai ad uscire per vedermi e salutarmi? Non penso. Sono venuto qui per questo. Voglio un ultimo bacio…- disse Carlo.
-Ma sei matto? Matto del tutto! Qui, pieno zeppo di parenti, con mio padre dietro l’angolo? Non esiste! Non posso!- protestò Stella.
Carlo le si avvicinò minaccioso, ma una mano lo fermò. Era Matteo. Aveva notato che sua cugina stava parlando con un ragazzo che ingurgitava birra, così era rimasto nei paraggi per controllare la situazione ed intervenire nel caso si fosse presentato un problema: non si poteva rischiare che qualcosa o qualcuno rovinasse la festa di Davide, il primo della grande famiglia che si era sposato.
-Ciao. Ascolta, adesso ti calmi e vieni fuori con me…Non vorrai che Stella si arrabbi, perda rispetto per te e non voglia più vederti quando tornerà le prossime volte- lo redarguì Matteo.
Carlo comprese, addolcì lo sguardo, abbozzò un sorriso amaro, quindi salutò Stella attardandosi a fissarla come fosse l'ultima volta e seguì Matteo fuori dal locale.
Antonella le si avvicinò, le strinse un braccio per mostrarle comprensione e restò con lei quando volle andare a controllare cosa stesse accadendo fuori. Matteo e Carlo stavano parlando tranquilli, poi suo cugino diede una pacca sulla spalla al suo interlocutore e i due si salutarono.
Stella sospirò e appoggiò una mano su quella di sua cugina, pienamente intenzionata a far sparire quel velo di malinconia e tornare, per quanto possibile, serena alla festa di nozze.
-Dopo quasi due anni...- Il pensiero la trasportò indietro nel tempo, a quell'estate durante la quale conobbe Carlo; a quando, dopo un lungo corteggiamento, si lasciò baciare, con il sole rosso acceso del tramonto che accendeva le sue guance di ragazzina inesperta. Perché era il suo primo vero bacio, la prima volta delle farfalle nello stomaco, sensazione che avvolse piacevolmente tutta se stessa.
Stella abitava al nord, a chilometri e chilometri di distanza e per quanto entrambi fossero presi l'uno dall'altra, sapevano che, con la fine dell'estate, non potevano pensare di promettersi un futuro insieme. Lei partì alla fine della stagione per tornare a casa e non lo rivide più, né quando tornò per le vacanze di Natale, né per quelle di Pasqua, né oltre. Fino a due settimane prima, quando, a passeggio per il paese con le cugine ridendo per i molteplici tentativi di approccio dei ragazzi del paese, se lo ritrovò davanti, in compagnia di amici. Le sorrise, lei ricambiò, ma non proferirono parola, visibilmente imbarazzati; Linda le toccò un braccio in segno di coraggio, ma lei non riusciva a pronunciare neanche una sillaba.
-Ciao Stella- disse deciso Carlo e Stella si sbloccò. Iniziarono a parlare allontanandosi piano piano dagli altri; gli argomenti divennero sempre più intimi, lui finì con l'abbracciarla.
Stella si irrigidì, sciolse quell’abbraccio con Carlo, divincolandosi piano piano e gli disse: -Sei stato e sei molto importante per me, sei il mio primo vero ragazzo. Mi fa un gran bene questo tuo interesse, ma stare di nuovo insieme non ha senso: vivo lontano, ed è già questo un ostacolo, lo abbiamo visto; poi sono innamorata del mio secondo ex ragazzo e fra tre giorni riparto, quindi …-
-Ma torni a luglio…Posso aspettare, che ci vuole! Sono appena due mesi e mezzo!- incalzò il ragazzo. -E tu pensi che io riesca a vivere tranquilla per tre mesi lontana e tu con tante ragazze in giro, vicine…no, no! Non fa per me. Comunque, te l’ho detto, sono innamorata.-
-Sì…di uno che non ti vuole più! Io, invece, mi butterei nel pozzo per te!- si infervorò Carlo. A Stella sfuggì un sorriso sarcastico e lui, risentito, si allontanò. Stella lo chiamò un paio di volte invitandolo a raggiungerla e finalmente Carlo si fermò, si ricompose e con un gran sorriso tornò sui suoi passi. Fu quel sorriso, in quel momento, che la spinse a decidere di prendere la vita con più leggerezza. Ma sì! Aveva quindici anni, in fondo, e poteva anche permettersi di vivere alla giornata. Al bando pensieri, riflessioni, valutazioni, abbracciò il suo pazzo spasimante promettendo che sarebbero stati insieme fino alla sua partenza, poi…che andasse pure come doveva andare. Non vivevano certo su una nuvoletta rosa, conoscevano la loro realtà...i patti erano chiari. E Carlo in quei giorni la coprì di attenzioni, fu molto protettivo e soprattutto molto divertente; fece buon viso ogni volta che lei frenava i suoi tentativi di spingersi oltre gli abbracci ed i baci; accettava di buon grado quei limiti, diceva, pur di trascorrere con lei quel tempo a disposizione.
Quei pochi giorni insieme volarono tra le risate, gli scherzi, le passeggiate con gli amici, le cugine e i cugini e la ricerca di luoghi sicuri, lontano da sguardi indiscreti, per stare anche da soli.
Stella viveva con l'orecchio teso per capire se Carlo fosse in girata attorno alla casa dove era alloggiata, quella di sua zia Carmela; il rombo della vespa era il segnale per dirle che stava pensando a lei, che stava aspettando lei, che lui era libero di incontrarla. Un'occhiata d'intesa con Linda o Antonella e lei si precipitava ad una finestra o in terrazza per mostrarsi al ragazzo e fargli il cenno concordato per -Sì, esco...- oppure -Non esco adesso-. Con le dolci palpitazioni che quegli episodi le provocavano rientrava e si attivava per organizzare la passeggiata, utile ad incontrarlo.
Quei giorni erano finiti. Con il matrimonio di Davide si era concluso il periodo di ferie straordinario che l'aveva riportata al sud. Il giorno seguente, infatti, partì con la famiglia, senza rivedere Carlo. Lasciò alla cugina Antonella il compito di salutarlo da parte sua, con le sue scuse per l'ultimo bacio non dato.
Tornava alla sua vita, piena di scuola, libri, interrogazioni...Non aveva alcuna voglia di tornarci. Nessuno, là, desiderava stare con lei come lo desiderava Carlo in quel momento. Ma sarebbe andata avanti, avrebbe continuato il percorso di riscatto appena iniziato insegnando al suo cuore a guarire dall'amore che ormai non era più corrisposto. E tutto sarebbe andato bene.



