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Raccolta di testi in prosa di Salvatore Violante
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Lo specchio



Via Guglielmo Marconi, a Terzigno, qualche anno addietro, era la via dei caprai. Con quell’indirizzo, le poste recapitavano le lettere alle poche case contadine coi tetti a cupola. Limitavano la strada sterrata. Era stata disegnata dall’acqua piovana, che irrompeva come un torrente lungo le pendici del Vesuvio. Oggi è una strada asfaltata, dove sfilano numerose vetture, anche se con qualche slalom, per evitare le buche dimenticate dalla pubblica amministrazione. Durante le piogge, l’asfalto è un letto ideale per le acque torrentizie.
Ah, dimenticavo, le fognature sono assenti, in tutta Terzigno.
A Pasqua di quest’anno, è venuta tanta pioggia con lampi e tuoni ed un freddo cane. Dalla mia finestra ho osservato il temporale: era un incanto quella sua prepotenza e mi veniva da pensare ad una frase di mia madre:
-Dio ha creato il mondo solo perché l’uomo vi si possa specchiare-
Sul balcone di fronte, il vecchio mastr’Antonio sedeva, come di solito, per studiare il mondo che scivolava lungo la strada. Era sempre lì, con la pipa di terracotta ad annuvolargli il viso, sotto il porticato.
Era un bel vecchio mastro Antonio, con un viso antico, fatto di rughe che disegnavano la faccia con un tegolato simile a quelli di coccio.
La mattina di Pasqua la sua pipa gli pendeva dalle labbra un po’ abulica: dal focolaio, il fumo filava per inerzia; il capo era girato contro corrente e spiava fisso, il flusso dell’acqua che veniva giù lungo la strada, senza misericordia.
-Antò che guardate?- gli chiedo incuriosito.
A sentirsi chiamare, si gira verso di me come colto di sorpresa, poi, dopo aver provocato due anelli di fumo, -Eh Salvatore, le vedi quelle buste d’immondizia che galleggiano sull’acqua? Per un momento mi hanno riportato in Russia, nella mia trincea lungo il Don; galleggiavano allo stesso modo, come sacchetti di spazzatura: a volte s’incagliavano nella sterpaglia lungo gli argini. Noi alpini c’eravamo procurate delle pertiche: per liberarli e permettere loro di proseguire il viaggio. Sembrava un fiume infernale con tutti quei cadaveri che trasportava. Invece, per fortuna, questa è solo mondezza.
Mi perseguita, la trovo dappertutto, in pacchetti variopinti oppure a lutto, persino sfusa, alla rinfusa, lungo il sentiero che porta al vigneto, ma anche a formare piccole colline lungo la strada principale. Questa notte ho sognato: stavo lungo i binari della ferrovia; ad un certo momento, ho visto i binari muoversi come due serpenti ed i fili della linea aerea sfrigolare, poi, un boato enorme, mille volte più forte di quello che sentii quando saltò in aria la fabbrica delle polveri. Ho girato d’istinto gli occhi verso la montagna: Dio che spettacolo! Una fontana: prima saliva altissima come un razzo, poi, uno scoppio: si apriva ad ombrello, e si allargava in zampilli di fuoco dai mille colori.
Simile ad una bocca di cannone, il cratere sputava boati su boati: il fenomeno veniva alimentato ad un ritmo vertiginoso.
Che belli, quei fuochi!
Ce n’erano di tanti colori; e che forme! Gomme d’auto, bottiglie di plastica, giornali, vasi da notte, barattoli di coca, lamiere ondulate, la più parte erano bidoni sigillati, ma anche un manichino vestito da governatore e due altri da cacciatori che avevano i fucili a canne mozze. Tutto questo toccava terra in forma liquida e si srotolava come la pece ma di mille colori, prima in quattro direzioni precise come quelle della bussola, poi ognuna di queste fiumane si divideva in mille altri rigagnoli e portava sul fronte dell’onda, moltissime bandierine, ognuna col suo destinatario. Che peccato! C’è stato un tuono fortissimo che mi ha risvegliato! Mi sarebbe piaciuto vedere come andava a finire-
Io l’ascoltavo incantato, partecipe di quel sogno. Quel vecchio era sempre capace di sorprendermi per la sua immaginazione. Ma, forse, aveva ragione mia madre: Dio ha creato il mondo solo perché potessimo specchiarci.
Terzigno il 25 marzo 2008

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La bagnarola (*)




L’orologio aveva da poco suonato le diciassette quando giunsi all’altezza del vicolo di casa mia. –Speriamo che oggi non le busco- pensai tra me. Tale era la quotidiana consuetudine di prenderle da mia madre. Aveva sempre una buona ragione per suonarmele e non faceva finta per niente, la benedetta! Io le pativo rassegnato, come si fa con il sole e la pioggia. Mi arrivavano addosso senza che potessi prevederle od evitarle. Quante volte ho sanguinato dal naso? Non stavo più a ricordarmene, anche perché quel sanguinare veniva giustificato come una mia debolezza intrinseca e non come effetto delle botte educative.
