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Raccolta di testi in prosa di Silvia Rizzo
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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’Cercatemi nelle mie poesie...’

 

            «Guarda tutta questa bellezza che abbiamo intorno!» esclamai accennando alla distesa della valle coi suoi paesi sparsi, coi colli e i monti lontani immersi nel sole luminoso di una giornata di prima estate. Volevo distrarre la sua mente dal pensiero della morte. «Non sono pronta a lasciare tutto questo» mi rispose fermandosi all'improvviso e girandosi verso di me. Aveva le lacrime agli occhi. Mi si strinse il cuore e mi pentii di quello che avevo detto. Com'è immensa la distanza fra chi soffre e chi cerca di alleviare con le parole ciò che non può essere alleviato!

            Già provata com'era dalla malattia si stancava presto e decidemmo di tornare indietro. L'avevo accompagnata in una breve passeggiata e mi aveva parlato della disperazione dei suoi anziani genitori. «Mio padre è come una mosca senza capo».

            Il terribile male che l'aveva colpita la prima volta quando era ancora poco più che adolescente e che sembrava debellato era riapparso dopo diciotto anni. Un raro tipo di cancro, dal nome astruso che ho dimenticato. Era cominciata la solita trafila di operazioni, chemio, ricoveri e l'altalena di speranze e disperazione. Carla era figlia unica di due genitori ormai anziani coi quali tuttora viveva, non essendosi mai sposata.  

            Era di una bellezza intensamente spirituale, quasi che la sua anima, così profonda e ricca, trasparisse attraverso la carnagione diafana e attraverso gli occhi di uno strano colore cangiante, a volte verdi come le giade di una collana che amava portare. Aveva una sensibilità quasi eccessiva che la portava a vivere acutamente su di sé le sofferenze altrui, anche quelle degli esseri della natura, di un albero tagliato o di un uccellino caduto dal nido. Durante la lunga malattia la sua sofferenza maggiore era per il soffrire dei genitori.

            Nata e vissuta a Campiglia, Carla era stata maestra elementare in varie località vicine, dato che Campiglia, da quando i suoi abitanti sono così pochi, non ha più scuole. Aveva educato legioni di bambini, e quasi tutti i suoi allievi le erano rimasti profondamente attaccati. Adottava anche metodi sperimentali sui quali ha scritto dei libri. Alla cura dell'ultimo attendeva strenuamente negli ultimi mesi. Per fortuna il libro uscì in tempo e se ne poté fare una presentazione quando l'autrice era ancora viva. Fu un'occasione per la nostra piccola comunità di stringersi intorno a lei e ai suoi genitori. Fino all'ultimo fu incerto se le sue condizioni le avrebbero consentito di esserci, ma lei riuscì con straordinaria forza di volontà a essere presente. Venne portata in ambulanza e poi su una sedia a rotelle. Si era vestita con cura e aveva avvolto sulla testa resa calva dalle cure un turbante di maglia nera. Il suo viso, che la malattia invano aveva provato a sfigurare, irraggiava una severa bellezza, la bellezza della sofferenza e di un amore per la vita e per il lavoro che quel giorno le consentiva di dimenticare quasi il suo terribile male. C'erano tutti i suoi bambini, le colleghe delle scuole in cui aveva insegnato, gli abitanti del paese e tante persone che la conoscevano venute da ogni parte. La sala era gremita. I bambini, le colleghe, le amiche la colmarono di doni e lei sulla sua sedia a rotelle riceveva gli omaggi come una regina in trono. Io, che ero a Roma per il lavoro, riuscii a fare una scappata e a essere presente. Nella gran folla e in mezzo a tante emozioni ero sicura che non mi avesse notato e invece pochi giorni dopo a Roma ricevetti da lei una telefonata di ringraziamento per essere andata. Da tanto tempo stava troppo male per telefonare ed ora sembrava tornata quella di prima. Non l'avrei più rivista: poco tempo dopo spirava fra le braccia dei suoi genitori a quarantanove anni.

             Prima di andare in pensione il padre vendeva bombole di gas e articoli elettrici, la madre aveva un negozio di mercerie, ora chiuso da tempo, dove si andava volentieri per fare due chiacchiere con quella bella signora dai modi gentili. La nonna paterna era stata l'ostetrica del paese e in casa conservavano e mostravano la valigetta di lei con gli strumenti della professione. La famiglia viveva in una bella casa sulla strada principale della parte più recente di Campiglia con un piccolo orto ombreggiato da alberi sul retro. Erano rispettati e benvoluti e conducevano una vita appartata tenendosi fuori dalle chiacchiere, invidie e gelosie del paese. L'avvenimento più notevole nella vita di questa famiglia era stato il soggiorno in casa loro per due anni degli 'americani', quando Carla era una vivace bambina di quattro anni (vd. cap. 00).  

            La madre cominciò subito con l'aiuto di qualche amico a raccogliere e ordinare la ricchissima eredità spirituale della figlia. Carla aveva avuto infatti spiccate doti di artista, che trovavano molteplici forme di espressione. Sapeva fare tante cose con le mani: decoupage, quadri con fiori secchi, scatole dipinte e altro ancora. Disegnava ed era una fotografa della natura eccezionale e appassionata. Ma soprattutto aveva coltivato sempre segretamente la poesia, della quale aveva il dono. Scriveva per sé e nessuno ne aveva mai saputo niente. Però aveva lasciato detto a un'amica che le sarebbe piaciuto che dopo la sua morte fossero pubblicate le poesie. Così la madre le cercò, le raccolse e con l'aiuto di amici se ne stampò una prima scelta in un esile libretto, a cui un altro seguì qualche anno dopo. Sulla copertina del primo c'era una straordinaria fotografia scattata da lei di un campo di rossi papaveri mescolati a margherite bianche su uno sfondo di neri cipressi. Su quella del secondo un'intensa foto di Carla davanti a due margherite bianche in un vaso: sulla spalla sinistra ha il suo Titti. Titti era un cardellino caduto dal nido che lei aveva raccolto. Forse era un 'cacanido', come dicono qui per indicare l'uccellino che esce dall'uovo deposto per ultimo: se ne schiude uno al giorno e di solito sono cinque, per cui l'ultimo nato ha cinque giorni meno del primo, è assai più piccolo dei fratelli nati prima e soccombe nella competizione dei becchi spalancati e dei colli tesi per il cibo portato dai genitori, è l'ultimo a lasciare il nido e quando lo fa spesso finisce male perché è malnutrito e quindi più debole e inetto. Carla era riuscita a tirarlo su imboccandolo pazientemente con uno stecchino. L'uccellino le era attaccatissimo ed era la sua gioia. Dalla gabbietta in cucina riconosceva il rumore della macchina di Carla che tornava dal lavoro e la salutava con un canto speciale. Quando morì il suo corpo messo in una scatolina si conservò quasi intatto e Carla in una lettera con le sue ultime volontà aveva chiesto che la scatolina fosse sepolta con lei, ma la lettera fu trovata solo dopo i suoi funerali. La madre mi ha raccontato che quando è stata murata la lapide è riuscita a far mettere la scatolina nell'intercapedine.

            Il primo libro fu presentato pubblicamente: ci furono interventi di persone che avevano conosciuto Carla o avevano collaborato con lei ai suoi libri di didattica, furono proiettate fotografie da lei scattate ai cieli e alla campagna di Campiglia e un fine dicitore lesse alcuni dei testi. Anche questo fu un incontro affollato e ad altissimo tasso emotivo. La comunità, riflettei allora, stava trovando un motivo di coesione nel segno di una notevole personalità espressa dal suo seno.

            Attraverso le poesie è cominciato uno straordinario dialogo fra la madre e la figlia morta. La madre, forzando la mano sempre più anchilosata dall'artrite, si è messa a copiarle in quaderni di scuola comprati nella rivendita sotto casa, a righe o a quadretti, con le copertine vivacemente ornate da fotografie di gattini. Quando un quaderno è ultimato lo dona a qualcuno che sa essere stato vicino alla figlia, così come sta via via donando i piccoli gioielli, che lei stessa le comprava, alle amiche di lei o a bambine sue allieve ormai sbocciate in floride ragazze.

            Così dopo la morte di Carla abbiamo conosciuto le sue poesie. Dalle date, quando sono state apposte, si vede che, come capita spesso ai veri poeti, era visitata dall'ispirazione a ondate, separate fra loro da lunghi periodi di silenzio: la maggior parte dei testi si concentrano essenzialmente in due fasi, una in cui era giovanisssima, fra i diciassette e i diciotto anni, e una negli anni della maturità, fra i quaranta e i quarantacinque. Il suo è un canto che sgorga nativo, simile a quello di un uccello; e ricorda le melodie degli uccelli anche nel frequente ricorso all'anafora e al refrain. Lo stile è semplice, dimesso; a volte c'è un andamento diaristico e quasi di prosa poetica.

            Nei suoi versi Carla dà espressione a una profonda inquietudine, a una ricerca religiosa che non conosce certezze. Le prime poesie che parlano di questa ricerca insoddisfatta, di queste domande senza risposta sono rivolte a un Tu con la maiuscola.

 

Un giorno Ti incontrerò

nella via del ritorno,

tra deserti viali senza fine,

nelle strade di ciottoli e sassi.

............................................................

Ti seguirò in silenzio

nella tristezza del crepuscolo,

nella solitudine del tempo,

nella quiete della sera.

 

E ancora:

 

Ti ho aspettato nel silenzio

di notti senza stelle,

nelle sere di nebbia,

nelle strade deserte.

..........................................

Ti ho aspettato nella mia solitudine,

sotto la luce di una lampadina,

nelle pagine di un libro.

Ti ho incontrato, chi sa,

e non Ti ho riconosciuto.

 

Ma ci sono anche poesie rivolte a un tu senza maiuscola, che parlano di un amore che riporta il sole e la vita «nell'anima stanca» e dà un senso alla «ricerca vana», che ha la funzione di guidare a qualcosa di altro o di aiutare a superare momenti di smarrimento. 

 

Aspetta un po' ancora.

Lo so è un po' triste stasera.

Ma ti prego aspetta,

non lasciarmi sola,

ho troppa paura stasera.

La nebbia ci avvolge.

C'è odore di strada bagnata,

le luci offuscate di case lontane

mi danno tristezza, mi sento avvilita.

 

Un amore naturale e profondamente necessario:

 

Come il respiro del giorno

e il porpora del tramonto

mai finirà di sorprendermi

il nostro sentimento

fra tutti

il più delicato

fra tutti il più forte.

 

O ancora:

 

Quando t'ho incontrato

non immaginavo,

poi è successo tutto all'improvviso,

così come sboccia un fiore,

come sorge l'alba nel mattino.

Come una pioggia leggera

sei sceso sulla mia strada.

 

Una precoce primavera le accende

 

il ricordo di un marzo così lontano

e così vicino,

tra le spume bianche

di un mare tormentato,

che guardavamo muti

timorosi di mutare in parole

i nostri nuovi sussurri interiori.

Coi nostri corpi impacciati

non riuscivamo a frenare

lo slancio

dei nostri pensieri

galoppanti,

in quella spiaggia solitaria,

come cavalli impazziti.

 

L'amato è lontano in remoti paesi:

 

Costantemente appari nei miei sogni

tra cieli di magici colori

tra venti di strani paesi.

Il viso bruciato dal sole,

un sorriso delicato

e le braccia tese.

Mi perdo nei tuoi nuovi orizzonti

e spero

che in quel sole diverso

tu veda il mio amore.

 

E Carla canta il dolore dell'assenza:

 

Sono rami inariditi

le mie dita private

del calore della tua fronte.

 

Oppure:

 

Due mozziconi di sigarette

in un portacenere.

Due sospiri di desiderio

sul divano.

Due parole d'amore

sospese nell'aria.

Solo il tuo nome

è rimasto nei miei ricordi.

 

E descrive la sua vita divisa fra amore e lontananza, disperazione e speranza:

 

Nel mio piccolo mondo c'è un abbraccio,

il tuo abbraccio,

caldo respiro nelle notti d'inverno,

vento leggero nelle sere d'estate.

Il mio piccolo mondo è inondato

dalle lacrime del tuo abbandono.

Nel mio piccolo mondo

c'è una casa piena di finestre

aperte sulle profondità colorate del cielo

con stanze buie in cui ho riposto i morti ricordi

e altre luminose dove festeggio le mie rinascite.

 

La perdita dell'amato è nella legge della natura esattamente come averlo incontrato:

 

T'ho perduto

come si perdono i fiori della primavera,

come d'inverno si perdono le rondini,

come si perdono le nuvole nel cielo.

 

In una di queste poesie l'amato appare come un mediatore fra l'uomo e Dio:

 

Conosco ormai il tuo modo

di guardare la gente,

di accogliere, di sfogliare un libro,

il modo che hai di accarezzare

e di parlare piano

per far schiudere leggera

l'anima alle tue parole.

Conosco il tuo modo di sorridermi

e di arrabbiarti,

di riflettere

e di prendere in giro.

Conosco bene i tuoi occhi

di bimbo pauroso,

piccoli raggi accesi di vita.

Conosco il tuo profilo

nella penombra

quando parli in silenzio al Padre

e gli chiedi cose per noi.

 

Gli accenti con cui Carla parla al Tu maiuscolo non sono del resto molto diversi da quelli con cui si rivolge al tu con la minuscola:

 

La mia anima ha bisogno di Te

come il mondo ha bisogno del tempo,

come l'aria ha bisogno del vento,

come il bimbo ha bisogno di una carezza.

Non so chi veramente Tu sia,

non so qual è il tuo nome,

ma so che la mia anima ha bisogno di Te

come la terra ha bisogno dell'acqua.

 

L'altro grande amore di Carla è quello per il paese natio, «Campiglia, paese delle fate»:

 

Sei tu, Campiglia, che ho

visto aprendo gli occhi, tu che mi hai offerto le prime

luci, i primi colori, i primi suoni,

la prima immagine del mondo.

.............................

 

Vorrei morire guardandoti

come Francesco morì

guardando Assisi.

 

E in un'altra poesia scritta a diciassette anni come la precedente:

 

I tetti di Campiglia sotto la neve

sono una favola.

....................................

Sopra le ginocchia ho il libro aperto a Machiavelli

ma i miei occhi sono puntati alla finestra,

a Campiglia, alla rocca, sulla quale stanno

scendendo leggerissimi fiocchi di neve.

 

L'amore per Campiglia è inseparabile dall'amore per la splendido paesaggio naturale in cui è situata: la natura è del resto anche il principale mezzo di espressione di Carla, nelle cui poesie molto è detto attraverso i fiori, i cieli, il mutare delle stagioni, perfino le piccole vicende dell'orto dietro casa, dove fotografa un pettirosso infreddolito nella neve o la sua gatta che gioca con una pietra e riferisce quasi in presa diretta una scenetta di uccelli:

 

Ho appena assistito a una scena stupenda: il passerotto che ogni giorno viene a mangiare nell'orto ha portato il suo piccolo e l'ha imboccato con briciole di pane.

 

Oppure coglie il fiorire della prima viola del pensiero:

 

Tra le pietre dell'orto

è spuntata all'improvviso

una piccola pansé

dai tenui colori

che ora il vento

sta facendo danzare.

Non esiste fiore più bello.

 

Ed ecco un'altra istantanea dell'orto:

 

Nell'erba bagnata

gli storni cercano il cibo...

i fiori bianchi del pero

risplendono sotto la pioggia

e il pensiero di te

trasforma l'orto in un giardino incantato.

 

Circolano in questi testi l'aria, il vento, le nuvole, i fiori, la neve di questo paese di montagna:

 

I profili delle colline si perdono lontano,

il vento gioca col grano bambino.

 

Oppure:

 

Sulla neve

vedo scritto il tuo nome

e il ghiaccio

sotto le scarpe scricchiola.

.......................................

Il vento alza nuvole di polvere bianca.

 

O ancora:

 

Mi ha sorpreso

questo nuovo e intenso fiorire

di fiordalisi

posati come un velo leggero

su un prato solitario.

 

Ed ecco la descrizione di un'alba:

 

C'è odore di fieno bagnato qui nella valle;

la illumina una raggiera di luce

cullata da morbide nuvole bianche

in un cielo azzurrino.

I cipressi, custodi gelosi delle case,

aspettano curiosi la metamorfosi del sole.

 

Ma anche la vita quotidiana di Carla si rispecchia in queste poesie, soprattutto i suoi affetti. Per la morte di un'amica di famiglia, 'nonna Nilde', che l'aveva vista nascere («hai sentito il mio primo pianto / e hai detto al babbo di me / mentre piangeva nel corridoio») scrive che non riesce a credere che l'estate che verrà

 

                 spezzerà l'abitudine

di vederti lì seduta col respiro affannato,

così piccola e grande,

così unica, profumata,

sorridente, elegante nei tuoi scialli,

nei tuoi capelli candidi

nei grandi occhi chiari.

 

Non riesce a credere che nonna Nilde non vedrà «queste giornate / che si stanno allungando» e non respirerà «i primi odori / della primavera». Ricorda l'ultimo abbraccio, quasi presago, accompagnato dal dono di una fotografia di loro due di molti anni prima. La poesia si chiude così:

 

Ora ti vedo ballare leggera un walzer

di Chopin mentre sorridi al tuo

cavaliere, e mentre balli spargi intorno

il tuo profumo.

 

Il babbo compare anche in un'altra poesia, che dà voce a una singolare fantasia: Carla vorrebbe poter «spiare la sua vita dal buco della chiave / di una porta che resta sempre chiusa», vorrebbe vedersi nascere e poi vedere

 

il primo sorriso che feci a mio padre,

la sua emozione quando, per la prima volta,

avvertì nel suo mondo la mia nuova presenza.

 

Una tenerissima poesia d'amore è scritta da Carla diciottenne per la madre ed io leggendola trascritta dalla madre stessa penso allo strazio e anche al conforto che avrà provato copiandola. In altri versi trova espressione il desiderio di maternità attraverso un'immagine di una fisicità più eloquente di qualsiasi lungo discorso:

 

Vorrei che un bimbo

mi chiamasse mamma,

vorrei con la mano

accarezzargli la fronte,

toccare i suoi capelli,

sentire se è sudato e dirgli:

«Basta, adesso sei stanco».

 

Questo sentimento materno si riversò sui bambini della scuola: in una prosa bellissima, a conclusione del primo quinquennio di insegnamento elementare, li evoca uno a uno con rapidi tocchi ed esprime tutta la malinconia del distacco da loro.

            I curatori del libretto hanno scelto di chiuderlo con una poesia che comincia «Quando morirò...», che è di fatto il suo testamento spirituale, anche se è stata scritta a diciotto anni:

 

Quando morirò

non cercatemi in una tomba,

cercatemi negli alberi in germoglio,

nei fiori che si aprono,

nei tramonti,

nelle nuvole bianche.

Quando morirò

non cercatemi nei ricordi,

cercatemi nei gigli dei prati,

nei colori dell'alba,

nel sole rosso,

che accompagna il giorno,

che scalda le montagne.

...............................................

Cercatemi nel vento,

nelle stelle del cielo,

nelle mie poesie;

nei boschi che odorano di muschio,

nella luce del giorno,

nel mare, nelle cose che ho amato.

 

            Guardando indietro, ora che il cammino di Carla si è concluso, si è portati a vedere un presagio della sorte che l'attendeva in questo ricorrere così frequente del pensiero della morte in una ragazza. Solo dopo la sua sepoltura i genitori trovarono un testamento, senza data, in cui fra l'altro era scritto che voleva essere sepolta in piena terra «e sopra piantateci un alberino». La fredda burocrazia comunale le ha assegnato un tetro loculo di cemento e per di più nella quinta fila in alto, dove è necessario arrampicarsi perigliosamente su una scala per deporre un fiore. I vecchi genitori, ultraottantenni e pieni di acciacchi, che non hanno più nulla nella vita se non il ricordo della figlia e che escono quasi soltanto per andarla a trovare al cimitero, hanno chiesto al comune di spostarla a spese loro, se non in una tomba terragna come lei aveva desiderato, almeno nella fila più bassa. Non hanno ricevuto risposta.