*

Cinque minuti di una vita

Cinque minuti di una vita



Anche quella mattina, guardandomi allo specchio dopo essermi lavata il viso, feci una smorfia di disappunto. Quella miriade di brufoletti rossi che avevano ricoperto lo strato di pelle dal naso agli zigomi, seguendo la linea del contorno occhi, non era sparita durante la notte. Da qualche giorno, per causa loro, mi sentivo impresentabile in pubblico; eppure dovevo uscire di casa, dovevo lavorare.
Le colleghe mi dicevano che poteva essere una reazione al caldo afoso ed improvviso di quell’inizio di giugno, giugno di un anno bisestile, quello del 1996.
Scherzavano, anche, prendendomi in giro: “ Dai, sarà l’acne giovanile ! “
Ed io: “ Sì, a trent’anni suonati! “ , tornando a dedicarmi alla grande gioia di seguire i piccoli della sezione semidivezzi dell’asilo nido comunale presso il quale lavoravo.
Mentre mi cospargevo il viso con una crema nutriente, ed idratante, mi rattristai al pensiero che di lì ad una ventina di giorni sarebbe scaduto il mio contratto di lavoro ed avrei dovuto lasciare quel posto, quei bambini, quelle educatrici che tanto mi avevano insegnato, la cuoca e le bidelle che con la loro affabilità e disponibilità a collaborare contribuivano a creare un ambiente sereno e piacevole.
Ma la miglior qualità era la … la pazzia … cioè la voglia di essere sempre allegre, riempiendo le giornate di gioia di vivere. Erano “matte schiante “ , per dirlo in gergo dialettale. Ed io ero come loro.
Inforcai la bicicletta e coprii la distanza fra casa e lavoro con un certo affaticamento fisico, affaticamento non previsto per un corpo allenato con la danza; nelle narici un odore forte trai veicoli incolonnati nel traffico dell’ora di punta: sembrava stesse bruciando una gran quantità di pneumatici. Ma le mie colleghe non avvertivano quell’odore, anzi affermavano che l’aria di quella mattina era quasi frizzante e quindi piacevole.
Ritenni di essere alquanto stressata e la prova era il ciclo che stentava ad arrivare.
Manuela, una mia collega che ascoltava in silenzio le mie lagnanze, disse:
“Per me dovresti prendere in considerazione un’altra cosa. Dovresti fare il test …”
Le chiesi: “ Quale test? “. Cinzia, l’altra collega, l’anticipò: “ Quello di gravidanza! “
La fissai, iniziai a scuotere la testa e: “No, no, no … non può essere … No! Sono stata attenta come sempre. E’ impossibile. Arriverà, vedrete! “ volli rassicurarmi. Ma non potei più negare che il ritardo mi stava preoccupando.
Terminato il turno, giunta a casa, avvertii dei dolori al ventre, decisi allora di recarmi in farmacia il mattino dopo.
“ Vorrei un test di gravidanza, per favore “ dissi al farmacista con un certo pudore, mettendomi una mano sulla pancia.
Lui mi chiese sorridendo: “ Di quanti giorni è il ritardo?”
Risposi con un filo di voce: “ Quattro …”
Il dottore riprese: “ Ecco il test per una diagnosi così precoce … ma osservandola e notando le sue smorfie di dolore posso dirle senza ombra di dubbio che lei è incinta. I miei migliori auguri! “ con un sorriso di felicità che mi paralizzò.
INCINTA? Quella parola frugò nella mia mente per trovare il suo posto, ma in quell’attimo era come se io non sapessi neanche che esistesse. Ringraziai e salutai decidendo di rimandare ogni considerazione a più tardi. L’unica cosa certa in quel momento era la decisione di non andare all’asilo in bicicletta, ma in auto, così non avrei sentito quell’odore di gomme bruciate, ma mi sbagliavo, mi perseguitò ancora.
“ Buon giorno, acne giovanile! Come va? ” mi accolse Cinzia.
Le risposi: “ Fastidi al basso ventre … Buongiorno. Ho comperato il test. Il farmacista ha sentenziato che sono incinta … Ho paura di farlo … Ma non voglio aspettare fino a stasera.“
Cinzia restò sorpresa, mi propose di aspettare Manuela che copriva il turno del pomeriggio e mi consigliò di usare il test subito, loro sarebbero state lì con me. Arrivate le tre educatrici del pomeriggio e le collaboratrici, l’organico, con la cuoca già all’opera da qualche ora, era al completo; quello poteva essere il momento giusto per chiudermi in bagno per i cinque minuti più importanti in assoluto della mia vita: la potevano cambiare e stravolgere definitivamente. Furono interminabili. Nell’attesa mi dissi che sì, ero innamorata di Massimo, quel folle pieno di energie che definivo un grillo per la sua incapacità a restare tranquillo per due minuti due … ma stavo con lui da pochissimo. Cioè da metà novembre!
Lui era così preso da me che a febbraio, passando davanti alle vetrine del negozio di arredamenti vicino casa sua, mi chiese di scegliere il tipo di cucina che mi piaceva di più perché in settembre voleva sposarmi! Troppo presto, troppa fretta … tanto entusiasmo non mi faceva star tranquilla. Non ci conoscevamo ancora e non c’erano le basi per costruire un matrimonio. Glielo dissi una domenica sera che ci vedemmo eccezionalmente da soli a gustarci un’ottima pizza. Obiettò che avevamo trent’anni, avevamo vissuto esperienze, aspettare anni non aveva senso, non ce lo potevamo permettere per avere figli … Perché ne voleva.
“ Ce la sapremo cavare. E poi, per conoscermi, bastano cinque minuti … Sono tutto qui, sono quello che vedi, sempre me stesso. Sono un uomo semplice.” aggiunse.
Cinque minuti …
Aveva intenzione di mettere su famiglia … da tre anni aspettavo un uomo che avesse simili progetti! Però parlavamo poco di noi, lui diceva che era importante il presente e non desiderava infilarsi in discorsi sul passato… mi inquietava perché gli individui sono il risultato di tante storie e vicende del passato e per conoscersi bene non si può ignorarle! Abitavamo a 40 km di distanza, lavoravamo, questo sicuramente aveva il suo peso, non avevamo tanto tempo per stare insieme … mi dicevo, quindi avevamo bisogno di più tempo per crearci quella complicità, quella confidenza, quella tenerezza alla base di un legame intimo e profondo.
Adorava le uscite in compagnia, le serate a far baldoria come le adoravo anch’io, ma non potevano bastare, per noi come coppia.
La mia mente iniziò a ripercorrere gli avvenimenti del mese di maggio per capire se ci fosse la possibilità di aver … fatto la frittata!
Beh: sabato 25, l’uscita con Massimo ed il gruppo di amici fino a tardi, molto tardi; la richiesta di fermarmi a dormire nella sua casa di campagna a Monte Paganuccio, evitandomi i quaranta chilometri di strada per tornare a casa mia, che accettai di buon grado perché ero piuttosto stanca per guidare. E fu una notte unica. Mai prima. Completamente fuori dal mondo e da ogni realtà.
Poco prima di addormentarmi, quando ormai albeggiava, mi soffermai a pensare al mio corpo, convincendomi che mi ero lasciata andare nel periodo giusto del mese e scivolai in un sonno sereno … Ma avevo sbagliato i miei calcoli, di 12 ore.
A questa distrazione avevano contribuito la stanchezza e lo stress della preparazione dello spettacolo di fine anno con la scuola di danza, l’influenza con febbrone da cavallo curata con l’antibiotico dei tre giorni e la conseguente debilitazione fisica e mentale … sì, era andata così.
I cinque minuti trascorsi nel bagno dell’asilo nido terminarono. Trepidante presi il test, guardai nel piccolo riquadro e poi lessi le istruzioni sul foglietto: POSITIVO!
Iniziai a tremare, mi si appannò la vista e scivolai sconfitta sul pavimento.
“No no no, non è possibile! Proprio adesso no! Che cosa ho combinato?!!” La testa mi scoppiava, il cuore martellava all’impazzata e sentii bussare con insistenza. Era Manuela, era preoccupata, mi feci coraggio, mi alzai, aprii e lei capì. Mi prese le mani, mi guidò fuori e mi intimò di respirare lentamente e profondamente.
“Sono stata attenta. Non è così che volevo restare incinta! Volevo prima sposarmi … e non sposarmi perché ero incinta! Ho sbagliato tutto. Nella mia vita non me ne è andata una come volevo, come l’avevo sognata, come l’avevo progettata …” imprecai. “Non ho ancora un lavoro sicuro, non ho una casa … dovrò trasferirmi tra i monti, lontano dal mio adorato mare, vivere nell’appartamento sotto a quello dei miei suoceri, in un paesino dove non conosco nessuno … quasi non conosco neanche il mio futuro marito!” mi spiegai. “Mi ha incastrata Monte Paganuccio …”
Manuela mi consigliò di rifare il test, per sicurezza del risultato e nel frattempo in quegli altri cinque minuti, mi aiutò a riflettere con calma sulla mia situazione: avevo 31 anni … ormai era ora di fare figli e i chilometri non erano che un ostacolo insignificante grazie alla superstrada. Avrei potuto rivedere il mare ogni volta che avrei voluto. Massimo aveva il lavoro vicino casa ed io ero sulla buona strada per ottenere il posto fisso; intanto, nei momenti da disoccupata mi sarei goduta il mio piccolino tutto il tempo!
Anche se lo shock non lo avevo superato, quando vidi il secondo test ero più tranquilla. Riuscii a sorridere davanti al responso POSITIVO perché avevo finalmente focalizzato che il sogno più grande della mia vita fin da bambina era stato quello di diventare madre e lo stavo realizzando.
“Ok ok ok. Manu, puoi chiamare la Cinzia? Voglio anche lei con me, per favore. Chiedi un minuto di collaborazione alle altre con i nostri bambini, devo telefonare a mia madre” e mi commossi immaginando quale sarebbe stata la reazione di quella donna con una vita di sofferenze e difficoltà alle spalle.