Mi trovai così a pensarci, senza paura alcuna, rimettendomi, rassegnato, al caso.
Giunto che fui, trovai tutto tranquillo: mia madre mi guardò severa ma continuò ad impegnarsi sul suo telaio da ricamo. Io feci finta di mettermi a studiare: presi il libro di letture, lo pesai, lo sfogliai fermandomi a qualche figura, lo rivoltai, ma alla fine, fui preso da una nausea da chiuso.
Non riuscivo proprio, a starmene seduto. Immediatamente ero preso dal prurito. Anche in quell’occasione non potei evitare di portarmi fuori in cortile. Senz’altro da fare, mi misi a tormentare le galline nel pollaio prendendole di mira con la mia fionda. Ad ogni grido di gallina colpita sentivo mia madre che senza alzare lo sguardo dal telaio mi urlava: -Lasciale stare, Salvatò che le prendi- Io, come preso da raptus non riuscivo a smettere ed allora, la poveretta, per evitare di suonarmele mi fa: -Salvatò và dalla comare “Papela”. Fatti ridare la “bagnarola” che le ho prestato la settimana passata, perché ho da fare il bucato-. La “bagnarola” era un recipiente di zinco simile, per la forma, ad una moderna vasca da bagno che, all’epoca, veniva usata per svariati motivi, specialmente per l’igiene personale e per il bucato, ma anche per qualsiasi altra attività domestica ove fosse necessaria una discreta quantità di acqua. -Vado mà - risposi prontamente, liberandomi così dal mio impegno sadico che, non era cattiveria ma desiderio di acquietare quelle formiche che camminavano sotto pelle ogni qualvolta ero condannato all’inattività.

Effettivamente mi avviai di buon passo, e procedendo attraverso lo stretto vicolo di casa mia, mi trovai fuori, nel cortile di comare “Papela”.
Questa, era una vecchietta bassina, rinsecchita, col viso simile ad una prugna prosciugata dal sole e con la pelle attaccata alle ossa che ne seguiva tutte le sfumature, sollevandosi solo, per il leggero, bluastro rigonfiamento delle vene. Parlava per enunciati popolari, e, per questo, era ritenuta la vecchia saggia: la consigliera preferita da tutte le giovani mamme.
Giunto che fui davanti all’uscio, mi fermai incantato ad osservare le grosse corna di bue inchiodate alla sommità della porta, e sognai di arene gremite e di “olè “deliranti. – Che fai babbeo, dormi in piedi?- mi disse donna “Papela” che intanto s’era affacciata alla finestra del piano superiore, -chi dorme non piglia pesci! Muoviti scemo, bussa, che Anna ti aprirà!-.
Anna era la sorella di Giulia, aveva qualche anno più di lei e due occhioni verdi sognanti su di un nasino delizioso. Il suo corpo poi, una meraviglia; camminava come Smeralda, la più giovane gallinella del pollaio di mia madre. Io restavo sospeso, a guardarla, e se mi girava le spalle, sentivo i miei occhi muoversi al ritmo dei suoi passi lombati. Non riuscivo a capire la ragione di tutto questo, anche se avvertivo un senso di vergogna.
Impugnai il ferro di cavallo che faceva da battente e picchiai tre volte.
Dopo un poco, la pesante porta si aprì con un lamento. Era buio all’interno e la figura di Anna illuminata dal sole ormai basso, mi apparve in tutta la sua arroganza. –Che vuoi, non sai che a quest’ora la gente ci ha da fare? – Non riuscivo a reggere il suo sguardo. Mi sembrava di essere sorpreso nei miei pensieri indecenti e si faceva difficile spiccicare parola. Ero tutto un fuoco ed un tremendo imbarazzo mi accendeva il viso. Mi sentivo smascherato, come se i miei pensieri più intimi apparissero stampati sulla faccia.
-Voglio la bagnarola- riuscii a sbiascicare con voce roca e lo sguardo a terra. -É ai piedi del lavatoio- disse donna Papela, rivolgendosi alla ragazza dal ballatoio della scala che portava alla stanza da letto, - dagliela, Anna, e manda un bacio a Carmela per ringraziamento!-
-Vuoi prima il bacio o la bagnarola? Mi disse ridendo la farabutta, beandosi in cuor suo per il disagio che mi procurava, -è vero che hai paura delle ragazze? aggiunse con tono sfottente, -me lo daresti un bacio?-
continuò osservandomi con attenzione. Io ero furibondo con me stesso perchè le gambe mi tremavano e mal digerivo quel sorriso sfottente della ragazza ad un palmo dalla mia faccia, con la bocca socchiusa che mi mostrava tutti i denti. Fu un raptus. Chiusi gli occhi e, ciaàcchète, le piazzai il più rumoroso bacio, proprio sui suoi denti. C’èra in quel bacio l’estratto delle mille umiliazioni subite. –Bravo Salvatore, disse donna Papela, così si fa quando a una donna gli friccica-. –E tu, ti decidi? Gliela dai questa benedetta bagnarola, o vuoi attendere la notte? Sbrigati, e torna alle tue faccende! Infine, impara, che a troppo sfottere si resta sfottuti !-
Anna non rispose, né si arrabbiò; mi sembrò improvvisamente meno scanzonata e la vidi guardare come se mi vedesse per la prima volta. Silenziosa, servile, mi diede l’attrezzo e rientrò in casa.