            Cara Carla, più che nella tua tomba ti cercheremo, come tu volevi, nella natura che ci circonda e nelle foto e poesie che esprimono il tuo amore francescano per il creato e legano intimamente il tuo ricordo alla bellezza della terra dove sei vissuta e dove tanti ti hanno amato.

 

*

Il quadro

 

IL QUADRO

 

 

            Mi piacque fin dal primo momento che lo vidi. Rappresenta la campagna estiva della Val d'Orcia: il giallo dorato dell'erba alta e del grano, profili di colline che con la lontananza sfumano in un azzurro che trapassa nell'azzurro intenso del cielo di una giornata estiva, così intenso che quasi si sbianca in basso sulla linea dell'orizzonte: a sinistra in primo piano il verde cupo di due cipressi solitari nell'immensità della campagna, al centro una strada bianca a curve sinuose che si perde fra l'oro del grano, a destra qualcosa di scuro, forse uno di quei macchioni che interrompono l'aridità del paesaggio valdorciano nei punti dove anche in estate scorre un rigagnolo d'acqua. La cornice di vecchio legno crepato, tinto di vernice azzurra sbiadita e a tratti caduta, suggerisce che il paesaggio sia visto dalla finestra di un podere abbandonato come ce ne sono tanti qui, o meglio c'erano, prima che ne cominciasse il recupero e la trasformazione in ville o in agriturismi.

            Manifestai ad Andrew il mio interesse per quel suo quadro e dissi che forse l'avrei voluto acquistare. Ma la cosa rimase lì. Passò parecchio tempo e il quadro era sempre appeso a una parete in casa del suo autore, dove lo ammiravo ogni volta che ci andavo, ma una sorta di timidezza mi impediva di riprendere il discorso dell'acquisto e anche Andrew, probabilmente per discrezione, non diceva niente. La situazione si sbloccò in un momento significativo e anche un po' drammatico della mia vita.

            Fin da quando avevo comprato la casa in Val d'Orcia avevo concepito il progetto di mettermi in pensione anticipatamente e di trasferirmi a vivere lì lasciando l'odiata città. Negli ultimi tempi il progetto si era fatto più concreto: mi ero data ancora due anni di tempo per sistemare un serie di cose e preparare gradualmente il cambiamento. Ma accadde che un sabato di maggio, mentre ero a Campiglia per il fine settimana, lessi nella posta elettronica un messaggio circolare del preside di facoltà in cui si diceva che i provvedimenti imminenti del governo determinati dalla crisi economica avrebbero cambiato in peggio le condizioni dei dipendenti statali e le modalità di pensione e si suggeriva a chi ne aveva la possibilità di collocarsi a riposo prima dell'entrata in vigore del decreto. Mi parve quasi un segnale. I tempi erano strettissimi. La domenica feci una lunga escursione da Campiglia alla vetta dell'Amiata per riflettere in solitudine camminando nel bosco. Qui presi la mia decisione e la mattina dopo col primo treno andai all'Università e, seduta su una panchina di pietra all'aperto, scrissi a penna la mia richiesta di essere collocata a riposo a partire dall'indomani, primo giorno del mese di giugno, la consegnai al protocollo e me ne tornai a Campiglia. Era il 31 maggio del 2010.

            La subitaneità del cambiamento non poteva non incidere sul mio stato d'animo e già durante il viaggio di ritorno ero entrata in uno stato di grande agitazione. Avevo bisogno di parlare con un amico che potesse capirmi e così il giorno dopo andai a far visita ad Andrew, col quale, fin da quando l'avevo conosciuto, avevo spesso parlato del mio desiderio di lasciare il lavoro per vivere in campagna, e gli raccontai la novità. «Hai fatto quello che volevi fare» commentò lui. Nel grande studio luminoso, pieno delle sue opere di pittura e scultura e dei suoi arnesi di lavoro, il quadro coi due cipressi che prima era appeso alla parete stava ora al posto d'onore sul cavalletto e la gran luce che lo investiva ne accentuava l'intrinseca luminosità. Andrew mi disse che una sua amica americana ci aveva messo gli occhi e voleva comprarlo, ma che lui dava la precedenza a me, che ero venuta prima, purché mi decidessi entro l'estate.

            Pensai che l'acquisto di quel quadro poteva solennizzare un momento di passaggio così importante nella mia vita: quei due cipressi affiancati erano l'invisibile soglia che avevo varcato e la strada bianca persa nella lontananza la nuova ignota strada su cui mi stavo incamminando. Fu così che il quadro divenne mio.

            Lo stato di agitazione si accentuò progressivamente e pagai il brusco cambiamento con una depressione abbastanza grave, da cui tuttavia riuscii ad uscire abbastanza rapidamente. Ero ormai da tempo completamente guarita e mi godevo la nuova vita quando, in una bella giornata dei primi di novembre in cui il sole accendeva le mille sfumature di rame e di oro del fogliame dei boschi, Andrew venne a portarmi il quadro e me lo appese alla parete di fronte all'ingresso nella sala grande. Non molto dopo decidemmo però di cambiargli posto e collocarlo nel mio angolo di lavoro a destra del camino, nel punto in cui, se ci fosse stata una finestra, si sarebbe effettivamente vista una valle assolata. Il quadro, così luminoso da emanare quasi luce propria, divenne così un'illusionistica ulteriore finestra. La lunghezza della sala in fondo a cui era collocato consentiva di vederlo anche da lontano: sebbene non sia di grandi dimensioni, la distanza ne accentua la spazialità e profondità.

            Andrew tenne una mostra personale nella torre medievale della Rocca a Tentennano nell'estate del 2012 ed io prestai il mio quadro, che, ricollocato in mezzo alle altre opere del suo autore, sulle mura di pietra viva dell'antica torre conservava il suo magico fascino.

            Ero in un letto di ospedale fasciata come una mummia dopo l'esplosione di GPL che sbriciolò di colpo la mia casa il 7 gennaio 2013. Qualcuno mi aveva portato i giornali con la cronaca locale che riportava l'incidente e le fotografie della casa distrutta. Guardando una di queste notai qualcosa di luminoso che sporgeva fra le macerie e che lì per lì mi parve quasi lo schermo azzurrino di una televisione. Ovviamente non poteva essere, dato che per principio non ho mai voluto che nella mia casa entrasse una televisione. Non tardai a rendermi conto che era la parte superiore del quadro coi due cipressi, che in mezzo a un monte di calcinacci, pezzi di infissi, frammenti di legno e altre cose irriconoscibili brillava di una luce mite e misteriosa.  

            La casa rimase sotto sequestro per tre mesi, dato che in questi casi scatta quasi automaticamente l'accusa di crollo colposo. Quando dopo alcuni giorni si ottenne l'autorizzazione a un sopraluogo coi carabinieri per recuperare qualcosa, io dall'ospedale detti disposizione di cercare il quadro indicando il luogo dove era nella foto, peraltro non lontano da quello dove era appeso originariamente. Non fu trovato.

            Uscii dall'ospedale. Passò un lungo inverno di bufere di vento, pioggia, neve. La casa era sempre sotto sequestro e quel che forse si era salvato giaceva nascosto sotto le rovine ed esposto a tutte le intemperie. Non si poteva entrare nemmeno nel giardino e da fuori il quadro non si vedeva. Dopo quella foto sembrava svanito nel nulla.

            Andrew veniva spesso a trovarmi nella casa dove stavo provvisoriamente ospite di amici e portava a passeggio i cani, che due straordinari vicini, Domenico e Francesca, avevano salvato dal canile municipale e stavano ospitando a casa loro durante il periodo in cui io ero convalescente e senza casa. Fu in una di queste occasioni che Andrew, andando a riconsegnare il cane nel podere dove Domenico tiene i polli e che confina col giardino della casa distrutta, riuscì da quel punto di osservazione a individuare il suo quadro fra le macerie. Forse l'opera scomparsa volle rivelarsi solo al suo autore. «Entro e me lo prendo» disse Andrew a Domenico. Questi gli indicò allora un punto lontano, meno visibile e dove la rete era più bassa, e rimase a fare il palo. Andrew recuperò il quadro, che si trovava ora in una posizione diversa da quella della foto del giornale ed era sfondato nel centro, mentre nella foto sembrava intero. Tornando da me a salutarmi sperava di strapparmi un sorriso mostrandomi il quadro che bene o male era salvo e, come mi disse subito, si poteva restaurare. Io ero allora in un grave stato di prostrazione fisico e psichico. Vedendo il quadro così sfondato gli dissi: «Prendilo tu, portalo via. Non voglio vedere niente che mi ricordi la casa e l'incidente».

            Passarono molti mesi ancora ed io, dopo quel periodo buio, stavo tornando alla vita con rinnovato entusiasmo. Il capannone agricolo che avevo restaurato per portarci la mia biblioteca era stato nel frattempo completato e con l'aiuto degli amici lo avevo arredato in maniera essenziale ed ero andata a vivere nel mio 'loft' ricongiungendomi finalmente ai miei cani e gatti, anche loro miracolosamente scampati.

            Andrew mi aiutò in maniera decisiva restaurando alcuni mobili che si erano salvati, prestandomene di suoi, montandomi mobili IKEA che avevo acquistato. Un bel giorno si presentò col quadro, che aveva pazientemente restaturato in maniera filologica con l'aiuto di una fotografia. Era più bello di prima e non si indovinava più nulla di quello che gli era successo.

            Così il quadro che avevo rabbiosamente respinto nella mia depressione, quando ero senza casa e separata dai miei animali e mi sentivo come un naufrago sbattuto a riva senza più nulla e neppure un cencio addosso, mi fu restituito nel nuovo ambiente e nella nuova vita che lì cominciava, la seconda vita che mi è stata miracolosamente regalata il giorno dell'esplosione. Ora è in fondo ad un ambiente di lunghezza quasi doppia rispetto al salone di prima, su una parete bianca, collocato un po' di lato. È più bello che mai e regge perfettamente alla grande distanza da cui può essere guardato, anzi la sua nitidezza luminosa e la sua profonda spazialità ne sono accentuate.

            Qualche tempo dopo la compagna di Andrew, Janet, ed io gli facemmo notare che il macchione sulla destra, che era nel punto dove il quadro era stato sfondato e che quindi era frutto di una ridipintura, risultava più scuro di come lo ricordavamo. Andrew rise e disse che era la nostra immaginazione.

            Un pomeriggio che erano venuti a trovarmi, Andrew spedì Janet e me a fare una passeggiata coi cani dicendo che voleva rimanere senza nessuno fra i piedi a montarmi una libreria IKEA. Quando tornammo Janet disse: «Ora che il quadro è qui da qualche tempo, non si nota più che il macchione è più scuro». «Sembra anche a me» dissi io. Andrew si illuminò in viso contento che Janet avesse percepito subito il cambiamento. Dopo la nostra osservazione aveva fatto di nuovo ricorso alle fotografie e si era convinto che avevamo ragione. Aveva quindi portato con sé pennelli e colori e in nostra assenza aveva ritoccato il quadro alleggerendo lo scuro della macchia.

            Un'altra parte della storia mi è stata poi raccontata da Andrew durante una passeggiata nella riserva naturale di Pietraporciana. L'americana che voleva il quadro nonn si era rassegnata e lo tormentava chiedendogli di dipingerne una seconda versione. A tal punto lo sentiva già suo che quando seppe dell'esplosione esclamò: «E così ha distrutto il mio quadro!». Tanto ha insistito che alla fine Andrew si è rassegnato a copiare se stesso e ha dipinto di nuovo per lei il quadro coi cipressi.

 

Nota: l'autore del quadro si chiama Andrew Wordsworth, è pittore, scultore, fotografo, scrittore; vive e lavora a Montepulciano http://www.andrewwordsworth.com/

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Un cane

Poderuccio, 15 settembre 2009

 

            Oggi mi sono congedata per sempre da un grande amico che mi è stato vicino per dodici anni e tre mesi in un periodo della mia vita non facile, segnato da perdite e lutti. La decisione stessa di prenderlo con me era nata dal desiderio di reagire alla tristezza per la morte di mia madre, scomparsa il 17 aprile 1997. Poco più di un mese dopo, alla fine di maggio, andai al canile comunale di Roma e passai in rassegna le centinaia di cani che vi erano rinchiusi, vecchi e giovani, grandi e piccoli. Un grosso e bel cane dal pelo biondo mi colpì perché, mentre gli altri abbaiavano appena appariva qualcuno in capo al viale dov'era la loro gabbia, lui rimaneva in dignitoso silenzio. Disponeva di un un box abbastanza ampio e le sue feci erano collocate nel punto più lontano dalla ciotola del cibo, mentre molti altri cani non si mostravano altrettanto attenti alla pulizia. Quando mi fermai davanti a lui mi dette la zampa attraverso le sbarre e fu amore a prima vista. Me lo fecero 'provare': un pezzo di corda al collo a mo' di guinzaglio e una passeggiatina al 'cinodromo', un prato spelacchiato. Era docile, si conduceva bene, e non disturbò dei gatti che erano lì. Al canile l'avevano battezzato Principe. Tornai a casa e nella notte mi venne in mente il titolo dell'opera di Borodin Il principe Igor, e decisi che l'avrei ribattezzato Igor. Avergli dato un nome significava sentirlo già mio: il giorno dopo andai a prenderlo. Dopo aver sbrigato le pratiche, lo feci salire sulla mia piccola 126 e si spaventò tanto che riuscì non so come a infilarsi sotto il sedile, nonostante la stazza molto grande. Al canile mi dissero che poteva avere due o tre anni, ma la seconda età credo fosse la vera.

            Fu mio marito a osservare, quando mi vide arrivare con lui, che era quasi una fotocopia del cane precedente, Fritz, morto di vecchiaia qualche mese prima della morte di mia madre. 

            Era straordinariamente bello: pelo molto folto con gradazioni di colore biondo distribuite in modo da sottolineare le sue forme, ampio petto, zampe solide, portamento altero con la coda eretta come uno stendardo, muso fiero dagli occhi profondi, focato di nero, orecchie pendenti un po' più scure e una striatura nera sulla coda. La gente - non solo i bambini - si fermava a guardarlo e una volta una turista a Pienza mi chiese il permesso di fotografarlo. È rimasto bello anche nella vecchiaia estrema.

            Ci fu un lungo periodo di rodaggio durante il quale imparammo a conoscerci a vicenda. All'inizio era un cane un po' traumatizzato. Una volontaria del canile che rividi per caso all'università mi disse che era arrivato lì appena due mesi prima che io lo liberassi, portato dalla sua stessa padrona, una ragazza che piangendo aveva detto che andava a vivere altrove e non poteva più tenerlo. Nei primi tempi talvolta correva verso giovani donne. Doveva essere vissuto in campagna perché lo spaventarono terribilmente le scale (abito al quinto piano) e si rifiutò di farle emettendo una sorta di acuto fischio. Ma anche l'ascensore non doveva averlo mai preso e nei primi tempi quando l'apparecchio si fermava cascava seduto a terra. Lo spaventavano anche i pavimenti lucidi e per defecare cercava la terra o l'erba.

            Di lui non si possono raccontare episodi straordinari. Non ha salvato nessuno, non ha compiuto memorabili atti di fedeltà al padrone, non si è distinto per comprensione del linguaggio umano. Era semplicemente un cane. Era dotato di grande intelligenza canina e mi è stato devotissimo senza mai essere esageratemente appiccicoso: non mi saltava addosso quando rientravo, non leccava, non si abbandonava a piroette di felicità, ma mostrava la sua contentezza di rivedermi in maniera composta e dignitosa, talvolta ‘ridendo’, cioè aggricciando le labbra sui denti fino a scoprirli in modo che ad altri avrebbe potuto sembrare minaccioso. Se uscivo la sera lo trovavo in attesa del mio ritorno e solo quando mi aveva salutato correva verso la ciotola del cibo, che aveva lasciato intatta, e finalmente mangiava. Ma se tornavo da un'assenza di qualche giorno rimaneva sulle sue, mi salutava appena e qualche volta addiritttura, quando lo carezzavo o gli grattavo la pancia, emetteva un sommesso brontolio per farmi capire che, se accettava le mie dimostrazioni di affetto, non dimenticava che l'avevo abbandonato.

Appena arrivato nella mia casa si scelse lui stesso il posto dove dormire: non vicino alla mia camera da letto, ma dietro uno dei due battenti della porta d'ingresso. Da qui custodiva la casa. Era un formidabile cane da guardia, che incuteva timore già a guardarlo, ma che non abbaiava mai istericamente a vuoto. In generale abbaiava poco, per fortuna, perché la sua voce era possente.

            Con gli estranei nei primi tempi aveva qualche aspetto d'imprevedibilità e a volte diventava improvvisamente aggressivo con persone che lo carezzavano in mia presenza. Era come se ritenesse che solo io avessi il diritto di carezzarlo. Col tempo si è molto calmato e con gli esseri umani era un cane tranquillo, anche se non si abbandonava subito a grande confidenza.

Aveva uno sguardo intelligente e profondo e sapeva capire quello che io provavo. Nei primi tempi, una volta che ero andata nella stanza di mia madre e stavo seduta sulla poltrona di lei a piangere silenziosamente, sentii improvvisamente un naso umido insinuarsi sotto il mio braccio: era lui, che mi era silenziosamente venuto accanto dall'altra estremità della casa. Un altra volta, nel periodo della terribile malattia che ha portato a morte uno dei miei fratelli, sapendo di essere sola in casa mi misi per sfogo a urlare e gemere e subito mi ritrovai intorno i due cani (nel frattempo era arrivato anche Piotr) che mi toccavano dappertutto col muso esplorando il mio corpo alla ricerca della ferita che mi aveva fatto gridare.

            Igor ha vissuto con me la più grande novità della mia vita, la casa di campagna in Val d'Orcia. Quando tornavamo lì da Roma, per prima cosa si rotolava felice nell'erba. Qualche volta mi sono rotolata anch'io insieme a lui: eravamo felici insieme e per gli stessi motivi, il sole, l'erba, la libertà.

Era un cane dall'ossatura possente e straordinariamente robusto e resistente alla fatica: così è diventato il mio fido compagno di cammino. Anche da vecchio poteva camminare in montagna otto-nove ore e poi avere ancora l'energia per lanciarsi a tutta velocità a inseguire un capriolo. Non si può dire quanti chilometri abbiamo percorso insieme in tanti anni, per monti, per boschi, per campi, per prati, o più modestamente per strade e parchi cittadini. Con lui ho scoperto i paesaggi e gli itinerari intorno alla casa di campagna in lunghe e avventurose camminate per luoghi assolutamente selvaggi. Igor stanava caprioli, cinghiali, lepri e li inseguiva accanitamente. Una volta invece fu lui ad arrivare di corsa verso di me inseguito da tre o quattro cinghiali che evidentemente non avevano gradito di essere disturbati. Forse era un gruppo di femmine coi piccoli: e possono essere molto pericolose. Guardai gli alberi intorno per scegliere quello su cui arrampicarmi, ma le scrofe si accontentarono di averlo fatto scappare e si volsero per tornare indietro. Allora lui riprese a inseguirle e loro si girarono facendolo di nuovo correre verso di me. La cosa si ripetè due o tre volte, finché non riuscii ad afferrare quel diavolo di cane e a mettergli il guinzaglio.