“Ma dov’è tua madre? Fa che non sia da sola, una notizia come questa può farle venire un colpo!” fu la preoccupazione di Cinzia quando fu messa al corrente dell’esito del secondo test e delle mie intenzioni. Mentre componevo il numero di telefono dissi:
“E’ al lavoro, in ospedale. E’ in una botte di ferro, non c’è miglior posto per svenire!”.
Le due colleghe risero ed attesero in silenzio; alla caposala del reparto maternità chiesi di passarmi mia madre, lei da premurosa ed affettuosa quale era, volle sapere se c’erano problemi e se stavo bene: non chiamavo spesso, quindi … La rassicurai, stavo bene, ma in effetti dovevo comunicare qualcosa di importante.
“Mamma ciao. Come va? A che ora torni a casa? Tutto bene, stai tranquilla … E’ che devo dirti una cosa … Diventerai nonna …”.
“Cosa? Cos’hai detto?”
“Ho detto che diventerai nonna!” ripetei.
“Davvero? Dai, non scherzare!” disse mia madre. Le assicurai che non stavo scherzando, avevo fatto il test due volte e lei:
“Diventerò nonna?!! UH cosa mi dici! Gioia mia …” e poi silenzio. La chiamai più volte, mi rispose la caposala:
“Tranquilla, è svenuta. Tu però potevi dirglielo in un altro modo!” mi rimproverò bonariamente.
Poi sentii: “Amore, sto bene. Oh Signore che notizia bella! Ci vediamo a casa. Grazie, grazie. Un bacio” mi salutò, un po’provata. Riattaccai, avevo gli occhi lucidi, Manu e Cinzia mi abbracciarono e mi chiesero di Massimo; sapeva del mio ritardo, la sera prima non aveva chiamato ed io neanche; avrei aspettato ormai la sera per dirglielo, prima delle 18:30 non era mai a casa. Andammo in giardino a riprendere il nostro lavoro e ad annunciare l’importante novità che mi riguardava.
Fui festeggiata dalle altre con baci, abbracci ed auguri; la cuoca, durante il pranzo nella cucina d’emergenza che da qualche mese occupavamo nell’ala dell’edificio messa in sicurezza dopo un crollo, volle brindare con tutte noi con quel bicchierino di vino che ci concedevamo per il pasto:
“A te e a noi! Questa notizia ci allontana ancora un po’ da quel giorno tremendo del crollo del soffitto della cucina! Siamo tutte insieme e siamo felici! Auguri!!”.
Già, il crollo. Cinque minuti prima e l’enorme macigno non avrebbe squarciato soltanto la mia sedia di metallo … Le macerie non avrebbero rotto e rovinato solo tavoli, credenze e ripiani … Avevamo appena terminato di pranzare, eravamo tornate tutte alle nostre attività …
Cinque minuti …
La mia mamma stava riordinando la cucina quando presi la cornetta per chiamare Massimo; avevamo mangiato mano nella mano, avevamo parlato a lungo per trovare in anticipo una soluzione ad ogni possibile difficoltà. Grande mamma!
La telefonata con Massi fu sorprendentemente deludente: fu impacciato nei preamboli, sbrigativo nel rispondere alle mie domande … forse aspettava con ansia notizie sul mio ritardo fisico e quando gli rivelai che ero incinta restò in un silenzio che mi spiazzò. Chiesi se fosse ancora lì, rispose che solo le analisi in ospedale erano sicure, allora lo rassicurai, le avrei fatte il mattino dopo, ma i metodi moderni erano affidabili. Gli chiesi a che ora sarebbe arrivato e lui:
“Perché? Per cosa?”. Altra delusione. Aspettavamo un bimbo, potevamo stringerci, parlare … Concluse, pratico:
“C’è poco da parlare, sappiamo cosa dobbiamo fare. Se vengo giù non risolvo niente. La frittata è fatta. Avremo tempo per stare insieme. Tutta una vita.”.
Lo salutai senza insistere oltre, né aggiungere altro. Cinque minuti che mi preoccuparono.
Chi era quell’uomo con cui stavo per mettere su famiglia? Mi lasciava sola in un momento simile! Ma poi il cuore mi suggerì che piuttosto lui aveva bisogno di digerire la notizia così come ne avevo avuto bisogno io.
Le analisi confermarono la gravidanza. Piansi per la commozione e Massimo si mostrò felice, ma anche spaventato da ciò che l’arrivo del bimbo comportava. Mentre io informai subito il resto della mia famiglia, lui non riusciva a decidersi di informare la sua: aveva bisogno di tempo per essere in grado di dare una tale notizia nel miglior modo possibile. Ma poi il tempo arrivò.
Il 28 giugno 1996 chiesi a mia madre di accompagnarmi con l’auto al lavoro; improvvisamente un dolore acuto e insopportabile al ventre mi fece urlare e piegare su me stessa. Mia madre corse a telefonare in ospedale e all’asilo, mi caricò in macchina, mi fece scendere davanti alla porta di ingresso del reparto maternità dove mi attendeva un medico con la caposala per condurmi subito nella stanza delle ecografie.
“Ecco, siamo pronti. Tranquilla, vediamo come sta il piccolino … Bene bene bene. Quel puntino che si illumina è il suo cuoricino. Batte. E’ tutto a posto.” mi rassicurò l’affascinante dottor Perrella.
“Guarda Anna! Quel puntino che si illumina è il tuo nipotino!” spiegò la caposala a mia madre. “Diventerai nonna, Anna!”.
Lei si fece sfuggire un singhiozzo, gli occhi le si riempirono di lacrime e poi rise al commento che seguì: “Auguri nonna! Tuo nipote è bellissimo! Dai, non piangere! ”. Lei obiettò che era solo un puntino quello che si vedeva, come faceva a dire che suo nipote era bellissimo? Si stava burlando di lei, lo aveva capito, quindi lo ringraziò per gli auguri.
Fui ricoverata per un inizio di distacco di placenta, ero intimorita e preoccupata per il mio bambino, accettai tutti i prelievi, i controlli, la cura e la prescrizione di assoluto riposo con sollievo; non ero mai stata ricoverata prima, grazie a Dio, e presi la novità come un’esperienza in più da vivere.
All’ora di pranzo informai Massimo dell’accaduto e quella sera corse a trovarmi, accompagnato dai suoi genitori che solo da qualche giorno erano stati informati dell’arrivo del primo nipotino e facendo quindi la nostra reciproca conoscenza.
I miei fratelli entrarono nella mia stanza con aria preoccupata: volevano diventare zii, gli era piaciuta l’idea dopo la sorpresa iniziale alla notizia del lieto evento. Ma stavamo bene, noi.
In quei giorni di riposo assoluto pensai molto, misi insieme i tasselli della mia vita e provai, alla fine, preoccupazione per il mio futuro, tanta stanchezza mentale, tanta voglia di tornare alla mia routine, ma lessi anche tante notizie serie e frivole sui settimanali, conobbi persone che condividevano difficoltà nella gravidanza, focalizzai ogni giorno di più che una creatura si stava formando dentro di me.
Il ginecologo De Marchi, ad un certo punto, mi disse che la cura stava ottenendo i suoi effetti, ma sarei dovuta restare in ospedale ancora qualche tempo, per essere sicuri del mio assoluto riposo. Si sa che a casa si può sgarrare.
“Può andare via, ma il rischio di complicazioni gravi aumenta. Decida lei. Ci pensi un attimo. Se vuole portare avanti la gravidanza resti qui.”
Per una minuscola frazione di secondo mi sfiorò l’idea che sarebbe stato facile evitare il matrimonio affrettato con uno quasi sconosciuto…bastava andare a casa. Sarebbe stato facile evitare lo sconvolgimento, tornare alla mia vita e ritrovare il tempo per fare le cose per bene … ero così stanca!
Ma qualcosa mai provata prima mi scosse come un getto di acqua gelida e mi ricordò che in quella situazione ci ero finita perché aspettavo un bambino, mi era arrivato il DONO di un figlio! Senza più attendere risposi di getto che sarei rimasta anche per un mese intero! De Marchi mi disse che non era necessario, sarei potuta andare al mare per tutta la stagione godendomi il riposo di quel periodo, forse l’ultimo per tanto tempo, una volta nato il bambino.
In quei cinque minuti decisi veramente della mia vita e da quel momento divenni madre per sempre.
Quando lasciai l’ospedale mi dispiacque, lo confesso, ero vissuta in un limbo sereno e fuori mi aspettavano i lavori per la casa, la sarta per il vestito da sposa, la scelta del ristorante, ecc. Andai a casa di Massimo anche se mi sentivo debole e frastornata, per dare il via a tutto, per preparare il nido al mio piccolino…sapevo con certezza che era un maschio.
Tornai alla mia città di lunedì mattina, dopo aver salutato tutta la famiglia che si era recata al lavoro; sulla via del ritorno, ad una manciata di chilometri da casa mia, un’auto mi tamponò non essendo riuscita a fermarsi in tempo ad uno stop. Fui presa dal panico, ripetei in continuazione che ero incinta, fu chiamata l’ambulanza e tornai in ospedale.
Restai quasi immobile sulla barella per tutto il tempo prima che dal Pronto Soccorso mi portassero in reparto per un’ecografia, le mani sulla pancia per proteggere la creatura, la preoccupazione di avvisare mia madre che si trovava fuori città.
“E’ forte questa creatura!” mi disse più tardi il mio medico. “Sta benissimo. Nessun pericolo, segua la cura e tutto andrà bene. Può andare a casa”.
Sì, andò bene, il piccolo fu davvero forte. Le nostre avventure fino alla sua nascita non finirono lì e forse per questo dal primo sguardo che ci fece conoscere si creò un legame speciale e profondo. Oggi sono la sua mamma orgogliosa e felice di avere avuto in dono quei cinque minuti che hanno stravolto la mia vita.
Pensando e ripensando a come sono andati i fatti, in tutti questi anni ho capito che il mio bimbo doveva nascere, doveva arrivare nel nostro mondo: lui era pronto, nel suo. Mi aleggiava sopra da due anni…me lo avevano detto…non ci avevo creduto al momento, ma…ma questa è un’altra storia…