Mi ritrovai imballato in mezzo al cortile e sognante, impugnavo con le mani le due maniglie della bagnarola tenendola capovolta sul capo sì che il mio busto era completamente nascosto dal recipiente.
Avanzavo a stento un po’ per la scarsa visibilità un po’ perché ero tutto
incartato a ripensare quanto era avvenuto senza che ne avessi tratto gusto o profitto.
–Nè, scemo, quando m’incontri, saluta, se non vuoi buscarle!-. A provocarmi, era Ninuccio detto “a zampogna”. Era fermo, a gambe larghe, come Benito Mussolini, nel mezzo del cortile. Aveva la mia età, ed appariva tutto rosso per i capelli, le lentiggini ed una voglia di vino sotto il mento che disegnava una zampogna. Era un vigliacco, ma sapeva bene che ogni reazione avrebbe provocato la collera di mia madre che non era dolce quando riteneva di dovermi punire. In quell’occasione poi, si sentiva particolarmente sicuro perché ero troppo vicino a casa; non avrei potuto avventurarmi in una sortita senza preventivare la dura punizione materna.
Il carico sul mio capo poi, lo rendeva coraggioso, perché non era costretto ad incrociare il mio sguardo rancoroso.
Io non rispondevo alle sue provocazioni, il miserabile, tuttavia, iniziò un lancio fitto di sassi, la più parte dei quali, finivano contro lo zinco della bagnarola che risuonava rintronandomi. Quando uno di essi mi colpì al tendine d’Achille e mi procurò un dolore insopportabilmente acuto, strillai come un cane investito ed anche se poi si fece più accettabile, seguitai a piangere a dirotto per l’umiliazione e la rabbia. Fu allora che Ninuccio cessò il lancio e temendo una reazione irragionevole, se la svignò.

Io me ne tornai a casa piangendo, e, giunto che fui, mia madre, senza chiedermi ragione del pianto, presumendo, per i miei precedenti, che era il risultato di una baruffa da me cercata e persa, -sei sempre il solito!- e giù uno scapaccione, - non impari mai che il litigio è da animali!- e giù un altro schiaffone, - tuo padre dovrà prendere un provvedimento serio con te, se non vuole vederti in galera!- ed ancora una manata.
Il mio pianto era divenuto disperato. Non avvertivo il dolore, ma il peso della sopraffazione e dell’ingiustizia. Ero arrabbiatissimo con mia madre. Non c’era niente, che potesse giustificarla. Pensavo che, la Madonna l’avrebbe punita più severamente, quanto più la mia disperazione sarebbe montata.
Mi misi così, sempre singhiozzando, ad armeggiare con la bicicletta, poco lontano dall’uscio di casa. Speravo che il pianto potesse procurare rimorso in mia madre che, per la verità, sembrava non accorgersi più di me.
L’orologio del campanile aveva da poco suonato le venti, quanto sentii il passo veloce di mio padre battere il selciato del vicolo, accompagnato dal suo allegro fischiettare.
Ripresi i singhiozzi con più lena e disperazione. – Che è guagliò? Che ti chiagni?- mi chiede mio padre con tono sorpreso e divertito. Egli non mi vedeva mai piangere per una sberla.
A quelle parole, i miei singhiozzi diventarono un pianto irresistibile di disperazione ed una domanda di risarcimento infinita. A fatica, riuscii a spiegare al genitore il torto subito, intercalando le parole al pianto.
Ascoltate le mie ragioni, mio padre si fece serio; stette un attimo in silenzio poi: -ascoltami bene!- disse, - è l’ultima volta che voglio scoprire un tuo pianto causato dall’arroganza di altri!- è bene che tu sia buono e tranquillo, ma non voglio, ripeto, non voglio, che tu subisca vessazioni senza difenderti!Voglio anche, che tu impari a difendere i più deboli dalle angherie di ogni prepotente. Ora smettila di piangere! -, aggiunse. -parlerò io a tua madre-.
Di colpo il mio pianto cessò. Tanto mi bastava. Mio padre che riconosceva il mio diritto alla giustizia ed alla difesa. Dentro il mio cuore ero proprio contento. Finalmente potevo far ingoiare le risate irridenti a quel verme di Ninuccio.
