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Rosa rancore
Rosa rancore
1
La vecchia chiesa continuava a svettare a due passi da casa sua ma, dal tempo dello scandalo che aveva coinvolto il parroco e la sua amica, Rosa non ci era andata più. Erano trascorsi quarantacinque anni, quel parroco con il basco nero sulle ventitré era scomparso, inghiottito nel nulla e forse era pure morto e la sua amica, invecchiata e nonna come lei, non era più la donna di quel tempo, era un’altra. Il tempo macina le nostre cellule in polvere fine, la pelle si stacca in squame sottili e fa posto a nuova pelle, a un’altra faccia, a un’altra storia, a un’altra vita. Da quarantacinque anni Rosa si costringeva a fare molta strada in più per dire le sue preghiere e raggiungeva la lontana parrocchia di S. Francesco, ogni mattina, che tirasse vento o nevicasse, che fosse già caldo o che piovesse. Giunta all’ingresso spinse la porta laterale e scivolò all’interno, con una mano spiegò il fazzoletto nero e con l’altra se lo adagiò sulla testa, un accenno d’inchino sul ginocchio malfermo al centro della navata e, con la sola punta del dito indice, il segno della croce sferzato dalla fronte al cuore e da sinistra a destra sul petto. La forza dell’abitudine le faceva compiere quei gesti in un automatismo inconsapevole e, se solo avesse potuto osservarsi dal di fuori, avrebbe capito alcune cose di se stessa. Ma, Rosa sapeva osservarsi solo dal di dentro e non c'era nessuno che la osservasse mai, specie alle sette del mattino, in quella chiesa lontana dal suo quartiere. Non c'era nessuno, a parte, su quel sedile laterale seduta all’estremità, una ragazza con lo zaino della scuola appoggiato per terra. L’hai combinata proprio grossa, cara mia, se a quest’ora prima della lezione te ne vieni qui a pregare, pensò Rosa, hai determinati peccati da farti perdonare, o chiedi intercessione a dio, che è lontano e impalpabile, affinché i tuoi peggiori presagi non s’avverino. Li conosceva i peccati, Rosa. Per tutta la sua vita non aveva fatto altro che tener conto dei peccati altrui. Perché lei era pulita. Non aveva fatto niente, lei. Lo sapevano tutti. Conosceva pure il dio lontano e impalpabile che aveva pregato in tutti gli stati d’animo che l’avevano attraversata nei suoi settantacinque anni. E l’aveva capito fin troppo bene che non era né lontano né impalpabile, ma sordo sordo sordo. O quello, o indifferente, perché sollievo in lui, Rosa, non l’aveva trovato mai.
Intenta in questi pensieri, pregò meccanicamente le sue preghiere e senza aspettar messa tornò a casa. Preparò la moka con due terzi di orzo e uno di caffè, come ogni mattina. Il mal di cuore s’era portato via il suo giovane sposo cinquant’anni prima che era ancora una ragazzina, ma per fortuna già madre e, ora che il figlio era cresciuto tanto e s’era fatto la sua vita, a lei non rimaneva che il telaietto per il ricamo con cui mettere alla prova i suoi occhi stanchi e le mani indecise. Pure i ricordi però le tenevano compagnia e, come spesso succede quando la vita sembra non mostrare più per noi il minimo interesse, il tempo della memoria prende il posto del presente, i ricordi si fanno di carne, come accaduti un momento fa. Davanti alla tazzina vuota del vecchio servizio da caffè che le aveva lasciato sua madre – e, a sua madre la madre di lei – Rosa rivide se stessa da giovane. Svanite le speranze d’andare in sposa a qualche belloccio di paese – visto che nella grande casa dove s’abitava tutti insieme i belli non venivano mai a trovare lei, ma sempre qualche sua cugina – Rosa s’era rassegnata a una sorte meno romantica e aveva infine sperato nell’arrivo di un buon uomo che, prendendosela in carico, avrebbe sgravato la sua famiglia dalla necessità di sfamare una bocca in più e realizzato il suo destino di donna, che non poteva che essere quello di diventare sposa e madre. Quell’altro destino, Rosa non voleva nemmeno prenderlo in considerazione. Si sarebbe ammazzata nel fiume, piuttosto. Ma alla fine il buon uomo era arrivato e lei aveva avuto il suo momento di felicità. Rosa sapeva quel che pensavano le sue cugine il giorno che uscì per l’ultima volta dalla sua stanzetta, nel suo