(2015)








*

Ultimi giorni d’estate

Ultimi giorni d’estate

Romina aiutò la madre nei lavori domestici, così il tempo le passò più in fretta e finalmente arrivò Serena.
Desiderava fare qualcosa per poter avvicinare Giulio,qualcosa che le desse l’opportunità di fargli capire che lei non era innamorata di Pippo,ma di lui e aveva bisogno di un consiglio.
“Perché non organizzi un festino da te?“ fu l’idea di Serena. “ Inviti tutti,lui verrà con gli altri e farai in modo che capisca che non hai mai creduto che fra voi fosse finita davvero. Si presenterà l’occasione vedrai. Senza Pippo il messaggio sarà chiaro. Non ci sarà,vero?”
“ No. No di certo! Inviterò soltanto quelli della compagnia del quartiere. L’idea mi piace. Mi piace proprio.“
“Ok,potremmo giustificare il festino come un’occasione per ritrovarci dopo le nostre vacanze e per salutare l’estate che è ormai alla fine” suggerì Serena.
“ Sì,perfetto. Quando cominciamo ad organizzarci?” chiese l’altra impaziente mordendo il freno.
Le due amiche riuscirono nel loro intento nel giro di pochi giorni,grazie anche alla collaborazione delle ragazze della compagnia che,dietro l’invito di Romina,si erano offerte di dare una mano per i preparativi; anche i maschietti avrebbero voluto dare il loro contributo,spesso è più divertente la preparazione della festa che la festa stessa,ma è pur vero che “troppi galli a cantare non fanno giorno“ :in tanti si sarebbe creata solo confusione.
Romina si guardò più e più volte allo specchio,trovava mille difetti al suo aspetto. Serena fu costretta a strapparla alla mattonella che i suoi piedi stavano logorando girandosi e rigirandosi su se stessa,sbuffando e guardando l’orologio.
“Ma come fai a non vedere quanto sei carina?Stai benissimo! Muoviti,stanno arrivando e tu devi essere di sotto a fare gli onori di casa. Sbrigati!“
“Ok ok arrivo.” Promise Romina staccandosi dallo specchio. Un respiro profondo e:
“Devo piacergli così come sono,altrimenti … beh,buon viaggio signor Giulio!Ora vai Romina e fatti valere …“ si disse e seguì l’amica giù in garage.
Il tavolo era pieno di vivande,lo stereo era in funzione,la musica era pronta ed il rombo dei primi motorini che si fermavano nel parcheggio le fecero arrivare i battiti del cuore fino alle guance,che presero colore come due ciliegie. Ben presto la stanza si riempì,Sergio si fece subito notare salutando l’ospite a malapena e fiondandosi sul buffet;ma inciampò e si salvò dalla caduta planando su una delle ciotole colma di patatine,che per un miracolo non si rovesciò. Silenzio. Guardò i volti incuriositi degli amici e disse:
“Sì,volevo proprio le patatine … si è capito?”
Qualcuno rispose:“ Nooo! Ma scherzi?”
E lo scroscio di risate che ne seguì debellò la tensione di Romina che invitò tutti ad accostarsi al rinfresco mentre Sergio arraffava le patatine,se ne riempiva la bocca con la giustificazione che ormai le aveva toccate!
Lo vide,finalmente. Era davanti allo stereo,armeggiava con dischi e musicassette. Gli si avvicinò con una certa trepidazione e lo salutò:
“Ciao. Sono felice di vederti e di averti qui.”
“Ciao. Grazie per avermi invitato. Avete fatto un buon lavoro e credo che il festino riuscirà. Siamo tutti o deve arrivare qualcun altro?”concluse allusivo.
“Siamo tutti.”precisò lei,fissandolo con tutta la dolcezza di cui era capace. Giulio sembrò rilassarsi,le chiese se poteva iniziare con la musica.
“ Ma certo. Scegli pure quello che preferisci!”.Qualcuno la reclamava,gli sorrise e si allontanò.
La festa fu un successo,si ballò sempre,sintonizzando lo stereo sulla radio locale quando dischi e musicassette non soddisfacevano più; Fabio,Max e Sergio furono incorreggibili come sempre quando erano insieme e Giulio veniva immancabilmente coinvolto nei loro scherzi e nelle loro “mattate”.
Romina era felice:Giulio le aveva sorriso per tutto il tempo,aveva ballato con lei,le aveva circondato le spalle in più occasioni debellando ogni tensione fra loro,ristabilendo un sereno rapporto di amicizia. Era un inizio. Si guardò intorno più volte,voleva,doveva dirlo a Serena, altrimenti sarebbe esplosa. Ma non la trovava.
Ben presto gli amici,ad uno ad uno,la salutarono ringraziandola per il bel pomeriggio,lei era in pensiero per l’amica,non capiva come mai fosse sparita senza dirle nulla,ma nel frattempo iniziò a rigovernare la stanza del garage ormai vuota,entrò nella stanzetta adiacente per prendere scopa,paletta e sacchi neri e sobbalzò: nell’angolo più nascosto c’erano Sergio e Serena che parlottavano a voce bassa,vicini vicini,dolcemente abbracciati. Anche loro ebbero un sussulto quando si accorsero di lei che li stava guardando con le mani sui fianchi.
“ Vi siete rifugiati qui,eh? Mi avete fatto prendere un colpo! Va bene,va bene,l’importante è che abbiate chiarito. Adesso però mettevi all’opera per aiutarmi a ripulire. Tu Sergio impegnati con qualcosa,stanno arrivando mia madre e mia nonna Maria e non oserebbero protestare per la tua presenza qui,con noi due,se … se … ti vedessero,ecco,riempire questi sacchi … Forza, forza,datevi da fare!” li incitò Romina,felice come non era da tempo.
Al mattino seguente Romina si svegliò con i postumi di un pieno di emozioni: aveva baciato nonna, mamma e fratelli come una farfalla svolazzante;canticchiava e volteggiava in ogni cosa che faceva,anche in garage mentre armeggiava con la lavatrice. Ad un tratto si sentì chiamare:
“ Vieni su,ti vogliono!“
Curiosa di sapere chi la stesse cercando,si incamminò di buon passo e prima di poter attraversare il giardino un’ombra saltò fuori da dietro la siepe e la fece strillare per lo spavento.
Davanti ai suoi occhi si materializzò un coloratissimo bouquet di fiori che la sorprese,quindi vi fece capolino il volto di Giulio con un sorriso a quaranta denti! Romina rimase letteralmente a bocca aperta ed i suoi occhi erano grandi,fissi,rapiti da ciò che vedevano.
“Per dirti grazie per aver organizzato la festa;una festa riuscita,che speriamo non rimanga l’unica “ disse lui.
Spuntarono alcuni amici che le si avvicinarono,volevano unirsi a Giulio per i ringraziamenti,precisando però che l’idea dei fiori era tutta di lui,di Giulio.Si sarebbero visti tutti più tardi al mare.
Romina si chinò per raccattare gli zoccoli prima di infilare i piedi nella sabbia. Portò la mano sulla fronte per riparare lo sguardo dalla luce del sole e poter così individuare il punto della spiaggia scelto dai suoi amici;gli zoccoli le urtarono lo zigomo ma non ebbe tempo per avvertire la botta perché intravide prima Giulio ed il cuore le fece un balzo. Si avviò abbassando il braccio e facendo ciondolare le calzature che rintoccavano ad ogni passo. Giulio si staccò dal gruppo per andarle incontro, le si fermò davanti e:
“Ciao, bellezza! Aspettiamo te per fare il bagno. Dove hai messo i fiori?Ti sono piaciuti?Ho avuto gusto nella scelta? “.
Sorridendo divertita rispose:
“Ciao bellissimo. Gentili ad aspettare me. Li ho messi nel soggiorno in bella vista e … Sì. Sì.”
Lo vide rilassarsi ed aggiunse:
“Sei stato davvero gentile. Conserverò quei fiori per sempre.“
“Peccato che i fiori appassiscano …“ ribatté Giulio con tono più dolce.
“Dove penso di conservarli io,non appassiranno mai!“
La guardò con quella luce negli occhi che lei aveva conosciuto bene all’inizio di quell’estate,fece un passo verso di lei e continuando a guardarla le sfilò piano piano il telo da mare dalla spalla.
“Forse ho capito. Nel tuo diario. Li conserverai scrivendo che hai ricevuto dei fiori dal tuo ex,un dolce e stupendo ragazzo!Puoi solo scrivere,perché non credo tu riesca ad infilare tutto il bouquet fra quelle pagine!“.La sua espressione divenne più seria e continuò:
“Certo è che questa volta puoi raccontare qualcosa di più piacevole,vero?“ affermò allusivo e riprese quasi senza prendere fiato:
“So che hai scritto della delusione che ti ho dato,anche se ti avevo chiesto di non farlo. Era impossibile che tu non ti sfogassi per il dolore che provavi. L’ho letto nei tuoi occhi quel giorno e mi sono pentito subito di averti lasciata.“
“Sì,ho scritto,perché scrivere quello che mi succede è parte di me,mi aiuta. Sempre. Ieri ho scritto qualcosa di più piacevole,decisamente.“ gli confessò Romina.
“Il bacio ve lo darete in acquaaa! Adesso venite qui,vogliamo entrarci in quell’acqua! Dài giù!“ gridò Sergio che si teneva stretta la sua Serena.
Risero entrambi e si incamminarono mentre Giulio commentava: “Mi piace il suggerimento di Sergio.”
Romina gli chiese: “Quale dei due?“
Lui:“Il primo.“
Lei non riuscì a dir nulla tanto era emozionata. Quel farabutto le fece notare che non occorreva arrossire,i suoi baci li conosceva e se avesse voluto ricordare...lui era disponibile.
“Vuole proprio farmi svenire dall’emozione!“ pensò Romina;lasciò cadere zoccoli,pantaloncini e canotta e si avviò in acqua a braccetto con le amiche.
Giulio allungò il telo di Romina vicino al suo,le prese indumenti e calzature là dove lei li aveva lasciati e li ordinò vicino al telo,come se stesse riorganizzando,con quei gesti,anche le sue idee.
Un fruscio di piedi che sfiorano velocemente la sabbia bagnata,un guizzo d’acqua che diventa uno scroscio,corpi che si rotolano in aria fra gli schizzi provocati dalla loro corsa e le ragazze si ritrovarono completamente bagnate ed infreddolite in un nano-secondo,emettendo gridolini per il contrasto fra la pelle calda di sole e l’acqua fresca di mare: i maschi erano entrati per il bagno come bufali.
Romina brontolò, ma non poté aggiungere altro: le arrivò una manciata d’acqua salata in piena faccia che le riempì bocca e occhi. Portò le mani al viso, boccheggiò liberandosi dell’acqua che la soffocava e quando si fu ripresa dallo shock immerse le mani sotto la superficie e spinse verso l’alto con tutta la forza,provocando un discreto getto su Giulio.Si scatenò un putiferio perché i ragazzi risposero in contemporanea,accerchiando le ragazze; smisero soltanto quando le braccia non risposero più allo sforzo.
Si lasciarono cadere sui teli da mare per asciugarsi al sole e piano piano il loro respiro tornò al suo ritmo naturale;nel torpore che li avvolse lasciandosi scaldare beatamente allungati sotto i raggi lucenti,una mano di Giulio si posò su quella di Romina e la strinse delicatamente. Attese. Lei ricambiò,con una piccola esitazione in quel gesto che a lui non sfuggì. Si girò allora sul fianco verso di lei e chiese:
“Sei preoccupata perché qualcuno possa riferire di noi,di oggi,all’amico Pippo?“
“No,anzi. Mi farebbero un favore, visto che il signorino in questione non si è ancora fatto vivo dopo la sua vacanza;mi sono preparata già da un po’quello che gli devo dire su noi. Cosa c’è?Perché mi guardi così?“ e Romina si alzò sui gomiti girandosi sul fianco verso di lui.
“E’incredibile!I tuoi occhi sono di un verde intenso,scuro,quando sei serena e allegra;diventano marroni quando qualcosa non và o quando sei arrabbiata. Sei proprio un libro aperto. Anche i tuoi capelli cambiano! Quando sono esposti al sole,passano dal biondo cenere al biondo lucente,addolcendo nei tratti il tuo viso.“
“Ma allora mi hai osservata bene!” commentò Romina lusingata.
Giulio fece per parlare,ma poi sorrise,mentre lei si sentiva afferrare braccia e gambe e veniva trascinata verso l’acqua;i suoi amici la dondolarono contando fino a tre,per acquistare la forza necessaria a lanciarla il più lontano possibile. Atterrò con il posteriore cercando di chiudere naso e bocca prima di finire sott’acqua,ma quando fu in grado di rialzarsi,tossì ripetutamente per eliminare il residuo salato e fastidioso che aveva ingoiato. Non sentì l’altro “Unoo,Duee,Treee !”,pertanto non si aspettava che le piombasse quasi addosso un corpo lanciato dalla riva schizzandola abbondantemente e spaventandola tanto da farla imprecare. Poi rise divertita. Quel corpo gettato in acqua era di Giulio!
Per tutto il tempo che restarono in spiaggia fu un susseguirsi di ‘impanature’con la sabbia e lanci in mare per ripulirsi,tutti contro tutti,maschi contro femmine,coppie contro coppie. E Romina fece coppia con Giulio,raggiante. Tutto poteva ricominciare.