Pensavo in questo modo, mentre mi portavo in giardino a raggiungere mia sorella Lidia. Mi aveva chiamato invitandomi a partecipare al raduno delle galline che, uscite dal pollaio, s’erano riversate rumorosamente fra i pomidori mostrando la loro allegria con saltelli ed abbozzi di volo. Il giardino, che era situato di fianco alla casa, era diviso dalla proprietà limitrofa da un muretto alto poco più di un metro.
Questa apparteneva ad una vecchietta, curva come una befana, che si chiamava Mamuntina.
Era la nonna di Ninuccio “a zampogna”. Una vecchina come tante, la si notava spesso che girovagava tra il cortile ed il giardino, sempre appoggiata ad un bastone. Quando sentii il rumore di frasche smosse nel giardino, pensai che fosse Mamuntina con il suo bastone, ciò nondimeno, mi affacciai a curiosare.
Che visione paradisiaca! Non era la vecchina a trastullarsi con le frasche ma Ninuccio. Stava lì a bighellonare, dando calci alle sarcine accumulate a piramide, senza pensiero.
Era chiaro che non aveva timore alcuno d’attentati, solo una tremenda noia che tentava di prendere a calci.
Non stetti a pensarci su, saltai il muro e con pochi balzi mi portai sul povero Ninuccio che, alla sprovvista, si sentì travolto da una valanga di colpi: erano il saldo finale d’antiche umiliazioni condite da solenni arrabbiature.
A sentirlo piangere, ne provai pena. Mia sorella Lidia, invece, eccitata, strillava come un’ossessa invitandomi a suonargliene ancora a quel vigliacco. Non era cattiva, ma tra le quattro mie sorelle, era quella che più provava pena per le mie disavventure. Smisi di dargliele anche perché nel frattempo, avvertii una vivace discussione fra i miei genitori: non volevo essere causa di dissapori, né, rischiare di perdere, dopo una discussione più approfondita sui metodi educativi, i privilegi da poco acquisiti.
Per questo, assunsi un’aria mite e contrita, e ritiratomi in cucina, mi misi buono buono, sul sussidiario, a studiare attentamente la lezione di geografia per il giorno successivo. Mia madre, a vedermi così, poco prima di cena, restò di stucco.
Era un evento eccezionale. Mai era successo di vedermi applicato sui libri di sera. Mi bastavano le due ore di prima mattina, per soddisfare le attese del mio maestro.

(*) Episodio tratto da “Piazza S. Anna”

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I tre amici (*)

Avevamo già tutto previsto. Piazza S. Anna in quel giorno di giugno era luminosa. I caseggiati a due piani che l’attorniavano, sfoggiavano balconate fiorite di gerani penduli che facevano le inferriate simili a coperte colorate, le stesse esposte in occasione del passaggio della Santa.
Mettevano di buon umore.
Eravamo tre quella mattina, i soliti della compagnia, quelli che a vederli, si prestava attenzione ché non si sa mai quello che possono provocare.
Sasà ero io, magro come un palo: mamma Carmela si meravigliava sempre ogni volta che notava il rapporto inverso tra la massiccia quantità di cibo che ero capace di ingoiare e la poca ciccia che mettevo attorno alle ossa, tanto da farle dire: -Ma dove cavolo lo metti? È possibile che diventi tutto cacca? –
Poi c’era Tonino, detto “molla-molla”, per delle sue doti acrobatiche nel fare capriole che davano l’idea di un elastico. Aveva un viso bello, tondo e rosso. Sembrava una pesca matura; l’altro era Bruno, il più anziano della compagnia. Con ben dodici anni sul groppone. Era basso e tarchiato. Il pettorale ben marcato incuteva rispetto. Il viso era abbastanza segnato dal naso largo a zeppola, come privato di cartilagine e i due occhi rotondi e neri gli davano un’aria cattiva. Non era solo un’aria, perché Bruno era cattivo per davvero, il solo tra noi capace di scagliare un cazzotto sul naso dell’avversario e non fermarsi alla vista del sangue.
Era da un po’ di tempo, che si pensava di tirare un brutto scherzo a Vincenzo detto “Cenzone” per via che faceva il sacrestano e quindi aveva a che fare con l’incenso. L’avevamo seguito varie volte, carponi e scalzi, mentre saliva su per la buia scala a chiocciola che portava su, dalla sala dell’associazione cattolica fino al piano ove c’erano tutte le impalcature per l’accesso all’orologio del campanile, e poi, attraverso una porticina, sul tetto della chiesa che si raggiungeva col cuore scoppiettante per l’affanno.
Aperta la porta, ci si tuffava in un mare di luce che naufragava su di una superficie concava. Questa appariva nera come la notte, per via della pece di cui era ricoperta. Noi ci fermavamo alla porticina. Spiavamo “Cenzone” spingendo leggermente l’uscio fino a creare una fessura.