            Tenerlo al guinzaglio non era semplice e certo le mie braccia si erano irrobustite per il continuo esercizio. Se per qualche motivo decideva di partire improvvisamente in corsa, coi suoi quaranta chili di peso mi buttava per terra. Tra i motivi poteva esserci la presenza di un altro cane maschio: una volta mi fece cadere in mezzo alla piazza principale del paese in un giorno di mercato per andare ad addentare un cagnolino bianco, per fortuna senza fargli niente: ed io a terra, con borsetta e telefonino rotolati da parte e dall'altra, guardata con riprovazione da tutto il paese. Fu perciò che mi stupii moltissimo quando Igor accettò immediatamente la tenera amicizia del già ricordato Piotr, un cagnolino piccolo come un gatto. Da lui si lasciava anche togliere il cibo e il piccolino correva sempre a rifugiarsi fra le zampe del suo grosso amico e ne sfruttava la coda come cuscino. Igor era anche un grande cacciatore di gatti, con l'eccezione della gatta di casa, con la quale addirittura nei primi tempi si scatenava in giochi e inseguimenti sfrenati. Dovetti una volta pagare le spese per un’operazione all'anca a un gatto che si era arrampicato velocissimo su un cipresso ma che Igor, allungandosi in uno straordinario balzo, era riuscito ad afferrare per il posteriore ricevendone a sua volta un sanguinosissimo graffio all'orecchio.

            Il suo folto pelo lo proteggeva egregiamente dal freddo, mentre soffriva il caldo. Amava molto l’acqua. Si gettava in torrenti, stagni, pozze anche in pieno inverno. Era per me un grande piacere osservarlo mentre si immergeva e sguazzava voluttuosamente. Era come se facessi il bagno anch'io. La prima volta che lo portai al mare bevve grandi quantità di acqua salata e vomitò durante tutto il ritorno.

            In campagna a un certo punto ottenne di poter dormire fuori e ci stava con qualsiasi tempo, pioggia, vento, geli e perfino la neve. Ha dormito fuori alla pioggia e al vento anche l'ultima notte della sua vita (anche se questo è un mio rimorso: la sera prima il cielo era sereno e io non ho pensato ad aiutarlo a entrare in casa né lui sembrava desiderarlo).

            Le cagne in calore lo facevano uscire di senno. Le percepiva anche a chilometri di distanza e non c'era nulla che potesse tenerlo. In campagna riusciva quasi sempre a scappare e passava notti intere chissà dove. Dovetti far cementare alla base la rete che recingeva il giardino perché lui ci passava sotto in spazi che sarebbero stati piccoli per un coniglio. Una mattina i padroni di una di queste cagne in calore mi telefonarono per dirmi che non potevano uscire di casa perché c'era Igor steso di traverso davanti alla loro porta. In quei periodi perdeva il sonno e l'appetito, smaniava, gemeva, a volte ululava, non mi seguiva più nelle passeggiate.

            Come quasi tutti i cani di grossa taglia invecchiando ha cominciato a perdere progressivamente l'uso delle zampe posteriori. Ma si è saputo straordinariamente adattare a questo progressivo handicap, senza mai lasciarsi andare, continuando ostinatamente a sforzarsi per avere fino all'ultimo una vita attiva, anche soffocando qualche gemito. La sua vecchiaia è stata per me una straordinaria lezione: spero di saperlo imitare quando sarà il momento. L'ha vissuta con grande dignità e senza mai perdere il gusto per la vita, anche nella situazione più limitata che gli imponevano  le sue condizioni fisiche progressivamente peggiori. Anche negli ultimi tempi, quando ero costretta a uscire senza di lui che non ce la faceva più a seguirmi, non tralasciava mai quello che riteneva un suo assoluto dovere: passare dal giardino anteriore a quello posteriore superando a stento i sette gradini della ripida scaletta che li metteva in comunicazione, un duro cimento per le sue povere zampe anchilosate. Una volta avendolo sentito gemere tornai indietro: lui allora fece finta di niente e ridiscese i due gradini che aveva salito come se non fosse stata affatto sua intenzione fare le scale. Del resto la dignità era sempre stata la sua principale caratteristica: non ha mai elemosinato il cibo, non è mai stato umile e sottomesso.

            Gli ho dedicato questa ultima estate e ho assaporato la dolcezza di essere ancora con lui, pur consapevole dell'imminente congedo; anzi questa consapevolezza rendeva tutto più intenso e prezioso. Ed è stato commovente vedere come, nel suo solito modo discreto e sommesso, mi manifestava il suo immenso affetto. Era evidente che stava in vita per me e guardava a me come un navigante alla stella polare. Per lui ho trascorso, per la prima volta da quando ho la casa di campagna. tre interi mesi qui, andando a Roma, quando occorreva, dalla mattina alla sera o al massimo per una notte. Il 12 settembre 2009 gli si sono paralizzate del tutto le zampe posteriori. Il suo sguardo è mutato e io ho capito che era giunto il momento. Oggi è venuto a casa il veterinario e Igor si è addormentato dolcemente accanto a me. Perché non è possibile anche per noi esseri umani? Mentre attendevamo il veterinario, il piccolo gatto Tigrin, da poco miracolosamente guarito dalla gastroenterite infettiva felina che ha ucciso tutti i suoi fratelli, si era rifugiato accanto a Igor, sul pannolone che avevo steso per lui sul pavimento, e stava teneramente rannicchiato nell'incavo del grande corpo sdraiato. Il vecchio cane era ancora capace di dare conforto e protezione.

*

Leggere e scrivere

Mi ricordo benissimo di quando ancora non sapevo leggere. Osservavo smaniosamente le sequenze di minuti segni neri sulle pagine stampate cercando invano di penetrare il loro segreto. Andavo dagli adulti porgendo pagine di libri o di giornali su cui puntavo il dito con un lamentoso «Mi leggiii?». Ma gli adulti avevano sempre altre cose da fare e la lettura di qualche segmento che mi elargivano a volte distrattamente serviva solo ad acuire la mia curiosità. Avevo tra i quattro e i cinue anni quando mia madre finalmente si impietosì e decise di insegnarmi a leggere, ma non avendo alcuna nozione specifica in materia, si limitò a farmi imparare i singoli segni alfabetici e la mia smania di forzare il mistero della parola scritta fece il resto. Per molti anni la mamma continuò a raccontare divertita di quando mi aveva visto arrivare col dito puntato su una parola dell'abecedario e chiedere lamentosamente: «'Gi' più 'elle' più 'i' che fa?».
Ancora rammento il senso di onnipotenza quando finalmente mi impadronii della chiave di quegli arabeschi neri sulla carta bianca. Mi sembrava che il mondo ora non avesse più limiti. Mi si aprivano di fronte territori da esplorare così immensi che intuivo già allora oscuramente che tutta la vita non sarebbe bastata ad esaurirli.
Cominciai freneticamente a leggere facendomi via via meno incerta e più rapida. Moltissime erano le parole sconosciute per una bambina di poco più di quattro anni, ma non avevo tempo di fermarmi a cercare spiegazioni. Così le mie prime letture avevano larghe zone di ombra. Tiravo avanti immagazzinando mentalmente le parole ignote, che prima o poi si ripresentavano in altri contesti: a poco a poco assumevano una fisionomia meno vaga e cominciavo a intuire il loro significato come un investigatore che mette insieme tutti gli indizi. La stessa tecnica avrei utilizzato più tardi nell'apprendimento di lingue straniere attraverso la lettura.
Non cominciai da sillabari o da libri illustrati per bambini, ma affrontai subito la letteratura vera, sia pure quella per ragazzi. Cominciai con le fiabe di Capuana, che mi erano state donate in due volumetti della Casa Editrice Marzocco. Le fiabe erano illustrate da semplici disegni in nero: nulla a che vedere con le raffinate e coloratissime illustrazioni dei libri per bambini di oggi. Alcune strofette inserite in queste fiabe le imparai a memoria e a ripeterle mi riportano ancora il sapore di quella mia prima lettura: «Stretta la foglia, larga la via, / dite la vostra, ché ho detto la mia» oppure «Spera di sole, Spera di sole, / sarai regina se Dio vuole». Fu certamente mio padre a mettermi in mano come prima lettura il suo conterraneo Capuana: con lui, professore di Estetica nell'università di Catania, si era laureato il mio nonno paterno, come avrei scoperto assai più tardi, e probabilmente anche mio padre bambino aveva letto quelle stesse favole. Papà era solito servirsi del primo verso di una di quelle strofette, «Topolino non vuol ricotta», quando voleva rifiutare qualcosa (il testo proseguiva così: «vuol sposar la reginotta, / e se il re non gliela dà, / Topolin l'ammazzerà»). Sicché questa prima lettura mi introdusse in un mondo fantastico di cui partecipava anche mio padre e i versi di Capuana divennero una sorta di linguaggio in codice fra noi. Poi, con un brusco salto, passai ai Figli del capitano Grant di Verne, che mi tennero occupata per vari mesi.
Con questa e con le altre letture che seguirono mi inoltravo faticosamente ma con baldanza in un mondo nuovo e affascinante che presentava difficoltà di ogni genere, non solo linguistiche. Ricordo come rimasi perplessa e stupita la prima volta che lessi un libro che non seguiva un rigoroso ordine cronologico, ma inseriva a un certo punto il racconto degli antefatti. Era uno della fortunata serie di libri illustrati per bambini «La scala d'oro». Questa collana comprendeva fra l'altro numerosi rifacimenti per l'infanzia di opere letterarie. Un volume condensava in poche pagine la tetralogia di Wagner e cominciava col racconto dell'infanzia di Sigfrido allevato dal nano Mime. Poi improvvisamente, in maniera per me assolutamente inspiegabile, si inseriva il racconto degli amori di Sigmundo e Siglinde, dai quali a un certo punto - e qui la mia perplessità toccava il suo culmine - nasceva proprio quel Sigfrido che nel capitolo precedente avevo lasciato ormai adolescente intento a saldare i tronconi della spada del padre morto! Quanto tempo passai a rimuginare su questa stranezza! Tutte queste zone d'ombra non toglievano affatto fascino alle mie letture, anzi l'accrescevano, dandomi il senso quasi di un sacro mistero, che necessariamente presenta aspetti incomprensibili per i suoi fedeli.
Un altra riduzione per ragazzi, quella dell'Odissea fu tra le mie prime letture. Forse fu allora che si destò in me quella passione per i poemi epici e cavallereschi che poi avrei cercato di saziare con letture avide di tutto quello che veniva a tiro, che a un certo punto giunsero a includere perfino il secentesco poema eroicomico Il Malmantile riacquistato. Tra i libri che si trovavano in casa c'era una traduzione in prosa dell'Iliade ad opera di Nicola Festa. Era un volume pubblicato da Sandron nel 1924, che presentava all'inizio di ogni libro suggestive illustrazioni di gusto liberty. Attratta da queste illustrazioni, che lo rendevano simile ai libri per ragazzi che avevo per le mani allora, mi cimentai nella lettura. Sebbene la traduzione fosse in prosa, lo stile era quanto mai elevato e per di più Festa aveva scelto di mantenere forma e grafia dei nomi greci e si teneva aderente al testo greco riproducendone con accuratezza filologica le caratteristiche, la formularità e perfino l'ordine delle parole. Il risultato era questo:

Canta, o dea, l'ira del Peleiade Achille, l'ira funesta che innumerevoli affanni diede agli Achei, molte gagliarde anime di prodi gettò ad Aide; e rendeva essi stessi preda a cani e uccelli rapaci, compiendosi il disegno di Dia, / fin da quando vennero da prima in discordia e contesa l'Atreide signore di uomini e il divo Achille.

Si può immaginare cosa fosse una simile prosa per una bambina. Naturalmente non ci capii nulla, ma mi confermai nella mia religiosa ammirazione per il misterioso mondo della parola. Quel libro, con le sue belle pagine contornate da un'elegante cornicetta nera e con le sue misteriose illustrazioni, continuò ad essere per me una sorta di supplizio di Tantalo. Mi sembrava impossibile non riuscire a capirlo e ci riprovavo caparbiamente. Ma dopo poco dovevo di nuovo rinunciare. All'Iliade ebbi poi accesso in qualche altro modo e mi innamorai a tal punto degli eroi omerici che Ettore e Achille divennero protagonisti dei miei sogni notturni.
Visto che ormai avevo imparato a leggere ma per la scuola pubblica non avevo ancora l'età, i miei genitori mi fecero studiare privatamente per due anni, dopo i quali con un esame fui ammessa in terza elementare. Un giorno sì e uno no andavo per un paio di ore a lezione da una certa signorina Telli, che abitava non lontano da noi. Credo che fosse una maestra elementare in pensione. Nel salotto c'era un divano pieno di bambole ben vestite, dalla funzione per me misteriosa, visto che non ci si poteva giocare. Della maestra e delle sue lezioni non ricordo nulla, ma so che in quei due anni beati con quelle due ore di lezione a giorni alterni e con qualche modesto compito a casa giunsi molto più avanti di quello che era il normale programma di prima e seconda elementare. Non ho mai amato la scuola e le sue infinite costrizioni e sono rimasta tutta la vita a domandarmi che scopo aveva andare ogni giorno a perdere quattro o cinque ore seduti al chiuso su un banco e perderne altre ancora a casa ad eseguire compiti quando il termine di confronto di quelle lezioni private mi garantiva che avrei potuto studiare con molto più profitto in un quarto del tempo che sprecavo a scuola. Non ho mai interrogato in proposito i miei genitori, ma ho la vaga impressione che il pensiero sottinteso fosse che è formativo frequentare la scuola come tutti gli altri e che a studiare da soli si sarebbe rimasti tagliati fuori dalla realtà. Quale realtà poi fosse quella della scuola negli anni Cinquanta me lo ricordo ancora molto bene e mi domando se dal punto di vista dell'educazione non sarebbe stato invece meglio esserne preservati. La classe, inutile dirlo, era esclusivamente femminile. Per andare a scuola indossavo un grembiule bianco con fiocco azzurro, mentre i miei fratellini lo avevano blu con fiocco bianco. La giornata incominciava con l'ingresso solenne della maestra, che salutavamo scattando tutte in piedi sull'attenti: poi, sempre in piedi, si recitava una preghiera. Di nuovo sedute mettevamo le mani sul banco: una compagna incaricata di ciò (era un onore molto ambito) passava in rassegna le unghie e denunciava quelle che le avevano orlate di sporco. Il resto della mattinata, salvo una breve ricreazione durante la quale si mangiava la merenda che la mamma ci aveva messo in un panierino di paglia intrecciata, si stava sedute sui banchi con le mani incrociate dietro la schiena ad ascoltare le lezioni della maestra. La quale era una vecchia signora molto alta e imponente, dai capelli grigio-azzurri, che stava dritta come se avesse un manico di scopa nella schiena. Era la prima metà degli anni cinquanta, eppure quella scuola era ancora tutta intrisa di spiriti risorgimentali e di esaltazione della patria comune. Il Risorgimento era roba vecchia ormai di un secolo e in mezzo c'erano state due guerre mondiali, una dittatura e il passaggio dalla monarchia alla repubblica, ma per la scuola la storia si fermava alla fine dell'Ottocento. La rimozione degli avvenimenti posteriori era totale e a ripensarci oggi mi appare sorprendente. Un giorno che dovevo mandare a memoria un 'dettato' in cui si diceva che l'Italia è il paese più bello del mondo perché è la nostra patria, il luogo dove siamo nati e dove sono sepolti i nostri avi e altre banalità dello stesso tenore, dissi alla mamma, che come sempre mi aiutava nei compiti: «Ma insomma, anche i Russi possono dire la stessa cosa della Russia!» (la scelta della Russia non era casuale: erano i tempi della guerra fredda ed io avevo percepito l'esecrazione dei benpensanti verso il paese comunista).
Va tuttavia osservato per inciso che il Risorgimento era allora meno lontano di ora: lo si poteva ancora attingere per memoria orale. Mia nonna aveva avuto uno zio garibaldino e ne parlava spesso. Di questo suo zio conservava anche una fotografia. Quando all'inizio degli anni sessanta mia cugina e il suo fidanzato andarono ad annunciarle che si sposavano e che si sposavano in comune (cosa a quei tempi insolita e audace), mia nonna rispose: «Bravi, bravi, sono contenta: io son garibaldina!».
Allora ancora si usavano i pennini. Le stilografiche erano un lusso per pochi. Quanto alle penne a biro, ricordo ancora nitidamente la loro prima apparizione: erano durissime e scrivendo quasi trapassavano il foglio. La scrittura si poteva leggere dal lato opposto con le dita tanto erano pronunciati i solchi che scavavano nella carta. Ovviamente a scuola non si usavano arnesi così plebei. A quei tempi si badava ancora alla bella scrittura. I banchi avevano un alloggiamento per un calamaio, una sorta di bicchiere che conteneva l'inchiostro. Era facile rovesciarselo addosso e imbrattarsi irrimediabilmente i grembiuli. I libri di economia domestica del tempo erano pieni di consigli su come rimuovere le macchie d'inchiostro. Uno era quello di usare il latte, che in realtà non faceva che peggiorare la situazione. Le penne erano cannucce che avevano l'estremità opposta al pennino quasi sempre un po' masticata dai proprietari, quando sollevavano la penna in cerca di ispirazione. Si compravano i pennini in scatolette di legno dal coperchio scorrevole. Un altro arnese indispensabile era il nettapenne. Se ne fabbricavano in casa di artigianali cucendo più panni sovrapposti.
La nonna ci regalava dieci lire per ogni buon voto, ma papà e mamma ostentavano sovrana indifferenza per i nostri risultati scolastici. Non volevano che riuscire o meno a scuola fosse per noi un problema. La mamma ci aiutava a fare i compiti. Quando io ero già alle medie passava i pomeriggi a far fare i compiti ai miei fratelli e dopo cena ascoltava ancora me che le ripetevo declinazioni e coniugazioni latine. Era stanca e semiaddormentata ma se sbagliavo una desinenza si destava immediatamente.
Dei miei ricordi di scuola mi stupisce l'evanescenza delle persone. Delle compagne ricordo qualche nome e qualche viso, ma nessuna fu per me significativa. Si faceva qualche pezzo di strada insieme sulla via tra casa e scuola e scuola e casa, i rispettivi nonni si alternavano nell'accompagnarci e nel venirci a prendere, ma poi al di fuori della scuola non ci frequentavamo e non dividevamo alcun interesse. Se penso alla mia infanzia la rivedo solitaria e splendidamente rinchiusa nella cerchia familiare. Se a ciò si aggiunge che anche i miei genitori erano quanto mai casalinghi, che non andavamo a pranzo o a cena fuori e non ricevevamo nessuno, si avrà completo il quadro dell'isolamento in cui vivevamo, simboleggiato anche visivamente dal grande casamento circolare col cortile al centro e in sé conchiuso in cui si trovava il nostro appartamento.
Ad ogni modo fin dai tempi delle lezioni private, e a maggior ragione quando frequentai la scuola pubblica, la mia vera formazione culturale è sempre passata altrove. Le lezioni e lo studio ufficiale erano qualcosa che assolvevo diligentemente come un dovere, una volta adempiuto il quale era finalmente possibile dedicarsi senza rimorsi alle attività più vere. Sono tentata di dire che nessuna esperienza significativa della mia vita sia passata attraverso la scuola, che mi è sempre sembrata una sorta di recita convenzionale alla quale tutti erano tenuti per motivi misteriosi. Io mi venivo aprendo al mondo intellettuale attraverso vaste letture scelte del tutto liberamente e senza limiti, giacché mai alcuno dei miei si sognò di dire a noi bambini: «Questo libro non si può leggere». In una casa dove i libri erano tanti da sottrarre spazio alle persone potevamo prendere e leggere quel che volevamo. E se non bastavano i libri che già c'erano, ottenevamo immediatamente quel che desideravamo. Si risparmiava su tutto ma non sui libri: era l'unica cosa che non ci veniva mai negata. Se chiedevamo un giocattolo o un vestito non di rado ci veniva risposto che costava troppo, ma mai avemmo una risposta del genere chiedendo un libro. Mio padre ricordava sempre la sua giovanile fame di libri e la difficoltà di procurarseli nel remoto paese del profondo Sud in cui era cresciuto. Mi guardava e accennava agli scaffali sospirando: «Ti invidio la fortuna di tutti questi libri».
A casa nostra c'era l'abitudine del riposo pomeridiano dopo pranzo. La vita si interrompeva e tutti andavano a dormire, anche noi bambini, che non volevamo saperne e avremmo preferito continuare i nostri giochi. Ma quando, fattami più grandicella, ottenni di non esservi più obbligata, quel momento solenne di pausa nella casa silenziosa divenne il mio spazio per la lettura. Mi rannicchiavo con il libro nell'ampia poltrona della stanza di soggiorno e poggiavo sul bracciolo la scatola delle zollette di zucchero, a cui attingevo ogni tanto accompagnando la lettura col succhiare lentamente quei cubetti dolci. A volte ciò che leggevo mi catturava in modo tale che non riuscivo a staccarmi e continuavo febbrilmente fino a finire il libro; se gli occhi cominciavano a bruciarmi, li rinfrescavo inumidendoli con la saliva.