semplice abito da sposa. Lo sapeva talmente forte da sentire i loro pensieri. Sentiva il compatimento misto allo stupore di vedere che anche lei ce l’aveva fatta, ma lei era felice lo stesso e aveva alzato la testa fiera e consapevole di muovere i suoi ultimi passi via da quell’inferno. Perché quelle, mai messe a dura prova dalla sorte, non immaginavano neanche quante sfumature potesse avere la felicità. La gente sa solo ragionare con la propria testa, pensò Rosa, fissando gli occhi nel vuoto, totalmente inconsapevole di fare anche lei la stessa cosa. Stare per anni dietro alle tendine della finestra che dava sullo stradone bianco d’ingresso alla grande casa per vederlo percorrere da giovani allegri con un mazzolino di fiori di campo in mano, o un pacchetto legato con lo spago, al cui interno si celava magari un delizioso dolcetto, e sapere di non essere mai lei la destinataria di tale gentilezza, l’aveva amareggiata e riempita di rancore. Gli anni passavano e quel poco di freschezza che le era toccata in sorte sfioriva insieme alla speranza d’esser pure lei amata. Per questo il giorno del suo matrimonio lei era felice e quelle non l’avrebbero capito mai, perché in extremis s’era salvata, da un destino atroce s’era salvata, a un pelo dalla morte s’era salvata, e quell’uomo che la prendeva in sposa poteva non essere granché agli occhi delle altre, ma certo era un re agli occhi suoi. Quel giorno era cominciata la sua seconda vita. Mai uscita di casa prima d’allora, mai baciata, mai ricevuto un complimento, neanche falso, ora aveva la sua casa, un grazioso mezzanino con il bagno in cortile. Erano altri tempi, mica sembravano sacrifici quelli, erano sciocchezze paragonate al destino inesorabile che l’avrebbe attesa, se non fosse arrivato lui. La moka borbottò i suoi primi singulti, il caffè misto era quasi pronto e Rosa si scosse per gettar via quei ricordi, spense il fuoco, aspettò ancora un poco poi lo versò nella tazzina di ceramica con le rose appassite. Quanti anni avrà avuto quella tazzina? Essendo un regalo di nozze di sua nonna a sua madre poteva essere quantomeno del 1880, pertanto quella tazzina s’era vista scorrere davanti la vita di tre generazioni come se fosse niente, senza rompersi né incrinarsi, impassibile alle sorti di quelli che le erano passati accanto. Rosa si sedette a tavola e mangiò il biscotto che aveva messo sul tovagliolo, inzuppandolo brevemente affinché non si rompesse tutto nel caffè. Poi si portò la tazzina accanto alla finestra, scostò quel tanto la tendina per osservare in strada senza che nessuno la vedesse – il suo rituale, da sempre. Ancora da prima che le cose andassero a rotoli. Ed era più che un rituale. Era un destino. Si può sfuggire a quello che ci sembra il peggio per un po’, ma il destino non si dimentica mai davvero di noi, pensò Rosa con amarezza. II
Oggi il mezzanino era diventato un appartamento di settanta metri e il bagno era dove avrebbe sempre dovuto essere, in casa, dotato di ogni comodità. C’erano voluti anni di sacrifici per comprarlo dal vecchio proprietario che tanti anni prima l’aveva affittato a lei e suo marito. E, certo, si sarebbe acquistato tanto tempo prima se quello, suo marito, non fosse andato a morire giusto qualche mese dopo il matrimonio mentre lei era incinta di Giulianino, Nino. Rosa, esperta di accumulo di rancore, ne provava una discreta quantità anche nei confronti del suo sposo-per-un-attimo. Ma come si fa a morire così? Ma come si fa a lasciarla sola, senza il becco d’un quattrino e perdipiù incinta? Erano stati anni duri e Rosa si era rassegnata a vivere di aiuti familiari e di favori poi, quando Nino fu abbastanza grande da andare a scuola, entrò a servizio nella casa della signora Giulia, madre del sindaco del paese, e le cose migliorarono. Quella per lungo tempo fu la sua unica vita sociale, la signora era vigorosa e decisa a sostenere in ogni modo l’ascesa di suo figlio che un giorno, chissà, magari sarebbe finito a sedere in parlamento. Perciò in quella casa era un continuo organizzare cene e serate danzanti, arrivavano a volte personalità importanti del partito direttamente da Roma e Rosa era diventata una persona indispensabile