Era un uomo di mezza età, dai lineamenti segnati da profonde rughe, come i tegolati dei presepi. Su questi poggiava un naso uguale ad una di quelle pipe di creta rovesciate. Pipa e tegolato apparivano fatti l’uno per l’altro, tanto naturalmente bene, s’integravano.
Cenzone, in quei frangenti, era tutto preso, con un gessetto, a segnare dei numeri sotto alcune buche nelle pareti che limitavano il terrazzo; si soffermava sulle altre già precedentemente segnate, per controllarne il contenuto. Prima che finisse il suo giro d’annotazioni e controlli, noi scendevamo, di corsa e scalzi, la buia scala a chiocciola senza rumore.
Il più delle volte, dopo breve tempo, già dimentichi, ci dannavamo l’anima a combattere una spigolosa partita di pallone con altre canaglie nostri coetanei, divisi in due squadre sul selciato di piazza S. Anna. Erano partite tirate, vere e proprie battaglie, che segnavano gli stinchi ed i visi, e finivano di solito con botte da orbi fra i contendenti che non trovavano accordo sulla validità di una rete.
Come già detto in precedenza, avevamo tutto previsto.
Nelle nostre spiate periodiche avevamo capito che Cenzone sul campanile seguiva le covate degli uccelletti che avevano nidificato nelle numerose buche. Aveva tutto annotato: data di deposizione delle uova, quella di presumibile schiusa e di conveniente prelievo.
In una nostra spedizione preventiva, avevamo trascritto il giorno più utile per effettuare la nostra operazione con maggiore profitto.
Cadeva quel martedì d’inizio giugno.
Quella mattina, io assieme a Bruno e Tonino, percorrevamo via Carlo Alberto affiancati, con le mani affondate nelle tasche bucate dei nostri calzoni a quadroni, alla zuava. Avevamo un’aria baldanzosa ed arrogante e ci guardavamo a vicenda, ciascuno di noi, a spiare gli occhi degli altri due per trovare una traccia delle ambasce che ci prendevano in prossimità dell’impresa.
Cenzone, era la nostra bestia nera.
Era quello che in chiesa ci allungava le orecchie con improvvisi balzi alle spalle per punirci di qualche bisbiglio troppo insistito. Al cinema Ideal poi, si poneva sotto il grande schermo con una lunga canna. Aspettava paziente il momento opportuno. Questo, si presentava quando finalmente interveniva la cavalleria: la tromba ripeteva a perdifiato la carica mentre gli zoccoli dei cavalli scavavano la prateria sollevando un nebbione polveroso. I coloni che stavano per soccombere, erano, finalmente, salvati dai cavalieri in divisa azzurra, in plastica tensione sulle cavalcature, con la sciabola sguainata, a continuare il braccio allungato in avanti. I pellirosse, nemici e feroci, erano costretti alla fuga, mentre noi, in piedi, gridavamo il nostro entusiasmo a perdifiato, sedati a stento dai colpi di canna che Cenzone distribuiva sul capo, in modo equo.
Quando arrivammo in piazza S. Anna, il sole era ormai alto. Sotto gli alberi, quella domenica, sedevano quasi tutti i notabili del paese; chi sorbiva un gelato, chi invece era impegnato a leggere le notizie dal quotidiano comprato alla tabaccheria vicina.
Si poteva trovare di tutto in quel negozio, dal sale da cucina ai francobolli, dai bottoni ai giornali. Per noi ragazzi era un negozio familiare, perché donna Papela, la proprietaria, era solita aggiungere una “zarra” ogni qualvolta uno di noi vi si recava per fare una commissione.
Ce n’andavamo succhiando la caramellina con ingordigia, non senz’aver rivolto a donna Papela una sbirciata con occhio innamorato.
Donna Papela se le beveva quelle occhiatacce e le provocava, piegandosi in avanti ad offrire il suo grosso seno sodo che sembrava voler spaccare tutte le imbrigliature sotto le stilettate di quegli sguardi.
Il donnone alimentava tutti i nostri sogni erotici e solitari. Quante volte ho sognato donna Papela e con che trasporto!
Quando giungemmo davanti alla chiesa la messa era appena terminata.
Cenzone aveva aperto i due grossi portali: in tal modo, i fedeli potevano uscire senza accalcarsi troppo.
Questi si riversarono fuori lentamente, come un rigagnolo, andando a defluire in numerosi rivoli tutt’attorno alla grande piazza fino alle due stradine che scendevano ai lati della chiesa.
Cenzone, usciti i fedeli, rinchiuse i portali lasciando aperto il solo piccolo portoncino disegnato in uno d’essi, e, girata la stradina all’angolo, se n’andò per i fatti suoi.