Forse perché il mondo della lettura mi appariva un mondo superiore, maturai prestissimo il desiderio di imitare gli scrittori e di scrivere a mia volta. Non saprei neppure dire quando cominciai i miei precoci tentativi di scrittura, ma ricordo un complicato romanzo di avventure pastorali che dettavo alla mamma; dunque o non sapevo ancora scrivere o sapevo scrivere troppo poco.
Ciò che venivo scrivendo rispecchiava via via le mie letture. Dopo il romanzo pastorale vennero storie di animali e fiabe, che corredavo anche di ingenue illustrazioni con matite colorate. Passavo ore a scrivere creando mondi fantastici ed esotici, popolati per lo più di animali. La mia maestra privata, la già ricordata signorina Telli, a un certo punto si preoccupò nel vedermi così costantemente immersa in mondi lontani dalla realtà. Così mi venne dato per mettermi alla prova il tema «Il risveglio in casa mia». I risultati dell'esperimento apparvero tranquillizzanti e una volta appurato che ero in grado di cogliere e descrivere anche la realtà che mi circondava mi si lasciò alle mie fantasie. Continuai così a riempire i miei quaderni. Venne un lungo periodo di infatuazione per il Libro della giungla di Kipling. Per assomigliare di più a Mowgli, il ragazzo allevato dai lupi e amico di una pantera nera, mangiavo enormi bistecche, bevevo latte senza caffè né zucchero, mi abbandonavo a frenetiche danze a piedi nudi con gran profusione di capriole e grida selvagge e trascorrevo molto tempo appollaiata sopra i mobili più alti, che facevano le veci di alberi, cantando lamentosi canti della giungla. Buricchio, un gatto nero di cortile che mi ero fatto amico con qualche carezza e qualche buon bocconcino e che quando lo chiamavo dal balcone accorreva a coda ritta, divenne ovviamente la mia pantera nera. In quel periodo cominciai un lungo romanzo che raccontava la storia dell'amicizia fra una pantera nera e un ragazzo indiano. Mi ero imposta di mandarlo avanti quotidianamente, fosse pure per poche righe, e per distinguere i pezzi che scrivevo di giorno in giorno alternavo penna rossa e nera. Qualche volta l'empito della scrittura mi trascinava e allora scrivevo parecchie pagine di seguito tutta concentrata. Stavo seduta a terra nella mia 'tana' dietro il pianoforte, con la schiena appoggiata al muro e il quaderno sulle ginocchia piegate, e quando mi appassionavo a ciò che stavo scrivendo un nodo di piacere mi chiudeva la gola. Il romanzo di ambientazione indiana mi accompagnò per lungo tratto, tanto che, cominciando io stessa a provare i primi turbamenti della pubertà, anche il romanzo della vita selvaggia e dell'amicizia tra uomo e fiera si arricchì di una delicata storia d'amore, che mi sfuggì dalla penna quasi senza che lo volessi. Il ragazzo e la pantera nel loro selvaggio vagabondare incontrarono una ragazza ed io trascorsi ore di grande emozione a descrivere i primi trasalimenti di un sentimento ancora misconosciuto e ignoto ai due che lo provavano. Rilette a distanza di tanti anni quelle pagine mi hanno comunicato ancora emozioni non banali e tutto il sapore di quella mia difficile e contrastata adolescenza, in cui non volevo crescere né staccarmi dal mio mondo fantastico e riluttavo selvaggiamente di fronte alle trasformazioni della mia natura femminile. Tutto questo ero riuscita a trasporre nelle romanzesche avventure dei miei due ragazzi indiani e della pantera. Poi una mia innata inclinazione al tragico mi fece chiudere il romanzo facendo morire il protagonista per l'assalto di una tigre mentre tentava di raggiungere la ragazza amata. Nei suoi ultimi istanti di vita il ragazzo vedeva il volto di lei chino su di lui e le sembrava di doverle dire qualcosa di molto importante, ma sopraggiungeva la morte. La pantera si ritirava nel più folto della selva e si lasciava morire di dolore. Qualcuno cantava una nenia per addormentare un bambino: «C'è un paese lontano lontano \ e son tutti felici laggiù...».
Oltre che nella scrittura in prosa cominciai assai presto a cimentarmi anche nei versi. Le prime strofette rimate le composi oralmente, quando non sapevo ancora scrivere. Più tardi passai a componimenti più impegnati, per lo più in endecasillabi sciolti, ma anche in versi di altro genere e rimati. Molto spesso erano descrizioni liriche di spettacoli della natura. Mi cimentai anche in traduzioni di poeti antichi, Orazio, Saffo... Nel periodo in cui lessi per la prima volta l'Alfieri abbozzai una tragedia intitolata Cambise, che cominciava «Gloria, ricchezze, onor, tutto ormai ottenni, | ma felice son io?» e che si fermò dopo una ventina di versi. L'appassionata lettura dell'Orlando furioso, che a un certo punto sostituì il Libro della giungla, mi ispirò invece un poema cavalleresco dedicato alle avventure di Sacripante. Una volta ne lessi un paio di ottave a mio padre chiedendo: "Che poeta è?" e mi inorgoglii molto quando ottenni la risposta desiderata: «Ariosto». C'erano poi i quadernini in cui annotavo pensieri e poesie, i temi che scrivevo per la scuola con buon successo, le lettere che inviavo a qualche corrispondente, i diari in cui registravo gite, viaggi, eclissi di sole, nascite di gattini, film visti, libri letti: tutto insomma contribuiva a farmi passare buona parte del mio tempo con la penna in mano, tanto che avevo un callo sul dito medio nel punto in cui poggiava. Nessuno dei miei familiari mostrava una simile passione, eppure, anche se non me ne rendevo conto, quel mio irresistibile impulso a scrivere era in parte un'eredità biologica, come si vedrà dai capitoli seguenti.


*Anticipo su "La Recherche", per saggiarne la tenuta presso un pubblico di amanti della lettura e della scrittura, un capitolo dedicato a questi due aspetti, che fa parte di uno scritto con memorie personali e familiari a cui attendo da anni.

*

Neve

Spalancando le imposte Laura vede che c'è il sole e il cielo è senza una nuvola e di un azzurro intenso. Nei tre giorni precedenti ha nevicato quasi ininterrottamente e tutto è sparito sotto una spessa coltre bianca. Tanta neve così non s'era vista da almeno dieci anni, dicono in paese.
Si veste in fretta, calza gli stivali di gomma sopra due paia di calze di lana, indossa il parka, prende sacco, guanti e guinzaglio ed esce in giardino. Zabot, che era acciambellato al sole nella neve, appena la vede col guinzaglio in mano balza su esibendosi in un festoso delirio: piroetta su se stesso schizzando neve tutt'intorno e le impedisce il passo lanciandosi gioiosamente su di lei con tutto il suo peso e stampandole addosso le impronte dei suoi zamponi bagnati. Finalmente riesce a calmarlo un po' e ad agganciargli il guinzaglio.
Si dirige verso la strada del bosco. Dopo pochi minuti sta già salendo nella densa pineta di rimboschimento e può finalmente lasciar libero il cane, sicura che d'ora in poi non incontreranno né altri cani né gatti né tantomeno esseri umani. Zabot schizza via come una freccia e sparisce nelle profondità del bosco.
Laura sale spedita, col suo solito passo regolare da montagna, appena un po' rallentato dall'affondare nella neve fresca. Ai pini si sono ora sostituiti castagneti da frutto alternati a bosco ceduo. A tratti la investono zaffate dell'odore acre dei cinghiali, nei punti dove la strada è attraversata dai loro sentieri. Con la neve il loro odore sembra quasi più forte. Zabot ogni tanto riappare, annusa qualcosa pieno di concentrazione e sparisce di nuovo seguendo qualche traccia odorosa.
Superata una curva le giunge di lontano lo scrosciare del torrente che scorre in fondo al Fossatone. Il rumore si fa via via più forte e dopo un'ultima curva ne vede le acque impetuose, che precipitano a valle in una stretta gola boscosa: per contrasto con il candore che le circonda sembrano nere. Passato il torrente su un ponte di pietra, si sale ripidamente su un pendio volto a nord-est, la direzione da cui ha soffiato il vento nei giorni precedenti. Qui la neve si è accumulata più che altrove e non è stata minimamente intaccata dal sole, che in quel punto non arriva mai. Si affonda fin quasi al ginocchio. Zabot vuol lanciarsi verso a qualcosa sul pendio ed Laura lo vede sprofondare fino al ventre e quasi nuotare nella neve fresca.
Tale è la bellezza intorno che si ferma a contemplare. Il cane è di nuovo sparito e così lei è completamente sola nel paesaggio immacolato. La nevicata ha trasformato i rami degli alberi in astratti arabeschi, bianco su bianco. Silenzio profondo, rotto solo ogni tanto dal piccolo tonfo di un blocchetto che si stacca da un ramo e cade in uno sfarinio bianco. Non si vedono nemmeno orme di animali: tutto è di una purezza assoluta. Non sembrano più i luoghi a lei così noti, ma un paesaggio sognato. Si sente riempire di gratitudine per il dono gratuito ed effimero di tanta bellezza.
Quando riprende a salire ha quasi ritegno di violare quel candido manto affondandovi il piede. Le nasce un pensiero improvviso: ora che la sorte le ha tolto gli affetti più cari e cancellato e sommerso il passato, la sua vita è verginale, intatta e chiusa come questa neve. Da molto tempo non le accadeva più di pensare al futuro. Ora ci pensa e lo vede di nuovo pieno di infinite possibilità racchiuse nel candore di una neve compatta che tutto copre e nasconde. Sente che c'è un'affinità fra il suo vivere attuale, così reciso da tutto, e questo austero e monocromo paesaggio invernale.
Poco più su rivede, anch'esso imbiancato e trasfigurato, il castagno secolare che sembra quasi una scultura. L'ha sempre ammirato per la sua bellezza: il vecchio tronco gigantesco, spaccato e contorto, è contornato e sottolineato dai nuovi tronchi dritti e slanciati sorti dal pedale. Guardandolo le par quasi di vedere di nuovo Francesco in piedi dentro l'albero intento a fotografarne da vicino il vecchio legno. Tornavano da una passeggiata insieme. Li aveva colpiti e arrestati lo spettacolo del castagno illuminato di striscio dalla luce del sole calante. Lui aveva tirato fuori la macchina fotografica ed era rimasto lungamente a riprendere l'albero girandoci intorno, salendoci sopra, penetrandoci dentro, cambiando gli scorci, provando inquadrature. Intanto Laura si era seduta e lo osservava. Più sotto il fitto bosco, ancora spoglio, era immerso nella calda luce del tramonto e il disegno dei rami risaltava sullo sfondo dell'opposto pendio del monte già in ombra.
Francesco mette nel tempo questi preziosi indugi, queste sospensioni che fanno meditare e assaporare. Non ha fretta, non vuole arrivare da nessuna parte, non ha uno scopo, si immerge completamente in quello che ha intorno.
Chissà se le telefonerà per combinare una passeggiata insieme? Ma no, sa già che aspetterà inutilmente e ansiosamente e non avrà il coraggio di chiamarlo lei per timore di disturbare. Lui è chiuso in un suo mondo, che difende selvaggiamente dalle intrusioni degli estranei, è indecifrabile, sfuggente, elusivo come un animale selvatico. Sa già che aspetterà invano una sua telefonata, ma va bene anche così.
Al bivio prende a sinistra. Poco dopo ecco l'apparizione di un elleboro che emerge isolato dal gran candore. Il verde chiaro della parte fiorita contrasta col verde cupo delle foglie eleganti e profondamente incise. Dei fiori alcuni sono ancora in boccio, altri appena schiusi e simili a campanellini pendenti, altri completamente aperti con le tre capsule del frutto che formano un disegno a stella al centro; tutti hanno i petali orlati irregolarmente di rosso cupo come fossero stati intinti nel sangue.
La strada contorna a mezza costa il pendio del monte, poi s'interna nel vallone dell'Infernaccio divenendo via via più stretta e ingombra di massi, ora completamente sommersi e nascosti dalla neve. Giunta al fondo del vallone cessa improvvisamente, come spesso le strade di qui, che servono solo per lo sfruttamento del bosco. Laura si ferma e scruta il versante opposto in cerca di tracce di sentieri percorribili. Non riesce a vedere nulla e Zabot, che si è avventurato sul ripido pendio innevato, torna presto indietro. La zona è la più selvaggia e remota di quante ne ha attraversato finora. Anche qui il sole non giunge mai. I giovani tronchi sottili del bosco ceduo si slanciano verso l'alto in cerca di luce, tutti uguali e paralleli fra loro e ora anche tutti simmetricamente decorati di bianco dal lato di nord-est.
All'improvviso sente levarsi alto e possente il bramito di un capriolo in amore. È un verso stranissimo e inquietante, così simile a un abbaiare deformato da qualche acuta sofferenza che la prima volta che lo sentì, senza ancora sapere di che si trattava, immaginò con raccapriccio che fossero urla di dolore e di rabbia di Zabot impegnato in un furibondo combattimento con qualche cinghiale. Il selvaggio latrato si ripete più volte spostandosi e traendo echi dal monte. Sembra vicinissimo, sopra la sua testa. Anche Zabot ascolta intento, fermo accanto a lei con le orecchie sollevate e il capo inclinato. Poi il grido si allontana e infine tace.
Laura si volge per tornare e per faticare meno mette i piedi nelle orme lasciate all'andata. Ora va lenta, non sa staccarsi, si ferma continuamente a contemplare. Il sole va e viene a seconda delle giravolte della strada: in certi punti non è ancora sorto, in altri non sorgerà mai, in altri batte già caldissimo, riverberato da tutta quella neve intorno. Zabot, ritornando surriscaldato da una gran corsa dietro a qualcosa, per rinfrescarsi si è gettato col ventre sulla neve e la mangia avidamente.
Chissà se Francesco telefonerà? Ma va bene anche così, pensa ancora Laura. Le basta sapere che esiste uno come lui, aver conosciuto il suo affascinante mondo, il suo modo di vivere, di essere artista, di creare. Le ha dato uno sguardo nuovo per l'infinita bellezza di tante piccole cose: un nido di uccello che il vento ha fatto cadere, un aculeo d'istrice, le pietre, le piume, le foglie, le ragnatele, i ghiaccioli. Come questi ghiaccioli che nei punti esposti, dove il sole ha fatto sciogliere un poco la neve, discendono dalla ripa di terra rossastra mista a rocce che limita la strada dal lato a monte. Pendono dalle radici degli alberi come strani, fantastici gioielli. Dalle punte acuminate e sottili scendono lentamente piccolissime gocce iridandosi ai raggi del sole. Uno ha inglobato alla base un pochino di muschio che traspare col suo verde come un fossile incastonato nell'ambra. Verrebbe voglia di prendere uno di questi gioielli, ma poi resterebbe in mano solo un po' d'acqua. Anche tutta questa neve nel giro di poco si dissolverà gocciolando, ruscellando, intridendo la terra, e ci sarà fango dappertutto.
L'ultimo tratto è meno innevato e più familiare, prelude al rientro nella normalità. Rimette il guinzaglio al cane e insieme sbucano sulla strada asfaltata. Qui bisogna stare attenti al ghiaccio formatosi al passaggio delle macchine. Riesce a malapena a trattenere Zabot, che tira con tutta la sua forza e abbaia con grande impegno contro il cagnetto di un podere che stanno oltrepassando. Appare in lontananza il paese con le sue case arrampicate e strette insieme su un buffo cocuzzolo roccioso. I tetti sono tutti imbiancati. Ai margini, un po' staccata, ecco la sua casa contornata da neri cipressi: davanti bianchi pendii da cui il sole sta facendo riaffiorare il verde. A questa vista prova un tranquillo e rassicurante senso di appartenenza. La lunga camminata l'ha rilassata e in tutto il corpo le scorre un senso di calore e di benessere mentre i pensieri si sono fatti più vividi e leggeri. La sua vita è ormai qui: questo è il suo paese, questa la sua casa. L'altra casa, l'altra sua vita in città appartengono ormai anch'esse a quel passato che la gran nevicata ha sommerso.
Chissà se Francesco telefonerà... Ma anche così è contenta di averlo incontrato. È l'uomo più libero che abbia mai conosciuto. Le ha insegnato la lentezza.
Guarda l'orologio. È stata nel bosco un'ora e mezza, ma le sembra di tornare da un lunghissimo viaggio. Ora dovrà rientrare nella quotidianità, sedersi al computer e completare quella relazione da consegnare entro sabato. Ma sa già che non lo farà. Invece si metterà a scrivere. A scrivere di questa passeggiata nella neve. E tenderà l'orecchio sperando che squilli il telefono...

Poderuccio, 3 marzo - 17 aprile 2004.