*

Alluvione in città

Alluvione in città

Rosy si alzò presto per studiare,si preparò la colazione e scostando le tendine della finestra della cucina osservò quel cielo ancor più scuro e minaccioso dei giorni precedenti. Lavò la tazza dopo aver mangiato i biscotti con il latte,si posizionò come al solito sull’angolo del tavolo più vicino alla finestra,legò la tendina su un lato per avere più luce ed iniziò a studiare mentre sua madre trafficava ai fornelli ed i suoi fratelli chiacchieravano in camera nei loro letti a castello. Cominciò a piovere.
Ogni volta che distoglieva lo sguardo dai libri,la pioggia era più abbondante,allora si soffermava ad osservare la strada,i giardini,i vasi di ciclamini sui davanzali e tutto si riempiva d’acqua,sempre di più; poi la pioggia diventò un muro grigio che si abbatteva con troppa forza su ogni cosa,Rosy chiamò sua madre che si era spostata nel soggiorno e poi la raggiunse intimandole di guardare fuori. Anna sgranò gli occhi e subito realizzò che dovevano chiudere bene tutte le controfinestre e le tapparelle,sollecitò la figlia di aiutarla,per far presto; andò a cercare degli stracci per chiudere meglio gli infissi ed a quel punto i ragazzi che ancora poltrivano saltarono giù dal letto per dare il loro contributo. Quando anche il mare era così in burrasca da gonfiarsi e sembrare di essere sul punto di entrare dalle finestre infrangendone i vetri, c’era poco da fare: era in atto un’alluvione!
Per fortuna non ci fu bisogno di serrare anche la cucina,lì l’acqua non sferzava le finestre e quelli di casa potevano così controllare l’evolversi della situazione.
Intanto il livello dell’acqua saliva,Rosy e gli altri si preoccuparono molto quando videro lo stradino,che divideva il loro condominio dalla casa colonica di fronte,sommerso da un torrente di acqua e fango che arrivava alle ginocchia! Incredibile! In casa si iniziò a parlare di alluvione e gli speacker alla radio locale confermarono ben presto la notizia.
Nel pomeriggio la bufera di pioggia si attenuò,tornò a livelli accettabili e nel grande silenzio che seguì la fine del terribile nubifragio,si udirono scrosci di scope e scoponi che gettavano l’acqua lontano,voci alterate che imprecavano,sibilo di pale che iniziavano a ripulire.
Arrivarono le notizie su ciò che era accaduto in tutta la città quella domenica e furono notizie dolorose: il fiume Metauro era straripato rendendo impraticabile le vie di comunicazione e nascondendo sotto di sé campi,orti,giardini,piani inferiori delle abitazioni;i sottopassaggi di accesso alla zona mare e alla zona porto erano stati chiusi,trasformati alla stregua di tinozze dall’acqua che non aveva spazi per defluire; ovunque invasione di fango e detriti;garage,rimesse,capannoni,cantine piene di melma fino ai soffitti,con automobili,motorini, biciclette,tricicli,arnesi da lavoro,provviste,ecc. completamente sommerse. Era andato tutto in malora.
Il torrente che scorreva non lontano dal quartiere,l’Arzilla,e che in un certo modo delimitava la zona più centrale della città da quella via via più periferica a nord,si era ingrossato a tal punto da inondare le case fino ai piani alti,costringendo le famiglie a rifugiarsi sui tetti,da dove elicotteri e gommoni dei soccorsi li trassero in salvo.
Pianti,imprecazioni e maniche rimboccate,per riemergere il prima possibile: ecco la fotografia della gente nei giorni a seguire.
Lunedì fu una splendida giornata di sole. Quel sole splendeva lucente nel cielo azzurro come a rendere più visibili i guai in cui ci si trovava. Si lavorò sodo, ininterrottamente,per pulire il fango e liberare le strade, i ponti,i giardini dai detriti, buttare fuori dalle case gli oggetti contaminati e rovinati, piangere per la situazione assurda che ci si trovava ad affrontare, senza mai fermarsi e senza disperarsi.
Il giorno successivo splendeva di nuovo il sole,e si vedeva uno spiraglio di luce anche nel lavoro di tutti per tornare alla normalità;Rosy era avida di notizie riguardo alla sorte toccata alle abitazioni dei suoi amici su nel quartiere; l’unica fonte era per lei Simo,ovviamente,la sua amica del cuore. Seppe che dalla collina alle spalle del centro abitato era scivolato molto fango,si era riversato lungo le vie,scendendo nei garage e nelle cantine. Non aveva risparmiato nessuno di coloro che abitavano a ridosso della collina.
Rosy era dispiaciuta e dopo tanti giorni senza concedersi un’uscita,visto che era piovuto anche nei giorni precedenti all’alluvione,propose all’amica di fare un giro. Voleva vedere qualcosa oltre i confini del suo giardino e della strada nazionale, così,in sella al motorino,le due amiche girovagarono nei luoghi soliti,resi irriconoscibili dalla calamità.
A casa di Simo i danni erano contenuti, fango ed acqua l’avevano poco più che sfiorata, come se avessero trovato un impedimento nell’invadere quell’abitazione. Identica situazione a casa di Rosy … Fortunate in quei giorni terribili.
“ Ho sentito che al torrente se la sono vista proprio brutta. Lì abita Letizia … andiamo a vedere come sta?” propose. Simo fu d’accordo.
Lasciarono il quartiere, seguirono la nazionale per circa un chilometro e imboccarono un viottolo che costeggiava l’argine del torrente. Vi si affacciava una manciata di case, tra le quali quella di Letizia.
La situazione era caotica:gli uomini e le donne erano impegnati,stanchi e fradici,indossavano tutti stivaloni di gomma che affondavano nella melma quasi completamente.
“ Dove andate voi due, di grazia? “ si sentirono chiedere più volte.
“ A trovare Letizia … “ rispondevano, con tono sempre più preoccupato mentre avanzavano con cautela. Ma nel momento in cui realizzarono la pericolosità dell’associazione melma -stivalone-che-affonda, era troppo tardi. Avevano fatto una stupidaggine.
Rosy sentì ribollire il fango vicino al pedalino della motorella, e la motorella si spense. D’istinto ebbe il riflesso di appoggiare i piedi in terra,ma non poteva,si sarebbe sporcata piedi e gambe! Ma se fosse caduta con il mezzo sarebbe stato peggio … si accorse però che non stava cadendo affatto,era in posizione eretta,la stessa che aveva mantenuto arrivando fin lì e nulla faceva presagire un cambiamento. Stupita si girò verso Simo che le urlò,a causa del frastuono,che la sua motorella non andava.
“ Anche a me s’è spento. Ma ti sei accorta che siamo in piedi,bloccate dal fango? Come facciamo ad andar via? Dobbiamo per forza scendere nel fango per spingere via le motorelle! E che Dio ci salvi dalle mamme! “ le urlò di rimando Rosy.
“ Ferme,ferme,ferme! “ udirono entrambe. “Non vi muovete,vi spingiamo noi fuori da qui e vi auguriamo che i motorini rombino di nuovo,altrimenti vi toccherà una bella scarpinata,a piedi fino a casa.“
Le ragazze furono accompagnate fuori da quel luogo e ringraziarono di cuore i signori che si erano offerti di aiutarle e con i piedi sulla terra solida perlustrarono i loro mezzi motorizzati, presero dei bastoni di legno, che trovarono abbandonati a poca distanza da loro,e li usarono per ripulire telaio,pedalino,ruote, ecc. ecc.,nella speranza che poi tutto funzionasse come prima dell’impantanamento. Un paio di colpi all’accensione a vuoto, un po’ di riposo,un altro tentativo e gorgogliando e borbottando i motori si fecero sentire attivi dopo una lunga girata di gas che li spingeva a tutta forza.
Tornando a casa,le due ragazze risero per quella situazione singolare in cui si erano cacciate,risero per sdrammatizzare sulla desolazione che le circondava,risero perché per fortuna davanti ad ognuno di noi c’è sempre il sole che torna a sorgere,c’è sempre il futuro che ci apre la strada per continuare …


11 Novembre 1979 Domenica

(2014)