Noi tre ci sbirciammo a vicenda, senza parlarci, e, dopo un cenno d’intesa, scivolammo in chiesa. Tutti e tre accennammo una genuflessione ed un veloce segno della croce alla vista del grande crocefisso che si trovava di fianco alla porticina d’ingresso dell’associazione cattolica, e, senza starci a pensare troppo su, vi entrammo. Era un lungo salone rettangolare: il solo lato lungo, a sinistra, era interrotto, all’inizio, da una rientranza che realizzava un rettangolo, aperto sul lato lungo, abbastanza grande perché all’occorrenza vi s’incastonasse un bigliardino.
Entrando in questa rientranza, a sinistra, c’era una porticina che immetteva nella scala a chiocciola. Questa portava al campanile. La scalinata era debolmente illuminata da una finestrella posta sopra la porticina che era difesa da un’inferriata a croce. Al centro del salone c’era il tavolo da ping-pong sopra il quale Cenzone era solito mettere una sedia: gli serviva per salirvi ed arrivare così a prendere la fune delle campane quando occorreva farle suonare.
La porta era chiusa per mezzo di un catenaccio, quella mattina.
La cosa non era abituale perché fino a quel giorno era sempre rimasta priva di serratura. Pensammo a Cenzone: doveva aver sospettato qualcosa, ecco perché aveva preso quella precauzione, tuttavia non ce ne demmo molto pensiero. Il catenaccio la bloccava grazie a due anelli metallici ricavati da una coppia di viti ad occhiello, poste, la prima, sul portale, la seconda, a breve distanza, in corrispondenza, sulla stessa porta.
Ce ne liberammo grazie ad una stecca metallica: con questa, Cenzone era solito spegnere le candele non raggiungibili con il solo braccio.
Entrammo. La scala saliva a spirale stretta e in penombra, per la poca luce proveniente dalla piccola finestra sulla porta d’ingresso.
Ci avviammo l’uno dietro l’altro con il cuore pesante come un macigno per l’inconfessato timore.
Giunti che fummo al piano dell’orologio, Bruno rivolgendosi a Tonino disse:- Tonì, fermati qui e ascolta se arriva qualcuno; così potrai avvertirci-
Tonino rispose con un cenno della testa, ed andò a sistemarsi pancia a terra sul piano dell’orologio con il mento sul bordo della buca da dove passavano le corde delle campane. In tal modo, poteva controllare tutto quanto avveniva nella sala sottostante. Noi due proseguimmo agili, verso il piano superiore. Non eravamo ancora arrivati a destino, che un grido soffocato di Tonino ci richiamò indietro.
- Cenzò, Cenzò, arriva Cenzò -, sussurrava sottovoce Tonino, continuando fino a quando non ci vide nei paraggi. - All’orologio! - impose Tonino, - lì non potrà né seguirci né vederci. -
Il luogo era, infatti, nell’oscurità più profonda e poteva essere raggiunto soltanto da monelli agili come gatti, certamente non da Cenzone che era un uomo tozzo, pesante e non più giovane d’età.
Come animali braccati dal predatore, ci arrampicammo veloci lungo le travi metalliche che formavano il trapezio pensile al quale era agganciato l’orologio della chiesa. In cima, ognuno di noi si abbracciò ad una trave cercando di confondersi col metallo.

Sentimmo Cenzone che saliva le scale, per il suo passo pesante, per le calzature ferrate e per la sua stazza. Quando ci passò davanti, avvertimmo il soffio stridulo del suo respiro che ricordava i vecchi mantici. Proseguì verso il piano superiore. La salita s’era fatta più lenta, talvolta si arrestava, per riprendere fiato e per stare in ascolto.
Riprendeva dopo poco, borbottando vituperi e minacce d’ogni sorta. Io, restavo in silenzio, come i miei compagni, attaccato alla trave, e, col pensiero invocavo l’intervento divino a salvarmi. Ero pronto persino a rinunciare a spiare la Giulia dal buco della serratura del cesso nel cortile.
Certo, era una grossa rinuncia, perché la Giulia era una bella ragazzona rotonda sui tredici anni che quando entrava nel bagno anziché fare i suoi bisogni stava a guardarsi le sue cosce ed il suo seno e le denudava e si muoveva tutta, come se stesse recitando la parte della “sciantosa”.
La paura in quel momento non mi faceva sentire troppo importante il sacrificio. Cenzone, intanto, non avendo trovato traccia di noi al piano superiore, era disceso, e, bestemmiando, si era avventurato minaccioso nell’oscurità del nostro rifugio. - Lo so, diceva, figli di una cagna stuprata, che siete qui; piangerete o malnati, frutto del peccato di un padre incestuoso. Maledetti! - Si fermava di tanto in tanto ad ascoltare l’eco dell’ultimo vituperio o per una crisi di tosse catarrosa.
Io restavo fermo, cessavo persino di respirare. Sentivo il mio cuore battere come un tamburo e provavo meraviglia che Cenzone non l’avvertisse.
Costui intanto, dopo il lungo sbraitare, resosi conto che era impossibile prenderci, e che non era pensabile una nostra volontaria consegna, rifece la strada da cui era venuto.