*

I bambini di Terezìn

Il bambino aveva grandi occhi neri e una fossetta sul mento. Era molto vivace, parlava in fretta, rideva spesso. La vecchia professoressa continuava a guardarlo sforzandosi di afferrare un'immagine sfuggente. A chi assomigliava? Distolse gli occhi da lui e si mise a guardare fuori dal finestrino. Il vetro era sporco e una mosca istupidita continuava a passeggiarvi avanti e indietro. La scacciò con la mano.
Erano giunti all'incrocio di viale della Regina e via Nomentana; il semaforo era rosso. La professoressa tornò a guardare il bambino e di nuovo qualcosa si agitò nella sua memoria, qualcosa che non riusciva ad afferrare. Il bambino ora s'era fatto serio: non parlava più e guardava fuori dal finestrino.
Il pullman era pieno del chiaccherio rumoroso e allegro di tutti quegli scolari, lieti dell'inattesa vacanza. Per loro la visita a quella mostra era solo una vacanza e nulla più. «Forse dopo non saranno più così allegri» pensò la professoressa. Molti si erano opposti alla sua idea di condurre i ragazzi a quella mostra. «Non sono cose adatte... Sono ancora troppo bambini per conoscere queste atrocità». Ma la vecchia professoressa godeva di molta autorità e il preside era stato subito d'accordo con lei.
Ora quelle due classi erano affidate a lei e in quella tiepida giornata autunnale il pullman li portava verso la mostra. Era una mostra allestita nella città coi ricordi dei bambini ebrei periti nel Lager di Terezín. «Non sono poi tanto piccoli» aveva detto la professoressa. «Alle medie si è già abbastanza grandi e queste cose debbono essere proprio loro a saperle, loro che costruiranno l'avvenire. Bisogna che le imparino e non le dimentichino mai».
Il bambino ora si era alzato ed era andato a unirsi a un gruppo di compagni che, seduti sul divano in fondo al pullman, discutevano animatamente. La professoressa continuava a guardarlo senza riuscire ad afferrare quell'evanescente ricordo. Non sapeva neppure il nome di quel bambino, perché non era della sua classe.
Improvvisamente le affiorarono alla memoria le scale oscure della sua vecchia casa, quella nel vicolo dietro piazza dell'Argentina. Erano scale buie e tortuose, dai vecchi muri scrostati e macchiati di umidità, e vi ristagnavano gli odori delle cucine. La mattina c'erano su ogni pianerottolo secchi argentei di alluminio colmi di spazzatura, in attesa di essere vuotati dall'immondezzaro, che passava verso le dieci. Allora all'odore di cucina si aggiungeva quello di spazzatura. «'Ngiorno, sora professoressa», la salutava la vecchia signora Rosa mentre saliva le scale con la borsa della spesa sbuffando e fermandosi a ogni gradino. «Sempre in gamba, signora Rosa» rispondeva lei e tirava via. Era lì, su quelle scale, che incontrava sempre quell'altro bambino. Come aveva potuto dimenticarlo? Aveva anche lui una fossetta sul mento e grandi occhi neri.
Lo incontrava ogni mattina. Usciva per andare a scuola con la sdrucita cartella di cuoio finto sotto il braccio. «Buongiorno» diceva a lei e sgattaiolava giù facendo i gradini a due a due. «Farai tardi oggi!» gli gridava la madre sporgendosi dalla ringhiera del pianerottolo. Oppure: «Ricordati di comprare la merenda!». La professoressa scendeva lentamente e quando era in strada il bambino era già sparito. Qualche volta (a poco a poco ricordava) lo vedeva giocare nel vicolo coi tappetti delle bibite insieme con altri bambini. Lei si affacciava alla finestra della cucina e li stava a guardare. Riempivano di grida la stradetta ombrosa nell'afa del meriggio. Lui era sempre il più vivace e il più destro nel gioco. I gatti del vicolo, sdegnati da quel baccano, scivolavano via silenziosamente.
Una volta la madre di quel bambino aveva suonato alla sua porta. Era una donnetta spaurita, con la faccia un po' da topo, grigia com'era e coi capelli scoloriti legati a crocchia sulla nuca. C'era anche il bambino con lei e aveva un quaderno in mano. «Non riesce a fare il compito» aveva detto la madre, «Domani l'interrogano e sono già le sette...». Allora la professoressa aveva aiutato il bambino. Con lei era molto timido e impacciato e il latino non lo capiva proprio. Riusciva molto meglio nel gioco dei tappetti.
Perché dunque la professoressa provava un così acuto rimorso nel ricordare quel bambino per tanto tempo dimenticato, ora che un altro aveva parlato e riso come lui? Perché quei vicini dell'uscio di fronte si chiamavano Levi e quando erano spariti la vita nella vecchia casa del vicolo era continuata come prima, come se nulla fosse stato. «Buongiorno, signora Rosa». «'Ngiorno, sora professoressa». Nessuno domandava, nessuno guardava quell'uscio chiuso con la targhetta «Levi» sempre più offuscata ora che non c'era più chi si preoccupasse di lucidarne l'ottone.
Il pullman si era fermato e i ragazzi si riversavano fuori tutti eccitati ridendo e schiamazzando. Bisognava mettere ordine, farli entrare, far firmare il registro delle visite. «Un po' di silenzio, ragazzi!». Finalmente entrarono nella prima sala.
Erano poche sale, la visita non sarebbe stata lunga. C'erano quadri e poesie dei bambini morti laggiù e piccole cose appartenute a loro. C'era una piccolissima scarpetta trovata nel fango del campo. La professoressa taceva e lasciava che i bambini guardassero, senza dir loro nulla. Le sembrava che i documenti esposti fossero di un'evidenza così terribile che le parole non potevano che diminuirla. Continuava a pensare al bambino della casa nel vicolo, che sapeva giocare così bene coi tappetti e non riusciva a capire il latino.
I bambini erano distratti; non la smettevano di parlare e ridere fra di loro. L'inattesa vacanza gli aveva messo l'argento vivo addosso. Le sale erano appena tre e dall'ultima lei poteva vedere la prima e il tavolo col registro dei visitatori. Notò che un gruppetto era rimasto indietro e stava intorno al tavolo. In mezzo a loro distinse il bambino che somigliava al piccolo Levi. Le sembrò che stesse scrivendo nel registro, ma non vedeva bene ed uno dei compagni, che aveva colto il suo sguardo, si spostò coprendolo alla sua vista. Quasi subito il gruppo si si disperse. «Forse avevano dimenticato di firmare» si disse, ma senza perdere d'occhio il resto della scolaresca passò nella prima sala e si fermò accanto al tavolo col registro delle firme. I fogli erano stati voltati e il registro ora si apriva su due pagine bianche. Lo sfogliò rapidamente e si arrestò di colpo su una pagina. Al centro di essa campeggiava una grande scritta vergata in caratteri stampatello un po' incerti: «Morte agli ebrei! Viva Hitler!».


Il racconto, scritto il 1° febbraio 1964, è ispirato a un fatto vero, che mi fu riferito da mio fratello Alberto (anche lui attualmente collaboratore della Recherche), che faceva parte della scolaresca in visita. Vinse il primo premio in un concorso letterario del Liceo Augusto e fu pubblicato, col titolo «Visita a una mostra», in «Augustus. Organo degli studenti del Liceo Augusto», anno X, 5-6, aprile 1964, 24-27. Il 27 dicembre 2003 l'ho sottoposto a una revisione abbastanza radicale ed è stata pubblicato nella nuova versione, sempre con lo stesso titolo e con una nota di Mario Graziano Parri, in «Caffè Michelangiolo» VIII 3, settembre-dicembre 2003 [ma primavera 2004], 33-35. Lo presento ai lettori della Recherche in occasione della" Giornata della memoria" con titolo mutato e qualche ulteriore lievissimo ritocco.

*

L’album


«Ricordati che fra un mese Irina compie quattordici anni» gli disse quel mattino la moglie posando la tazzina del caffè; e dopo una breve pausa aggiunse: «Si sta facendo proprio una bella signorina. Vedrai come farà girare la testa agli uomini fra poco». Il maggiore ripiegò con cura il giornale, lo posò sul tavolo, si forbì i baffi col tovagliolo e alzò gli occhi a guardare la sua consorte: «Ha preso da sua madre» disse galantemente.
La sunnominata Irina stava in quel momento dormendo ancora beatamente, ma quando a sera la famiglia si riunì per la cena il padre ebbe modo di indugiare a osservarla e constatare che la moglie aveva ragione. Negli ultimi tempi era cresciuta di colpo e impetuosamente, come accade agli adolescenti, e si era fatta alta e sottile come un giunco. L'ovale del volto si era affinato; non c'erano più quelle guance un po' paffutelle che le davano un aspetto infantile. I capelli molto ricci, leggeri e sottili, di un castano dorato, spartiti ai lati del capo, le incorniciavano il volto di un'aureola che si dorava sotto la luce spiovente dalla lampada. Indossava un semplice vestito di lanetta a quadri: collettino di pizzo, vita sottolineata da una cintura, gonna leggermente svasata e ondeggiante per un'arricciatura con balze un po' sotto il punto di vita, scarpe e calze bianche. Il padre notò per la prima volta che sul petto la stoffa si sollevava per un accenno di seno. Rimase stupito e provò una profonda malinconia. La bambina che aveva riempito la casa dei suoi giochi chiassosi e della sua allegria, la figlia unica e molto desiderata, nata insieme con la pace al suo ritorno dalla grande guerra, la personcina che tante volte aveva condotto a passeggio con sé godendo del suo chiacchiericcio infantile, ecco che non c'era più, era morta. Forse ce n'era ancora un tenue ricordo nella bocca e nel sorriso di questa adolescente timida e ritrosa, che ora mangiava composta e in silenzio e non faceva più risuonare le risate e la voce gaia di bambina vivace e un po' viziata.
Ci pensò ancora il giorno dopo mentre compiva il solito tragitto verso la caserma. Lo prese addirittura un senso di sgomento. Come poteva il tempo esser volato così? Come poteva quel fagottino di carne rosea e strillante che ancora ricordava nitidamente sulle braccia della levatrice essere diventato una graziosa signorina, quasi senza che lui se ne accorgesse? Si sentiva quasi defraudato. Quei giochi colla sua bambina erano finiti e non sarebbero tornati mai più. Mai più avrebbe potuto scegliere con cura un libro di favole riccamente illustrato o una nuova bambola per il compleanno di lei. Già, cosa si regala a una signorina? Non mancava molto al compleanno ed era tempo di cominciare a pensarci. Cosa desiderava ora sua figlia? Certo non più bambole o altri giocattoli. Forse vestiti, gioielli, profumi. Ma gli sembrava troppo presto per pensare a doni di questo tipo. E non ne aveva voglia. Del resto ci avrebbe certo pensato la madre. Erano cose da donne queste. Lui cosa poteva regalare?

***

«Salvatore Palumbo a rapporto dal maggiore». Il giovane Palumbo - statura non alta, occhi e capelli nerissimi, ufficiale di prima nomina spedito a Reggio Emilia dalla sua natia Sicilia - a quest'improvvisa convocazione si spaventò. Passò rapidamente in rassegna le sue azioni degli ultimi giorni per vedere se poteva aver commesso qualche grave infrazione. Non gli sembrava. Ma era inutile stare a strologare e non doveva far aspettare il superiore. Con una rapida occhiata alla divisa controllò che tutto fosse in ordine perfetto e andò a presentarsi. «Palumbo, tu hai fatto gli studi classici, vero?» gli disse il maggiore quando lo vide in piedi davanti alla sua scrivania sull'attenti. Colto di sorpresa e più che mai inquieto per quella domanda inaspettata, che gli parve foriera di chissà quali tempeste, Palumbo rispose affermativamente balbettando un po'.
Qualche giorno più tardi l'ufficiale Salvatore Palumbo acquistò in una tabaccheria vicina alla caserma una «cartolina postale con risposta pagata» e giunto al suo piccolo alloggio sedette al tavolo e impugnò la penna. Per prima cosa scrisse l'indirizzo nelle righe a ciò destinate sotto lo stemma sabaudo e il francobollo da 30 centesimi con l'effigie di Vittorio Emanuele: «Illmo Signor / Prof. Geppino Rizzo / R. Liceo / Barcellona Pozzo di Gotto/ (Messina)». Poi, dopo essere rimasto un poco a riflettere con la penna sollevata in aria, si mise a scrivere rapidamente e in poco tempo riempì tutti gli spazi disponibili con la sua grafia ferma e regolare, leggermente inclinata a sinistra. Appose saluti e firma, sostò un attimo, poi ci ripensò e nel poco spazio rimasto a destra della firma aggiunse ancora, impiccolendo un po' la scrittura, un breve poscritto e per maggior chiarezza lo separò dal resto con una cornicetta. Lo scritto alla fine suonava così:


Reggio-Emilia - 27-4-1932


Carissimo Geppino,
Mi ricordo di te per venirti a seccare un po' e cioè per chiederti un favore che spero puoi farmi e vengo subito al fatto.
Sono a Reggio, come saprai, per il servizio di ufficiale di prima nomina e qui il mio maggiore, che ha saputo che ho fatto gli studii classici, mi chiede un verso dantesco o latino etc... che risponda al concetto: da piccolo virgulto... rigogliosa pianta. Capirai che io non so quale grande poeta latino o italiano abbia degnamente cantato un simile pensiero, e se l'ho saputo adesso ho avuto tutto il tempo di dimenticarlo. Il mio maggiore ha pensato di regalare all'unica sua figlia un album con le sue stesse fotografie da piccola neonata a signorina e perciò desidera scrivere un verso nell'album che risponda appunto al suo pensiero: da piccola fino all'età che ha. Ho pensato che solo tu puoi trarmi d'impaccio e ti prego caldamente e con una certa sollecitudine di mandarmi questo benedetto verso, che appartenga ad un nome illustre delle letterature che tu conosci magistralmente. Ti chiedo tante scuse pel disturbo ed anche della fretta con cui ti chiedo la risposta ma tu sai che i desiderii dei superiori nella vita militare non sono né più né meno che ordini quindi capisci in quale condizione mi trovo e credo che mi scuserai largamente.
Sempre con grande stima ti saluto affettuosamente tuo affmo
Salvatore Palumbo
N. B. Mi raccomando la citazione esatta del poeta e del lavoro in cui è scritta.

La risposta di Rizzo non tardò ad arrivare. Suggeriva un verso latino di un'ode di Orazio. Era un verso di non facile comprensione e Rizzo non dava spiegazioni. Palumbo si procurò un'antologia scolastica di Orazio, andò a vederselo nel contesto e lesse le spiegazioni date nel commento. Si trovò trasportato in un ambito quanto mai lontano da quello della fanciulla in fiore a cui il verso avrebbe dovuto alludere. L'ode era una di quelle 'romane' e il verso era riferito alla fama di un Marcello su cui gli interpreti non erano d'accordo, ma che sembrava probabile fosse il Marcello più glorioso, attraverso cui tuttavia Orazio avrebbe inteso alludere adulatoriamente anche al giovane Marcello suo contemporaneo, nipote e genero di Augusto, quello poi morto prematuramente e cantato da Virgilio in versi rimasti memorabili. Con un paragone ripreso da Pindaro Orazio diceva che la fama di Marcello cresceva come cresce un grande albero. Ma di suo aggiungeva al paragone pindarico una notazione tipica di un poeta che ha sempre sentito acutamente l'inesorabile fuga del tempo, e cioè che l'albero cresce senza che uno se ne avveda insieme con l'impercettibile scorrere del tempo: non lo vediamo crescere e un giorno lo scopriamo già grande, così come non avvertiamo la fuga del tempo se non quando qualcosa ci fa sentire improvvisamente che ci è fuggito fra le mani.
«Chissà se piacerà al maggiore? - si disse Palumbo restando un po' perplesso - Certo non è un verso facile da intendere e bisognerà spiegarglielo». E si presentò a rapporto col libro oraziano in mano. Per la prima volta forse nella sua storia la caserma sentì echeggiare fra le sue mura versi di Orazio e citazioni pindariche. Il colloquio andò bene al di là di ogni previsione e Palumbo se ne andò tutto soddisfatto. «Diavolo di un Rizzo!». Lo sapeva che solo lui poteva risolvere un caso così! Il maggiore era visibilmente rimasto impressionato e nel congedarsi dal suo sottoposto l'aveva ringraziato e si era congratulato con lui per i suoi «ottimi studi».

***

Quella stessa sera, dopo cena, il maggiore stava sprofondato nella sua vecchia poltrona davanti al camino e fumava la pipa con gli occhi fissi al gioco delle fiamme. Il calore del fuoco e la piacevole sazietà lo fecero a poco a poco sprofondare in una sorta di reverie. Le immagini delle fotografie che aveva pazientemente disposto nell'album per la sua bambina gli si presentavano mescolate e sovrapposte a immagini vive dai suoi ricordi. L'album era ormai pronto: e grazie a Palumbo ora aveva anche il verso da scrivere sul frontespizio. Bella cosa la cultura. È strano, ma c'è sempre, a saperlo trovare, un poeta che ha detto esattamente, con parole alate, quel che noi abbiamo sentito un po' confusamente. Solo cinque parole e un po' enigmatiche, ma esprimevano proprio quello che voleva lui. Si tolse la pipa dalla bocca e mentre attizzava il fuoco nel camino si ripetè quel verso fra sé e sé a bassa voce:

Crescit occulto velut arbor aevo.

Roma, 6-30 dicembre 2003


P. S. La cartolina esiste davvero. Scivolò fuori dalle pagine di un libro della mia biblioteca che avevo preso per consultarlo. Il libro era U. E. Paoli, prose e poesie latine di scrittori italiani, seconda edizione riveduta e ampliata, Firenze, Le Monnier, 1927. Dai timbri postali si vede che la cartolina partì da Reggio Emilia quello stesso 27 aprile in cui era stata scritta ed era già a Barcellona Pozzo di Gotto il 29 dello stesso mese (le Regie Poste funzionavano molto meglio della posta dell'Italia repubblicana).
Il volume che ha conservato la cartolina, forse usata come segnalibro, era di mio padre Geppino Alfredo Rizzo, che nel 1932 stava per compiere venticinque anni ed era al suo al suo primo anno di insegnamento nel Regio Liceo di Barcellona Pozzo di Gotto. Mio padre rispose sollecitamente come gli era stato chiesto: lo si ricava da una sua nota a matita collocata sopra l'indirizzo della cartolina: "risp. 30-IV-32" (quest'abitudine di annotare a matita sulla corrispondenza evasa la data della risposta l'avrebbe conservata per tutta la vita). Un'altra sua nota a matita, che occupa il poco spazio bianco lasciato da Salvatore Palumbo fra la data e il "Carissimo Geppino", ci informa anche della citazione con cui risolse brillantemente il piccolo ma spinoso problema del suo corrispondente.