*

Racconti

RACCONTI


MariaStella e la sua famiglia affrontarono il viaggio in programma per incontrare i parenti materni: la nonna Maria, vedova da qualche anno; gli zii Primiano e Antonietta; i cugini Mimmo, Deborah, Maria Teresa.
Stella era molto affezionata a nonna Maria, era molto contenta di rivederla e quando nel tardo pomeriggio del sabato di Pasqua l’auto imboccò l’angusto Vico Veglia, parcheggiò lungo il solito antico muretto, chiese al padre di suonare un paio di volte il clacson, fissando la porta della casa a pochi passi da lì.
Sulla soglia si stagliò la figura di nonna Maria, con le mani strette attorno all'inseparabile mantellina che le proteggeva le spalle; un sorriso emozionato, gli occhi umidi e poi a voce alta:
“Marì, Samy, Roby, Anna! Finalmente! “
La raggiunsero mentre i vicini si affacciavano per salutarli, la abbracciarono forte forte, le chiesero come stava mentre al genero stringeva la mano. Entrarono in casa, risposero alle domande sulla scuola, gli amici, su come erano trascorsi i mesi da che non si vedevano. Poi:
” Nanò, quando ero piccola mi facevi sedere sul gradino della porta di casa tua, ricordi? La sera, d’estate, eravamo tutti e sei i nipotini e, per tenerci buoni, iniziavi: – Mè, statv quiet. Mò v cund nu fatt! – E partivi con racconti ogni sera diversi che ci tenevano seduti su quel gradino,stretti stretti,ma attenti e zitti zitti “.
Mamma Anna aggiunse:
” Quante volte la gente che passava si fermava ad ascoltare, in piedi, dietro la tua sedia e si godeva la vista dei nostri bambini con i pantaloncini corti e le gonnelline colorate!”.
- Quasi quante volte si è fermata ad ascoltare te, figlia mia, quando da ragazza cantavi con la tua voce bella ed intonata.- ricordò la nonna alla figlia.
” Mamma, ti piaceva cantare?” domandò MariaStella.
“ Sì, molto. “ rispose ed aggiunse:
“Cantavo soprattutto mentre cucivo e ricamavo. La gente si fermava ad ascoltarmi o semplicemente rallentava il passo; in quel periodo non c’erano le auto che ci sono adesso, non c’era il problema del traffico, dei suoni e dei rumori, tutto era più tranquillo, la gente viveva con un ritmo diverso, soprattutto in un paesino del sud, in montagna. Se cantavi o fischiavi si sentiva bene lungo le vie, anche perché le case erano state costruite vicine, anche una sopra l’altra, come a ripararsi fra loro e a favorire la convivenza degli abitanti, a farli stare insieme il più possibile. “
Proseguì con la descrizione della vita che conduceva da ragazza, accomodandosi su una delle panche vicino al tavolo e riempiendosi un bicchiere con succo di frutta.
“ Pensa, figlia mia, che l’unico rumore che spesso svegliava le strade, oltre alle voci delle donne e dei bambini, era quello degli asini o dei cavalli che trasportavano cose o trainavano carretti.
D’ inverno poi, neanche quello, se nevicava. La gente stava il più possibile in casa, appiccicata all'unica stufa a legna per scaldarsi, ma i più fortunati, come noi, avevano anche l’asino o il cavallo che favoriva il calore nelle stanze principali, quando la sera lo si metteva dentro, al riparo.
Un inverno è nevicato così tanto che si sono scavate delle gallerie nella neve, per uscire di casa e raggiungere il negozio per comperare pane, latte, farina e pasta o raggiungere la scuola oppure gli uffici del Comune.
Noi bambini ci divertivamo un mondo a girare in quelle gallerie, ma poi quasi tutti ci ammalammo perché non avevamo scarponi adatti o doposcì e nemmeno giacche a vento come adesso. Io mi sono beccata un raffreddore gravissimo che mi ha tolto la possibilità di sentire odori e profumi. Eh, che tempi! “
MariaStella ascoltava sua madre con immenso piacere, cercava di immaginarla una bambina, ma non ci riusciva, la vedeva come la sua mamma.
Guardò la nonna, sorrise e le chiese: ” Nanò, m cund nu fatt?”. E iniziò…
Nonna Maria viveva in un bilocale con, in più, una stanza al primo piano,mentre gli zii ed i tre figli viveva- no al secondo e terzo piano. Una dislocazione dei locali abitativi perfettamente in linea con la propensione, nell'edilizia di allora al sud, di ampliare le abitazioni in altezza, costruendo una stanza sopra l’altra, massimo due, così da ottenere una camera o due per piano, senza la distinzione fra zona notte e zona giorno; la cucina per esempio si trovava nella maggioranza dei casi all'ultimo piano e Stella non si spiegava il motivo di quella scelta. Non aveva molto senso, a suo avviso, salire due o tre rampe di scale per mangiare, per fare gli onori di casa con gli ospiti, passando per di più davanti alle camere da letto … o peggio ancora attraversandole … e dormire magari a piano terra, vicino al portone, o alla porta finestra d’ingresso protetta da scuri di legno.
Ma così era. Col tempo scoprì che la dislocazione delle stanze verso l’alto aveva una ragione,storica,sociale e lo scoprì semplicemente mettendo a confronto i paesaggi delle tre regioni cui apparteneva: al sud si poteva viaggiare per chilometri e chilometri senza incontrare anima viva, campi e boscaglie a perdita d’ occhio, qualche casetta, poco più grande di una capanna, dislocata qua e là per gli attrezzi e per la pausa del lavoratore nelle ore di maggior calura, poi qualche grande masseria con l’allevamento di bestiame ed infine i centri abitati, da dove ogni giorno, all'alba, partivano gli agricoltori per raggiungere il proprio podere, lavorarlo e tornare all'imbrunire in famiglia nella casa che era un monolocale, giusta per consumare il pasto, per dormire e dar ricovero all'asino o al cavallo.
I paesi nacquero così, nessun giardino, nessun cancello, solo un locale adiacente all'altro per vivere insieme i momenti al di là dei lavori nei campi; pertanto quando negli anni arrivò un maggior benessere, nella necessità di ingrandire la casa, unica soluzione restava occupare lo spazio in altezza.
Al nord, invece,le campagne e le colline non avevano un aspetto desolato, si vedevano casali, fienili, stalle, disseminati ovunque, in mezzo al proprio terreno; quindi l’agricoltore abitava lì, isolato, con la famiglia,più o meno lontano dal borgo o dal paese,dove si recava quando le necessità lo esigevano, o in occasione di feste e ricorrenze.
Stella riteneva più giusto il modo di vivere al sud, secondo il suo modesto parere la socialità era favorita, la convivenza con la comunità permetteva di aiutarsi a portare il peso delle difficoltà con maggior condivisione, così come a godere dei momenti di gioia e di festa con maggior partecipazione da parte di tutti.
Da nonna Maria era stata rispettata anche un’altra tradizione, se così si può chiamare: la prima cosa che si trovava entrando in casa era la camera da letto, con tutti i suoi arredi. Dall'armadio ai comodini, dal cassettone con specchio alle sedie per appoggiare gli abiti in fondo al letto; una radio degli anni cinquanta faceva bella mostra di sé sul comodino più vicino alla parete interna, mentre lungo la parete opposta erano dislocate delle sedie ed una piccola poltrona per guardare la televisione, incastonata fra l’armadio ed il cassettone, ma anche per fare conversazione, per far accomodare visitatori ed amici. Nella parete faceva bella mostra di sé una credenza, ricavata da una nicchia scavata nei mattoni, chiusa da due sportelli in legno con inserti in vetro, sui quali erano infilate fotografie di volti giovani, fanciulleschi, meno giovani, sorridenti sotto un velo bianco … fotografie dei figli, dei nipoti, di parenti ed amici lontani.
Molte di quelle foto le aveva spedite MariaStella a sua nonna, assieme alle lettere che le scriveva regolarmente per renderla partecipe della vita che conducevano lei e la sua famiglia, per farle pesare meno la lontananza da loro.
La cucina era nella stanza attigua, vi si accedeva attraverso una porta che si apriva di fianco al comodino più e- sterno del capezzale del letto; la si raggiungeva, dal portone d’ingresso, attraversando una sorta corridoio de- limitato dal lettone e dalle sedie per la conversazione.
Lavandino in pietra, fornello a tre fuochi posto su un mobiletto con due sportelli ed alimentato con bombole a gas, frigorifero di quelli bassi e piccoli,un tavolo posizionato a parete, usato all'occorrenza, erano gli arredi essenziali della cucina; ad essi si affiancavano lunghi bastoni in legno incastonati da parete a parete per appendere teste d’aglio, cipolle, pomodorini ad essiccare, pomodori, peperoncini, il buonissimo formaggio caciocavallo, il pecorino,le pannocchie, ecc. ecc.
Nella stanza c’era la sagoma di una rampa di scale, quella che portava al piano superiore, e nello spazio sotto- stante erano stati incassate, nella parete, delle mensole in legno coperte da una tenda variopinta che fungeva-no da dispensa per le conserve, le marmellate, i pomodori pelati, le salse già pronte, i legumi, l’olio d’oliva; sul pavimento c’era una botola che aveva sempre affascinato i bambini perché aveva un grosso anello di ferro per sollevarla e copriva una grotta sotterranea, da sempre usata come legnaia e come luogo fresco per conservare il vino. Si scendeva, una volta sollevata la botola, su gradini modellati nella pietra.
Non poteva certo mancare la stufa: bianca e nera, cerchi concentrici in ghisa a coprire l’imboccatura in alto, sportelli per inserire la legna, e per raccogliere la cenere, nella parte anteriore; un braccio a raggera, fissato sui tubi, per stendere ad asciugare indumenti, asciugamani, strofinacci, ecc. ecc.
Ma ciò che Stella ed i suoi fratelli adoravano era la cassapanca, imponente, con braccioli e schienale lavorati artisticamente, con la seduta ampia e comoda, tanto da poter accogliere tutti e sei i cuginetti ogni volta che desideravano far merenda.
La particolarità di quel mobile era la capienza eccezionale sotto la seduta: si afferrava il punto centrale dello schienale, si tirava verso di sé fino a farlo appoggiare al pavimento e … opplà! Si trasformava in un tavolino ad altezza bambino con annessi comparti colmi di biscotti, pane, farine, taralli, zucchero.
Le più belle colazioni mattutine, ma anche serali davanti alla stufa accesa, MariaStella le aveva gustate lì, seduta a quel tavolo speciale con scodellina fumante di latte, nella quale inzuppare i biscotti della nonna.
Una porta in legno grezzo dipinta di verde, di fattura proprio … casalinga, più che artigianale, dava l’accesso ad una scala di proverbiale ripidità, tanto che ad ambo le pareti tra cui si inerpicava erano stati fissati i corrimano in ferro per aiutarsi a salire ed a scendere.
Al piano superiore si trovava un corridoio, si apriva in uno spazio trapezoidale munito di un lavandino in pietra ed un piccolissimo bagno; a sinistra c’era una stanza, molto ampia, arredata con due letti matrimoniali, armadio e mobile con specchio e lì era sempre stata ospitata la famiglia di Stella: i genitori in un lettone, i figli nell'altro, finché il nonno Domenico era in vita, poi la nonna aveva preferito lasciare alla figlia ed al genero il letto al piano terra e salire a dormire con i nipoti.
Prima di addormentarsi, a luce spenta, raccontava i fatti, li esortava, ormai cresciuti, a vivere nel modo migliore possibile, impartiva consigli con tutto l’amore che provava per quei ragazzini che crescevano lontano da lei.
Raccontava con dolcezza, con tanta allegria che passavano al mondo dei sogni chiudendo gli occhi con il sorriso sulle labbra; spesso si addormentava prima lei di Stella ed allora al buio, nel silenzio, la sentiva respirare provando tanta tenerezza e tanta gratitudine perché i suoi racconti le avevano insegnato che la vita andava presa con coraggio e grinta e non con fatalismo e rassegnazione, facendo scelte anche difficili per vivere fino in fondo senza semplicemente lasciarsi vivere.
Maria si era sposata giovanissima, aveva avuto tre figli, uno bello e biondo e paffuto come i neonati dipinti nelle chiese, diceva sempre, ma le era stato portato via ad appena un anno per cause che i medici non le spiegarono mai. Il marito era un ubriacone scansafatiche che le portava via i soldi guadagnati con lavoretti di cucito e ricamo per berseli alla bettola ed un giorno fu ricoverata in ospedale per risolvere un problema di salute, lasciando i figli soli, in balia della strada, dove solo una zia si prendeva cura di loro per sfamarli, ma nient’altro. Dimessa dal mesocomio, Maria fu allontanata dalla sua casa con i figli per salvaguardarli e quando restò vedova, poco dopo, un brav'uomo si offrì di sposarla e di crescere i suoi bambini.
Si trasferirono lontano e la sua vita fu serena, dignitosa, grazie al lavoro ed alla bontà di Domenico che aveva campi da coltivare ed un frutteto.
MariaStella ammirava la forza che sua nonna aveva avuto e proprio in quelle tre notti trascorse a fare discorsi più da grandi, comprese di avere attinto da lei la voglia di agire e fare in nome di un presente ben vissuto e di un futuro da costruire.
Arrivò il momento di salutarsi, un momento sempre molto triste, ma quella volta MariaStella si sentì oppressa da un vero e proprio struggimento nell'abbracciare nonna Maria e non ne comprendeva il motivo.
Nell'auto, poco più tardi, si ripromise di scriverle lettere con maggior frequenza di quella tenuta fino ad allora, stava invecchiando, ma soprattutto lei, MariaStella, stava crescendo ancor più in fretta.