Noi, restammo a lungo nascosti per prudenza. Fu Bruno il primo che scese a spiare il da farsi. Resosi conto che effettivamente Cenzone era andato via, chiamò noi due rassicurandoci. Al richiamo di Bruno, mi sentii rinascere, e così, assieme a Tonino, scendemmo per raggiungere l’amico.
Non eravamo ancora nei pressi, che sentimmo: - porca la miseria, il panzone ha chiuso la porta; e adesso? -
Facemmo gli ultimi gradini di corsa. Alla porta, ci alternammo a dare spallate. Dava l’impressione d’essere solida come un muro di cemento.
Finalmente ci convincemmo che, in quel modo, non avremmo risolto il problema.
Risalii alcuni gradini giungendo alla finestrella che guardava da sopra alla porticina. Lo spettacolo che vidi mi prostrò completamente. Non dava alcuna speranza. Quel maledetto aveva incastrato il bigliardino tra la porticina ed il muro di fronte. Neppure Sansone avrebbe potuto sfondare una porta così fortificata. Scuro in volto, riferii la cosa ai miei compari che corsero anch’essi alla finestra per verificare. Se ne ritirarono sbiancati come cadaveri. Per la verità rifacemmo l’itinerario, porta-finestra, più volte, come topi in gabbia, impazziti.
Tonino, si ricordò d’essere un bimbo ed incominciò a frignare, subito zittito da uno scapaccione di Bruno. Quest’ultimo era divenuto serio in viso, come di una persona preoccupata ma non ancora disperata.
Si poteva notare il suo sforzo cerebrale dalle rughe che si erano disegnate sulla sua fronte e dallo sguardo accigliato. - Andiamo sopra, disse, forse c’è ancora una speranza.-
Si avviò salendo gli scalini di corsa, come di una persona che avesse fretta di verificare una sua congettura. Noi lo seguimmo per inerzia, senza alcuna speranza.
Al piano superiore, notammo Bruno fermo in prossimità della buca da dove passavano le corde della campana.
- Salvatò, disse, è la tua occasione, sei il più magro, il solo che può passare attraverso il buco. Noi bloccheremo il battaglio contro il bronzo per evitare che la campana suoni, tu, scivolerai aggrappandoti alla corda attraverso il buco. -
Avevo una paura formidabile e le gambe tremavano.
Mi rendevo conto, tuttavia, che non potevo perdere la faccia nei confronti dei miei amici; infine, non sembrava esserci diverso modo per venirne fuori.
Rassegnato, assentii.
Quando mi diedero il pronti, mi sputai sulle mani, e, aiutato da Tonino, mi infilai a fatica nel buco graffiandomi un poco i gomiti. Finalmente riuscii a passare lasciandomi scivolare lungo la corda. L’attrito mi procurò una dolorosa ustione ai palmi delle mani che fece terminare la corsa con una fragorosa caduta sul piano sottostante del tavolo da ping-pong che si sfondò, attutendo però la mia caduta.
Non feci una piega. Mi sentivo un eroe. Mi portai così alla porta del campanile e, con gran fatica, riuscii a spostare il bigliardino, e, a dare la sospirata libertà ai miei due compari. Questi mi abbracciarono con gran trasporto poi, senza troppi trastulli, verificato che il resto della via era libero, si portarono in strada precedendomi di qualche passo.
Dopo qualche metro di corsa, ce n’andammo per i fatti nostri, con le mani in tasca, così com’eravamo arrivati.

(*) L'episodio è tratto da "Piazza S. Anna" Raccolta in parte inedita

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Quella mattina Apollo

(a Prisco De Vivo)

Quella mattina Apollo si levò di malumore. La fatica del suo vivere ozioso l’irritava. Prese la sua arma per rendere più piacevole quella giornata.
L’aveva costruita con cura. Un proiettile di Browning M2 montato su una base di legno faticosamente inciso. Aveva modellato con il suo affilatissimo coltello un pezzo di sorbo. Il proiettile gli era comparso davanti così, mentre tempo addietro bighellonava scalciando tutto quello che gli capitava fra i piedi lungo la strada che portava all’ippodromo. Questa, in terra battuta, costeggiava il perimetro dei vigneti che da Terzigno risalgono l’immensa fornace del vulcano. Quella mattina si avviò per la stessa strada.