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Amicizia fra cani

A volte guardandoli penso che siano davvero padre e figlio. Il colore del pelame, che in entrambi sfuma dal biondo chiaro del grano maturo a quello più scuro delle foglie secche in autunno, con toni bruni verso la punta delle orecchie pendenti, la forma della testa, la macchia nera sulla parte superiore della coda.... Sì, si assomigliano terribilmente, solo che Igor è grande quanto un pastore tedesco e Piotr quanto un gatto, Igor è una massa compatta di muscoli di peso superiore ai quaranta chili, Piotr uno scricciolo che non arriva a cinque chili. Sicché, quando mi aspettano seduti l’uno accando all’altro fuori dei negozi, offrono un tale spettacolo che i passanti si fermano ad ammirare e talvolta a fotografare. Il motivo per cui potrebbero anche essere padre e figlio è il seguente. In un podere da tempo disabitato e mezzo in rovina, a una ventina di minuti di cammino da casa mia, il macellaio del paese, teneva oltre a pecore e galline, due cagnette. Quando una o l’altra delle due o tutte e due insieme andavano in calore Igor cominciava a smaniare, ululava, non mangiava più e passava le ore a fiutare quell’odore eccitante portato dall’aria. Spesso riusciva anche a scappare e spariva così a lungo che neanche tornava la notte a dormire. Erano per me notti di angoscia, nelle quali periodicamente mi affacciavo alla finestra chiamando «Igor» a gran voce e poi tornavo a letto ossessionata da visioni di lui col ventre squarciato dalle zanne dei cinghiali agonizzante in qualche angolo di bosco. Un giorno il macellaio mi disse: «Se il suo cane vuole andare dalle mie cagnette, lo lasci andare perché voglio fare una razza un po’ più grossa». Era letteralmente un invito a nozze per Igor, che del resto ci sarebbe andato comunque. Cominciava proprio allora ad essere un po’ anziano e ad avere qualche problema alle zampe ma il richiamo del sesso per i cani (e non solo per loro) non ha età. Una delle due cagnette era in calore e Igor approfittò di una passeggiata con me per scappare. Non tornò né per cena né per la notte. La mattina dopo l’andai a cercare al podere delle cagnette e lo trovai tutto ansimante che faceva sforzi per montare una delle due, coronati da poco successo data la sproporzione di taglia. Passarono due mesi e il macellaio mi disse che la cagnetta aveva partorito tre cuccioli, che a suo dire potevano essere figli di Igor. Ma io sapevo bene che al podere potevano esserci andati tutti i cani del paese e non mi sentivo altrettanto sicura. Uno dei cuccioli fu quasi subito regalato al proprietario di un altro podere più lontano e ne rimasero due. Circa un anno più tardi, quando nelle mie lunghe camminate con Igor mi capitava di passare davanti al podere delle cagnette, cominciarono a sbucar fuori due cagnolini biondi e identici fra loro (un maschio e una femmina), che percorrevano di corsa il lungo viale di accesso al podere e venivano a salutare festosamente Igor saltellandogli intorno e alzandosi sulle zampette posteriori per baciargli gli angoli della bocca. Igor era di solito un cane molto feroce con gli altri cani, soprattutto coi maschi, anche quelli piccoli di taglia. Con questi cagnolini invece si mostrava paterno e accettava benevolmente le loro feste. I due piccoletti presero a seguirci nelle passeggiate. Erano selvatici e inavvicinabili da me perché non avevano avuto alcun imprinting umano: il loro padrone infatti si limitava a portare al podere col suo furgone bianco gli scarti di macelleria e ripartiva subito. Lungo la strada per casa mia c’era un recinto con un gigantesco pastore tedesco. Quando arrivavo lì col mio seguito di cani, lui cominciava ad abbaiare furiosamente gettandosi con tutto il suo peso contro la rete. Allora i due fratellini voltavano le spalle e scappavano a gambe levate verso il loro podere natio. Una sera però scappò solo la femmina, mentre il maschio si immobilizzò restando a osservare. Io e Igor avevamo ormai oltrepassato il recinto quando incuriosita mi voltai e alla luce incerta del lampione all’angolo del recinto vidi che il piccoletto, dopo un attimo di esitazione, metteva cautamente una zampina dopo l’altra e, come camminando sulle uova e sogguardando di continuo verso il recinto col mostro urlante, stava venendo dietro a noi. Così si instaurarono nuove abitudini e seguì un periodo abbastanza lungo in cui il cagnetto ci seguiva nelle nostre lunghe passeggiate e poi veniva a casa con noi. Qui passava il suo tempo in giardino con Igor e mangiava, quando io non ero nei paraggi, i croccantini che mettevo anche a lui in una ciotola. L’amicizia tra il cane grande e vecchio e il cane piccolo e giovane, entrambi maschi, si era fatta intanto davvero commovente: stavano sempre insieme sdraiati sul prato uno accanto all’altro e il piccolo a volte baciava teneramente gli angoli delle labbra del grande, come sono soliti fare i cuccioli di canidi quando corrono incontro ai genitori di ritorno dalla caccia per far rigurgitare loro il cibo. Se qualcosa gli incuteva timore il piccolo correva a rifugiarsi fra le zampe del grande. Quando noi tornavamo a Roma il cagnolino tornava al suo podere, salvo ripresentarsi puntualmente quando riaprivo la casa di campagna. Il macellaio del paese cominciò a seccarsi perché temeva che, percorrendo la strada asfaltata che conduceva dal paese al podere, il cagnolino finisse col causare qualche incidente e toccasse a lui pagare i danni. Così qualche volta trovai il povero cagnolino rinchiuso per causa mia in una stalla, lui che era lo spirito della libertà in persona. Igor stava invecchiando, come ho detto, e io pensai che questa amicizia gli avrebbe reso più lieve la vecchiaia. Così dissi al macellaio che volevo acquistare il suo cagnolino. Naturalmente lui fu ben felice di regalarmelo ed io ricambiai con alcune bottiglie di vino. Andai al podere, dove il povero cagnolino era rinchiuso nella stalla, tolsi la pesante spranga che chiudeva la porta ed entrai. Lui scappò a rifugiarsi dentro la mangiatoia, ma in un ambiente così limitato non mi fu difficile acchiapparlo. Lo sollevai dalla mangiatoia come Gesù bambino. Si irrigidì tutto e dal piccolo pene gli zampillò per la paura un rivolo di pipì. Tolsi il guinzaglio a Igor, lo legai intorno al collo del cagnetto e provai a trascinarmelo dietro. Lui si buttò sulla schiena e si lasciava tirare a zampe all’aria come una bambola di pezza. Mi toccò prenderlo in braccio e farmi i venti minuti di cammino in salita fino a casa con lui che a ogni passo mi sembrava più pesante. I primi tempi ogni tanto mi scappava di nuovo e provavo invano a riacchiapparlo inseguendolo per tutto il giardino e cercando di metterlo nell’angolo. La prima volta che volli farlo uscire a passeggio con noi e gli misi un collarino e un guinzaglio comprati apposta per lui, si buttò di nuovo sulla schiena. Lo lasciai lì e me ne uscii con Igor. Ma il giorno dopo, quando agganciai il guinzaglio al collare, ci seguì tranquillo come se non avesse mai fatto altro in vita sua. Gli detti come all’altro cane un nome russo, Piotr, un nome breve e rollante di r come lui quando pretendeva di ringhiare minacciosamente a qualcosa. Un amico mi regalò una medaglietta a forma di osso col nome e il telefono. Non aveva ancora visto il cane e la medaglietta si rivelò comicamente grande rispetto al suo minuscolo portatore. Quando lo portai la prima volta con me a Roma mi preoccupai per giorni all’idea del piccolo selvaggio trasferito di colpo in una macchina, in un appartamento, in città. Invece si adattò immediatamente con estrema naturalezza. Si installò da signore sul materassino di Igor, mentre quest’ultimo si ridusse a dormire sul pavimento. Quando eravamo in campagna, Igor, vecchio cane robusto e dal pelo foltissimo, era avvezzo a dormire fuori con qualsiasi tempo, anche nella neve, mentre Piotr, delicatino e viziato nonostante le sue origini plebee, dormiva in casa. Al mattino quando mi svegliavo e aprivo la porta-finestra sul giardino, Piotr scappava fuori e subito correva sul retro, dove si trovava Igor, che da lì sorvegliava il cancello d’ingresso. Dopo poco Piotr ricompariva insieme con l’amico ed io distribuivo biscottini per colazione: il primo, nel rispetto delle gerarchie, lo davo ad Igor, che lo afferrava delicatamente coi denti e poi lo lasciava cadere a terra e aspettava che Piotr lo prendesse; solo dopo mangiava un secondo biscottino avuto da me. Passarono così poco più di due anni e mezzo. La vecchiaia di Igor progrediva sempre più in fretta. Le zampe lo reggevano sempre meno, finché dovetti rassegnarmi a fare le passeggiate più lunghe col solo Piotr e, poi Igor non ce la fece più neppure a venire in paese con noi e ci aspettava dietro al cancello. Era diventato sordo e spesso era Piotr a dare l’allarme per qualcosa e Igor si univa col suo abbaiare, un tempo possente e ora pietosamente roco, ma aveva negli occhi uno sguardo incerto, da cui capivo che abbaiava solo perché abbaiava l’altro, ma non sapeva il perché. Ma per Piotr il gran vecchio restava sempre l’amico mitico, la sicurezza, il saldo punto di riferimento. E anche per me. Venne infine il tanto temuto momento del congedo definitivo. Igor, vecchio ormai di quindici anni e mezzo, aveva un tumore al testicolo e cuore e reni non erano in perfette condizioni. Un giorno non riuscì più a sollevarsi sulle zampe posteriori. La luce nei suoi occhi cambiò. La sua vecchiaia era stata un esempio di dignità, aveva sempre lottato e si era continuato a godere la vita sempre più limitata che l’età avanzata gli consentiva, noncurante dei dolori che pure lo torturavano al punto che si era procurato coi morsi un granuloma ad una delle zampe malate. Ma quando subentrò all’improvviso la parlalisi completa del posteriore e per spostarsi fu obbligato a trascinarsi penosamente, il suo sguardo mi fece capire che il momento era giunto. Il veterinario lo addormentò dolcemente, a casa, accanto a me. Non durò che un attimo. Piotr era in giardino. Chiesi al veterinario se era bene mostrargli l’amico morto e lui disse di sì. Uscii, lo presi in braccio e lo deposi accanto al muso di Igor. Schizzò via immediatamente fuggendo fuori. Quella sera non toccò cibo. La mattina dopo quando aprii la porta-finestra uscì fuori d’impeto come sempre, ma si fermò subito tutto smarrito e tornò di corsa dentro a rifugiarsi sul materassino. Seguì un lungo periodo in cui Piotr, che era sempre stato un essere lieto, buffo e sicuro di sé, si spense completamente: passava le ore steso sul materassino che era stato di Igor, e non si faceva vedere da me se non al momento delle passeggiate. Lui che prima correva confidente incontro agli altri cani, di qualunque taglia fossero, cominciò ad aver paura e a tenersi alla larga dai suoi simili. In quel periodo mi accorsi che io e lui non avevamo un rapporto, che il nostro rapporto era sempre stato mediato da Igor, perché Piotr «era il cane del mio cane», come ero solita dire. Ora entrambi piangevamo sconsolati la perdita del nostro amico senza trovare alcun conforto l’uno nell’altra. Io rimproveravo a Piotr di non essere un vero cane. E’ passato più di un anno. Forse Piotr ed io stiamo riuscendo a costruire un rapporto fra noi. Lui è molto indipendente, esce con me, ma se lo lascio libero se ne va per i fatti suoi e si ripresenta quando lo ritiene opportuno, chiedendomi di aprirgli la porta con un abbaiare breve e caratteristico. Ogni tanto viene a fare e chiedere coccole dando colpetti col muso e colle zampette anteriori ed emettendo strani grugniti che mi inducono in questi momenti di affettuosità a chiamarlo «porcellino». Ma quando vedo un cane di taglia grande dallo sguardo pieno di sentimento sono trafitta da acuta nostalgia e mi domando se non sarebbe meglio per Piotr e me tornare ad avere fra noi un grosso cane. 30-31 dicembre 2010

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Novelle anni ’60. IV. Ne faccio un bel falò

Erano ormai due mesi che non vedeva più nessuno e andava in giro da sola fissando le cose come allucinata. Vagava per le strade della città guardando avidamente ciò che aveva intorno e cercando di assorbirlo, di imbeversi della luce di un pallido sole invernale, di cavare un succo di poesia da intonaci scrostati e marciapiedi dissestati, dall'odore mattutino della segatura bagnata con cui si pulivano i pavimenti dei bar, dal silenzio grave e raccolto di piccole chiese in cui si fermava a meditare seduta su una delle panche. Si chiudeva in camera al buio e metteva su sempre gli stessi dischi lasciando che sotto l'onda di vecchie musiche molto amate si ridestassero sensazioni dimenticate, odori, sapori, desideri d'altri tempi. Pur non avendo più obblighi precisi, continuava a farsi svegliare alle sette perché le sembrava un delitto sottrarre tempo dormendo a quella che credeva la sua missione nella vita. La sera andava a letto prestissimo per stare lì, sotto le coperte, a occhi chiusi, a pensare e a rimuginare. Si era imposta di passare ogni giorno molte ore a tavolino e scriveva febbrilmente pagine e pagine.
Ma più passava il tempo e più cresceva lo scontento e l'inquietudine. Quella mattina improvvisamente tutto si era inceppato. Le capitavano di questi arresti improvvisi. Diveniva incapace di svolgere anche la più piccola attività e girava cupamente per casa con le mani affondate nelle tasche dei jeans senza proferire parola. Andava nella sua camera, prendeva un libro e cominciava a leggere, ma il pensiero correva altrove, le righe le ballavano davanti agli occhi, non coglieva il senso di quel che leggeva. Allora chiudeva il libro con un colpo secco, e si rimetteva a camminare. Andava alla finestra e restava con la fronte appoggiata al vetro a guardare la strada, i radi passanti e qualche macchina, finché il freddo del vetro non le penetrava nella fronte come una lama. Si sedeva al tavolino, provava a scrivere e dopo una riga cancellava rabbiosamente e abbandonava. Metteva su un disco, ma neppure la musica calmava l'ansia che la rodeva. Invece della musica ascoltava lo scorrere vano del tempo struggendosi per l'impossibilità di uscire dall'inerzia. Quella mattina poi ci si era messo pure quel cielo uniforme, il disco del sole dietro le nuvole pallido come una luna, le case tutte grigie e livide per la pioggia da poco cessata. Il monotono ronzio della fabbrica di fronte stava diventando ossessionante. Tutto si era fermato per lei, solo il pensiero continuava a fare il suo lavorio sordo e a distruggere dal di dentro. Sì, erano ormai due mesi che faceva quella vita e aspettava che nascesse l'opera grande maturata in un silenzio di anni, amorosamente vagheggiata in segreto fra le gioie e le sofferenze del periodo più importante e turbinoso della sua vita. Si era lasciata alle spalle i turbamenti e i sussulti dell'adolescenza, gli sbandamenti, gli errori, gli entusiasmi e le delusioni del primo doloroso e contrastato contatto col mondo degli 'altri'. In tutto quel tempo non aveva scritto più nulla. Almeno nulla che avesse ambizioni letterarie. Solo continuava a riempire di annotazioni un quaderno dalla copertina ricoperta di tela a fiorellini verdi, scelto con grande cura e dopo molta ponderazione in una delle più fornite cartolerie del centro. Vi annotava riflessioni, sentimenti, frammenti lirici, impressioni di paesaggi veduti o sognati. Ma se qualcuno le chiedeva: «Scrivi ancora?» «No, non scrivo più» rispondeva. E aggiungeva con un sorriso: «È finita ormai. Lo scrivere era un capriccio di bambina e se n'è andato insieme coi sogni della fanciullezza. Non scriverò mai più». La prima parte della risposta era forse vera, perché quel che annotava sul suo quaderno per lei non era "scrivere". Quella era materia grezza, il sostrato da cui avrebbero dovuto sbocciare fiori di poesia. Ma la seconda parte della risposta era solo la trepida difesa con cui teneva gli estranei lontani dal suo segreto: il segreto di quell'opera che maturava nel silenzio, cresceva insieme con lei e si nutriva dei succhi dei suoi affetti e delle sue emozioni, degli studi e delle scoperte di quegli anni. Aveva deciso che una volta terminati gli studi universitari, nei quali si era lanciata febbrilmente divorando il cammino a grandi tappe, si sarebbe presa uno spazio di tempo esclusivamente per sé e avrebbe cominciato a scrivere. Avrebbe trovato un linguaggio nuovo, diverso da tutto ciò che aveva scritto fino ad allora, fermentato in quegli anni di studi intensi e di molteplici esperienze. Dopo il lungo silenzio avrebbe ripreso a cantare con altra voce, come un soprano passato il periodo della pubertà. Il pensiero di quell'opera l'aveva costantemente sorretta: del dolore di cui la vita è larga ad ognuno lei si sarebbe vendicata scrivendo; tutto ciò che la faceva soffrire era benvenuto perché arricchiva l'opera di cui quel patire sarebbe un giorno diventato materia; le disarmonie del vivere si sarebbero risolte e dissolte nelle sublimi armonie della parola.
Ed ecco che il momento era giunto e lei si ritrovava arida e vuota. Continuava a riempire febbrilmente il quaderno verde di inutili annotazioni. Aveva comprato un altro quaderno più grande per la sua opera. Aveva ricominciato a scriverla più e più volte. Ma i personaggi restavano pallidi ed evanescenti, appesantiti da un tale carico di materia autobiografica non digesta che le loro misere spalle non lo reggevano; sicché l'autobiografia finiva per schiacciare come insetti quei poveri personaggi, che cadevano ad uno ad uno sfiniti dopo poche pagine. Invano cercava di farli muovere e parlare, di infondere loro un po' della vita che sentiva ribollire dentro di sé come acqua che cresce senza avere una via di uscita. Quelli la fissavano e restavano muti scuotendo mestamente il capo mentre il loro viso dai tratti incerti minacciava di dissolversi. Allora per schivare l'autobiografismo inventava situazioni strane e lontane dalla sua esperienza, sentimenti complicati e raffinati che non aveva mai provato nella realtà. Ne venivano fuori personaggi freddi e odiosi, che lei avrebbe voluto trafiggere con la penna ad ogni frase che gli faceva pronunziare e che dopo grande agitarsi a vuoto si afflosciavano come le marionette quando lo spettacolo è finito. Tornava al suo quaderno verde, rileggeva quello che aveva scritto, scriveva ancora, scavava nelle sue memorie, risuscitava paesaggi lontani, colorati di nostalgia, riviveva tutto ciò che aveva vissuto fino a farsi sanguinare il cuore. Ma tutto quello che riusciva a produrre con questi sforzi erano bei frammenti descrittivi senza significato tenuti insieme dal filo grosso e rozzo dell'effusione diaristica. Alla fine anche le parole si ribellavano e le frasi cominciavano ad andare qua e là per conto loro. Dalla penna sgorgava una prosa asmatica e saltellante oppure gonfia e tronfia come quella di un secentista.
A tutto questo ripensava quella mattina di improvvisa inerzia con la fronte appoggiata al vetro della finestra. Confusamente salivano su dal profondo onde di pensieri, di ricordi, di sogni, una risacca fragorosa di desideri indistinti, di disperata nostalgia di ciò che era stato e non sarebbe stato mai più. Tutto ciò che aveva di proposito costretto ad affiorare in quei giorni nella speranza di farne materia del romanzo e così liberarsene dandogli un senso, turbinava ora confusamente e inutilmente dentro di lei e non avrebbe mai trovato uno sfogo. Mai: questo le apparve improvvisamente chiaro. Non era nata per scrivere, la sua era stata un'illusione e quel lungo silenzio non era qualcosa di passeggero, era definitivo. Aveva mentito a se stessa rinviando di giorno in giorno il momento di riprovare a scrivere, creandosi alibi per potersi illudere che qualcosa di grande le maturasse dentro. Lo aveva fatto perché le era troppo duro vivere senza quell'illusione. Ma il momento era giunto di guardare in faccia la realtà. Doveva accettare serenamente la propria vita così com'era, senza più quell'orpello fittizio dello "scrivere". Era tempo di tornare fra gli altri e di smetterla di credersi diversa per quella vocazione segreta. Aveva peccato di orgoglio. Non aveva saputo liberarsi dai sogni dell'infanzia: l'ultimo, il più tenace e il più ingannevole aveva continuato a falsarle la vita. Era tempo ormai di diventare adulti. Così pensava e cercava di strapparsi dal cuore quell'illusione fino alla più piccola e nascosta radice. Ripercorreva la vita passata per vedere cosa ne restava tolto quel sogno, spingeva lo sguardo nella vita futura per cercare di immaginarla senza più quella luce.
All'improvviso si chiese cosa avrebbe fatto di tutto quello che aveva scritto finora, di quei quaderni che riempivano un intero cassetto. Le venne voglia di rivederli e li andò a tirare fuori ad uno ad uno. Quaderni delle elementari con le righe grosse, quaderni a quadretti, quaderni con modesta copertina nera o con civettuole copertine in tela o in carta di varese, alcuni scritti con calligrafia infantile e ornati da disegni, altri nella bella corsiva inclinata che aveva elaborato più tardi, alcuni con fiori disseccati fra le pagine, uno con l'inchiostro disciolto e la scrittura quasi illeggibile perché se l'era scordato un giorno in un prato e ci era piovuto sopra. C'erano vari capitoli di un romanzo avventuroso che aveva concepito prima ancora di imparare a scrivere e che era vergato dalla mano di sua madre a cui l'aveva dettato. C'erano i romanzi infantili scritti di sua mano, che parlavano tutti di animali; in uno, nell'idea di farlo diventare così un vero libro, aveva scritto sulla prima pagina, sotto il suo nome e il titolo, «Casa editrice Marzocco», come aveva visto nei frontespizi dei libri per ragazzi che divorava avidamente. C'era un interminabile romanzo che occupava più di un quaderno e che l'aveva accompagnata nel lungo e travagliato passaggio da un'infanzia immaginosa a un'adolescenza solitaria e ispida; era cominciato come un romanzo di animali, ma accanto agli animali erano presto apparsi dei ragazzi e suo malgrado alla fine ne era venuta fuori una storia d'amore, che poi, quasi vergognandosene, aveva concluso facendo morire tragicamente quasi tutti, animali e uomini. C'erano i diari con gli avvenimenti della sua vita che le erano sembrati importanti, fedelmente annotati e commentati: si cominciava con nascite di gattini, di cui registrava scrupolosamente data, numero dei nati e loro progressi, venivano poi la prima comunione, un'eclissi di sole, viaggi e gite, vittorie in gare sportive e tempi e misure di corse e salti. C'era il quadernetto delle poesie che cominciava con buffe filastrocche infantili e terminava con componimenti di tono elevato, a volte tragico, aspiranti al sublime. C'era un abbozzo di poema cavalleresco in ottave, il cui protagonista era Sacripante, e un quaderno con la sola prima pagina scritta, contenente una dozzina di nobili endecasillabi alfieriani sotto il titolo Cambise - tragedia. C'era una grandiosa enciclopedia sugli animali, che aveva cominciato a comporre da bambina incollando fotografie e ritagli di scritti a stampa completati da notizie pazientemente raccolte e scritte in bella grafia ordinata. Più recenti erano i quaderni di novelle con in mezzo giornaletti scolastici su cui alcune di esse avevano visto la luce. Non mancava nulla, c'erano anche abbozzi e brutte copie, non c'era una sola parola scritta che lei avesse osato buttar via. La mattinata trascorse lenta fra quei quaderni. Li riguardava ad uno ad uno fermandosi a leggere qua e là. Le sembrava che lì fosse racchiusa tutta la sua vita.
Mentre chiudeva l'ultimo e lo posava sul mucchio degli altri le venne un pensiero improvviso e bizzarro: «Ne faccio un bel falò». Vi indugiò sopra attratta da una sorta di orrore. Da bambina, quando immaginava improvvise catastrofi - guerre, incendi, alluvioni - e si domandava cosa avrebbe portato in salvo, il pensiero le correva subito a quei quaderni. Ora per la prima volta le veniva in mente che avrebbe potuto distruggerli lei stessa. Forse solo così, pensava, avrebbe potuto veramente lasciarsi alle spalle quei sogni infantili. Provò a immaginare come avrebbe bruciato in fretta tutta quella carta secca, il crepitio delle fiamme che lingueggiavano vigorose, i quaderni via via lambiti che si accartocciavano e annerivano lasciando forse intravedere per l'ultima volta, evidenziata dalla vampa, qualche riga di scrittura, e che infine si dissolvevano. Sarebbe rimasto solo un mucchietto di ceneri calde, lei lo avrebbe spazzato via e si sarebbe sentita nuova e diversa, forse solo un po' triste e stanca.
Stava immobile accovacciata a terra in mezzo ai quaderni sparsi intorno, spossata come se il falò ci fosse già stato. Passò molto tempo senza che si muovesse dalla sua posizione; e intanto il freddo del pavimento le penetrava nelle ossa. Improvvisamente si alzò di scatto, andò allo scrittoio, sedette, afferrò un foglio e la penna e cominciò a scrivere: «Erano ormai due mesi...».