(2011 – 2014 )

*

Voglia di arrendersi

E la storia si ripete.

Dopo interminabili attese, quando finalmente i risultati di tanta costanza si accompagnavano alla serenità da tempo sconosciuta, ecco che un'intrusione inaspettata ti sprofonda di nuovo fra la testa che scoppia ed il cuore spezzato.

Avresti voglia di farti trascinare senza dover più agire o pensare; avresti voglia di arrenderti per sentire le cose sfiorarti soltanto e continuare a vivere in un limbo dorato.

Allora te la prendi con te stessa per non aver impedito ai sentimenti di farsi strada, ma, oh se è vero, il cuore ha volontà propria.

Ed ecco perchè spesso ci trascina via, lontano dalla ragione, per scoprire che volare per sempre è un'illusione....

 

 

                                                                                     Rosa        (1990)    

 

*

Non ora

                                       Non ora

Il sole si insinua fra le persiane della casa assonnata, a solleticare la penombra ed il silenzio delle stanze. Come il disco in sottofondo, scuote la pigrizia annidata nel ristagno delle sensazioni.
Granelli di polvere si agitano alla luce, immergendosi nel suo calore, seguendola nelle tracce che crea fra gli spazi vuoti.
Vorrei riuscire ad alzarmi, scuotendomi dal torpore; aprire quelle imposte e lasciar invadere tutto da quel chiarore, anche il morbido cuscino su cui riposo.
Davvero, lo farei.
Ma nessuno può assicurarmi che il fremito che mi pervade non si trasformi in volto rigato di pianto.
Torno ad osservare il caldo raggio che non può vincere contro una ferita ancora aperta; attendo che il disco riprenda a suonare per abbandonarmi al pensiero che presto la dolcezza che sento emergere,timidamente,sarà in grado di allontanare questa insofferenza.
Ma non ora.


                                                                                             (1990)

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Il film dei ricordi

                                                Il film dei ricordi

Ho tra le mani l'annuario di una scuola elementare; quella di un paese alle pendici del Gargano, a pochi chilometri dal mare, ma ad un'altitudine sufficiente per essere considerato un paese di montagna.
Un insieme di case costruite una attaccata all'altra, a formare degli isolati che si ergono ai fianchi di strade trasformate in vie ripide, in piano, a gradoni o gradini in pietra di tufo; a formare piazze e piazzette, salite e discese, con fontanelle ad ogni angolo di quartiere, con un parco cittadino, costellato di panchine, per le passeggiate serali o nei pomeriggi domenicali. Un cancello di ferro battuto lo chiudeva ad orari stabiliti, per proteggere tutta la vegetazione al suo interno, una fonte, nel paese, di naturale frescura durante le caldissime estati. Un maestoso ex convento trasformato in sede di uffici pubblici; una vecchia pesa per la raccolta di grano e pomodori; la scuola nella parte più antica del paese, mentre fuori dalle sue mura, lungo i pendii, giù giù fino al mare, la distesa dei campi per tanto tempo l'unica risorsa del luogo.

Leggo il ricordo di un ex alunno, Prefetto della Repubblica, che racconta la quotidianità, le difficoltà e le abitudini dei contadini negli anni della sua fanciullezza. E vengo catapultata in uno scorcio di vita che in qualche modo mi appartiene e che non conoscevo.
Il periodo di cui scrive l'autore è quello fascista degli anni trenta; i protagonisti sono i suoi compagni di scuola e fra questi spicca la figura di " un ragazzo di umili natali, figlio di contadini, la cui intelligenza era pari solo alla sua sconfinata povertà."
Mi colpisce il nome e comprendo che la descrizione si riferisce allo zio che non ho mai conosciuto: se l'è portato via una malattia prima che io nascessi.
La mia curiosità di sempre su tutta la storia della mia famiglia può essere appagata, così leggo con maggior interesse e piccoli tasselli, ora, completano il quadro dei miei ricordi che, come il motore di una cinepresa, rianimano cose e persone e luoghi, immutati nel tempo.
" Sono tanti i ricordi..." scrive il Prefetto e racconta di mio zio Nazario che si reca a scuola puntualissimo, ordinato e pulito anche dopo aver aiutato la sua mamma al banco delle verdure, senza scarpe, anche d'inverno; diligente ed attento, soprattutto con " libri e quaderni che gli venivano forniti generosamente dal maestro per non perdere un allievo dall' impareggiabile profitto scolastico".
" Sono tanti i ricordi..." e parla di mio nonno Saverio che lavorava come contadino a giornata e che nei giorni di festa lo incontrava "...stretto in un vestito nero, quello del lontano matrimonio".
La mia memoria lo vede passeggiare lungo il corso centrale del paese, i capelli bianchi tagliati a cresta, stretto nel vestito nero, con un panama bianco che solleva con una mano ogni volta che saluta un compare.
I suoi occhi azzurri tradiscono impercettibilmente la gioia quando all'improvviso lo assediano i nipoti, la maggioranza dei quali vive lontano e torna a trovarlo durante le ferie; poche frasi e la sua mano si insinua fra le pieghe del panciotto a cercare le monetine da consegnare ai pargoli per comperarsi un gelato. Li osserva correre felici verso il negozio, si rivolge ai compagni di passeggiata inorgoglito, mentre io, piccola fra i piccoli, mi chiedo come mai non ci regali anche un bacio, mentre gli lancio un ultimo sguardo prima di sparire dietro la vetrina.
" Era un uomo di altri tempi", mi dico, " vissuto duramente nei campi e con ferrei principi. Mostrava in un modo tutto suo l'amore per la famiglia, senza riuscire ad essere espansivo, senza increspare il rettangolo dei suoi baffetti bianchi, ben saldi sotto il naso, con un sorriso troppo gioioso".
Ricordo il rito della preghiera prima di iniziare il pasto che lui presiedeva quale capofamiglia; i suoi pisolini seduto davanti alla porta di casa con il capo sorretto dal braccio appoggiato allo schienale. Sembrava stesse lì di vedetta ad osservare il mondo che gli passava davanti e proprio in quella posizione ci ha lasciati per sempre, un giorno, senza preavviso.
Era nato nel 1899, all'inizio del nuovo secolo delle invenzioni.