La caccia l’avrebbe sollevato. S’era approvvigionato di polvere da sparo da Leopoldo, alla fabbrica dei fuochi: era una casupola sperduta fra le colline di lava, lontana dal centro abitato. Era bello inoltrarsi nella pineta, sentire il soffice letto d’aghi di pino che, ammorbidendola, rendevano la camminata leggera e silenziosa. Il suo occhio era attento, avvertiva ogni movimento mentre l’orecchio era pronto a percepire persino il leggero fruscio delle foglie del vecchio castagno che la brezza solleticava. Non lo distraeva né lo splendido spettacolo del golfo che si stendeva sotto da Sorrento a Napoli, né il profondo silenzio che saliva dal bosco. Cupido comparve d’incanto da un cespuglio di ginestre fiorite.–Che diavolo ti succede, sei diventato poeta? A vederti così solitario potrei crederci davvero.– disse ad Apollo sorridendo. Questo irritato rispose: –non dare a me prerogative che ti appartengono. Sei tu il femmineo, il dolciastro, il bellino. Io sono ben armato sotto e sopra, come si dice, un bel maschio, perciò niente può resistermi e, ancorché avvenisse, saprei come fare.–
In quel frangente, una lunga biscia nera scivolò in cerca di un raggio di sole che riscaldava un pezzo di lava nerissima.
Bum, e la sua testa si appicicò alla pietra; il resto si dibatteva in una cieca agonia. Apollo aveva sparato senza interrompersi: –eccoti una lezione di efficacia, altro che le tue smancerie da impotente.– Cupido lo guardò irridente, nauseato dalla violenza. –Sei tanto virile quanto stupido e non hai cuore! Per questo non comprendi la forza dei sentimenti e l’energia che si nasconde nel profondo del petto! L’uomo di queste terre ha in sé una piccola fucina ricavata da quella più grande del Vulcano. È lì che modella armi invisibili che sprigionano un’energia fantastica. Tu ne sei sprovvisto perché manchi d’immaginazione e riesci a forgiare solo attrezzi visibili e banali. Voglio essere benevolo e mostrarti questa meraviglia. Vedrai come sia possibile bruciare per autocombustione. Assaggerai l’amore fino a morirne. Così imparerai a tue spese di quale forza siano dotate queste armi.–
Disse questo, mentre la curva del sentiero scopriva un prato di alti papaveri rossi che occhieggiavano i corimbici fiori rosa dell’officinale valeriana. Disparve così, dietro la curva, mentre l’altro s’era attardato ad infilzare la preda e a deporla nella sacca. Apollo riprese il cammino subito dopo. Il suo passo s’era fatto ansioso, s’aspettava di ritrovare Cupido poco dopo la curva. Giuntovi non poté credere ai suoi occhi. Al suo posto scorse Dafne sulla sommità del sentiero, di spalle, priva di sospetto. Quel giorno avrebbe dovuto raggiungere i genitori per la raccolta delle nocciole.
La sua gonnellina di panno fiorito le copriva appena metà delle cosce. Stava prona e raccoglieva papaveri; l’ingenua non sospettava di mostrare due coppe candidissime appena segnate a metà da una pennellata di nero.
Così apparve ad Apollo e lo stupore gli bloccò il sangue. –Possibile?– pensò, –Cupido? Con queste sembianze?– Fu solo un attimo. Poi sentì il sangue rifluire e gonfiargli le tempie mentre un irresistibile desiderio gli gonfiava il cuore ed il membro. Si avviò quasi di corsa, attratto da quelle natiche, ansimando: –amami creatura divina, fammi rinfrescare alla tua fonte, donami il frutto di melagrana, presto, l’incendio mi scioglie, non farmi bruciare.– Dafne a sentire i sospiri si voltò di scatto e scorgendo il viso stralunato di Apollo ne fu atterrita. – Gesù, Gesù, aiutami, disse scappando tra i fiori, mantienimi pura, non lasciarmi preda dell’artiglio di Satana!–
Il Signore quella mattina era ben disposto. Dafne più volte aveva chiesto un suo segno. C’era una radice di pino che fuoriusciva dal terreno di quel sentiero. Frastornato dalla passione e dalla lussuria, Apollo v’incappò finendo disteso sulla finissima sabbia. Più volte tentò di rialzarsi ma poté appena sollevare la testa. Impaurito si guardò intorno. Vide una pozza d’acqua in un bacile naturale di lava. Vi si trascinò e, specchiatosi, finalmente si rese conto. Era divenuto nero e serpente: un biscione più grande di quello che aveva assassinato. Ne restò stravolto. Anche così, il fuoco continuava a consumarlo dentro, mentre, irresistibile, una forza misteriosa lo costringeva. Si mise a strisciare lungo il sentiero sibilando il proprio desiderio.
Infine la vide a distanza la bella giovine, mentre il suo corpo svaniva come fumo dentro un giovane fico selvatico. Non poté fare altro che cingerlo con le sue spire e così restare avvinghiato, fino alla fine.
I contadini che passano da quelle parti raccontano di un fico selvatico che, miracolosamente, si è messo a fruttificare. I frutti bianchi e dolcissimi sono di una specie nuova. Aperti, mostrano una polpa bianca all’interno: due mezzelune divise da un segno nero. Dicono pure che il fusto del fico è ancora stretto dalle spirali fossilizzate del serpente. Dicono…., ma potrebbe essere un antico rampicante parassita.