Scritta il 6 novembre 1966 (con la stilografica, nel quaderno con i fiorellini verdi), copiata nel computer e ritoccata il 13-16 luglio 2003, al Poderuccio, in una calda giornata estiva.

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Novelle anni ’60. III La bambina in azzurro


Appena chiuse gli occhi le molteplici sensazioni provate in quella giornata gli si affollarono nella mente in un turbinio confuso. Lo sferragliare monotono del treno e il capo che gli ciondolava nel sonno, cullato dal rumore sempre uguale delle ruote, il brusio indistinto nell'atrio della stazione, dove una folla di persone brulicava in una luce di acquario, il pulsare convulso della grande città che l'aveva afferrato e stordito, la sensazione di soffocamento che gli aveva serrato la gola nel respirare quell'aria pesante, così diversa da quella sottile del suo paese, la carne stopposa che aveva mangiato di malavoglia in un'osteria di terz'ordine colle pareti imbiancate a calce e macchiate d'umidità e i tavoli di legno coperti da fogli di carta su cui il vino disegnava larghe macchie, il vociare degli operai seduti agli altri tavoli, la faccia piatta dell'affittacamere, così piatta che anche il naso sembrava volervi affondare e sparire anonimamente, quasi intimidito di sporgere in tanta piattezza. Questi e infiniti altri brandelli di realtà si sovrapponevano confusamente l'uno all'altro mentre cercava di prender sonno. Si rigirò inquieto nel letto avvertendo la levigatezza delle lenzuola, così diversa dalla ruvida freschezza di quelle di lino in cui dormiva a casa e respirando a disagio l'odore di quella stanza estranea. Tutto quel giorno aveva sentito profondamente l'ostilità delle cose. Ciò che lo circondava era nuovo per lui e lo respingeva: luoghi dove non aveva radici perché non li aveva mai neppure visti, strade, muri, stanze a cui nessun ricordo era legato, tutto sembrava squadrarlo severamente come un intruso. Intorno a lui palpitava una vita che egli osservava da estraneo.
Il sonno non si decideva a venire sebbene fosse stanchissimo. Si voltò supino e si mise a osservare la stanza, gli occhi spalancati nel buio. A poco a poco dall'oscurità indistinta emersero, alla luce fioca che veniva dalla strada, le forme confuse dei mobili, intorno ai quali l'oscurità si addensava più fitta: l'armadio con la specchiera che s'accendeva di vaghi riflessi, il tavolo su cui poggiava la sua valigia, il lavandino nell'angolo. Ricordò l'oscurità profonda della sua stanza a casa e il silenzio della campagna così assoluto da essere quasi tangibile, rotto solo a volte dall'abbaiare di un cane o dal verso di una civetta. Qui attraverso le stecche della persiana si infiltrava la luce di un'insegna al neon disegnando sul soffitto strie luminose e la città continuava fuori la sua vita tumultuosa, anche se a poco a poco i rumori dei motori di macchine di passaggio e lo sferragliare dei tram si andavano facendo più radi.
Si addormentò tardissimo e di un sonno che era piuttosto uno stordimento, in cui si accavallarono strani sogni frenetici e da cui si destò alle prime luci dell'alba con la testa confusa. L'acqua fredda con cui si lavò la faccia l'aiutò a tornare alla realtà disperdendo gli ultimi brandelli di sogni. Rassettò il letto, fece sparire il pigiama sotto il cuscino, chiuse la valigia ed uscì piano piano cercando di non far rumore, ché il resto della casa sembrava ancora immerso in un sonno profondo.
Uscito in strada nella luce fredda del mattino le cose gli parvero meno ostili, anche perché aveva l'impressione di aver sorpreso la città in un suo aspetto inconsueto, un aspetto che essa non era solita mostrare che a pochi. Le macchine passavano assai rade così che nel silenzio era possibile avvertire il rumore dei passi di qualche pedone che si affrettava al lavoro. I semafori non funzionavano ancora e solo ammiccavano con una luce gialla intermittente; le saracinesche dei negozi erano abbassate, tranne qualche bar che stava aprendo, e il garzone insonnolito spazzava fuori segatura bagnata. C'era una leggera nebbiolina e l'aria era fresca e pungente. Camminò a lungo senza meta per strade che gli apparivano tutte uguali assistendo al lento risveglio della città. Finché da sopra i tetti delle case il sole versò i suoi primi raggi quasi un gioioso segnale che invitava la città a scuotersi dal torpore. Allora si sedette al tavolino di un bar, ordinò una brioche e un cappuccino e restò lì a sorseggiare lentamente osservando gli stenti alberelli di un giardinetto pubblico e l'umidità che evaporava dai vialetti di ghiaia ai primi raggi di sole.

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La città universitaria sebbene fosse brutta gli piaceva. Gli era presto diventata familiare e fu uno dei primi luoghi della città dove cessò di sentirsi un estraneo. Gli avevano subito detto che frequentare era inutile e che per prepararsi agli esami bastavano i libri, ma lui frequentava lo stesso molte lezioni che lo interessavano e a furia di andare all'università mattina e pomeriggio la piazza con la fontana della Minerva, le aiuole, i viali alberati, i grandi edifici bianchi avevano smesso l'aspetto arcigno dei primi giorni ed erano diventati benigni e amichevoli. Aveva subito preso il fare indolente degli studenti e negli intervalli fra una lezione e l'altra andava anche lui a sedersi sui gradini del rettorato o sui bordi della fontana crogiolandosi al sole ad occhi chiusi. Oppure andava al piccolo bar sempre sovraffollato a sorseggiarsi voluttuosamente un caffè. Gli piaceva quella città nella città, che sembrava abitata solo da un'umanità giovane, pigra e spensierata: chi passeggiava per i vialetti col braccio intorno alla vita della ragazza fermandosi a baciarla quando l'intrico dei rami si faceva un po' più fitto, chi stava fermo a parlare in un crocchio o steso torpidamente al sole sui praticelli verdi delle aiuole. I bianchi e massicci edifici dalle linee nette e squadrate, buon esempio dell'architettura del regime, erano brutti, ma intonati all'atmosfera generale: se ne stavano lì immobili, grandi e sonnacchiosi, riflettendo il sole sulle loro superfici chiare ed anche quelle patetiche scritte che decoravano i frontoni inneggiando alla dottrina non davano ormai più fastidio a nessuno.
Fu iniziato anche al caos della grande biblioteca universitaria. Vi regnava una complicatissima e oscura burocrazia, che sembrava volta a scoraggiare del tutto le velleità di consultazione. Si sarebbe detto che il legislatore volesse evitare il più possibile la profanazione del patrimonio librario da parte dei lettori. Se poi anche si riusciva a compilare in tutte le loro parti gli appositi moduli - ovviamente differenziati a seconda di oscure categorie - e a deporli nella cassetta delle richieste, il più delle volte la scheda tornava con su stampigliata la scritta "disperso", "dal legatore", "in prestito", oppure veniva un libro diverso da quello richiesto e allora bisognava tornare pazientemente al catalogo e cercar di capire dove stava l'errore. Se il libro alla fine veniva, non era mai prima di un'attesa oscillante fra mezz'ora e un'ora, per cui dopo le prime esperienze i richiedenti avevano imparato ad andarsene a fare uno spuntino o una passeggiata. In compenso la biblioteca universitaria era un ottimo luogo dove preparare gli esami portandosi libri e appunti, specialmente per gli studenti fuori sede come lui che non avevano una casa dove studiare, e ancora più per fare la siesta dormendo saporitamente col capo poggiato sul tavolo nell'intervallo fra lezioni del mattino e lezioni del pomeriggio.

***

Aveva intorno una grande e famosa città tutta da esplorare, ma si muoveva poco dal suo quartiere. Il tempo libero preferiva passarlo con gli amici conosciuti nel frattempo, in interminabili riunioni al 'circolo', dove si discuteva di politica fino a diventare rochi e si fumava una sigaretta dopo l'altra, nelle salette di piccoli cinema di avanguardia a vedere I pugni in tasca di Bellocchio o Fahrenheit 471 di Truffaut, a ballare con le poche ragazze disponibili in un locale semisotterraneo in via dei Sabelli, a giocare a calcetto nel retrobottega di un bar in interminabili partite. Del quartiere dello scalo di S. Lorenzo gli piaceva quell'aria popolana, le strade piene di gente affaccendata e donne con la borsa della spesa, il vivace e rumoroso mercato all'aperto, qualche piccola trattoria dove si mangiava alla romana. La vicinanza della grande città universitaria non aveva alterato il carattere del quartiere: unica traccia della presenza degli studenti qualche grande libreria universitaria, che forniva soprattutto i libri di testo richiesti per le lezioni e al di fuori di quelli non offriva quasi nulla di interessante.
Luisa la conobbe frequentando le lezioni di filologia classica, tenute quell'anno da un professore ancora giovane trasferito da poco a Roma da un'università periferica, che costituiva una singolare eccezione nel panorama dell'università presessantottina. Gli altri professori vivevano in un loro mondo separato e inaccessibile agli studenti, che incontravano solo a lezione; quando pure facevano lezione, giacché non era infrequente che non si presentassero affatto senza alcun preavviso o che si facessero sostituire. I rapporti degli studenti coi professori erano mediati da una pletora di giovani assistenti, per lo più volontari (il che significava che facevano da assistenti gratuitamente o per una cifra simbolica): quanto più il professore era di chiara fama tanto più lo stuolo degli assistenti era folto. Questo piccolo esercito di precari senza diritto alcuno era tiranneggiato dai professori in maniera che di lì a poco, dopo il '68, sarebbe divenuta inconcepibile. Spesso erano veramente portarborse. E non erano solo giovani: se ne vedevano anche alcuni che già avevano qualche filo d'argento nei capelli. L'irresistibile miraggio della carriera universitaria li spingeva a svolazzare come falene intorno al fulgore delle glorie accademiche. Le lezioni di un famoso latinista (la frequenza era obbligatoria) si svolgevano nell'aula magna cogli studenti che riempivano quasi tutti i posti disponibili nelle gradinate ad emiciclo. L'enorme cattedra alla quale sedeva il professore nella cavea di questa sorta di teatro era collocata su un alto podio e davanti ad essa, molto più in basso, c'era un tavolone rettangolare intorno al quale si sedevano gli assistenti: con questo stuolo di chierichetti frapposto fra lui e il pubblico studentesco l'anziano e celebre latinista sembrava veramente officiare un rito solenne. Il professore di filologia classica invece faceva lezione in una comune aula della capacità forse di una quarantina di posti complessivi che non era mai piena del tutto. Le sue lezioni subito si trasformavano in un seminario, perché lo studente era sollecitato a intervenire, a dire la sua su questioni testuali, a collaborare, a porre domande. Il professore era cortesissimo, dava del lei agli studenti e li trattava con grande formalità, ma al tempo stesso era avvicinabile e disponibile e i suoi magnetici occhi azzurri, il suo modo informale di far lezione, la sua vivacità sapevano comunicare l'entusiasmo e provocare la partecipazione. Lo studente che, timidamente e quasi stupito della sua stessa audacia, osava dire la sua su una delle questioni dibattute aveva la sorpresa di sentirsi ascoltato da pari a pari e vedere la sua opinione soppesata al vaglio del ragionamento e dell'esperienza e accolta o respinta con la massima serietà. Accadeva così che gli studenti più brillanti frequentassero le lezioni di filologia classica senza mancarne una per più anni di seguito e l'atmosfera di collaborazione favoriva coesione e amicizie fra di loro: alla fine dell'anno si creava un gruppo compatto che continuava a vedersi anche fuori dalle lezioni. Del gruppo faceva parte quell'anno Luisa, una ragazzina esile, che dimostrava ancor meno dei suoi diciotto anni (era matricola anche lei). Di bello aveva due grandi occhi che le mangiavano il viso e un sorriso timido smentito da quegli occhi, che restavano sempre pensosi. Era di Roma e non aveva i problemi degli studenti fuori sede: poteva tornare a casa sua ogni sera con l'autobus.
L'atmosfera delle lezioni di filologia classica e il prestigio di cui godeva il professore facevano sì che all'esame ci si preparasse con particolare scrupolo e lunga applicazione: nessuno avrebbe voluto fare brutta figura di fronte a un simile docente. Fu quello che invece accadde a lui, nonostante l'accuratissima preparazione: fu l'ultimo ad essere esaminato e si era stancato nella lunga attesa in corridoio e forse anche la commissione era un po' stanca. Dopo un buon inizio inciampò su una domanda di metrica plautina che non si aspettava e che era obiettivamente difficile, con la conseguenza di divenire insicuro e rispondere in modo poco brillante anche al resto delle domande. Ebbe un ventisette, che in qualunque altra situazione avrebbe considerato un buon voto, ma che tale non gli sembrò in quell'esame e in rapporto a come sapeva di essersi preparato. Luisa, che aveva dato l'esame col massimo dei voti all'inizio di quella stessa sessione pomeridiana, aveva aspettato con lui facendogli compagnia e fu quindi presente quando uscì dalla stanza dove si svolgevano gli esami, scuro in volto per quel voto che gli sembrava una macchia. Continuò a fargli compagnia fuori dalla facoltà e camminarono affiancati prima nella città universitaria e poi nelle strade del quartiere di San Lorenzo. Cominciarono a parlare come non avevano mai fatto prima. Luisa forse voleva distrarlo dal cruccio di quel voto. Così si aprirono a vicenda, parlarono ognuno di sé, di quella poca vita che avevano alle spalle e che a loro sembrava tanta, delle loro aspirazioni, dei loro sogni, in un'intimità crescente.
Quello di filologia classica era stato per lui l'ultimo esame della sessione estiva. Il giorno dopo partì da Roma e tornò al paese per le vacanze. Ma non si ritrovò nella vita di prima. Ne aveva un senso di soffocamento. Per combattere la noia si buttò nello studio e nella preparazione degli esami per la sessione autunnale. Usciva solo verso sera, dopo ore passate sui libri, quando la vampa del sole si attenuava; ma non andava a incontrare gli amici o a percorrere in su e in giù la strada principale del paese occhieggiando le ragazze. Ora preferiva allontanarsi dall'abitato e camminare a lungo per strade deserte di campagna, finché la testa gli si snebbiava, i pensieri si facevano più leggeri e in cielo si accendevano le prime stelle. Pensava spesso a Luisa.
Il giorno prima di ripartire per il paese era entrato per comprarsi le sigarette in una tabaccheria e si era messo a frugare fra le cartoline in mostra per trovarne una da mandare ai suoi. In mezzo alle altre, finita chissà come fra le solite convenzionali vedute di Roma, ne aveva trovato una con "La bambina in azzurro" di Modigliani. Ne era rimasto straordinariamente colpito. Era un quadro costruito con pochi tratti essenziali e giocato su toni di azzurro. Sullo sfondo dell'angolo nudo e azzurro di una stanza pavimentata a mattoni, gettando su di esso un'ombra lieve di un azzurro più scuro, stava in piedi una bambina dall'aria stranamente seria e adulta, in un grembiule anch'esso azzurro dall'ampio colletto bianco merlettato, con calzette nere ai piedi e capelli pure neri, tenuti fermi e ravvivati da un fiocchetto rosso come il rosso delle guance e della boccuccia serrata. Teneva le mani unite davanti, in una posa un po' goffa e impacciata, e con la testa leggermente inclinata sulla spalla sinistra sgranava in faccia all'osservatore due grandi occhi azzurri dallo sguardo intenso ed enigmatico. Questa cartolina ora la teneva sulla scrivania e ogni tanto sollevando gli occhi dal libro la contemplava. Quello sguardo indecifrabile e malinconico gli sembrava che volesse dirgli qualcosa, non sapeva cosa. Un giorno ci scrisse dietro "Tanti cari saluti", si firmò in maniera un po' formale con nome e cognome e la mandò a Luisa.