" Sono tanti i ricordi..." scrive l'autore e racconta di mia nonna Rosa che nelle prime ore del giorno allestiva il banco della verdura nella piazzetta del mercato aiutata dal figlioletto Nazario... ed io non ne avevo mai saputo nulla.
Conosco poco della sua vita da ragazza, del suo matrimonio, l'arrivo dei figli e la perdita prematura di alcuni di loro, il lavoro nei campi assieme al marito, che la teneva lontana da casa  tutto il giorno, lasciando la custodia dei figli piccoli ai più grandi. L'arrivo dei nipoti.
Nessun aneddoto, nessun particolare... ma le donne non avevano cose da raccontare: nella casa natale fino al giorno del matrimonio, poi massaie e madri all'ombra del loro sposo. 
Ho in memoria l'immagine di una donna stanca, infilata nel suo abito scuro, i capelli avvolti in una treccia dietro la nuca, che si trascina fra i mobili del monolocale che è stata la sua casa. Su quella treccia, un tempo, aveva posizionato una ciambella di stoffa che le serviva per trasportare sul capo anfore con l'acqua presa alla fontana al crocevia per bere, lavarsi e cucinare; con la ciambella trasportava le ceste con la verdura per il suo banchetto alla piazzetta. Avevo visto le ciambelle appese in bella mostra ad un chiodo sul portone di legno massiccio che di notte veniva chiuso, con serratura e moschettone, gettando nel buio completo il monolocale dei nonni. Qualche volta a noi bambini veniva dato il permesso di giocare con quelle robuste ciambelle e ci sfidavamo nel riuscire a trasportare oggetti sul capo come aveva fatto per tanto tempo lei, la nonna. 
Sfiorava soltanto noi bambini; avrei voluto che si allungasse in un abbraccio, in una coccola, in un gioco per godere della nostra fanciullezza e rifarsi almeno in parte di quella dei suoi numerosi figli, già persa da secoli.
A volte mi soffermavo a guardarla e cercavo di capire quel distacco, cosa la teneva lontana chissà dove; avrei voluto afferrare il filo dei suoi pensieri che si tesseva quando con gesti lenti e meticolosi si muoveva nello stanzino dove lavava i piatti e fissava ora il rigolino d'acqua che scendeva dal rubinetto, ora lo stretto quadratino che era la finestra aperta sulla strada, ma posta troppo in alto per favorire qualsiasi visuale.

Nelle sere fredde d'inverno, seduti attorno al braciere durante le feste, al calore della cenere e con lo stordimento che provocava, mangiavamo biscotti e taralli al cioccolato, o al finocchio, fatti in casa, con qualche bicchiere di vino per gli adulti e storie e fantasie per noi piccoli; ricordo le voci con quella caratteristica musicalità dialettale che ha accompagnato la mia crescita, ricordo anche i silenzi di nonna Rosa, i silenzi di chi la vita ha toccato con amarezza.
Cercavo ovunque qualcosa che mi rivelasse particolari preziosi per la mia curiosità, ma anche le poche fotografie, antiche e grigie, non contenevano che sorrisi formali ed espressioni impostate; l'armadio di legno ad una sola anta, imponente, con lo specchio, arrotondato ad arco nella parte superiore, con intarsi di figlioline e visi d'angelo, che aprivo qualche volta con un cigolìo sinistro, non conteneva scatole di ricordi che potevano aiutarmi, ma solo abiti e cappotti immersi in un profumo di naftalina.
" Sono tanti i ricordi..-" dice l'autore. " Sono tanti i ricordi..." confermo, degli anni '70 in cui ancora nelle case dei contadini di quel paese mancava il bagno e nel cuore della notte si sentiva l'urlo di una tromba che avvertiva del passaggio dell'uomo con la " botte" addetto allo smaltimento dei contenitori che fungevano da gabinetto durante il giorno.
Mi svegliava sempre; il suono cupo era tetro, immancabilmente mi tiravo fin sulla fronte lenzuola e coperte, vedevo ombre minacciose stagliarsi sulle pareti illuminate dalla luna che si infilava nel finestrotto quasi a ridosso del soffitto; ma poi sentivo il respiro dei miei fratelli e dei cugini addormentati vicino a me e tutto passava. Il sonno tornava.
Era bello arrivare dopo un lungo viaggio, lasciare le valigie nella stanza destinata ai genitori e correre in quella che avremmo condiviso con i cugini, aprire il mobile che nascondeva un lettone, tirare fin sul pavimento il portellone, sistemare il materasso rattrappito per il disuso sulla rete e tuffarcisi sopra con i cugini ritrovati, decidendo che avrebbe dormito a fianco di chi. Uno, o più, mobile-letto di quel tipo era presente in ogni casa, era comodissimo in quegli  anni di forte emigrazione in Germania e Svizzera o nel nord della nostra Italia, per gli affollati ritorni al paese durante le vacanze: dopo ore ed ore stipati negli affollati vagoni ferroviari o intasati nel traffico delle autostrade, garantiva un posto letto, a casa dei genitori o parenti, agli emigranti che tornavano per un po'. Era il simbolo del ritrovarsi, come lo era il più moderno divano-letto, sempre pronto all'occorrenza...
Oggi non esistono più né l'uno né l'altro nelle nostre abitazioni, luoghi spesso molto piccoli, non adatti alle riunioni di famiglia di un tempo. Le cose cambiano, le situazioni cambiano, la vita cambia. Qualcosa si perde, qualcosa si modifica, molto si evolve, ma abbiamo la pellicola dei ricordi che, riavvolta, conserva per sempre il mondo che è stato. 
Quando il cuore ha bisogno di immergersi nelle emozioni che contano, apre la scatola ed avvia il motore d'altri tempi...    


                                                                                                  (2011)     


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Non chiedo altro

                                                  Non chiedo altro


Scrutano la sala, quasi cercassero una figura familiare fra i tanti, ma è un guardare senza vedere, è semplicemente un tentativo per nascondere un certo imbarazzo. Forse proprio per questo non scambiano che poche e banali parole per tornare al silenzio come ad un rifugio.
Ed è là che lei ritrova la certezza di non sbgagliarsi: lui la stava cercando. Lo osserva, segue i suoi movimenti e pensa che quell'uomo è proprio bello... così affascinante.

La fiamma dell'accendino è un segnale inconfondibile, ora, come la parola  " fine" posta al termine di una storia. Lei vorrebbe sapere, quasi con disperazione, cosa si nasconde dietro quel gesto così semplice e quotidiano, ma ben diverso in quell'attimo.
Le sue parole interrompono quei pensieri, lei lo sorprende assorto, fissare la luce del lampione offuscata dalla nebbia fuori dalla finestra: " Non è facile starmi vicino, sono imprevedibile, rasento la pazzia " stava dicendo. Se potesse leggerle dentro, capirebbe che lei non chiede altro che impazzire sul serio, con lui. 
Ma forse in cuor suo lui lo sa già. 

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PER PAURA

                                                        Per paura


Il fumo della sigaretta appoggiata su due dita della mia mano si dissolve con involuzioni di forme vaghe. Seduta alla scrivania, mi chiedo perchè lo guardo sorridendo, con quella tenerezza con cui si osserva la serenità di un bambino.
          La vita sta tornando, mi rispondo.
          Il gelo che avvolge la mia anima, dunque, si assottiglia, allenta la sua stretta attorno al mio essere che, più volte colpito, ha deciso di rifugiarsi lontano da ogni emozione. Ha scelto la solitudine, per evitare il dolore che può dare una mano prima tenere fra i tuoi capelli, sul tuo volto e poi così crudele quando dice di non essere sicura di volerti ancora. La sofferenza che può portarti una frase intrisa di addii e di: "Mi dispiace, ci ho provato, ma non funziona".
           E' tremenda anche questa solitudine, che ti costringe ad allontanare chiunque tenti di ricordare l'energia, la dolcezza, l'entusiasmo del passato sereno. Per paura.
Una solitudine falsa, perchè la barriera che si è creata così velocemente non può contenere a lungo i sentimenti; come trascinati dalla piena della vita, finiranno per tornare nella landa inaridita a donare nuovo splendore a due occhi oscuratisi ormai da troppo tempo.
            Forse ciò che nascerà si dissolverà come questo fumo, sicuramente altro dolore solcherà il cuore, ma non fa parte forse tutto questo dell' essenza della vita? Volerlo annullare è un'illusione, accettarlo è già un modo per sconfiggerlo.

                                                                                  Rosa (1990)

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Notte di magia

                                                       Notte di magia


Questa volta la neve era friabile e tenera, rendeva tutto ciò su cui si posava un morbido involucro di candido cotone. Splendido contrasto di preziosa magia con il nero notte, così sereno al di là di alberi e tetti imbiancati.
Piccola figura in quella favola, lasci che quell'auto scorra via senza cedere al desiderio di alzare la tua mano per fermarla, perchè forte sarebbe la tentazione di far seguire al gioioso saluto un torrente di parole piene di sentimento.
Chiudi gli occhi sospirando. Una bacchetta da fatina potrebbe riportarla indietro, perfino trasformarla in una carrozza, lui in un principe; potrebbe anche...
Già, potrebbe.
Riaprendo gli occhi non provi il gusto amaro della delusione che un sogno svanito lascia dietro di sè: tante piccole magie sono conservate dentro di te, a scandire  una vita che in fondo ti piace così com'è. Essa ti ha insegnato che al cuore che desidera con determinazione tutto è possibile, come a quei fiocchi inconsistenti che scendono ed avvolgono il mondo in un velo di purezza.


                                                                                                              Rosa (1991)