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Tornò a Roma alla fine di settembre. Ora non provava più alcun senso di estraneità. Roma gli sembrava piena di promesse e viveva in una gradevole sensazione di attesa di un futuro vago e indeterminato. Studiava, ma era abbastanza libero perché le lezioni sarebbero cominciate solo a novembre inoltrato. I suoi amici erano ancora dispersi dalle vacanze e da altre occupazioni. Così telefonò a Luisa e cominciarono a uscire insieme regolarmente. Esploravano la città. Luisa gli faceva un po' da guida, anche se in verità pure lei che c'era nata Roma la conosceva pochissimo; se ne era curata poco proprio per il fatto di averla sempre avuta lì a portata di mano. C'erano quelle limpide giornate ottobrine di sole così caratteristiche del clima romano. Quell'esplorazione li portò nei vicoli del centro, nel verde dei parchi, nel fresco silenzio delle chiese. Preferivano stare all'aperto e trascurarono i musei. Camminavano per ore, instancabili, tenendosi per mano. Solo ogni tanto sostavano al tavolino di un bar a prendere qualcosa o riposavano su una panchina al sole osservando i voli brevi dei passeri. Stare con lei gli faceva vedere le cose in una luce più vivida e colorata, le impressioni erano più intense. A volte lei lo guardava coi suoi grandi occhi un po' malinconici. Quello sguardo lo turbava; gli sembrava che volesse dirgli qualcosa, ma non sapeva cosa.
La primavera successiva ci fu l'occupazione che portò alle dimissioni del Rettore Papi, a cui lui partecipò attivamente fin dal primo momento. Il 27 aprile, in occasione delle elezioni studentesche, provocazioni di studenti fascisti causarono scontri, nei quali uno studente di nome Paolo Rossi fu colpito violentemente allo stomaco. Poco dopo ebbe un malore mentre si affacciava dalla balaustra in cima alla scalinata della Facoltà di Lettere. Cadde, si ferì gravemente e fu portato in ospedale, dove morì la notte seguente. La polizia, pur ripetutamente sollecitata da alcuni professori, era stata a guardare senza intervenire. Per protesta Lettere fu occupata dagli studenti, ma questa volta invece la polizia intervenne, su ordine del Rettore, e nella notte stessa in cui Paolo Rossi moriva la Facoltà fu sgombrata con la forza. Gli occupanti non opposero resistenza e si lasciarono portar via di peso. Ma il giorno successivo la protesta divampò di nuovo, fu rioccupata Lettere, furono occupate anche altre Facoltà, si chiesero le dimissioni del Rettore.
Il 2 maggio arrivò la notizia che Papi si era dimesso e l'occupazione fu sospesa. Luisa, che in quei giorni era stata a casa perché la famiglia non le avrebbe mai permesso di dormire nella Facoltà occupata, venne ad aspettarlo ai piedi della scalinata di Lettere. C'era un clima di festa per la vittoria ottenuta dagli studenti. Andarono a bere una coca-cola in un lurido bar di via dello Scalo di S. Lorenzo. Lui aveva la barba lunga ed era come stranamente ubriacato dalla lotta. Esibì un'allegria chiassosa e febbrile e giunse a dire a Luisa che era contento di rivederla e che era lei che dava significato a tutto. Luisa taceva visibilmente imbarazzata.
Terminata l'occupazione ricominciarono a uscire insieme. Lui provò a condividere con Luisa la vita che aveva fatto prima di conoscerla. Le presentò i suoi amici, ma capì chiaramente che non le piacevano, che anzi le facevano un po' paura. Un giorno la portò a ballare nel locale semisotterraneo. Luisa aveva un vestitino di lana azzurra lavorato a maglia da una zia. Ballò solo con lui, non parlò con nessuno dei suoi amici e lui si accorse vedendola lì di quanto fosse diversa dagli altri.
Sapeva che i locali del 'circolo' dove si svolgevano le loro riunioni politiche, un modesto appartamento di un paio di stanze sulla via Tiburtina, restavano vuoti la mattina. Ne aveva la chiave. Qualche volta ci aveva portato qualche ragazza e così gli venne l'idea di portarci Luisa. Riuscì a convincerla col pretesto di farle vedere quelle stanze in cui si svolgeva una parte così importante della sua vita romana. Luisa era curiosa di quello che lo riguardava. Erano entrati da poco quando venne la donna delle pulizie. Lui le andò incontro, le diede una mancia e riuscì a farla andare via. Ora era finalmente solo con Luisa in un appartamento chiuso a chiave. Ma la reazione di lei quando tentò un approccio lo colse di sorpresa. "No" disse soltanto a bassa voce e con forza, e bastò questo a fermarlo di colpo. Lei lo fissava dritto negli occhi con uno sguardo intenso ed enigmatico. "Mi guardi con odio" le disse cercando di interpretare quello sguardo, ma non ne era affatto sicuro. In quel momento l'uomo del sud che era in lui nonostante politica occupazioni e film di avanguardia era contento che Luisa avesse reagito così. Uscirono dal 'circolo' e camminarono per le strade del quartiere tenendosi per mano.
Ci fu un'altra estate, un'altra separazione e un altro ritorno. Ora a casa aveva parlato di Luisa; uno dei suoi fratelli di passaggio a Roma l'aveva conosciuta e ne aveva a sua volta parlato con entusiasmo. Così questa volta tornando dalle vacanze estive aveva con sé doni per lei dalle sue due sorelle: un foulard e un profumo fatto con essenze di erbe e fiori delle sue parti, che ricordava il paese anche nel nome e nell'etichetta, sulla quale si vedeva una vezzosa contadina con un fazzoletto svolazzante in capo e un cesto di fiori in mano. Nella sessione autunnale dette parecchi esami recuperando quel che aveva perso per l'occupazione. Ricominciarono le lezioni, le giornate si accorciarono, vennero i primi freddi. Un giorno una telefonata concitata gli portò la notizia che suo padre era morto sul colpo in un grave incidente automobilistico. Lui era il maggiore di cinque fratelli, alcuni dei quali ancora piccoli. Non c'era possibile scelta: bisognava lasciare gli studi, tornare al paese, prendere il posto del padre alla direzione di una piccola azienda familiare.
Quando lasciò definitivamente Roma, dove era tornato dopo i funerali per riprendere le sue cose e sgombrare la stanza in affitto nel quartiere San Lorenzo, Luisa lo accompagnò alla stazione. Aspettarono insieme l'arrivo del treno che doveva riportarlo al sud, come avevano aspettato insieme un anno e mezzo prima quell'esame di filologia classica. Per mostrarlo a lei cavò dalla tasca interna della giacca, quella sul cuore dove lo custodiva gelosamente, l'orologio da polso di suo padre col vetro incrinato e le lancette ferme all'ora dell'incidente mortale. Un altro orologio, quello su uno dei piloni di bianco travertino che reggevano la pensilina, scandiva i tempi dell'attesa e l'approssimarsi della partenza. Quando la vide l'ultima volta, dal finestrino del treno che già lentamente si metteva in moto, lei era ferma accanto a quel pilone e lo guardava con lo stesso sguardo enigmatico e indecifrabile della bambina in azzurro.

Poderuccio, 12 agosto 2003 - Roma, 28 gennaio 2004 (rielaborando un abbozzo di romanzo scritto il 23-25 settembre 1969).

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Novelle anni ’60. II. La tuta

Era minuta ed esile, di statura non alta, e dimostrava anche meno dei suoi diciotto anni. Era diversa dalle compagne con cui si allenava, tutte pienamente sviluppate, alte e fiorenti, con seni rigogliosi. Forse non era brutta e a guardarla attentamente poteva anche dirsi graziosa, ma facilmente passava inosservata, anche perché era schiva, timida, di poche parole. Da quattro anni veniva regolarmente al campo ad allenarsi e partecipava a tutte le gare senza mai arrivare né prima né ultima. Era ormai fra le più anziane della società sportiva. Del resto molte lasciavano dopo due o tre anni perché cominciavano ad uscire col ragazzo e non avevano più tempo né interesse.
Si allenava quasi sempre da sola - non aveva fatto amicizia con nessuno - eseguendo coscienziosamente i compiti che l'allenatore le assegnava. Veniva tutto l'anno: d'estate, quando il campo era oppresso dall'afa e solo poche ragazze si allenavano correndo svogliatamente sull'erba a piedi nudi e qualcuna si sdraiava madida di sudore all'ombra dei grandi pini; d'inverno, quando una pioggia leggera, monotona e sottile penetrava a poco a poco attraverso le tute o quando l'aria era invece gelida e tersa e le rovine rossicce delle terme di Caracalla nello sfondo, le verdi ombrelle dei pini, la trama sottile dei rami degli alberi spogli erano nitidi e lieti nel sole invernale; in primavera, quando il campo era affollato di tute rosse, gialle, blu, nere, che correvano su e giù, sparpagliate o in gruppi, e c'erano bianche margheritine e odore d'erba calpestata e negli spogliatoi fra le docce fumiganti un afrore forte emanava da tutta quella carne giovane e accaldata dall'attività fisica.
Veniva e si allenava e l'allenatore non l'aveva mai sentita dire «Sono stanca». Faceva gare impegnative: i quattrocento e gli ottocento metri piani, gare nelle quali gli ultimi cento metri fino al traguardo sono spesso una lotta contro la fatica che fiacca le gambe, un correre ormai solo con la volontà e un gettarsi sul filo di lana con le ultime forze per strappare un piazzamento migliore. L'allenatore diceva che aveva «grinta».
Non era cresciuta né cambiata dalla prima volta che si era presentata accompagnata dalla mamma ed era stata accolta nella società: sempre uguale, sempre infagottata in una sua tuta di una taglia superiore alla sua, che la rendeva goffa. La tuta: ecco il suo grande, inconfessato desiderio. La tuta col marchio della società in un triangolino sul petto, di maglia aderente, di un azzurro elettrico, con la chiusura lampo davanti come nelle giacche a vento e il collo un po' alto. Tutte l'avevano nella società e anche a quelle venute da poco l'allenatore si affrettava a darla. La desiderava tanto, ma non osava chiederla. Si accontentava di sognare il giorno in cui, in una gara molto importante, lei sarebbe arrivata prima con un ottimo tempo facendo prendere un buon punteggio alla società. In premio avrebbe finalmente avuto la tuta nuova, fiammante.
Un giorno l'allenatore le chiese una dura prova: partecipare alla corsa campestre, la gara più difficile e faticosa, quella che tutte temevano. Accettò e si preparò col solito scrupolo, raddoppiando le distanze percorse in allenamento e lottando contro la fatica.
Il giorno prima della gara accadde una cosa incredibile: stava per tornare nello spogliatoio quando l'allenatore la chiamò, tirò fuori dalla borsa una tuta nuova e gliela consegnò. Il cuore le dette un balzo. La prese con reverenza e riuscì a dire appena un timido «Grazie!», ma gli angoli della bocca le si aprivano involontariamente al sorriso. Volse il capo per nasconderlo e corse via.
Tornò a casa con due tute nella borsa, la nuova e la vecchia. La borsa pesava, ma lei non se ne curava; desiderava soltanto che il tram corresse più veloce senza fermarsi ogni momento per far salire e scendere i passeggeri, costringendola a ripetere sul ritmo del motore: «La tu-ta, la tu-ta». Avrebbe voluto essere già a casa per indossarla e mostrarsi tutta fiera alla mamma e ai fratelli.
Giunse finalmente. Corse su per le scale facendole a due a due e andò a chiudersi in camera col cuore in gola. Tirò fuori la sua bella tuta nuova e la distese sul letto; le parve un po' grande, ma non ci fece caso. Ma poi la indossò e allora osò appena sollevare lo sguardo allo specchio; e lo specchio le rimandò beffardo l'immagine di una ragazzina minuta (oh, non li dimostrava certo i suoi diciotto anni!) infagottata in una tuta enorme, con le braccia che sparivano nelle maniche lunghissime e la maglia pendeva tristemente da tutte le parti sul suo corpo piccolino. Restò a lungo a guardarsi; poi con gesti rapidi si tolse la tuta, la ripiegò con cura e la nascose nel più profondo dei suoi cassetti.

(19 marzo 1964, rivista il 23 dicembre 2003)

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Novelle anni ’60. I. Adolescenza

Il sole era tramontato da poco e l'aria si stava facendo più fresca. Le madri si alzavano dalle panchine e si avviavano verso casa, spingendo le carrozzine e chiamando i bambini. Nell'aria tranquilla si incrociavano richiami e saluti. Dentro le fronde dei grandi alberi del parco era tutto un frullare di passeri in cerca delle migliori sistemazioni per la notte.
Nella 'valletta dei cani' un gruppo di ragazzi stava giocando a 'guardie e ladri'. In quel periodo dell'anno, dopo la chiusura delle scuole, finalmente liberi dai compiti a casa, si ritrovavano a Villa Borghese quasi ogni pomeriggio. Avevano scelto come terreno di gioco una valletta erbosa chiusa da due opposti pendii e ombreggiata da grandi platani centenari, che prendeva il suo nome corrente dal tacito accordo per cui lì si radunavano i padroni di cani coi loro animali. Il gruppo era composto di ragazzi fra i dodici e i quindici anni. Tutti ragazzi? C'era quella ragazza, è vero, fra loro, ma era poi una ragazza? Non era facile distinguerla dai compagni di gioco a vederla correre sul prato, la più violenta, la più veloce, la più accanita nel gioco: aveva capelli tagliati cortissimi ed era vestita come tutti gli altri di un paio di logori pantaloni e una maglietta. I maschi l'avevano accettata come uno di loro dopo aver constatato che era in grado di battere molti nella corsa o a braccio di ferro, che sapeva arrampicarsi fino alla cima del platano più alto, che osava saltare di slancio una panchina di quelle con la spalliera, che coglieva le ortiche a mani nude e le stringeva nel pugno sorridendo.
Quella sera, mentre le madri coi bambini lasciavano a poco a poco la villa e una frescura umida saliva dall'erba, la ragazza era intenta a sfuggire a un accanito inseguitore cercando al tempo stesso di liberare un compagno prigioniero, che se ne stava tristemente appoggiato all'albero 'tana' con la sentinella a tre passi di distanza. La si vedeva correva leggera descrivendo ampi cerchi sul prato. Ecco, pareva quasi che l'inseguitore stesse per raggiungerla; ma lei lo schivava con uno scarto improvviso e raccogliendo tutte le sue forze si gettava a corsa velocissima verso il prigioniero. Un altro 'ladro' era sbucato da dietro un albero e stava correndo verso la sentinella distraendone l'attenzione. «Attento, Pietro, attento!» gridò l'inseguitore, ma troppo tardi: già il prigioniero tendeva la mano verso di lei, che la sfiorava con le dita, e correvano via liberi entrambi.
Quando si sentì a distanza di sicurezza la 'ladra' si fermò ansante accanto a un albero. Vide che anche le due 'guardie' si erano fermate e tenevano conciliabolo. Con un gesto rapido si asciugò il sudore dal volto e mandò indietro dalla fronte un ciuffo di capelli. Udiva i battiti violenti del cuore. Respirò profondamente e levò il capo a guardare il cielo, che nell'ultimo chiarore del giorno che finiva era diventato di un colore quasi verde, su cui spiccavano i toni rosa di due nuvolette sfrangiate.
Pietro veniva su. Si preparò a fuggire. «Pace, pace!» gridò lui, «Debbo andare a casa». Si riunirono insieme e si avviarono all'uscita. Discutevano le vicende del gioco recente. Il cielo era ancora chiaro, ma sotto gli alberi del parco si addensavano le ombre ed era quasi notte. I passeri si erano quietati. Nella villa non c'era più nessuno e fuori si erano già accesi i lampioni. Giunti al cancello si salutarono. «Ciao». «Ciao, Pietro». «Vieni domani?». «No» disse la ragazza. «E perché?» chiese vivacemente Pietro, «Domani è sicuramente bel tempo». «Ed è sabato e non c'è nemmeno da fare i compiti» aggiunse Francesco. «No» disse la ragazza, «Domani vado a una festa». «Vai a ballare? Tu?». «Non ridete» disse lei arrossendo.
Si salutarono di nuovo e si dispersero. La ragazza si diresse verso casa. Non avevano riso per fortuna. Ma si vergognava lo stesso maledettamente. Aveva paura di quella festa: meglio non andarci e giocare a guardie e ladri cogli altri. Perché aveva accettato quell'invito? Era una settimana che vi girava intorno col pensiero e spesso, in un impeto di fiera ribellione, decideva fermamente di non andare. Le sembrava una resa, una rinuncia a tutto quello che era stata finora, a tutto quello che più le piaceva: arrampicarsi sugli alberi, lanciarsi in corse selvagge, giocare a guardie e ladri. Non voleva cambiare. Ma era il suo stesso corpo ad essere cambiato. Da un po' di tempo teneva spesso un braccio ripiegato sul petto per nascondere due acerbi rilievi un po' dolenti che stavano diventando evidenti sotto la maglietta. Un giorno con suo grande spavento aveva visto del sangue. Aveva creduto di essersi fatta male andando in bicicletta con uno scossone su un terreno un po' dissestato. Aveva atteso un giorno intero che il sangue si fermasse, poi era stata costretta a confidarsi con la mamma. Ora sapeva di che si trattava, ma le sembrava un sopruso. Il giorno dopo averne parlato con sua madre, tornando a casa da scuola aveva trovato in cucina la nonna e la Franca, la donna che veniva a fare le pulizie, sedute al tavolo dal ripiano di marmo a bersi insieme un goccetto di vino, come facevano spesso verso la fine della mattinata. L'avevano accolta con una strana aria un po' furbesca, con mezzi sorrisini e allusioni oscure, e avevano alzato il bicchiere verso di lei brindando a qualcosa che lei non capiva.
Le sue compagne di scuola portavano già tutte le calze e le gonne strette. Solo lei, favorita in ciò dalla statura non alta e dalla figurina esile che la facevano sembrare ancora bambina, continuava a vestire con gonne a pieghe e calzini corti di cotone. Le compagne la prendevano un po' in giro e lei aveva la fastidiosa sensazione di essere diversa, ma cedere su quel punto e vestirsi 'da grande' le sarebbe sembrato un tradire se stessa. Tuttavia negli ultimi tempi si sorprendeva a guardarsi più spesso allo specchio e a desiderare un vestito o un golfetto visti in una vetrina. Per il suo compleanno la nonna le aveva dato dei soldi perché li spendesse come le pareva e lei si era comprato un grazioso paio di scarpe coi tacchi e il suo primo paio di calze. Ma quanto aveva sofferto ed esitato prima di decidersi, quante volte aveva cambiato idea e pensato di comprarsi un libro come gli altri anni!
Mise quelle scarpe e le calze il giorno dopo e indossò il nuovo tailleur rosso che la sarta le aveva ricavato da un cappotto smesso della madre. C'era poca stoffa e perciò la sarta le aveva cucito una gonna dritta. La sua prima gonna stretta. Ora si contemplava stupita nello specchio e quasi non si riconosceva. Desiderò gettar via quei vestiti e quelle scarpe che la impacciavano, indossare di nuovo calzoni, maglietta e le vecchie e sdrucite scarpe da tennis e correre a giocare a Villa Borghese coi suoi compagni. Alla festa si sarebbe certamente annoiata, pensò ancora una volta. Poi tornò a guardarsi e non poté fare a meno di sorridersi perché si vide graziosa nell'abitino attillato, le scarpette col tacco e le calze che sottolineavano lo slancio delle gambe snelle, i grandi occhi scuri sotto i riccioli chiari. Si strappò bruscamente dallo specchio arrabbiandosi con se stessa, infilò la porta gridando un saluto alla madre e corse giù per le scale.
Tornata a casa quella sera disse di non aver voglia di cenare e se ne andò nella sua stanza. Attraverso i vetri della finestra si vedeva galleggiare sopra i tetti delle case una luna quasi piena sorta da poco, che sembrava enorme. Non accese la luce, spalancò la finestra e restò lì nel vestito leggero, lasciando che l'aria fresca le penetrasse deliziosamente nel corpo. La luce lunare destava le case addormentate e la strada solitaria e le trasformava facendole sembrare nuove e diverse. Sollevò lo sguardo al cielo: nel gran chiarore le stelle erano quasi tutte invisibili, tuttavia non lontano dalla luna ne splendeva una grande e luminosa, forse Espero. Era così felice, senza sapere perché, che avrebbe voluto gridare la sua gioia.
Si spogliò rapidamente al lume di luna che entrava dalla finestra, indossò il pigiama e si infilò sotto le coperte con un piccolo brivido al contatto col freddo delle lenzuola. Non aveva voglia di accendere la luce e leggere prima di addormentarsi. Aveva bisogno di pensare, di mettere ordine in un turbinio confuso di pensieri e sentimenti. Chiuse gli occhi e subito le si riaffollarono nella mente le immagini della festa. Si mise a ripensare ogni particolare di quanto aveva appena vissuto: la sua paura, la timidezza, la lunga attesa nel salottino addobbato perché era arrivata mezz'ora prima degli altri, il primo ragazzo che l'aveva invitata a ballare e a cui aveva confessato arrossendo che quella era la sua prima festa, e poi, via via che la festa si scaldava, le risa, le chiacchiere, lo scatenarsi cogli altri in uno sfrenato ballo campagnolo chiamato la raspa...
Il gatto balzò sul letto con un breve miagolio. Lo fece entrare sotto le coperte e cominciò a solleticargli la gola provocando in risposta un soddisfatto e sonoro ron-ron. Allora le tornarono i pensieri di prima, tutti i suoi sogni e fantasticherie di bambina, il suo amore per gli animali, il suo desiderio di vivere in una foresta e avere gli animali selvatici per amici. Cosa le stava accadendo? Sarebbe cambiata tanto da giungere a odiare ciò che prima amava? Avrebbe smesso di correre, di giocare a guardie e ladri, di arrampicarsi sugli alberi? No, questo non era possibile. A poco a poco scivolava nel sonno. I suoi pensieri cominciavano a farsi confusi e le pareva di nuovo di ballare la raspa, di girare vorticosamente al braccio del suo cavaliere, sempre più in fretta, sempre più in fretta....
Il gatto ronfava tranquillo e dalla finestra dimenticata aperta la luna penetrava a fiotti nella cameretta addormentata illuminandola tutta del suo mite, strano chiarore.

(Da un originale datato 16-24 febbraio 1964, rivisto il 10-14 dicembre 2003)