per la signora Giulia. Poi, un giorno un parente di Rosa le prospettò la possibilità di essere assunta alla Fiat. Certo avrebbe fatto un lavoro completamente diverso, un vero lavoro organizzato, insieme a tante persone, ma avrebbe avuto finalmente anche dei diritti e avrebbe potuto affrancarsi dalla vita di domestica. Rosa aveva paura del cambiamento e poi stava bene con la signora Giulia. Come avrebbe potuto lasciare il suo posto senza offenderla? «Offenderla?», sbottò il parente, «e lei non ti offende ogni giorno facendoti fare la schiava? Non hai neanche un giorno di riposo e per andare a parlare con gli insegnanti di tuo figlio devi chiederle il favore di poterti assentare due ore. Questo non ti offende?» Fu in quel tempo che cominciò la terza vita di Rosa. E dopo anni di faticosi servizi in una casa altrui, a quasi quarant’anni entrava nella grande fabbrica. All’inizio fu un incubo adattarsi, non conosceva nessuno, le donne, poche, non le somigliavano per niente, c’erano piuttosto tanti uomini e tutti le mettevano soggezione. Allora si era data da fare, aveva imparato in fretta, s’era costruita una sua professionalità e nel momento in cui arrivarono i primi stipendi si rese conto che era stata la scelta giusta. Finalmente poteva fare progetti, piccoli certo, ma piano piano anche lei si sarebbe guadagnata il suo posto nel mondo. Le vicine di casa ormai la invidiavano quasi, loro che passavano il loro tempo ad accudire figli e mariti, far la spesa al mercato, cucinare e pulire. Che poi non era altro che quello che avrebbe voluto fare lei fin dal principio. Ma le cose erano andate diversamente. A un tratto, lei che aveva lavorato senza lo straccio di un contributo né vacanza per trecentosessantacinque giorni all’anno, si ritrovava a fare, dio mio, le ferie. Che dolce parola, ferie. Il che implicava avere quindici giorni d’estate tutti per sé e suo figlio, e capire infine il senso dell’estate che per lei aveva significato sempre e solo sudore. Non sarebbe partita per delle vere vacanze, certo. Non avrebbe saputo dove andare. Tutti andavano al mare, ma erano delle vere famiglie non menomate come la sua e, anche se Nino strepitava per andarci, lei resisteva e al più lo portava qualche giorno in montagna. Lì si sentiva più normale. Marcella, la sua più cara amica, partiva con marito e figlia anche lei per una settimana di mare e anche se le aveva spesso offerto di andare insieme, Rosa aveva sempre declinato. Non si sentiva a proprio agio senza un marito, si sentiva in difetto. Marcella rideva, non faceva che ripeterle quanto fosse fortunata, invece. Sei libera, Rosi’, puoi fare quello che ti pare, le diceva sempre. E allora anche Rosa rideva con lei perché, anche se conduceva una vita irreprensibile, sempre attenta che gli altri parlassero bene di lei, in segreto si divertiva da matti per le scorribande dell’amica. Qualche anno prima Marcella era stata scoperta con le gonne alzate e le mutande abbassate a beneficio del parroco, proprio dietro l’altare, e in paese s’era creato il putiferio. Suo marito aveva tentato di strangolarla e solo i vicini accorsi alle grida della donna avevano scongiurato il peggio. Marcella s’era buttata in ginocchio a supplicare pietà, battendosi il petto e gridando di essere una disgraziata con la carne debole, e che avrebbe fatto di tutto per guarire. Il marito ebbe compassione di lei e, agli occhi del paese, diventò automaticamente “il santo”. Poco tempo dopo i fatti, Marcella si scoprì incinta e la pace in famiglia tornò a regnare. Tutti sospettavano che il parroco, cancellato dalla faccia della terra, c’entrasse qualcosa con questo bimbo in arrivo ma, come spesso accade nelle piccole comunità di benpensanti, davanti alle richieste di pietà e perdono dopo la confessione del peccato, tutti erano stati ben disposti a sospendere il giudizio. Perché, se parlavi male di Marcella non potevi non offendere quel sant’uomo del marito, perciò zitti e muti. E così Marcella diventò mamma di una bella bambina che chiamò Benedetta e che non somigliava né al parroco né al marito, e anche questo aspetto, che poteva ancora stuzzicare la fantasia di qualcuno, era stato risolto. Ancora allattava al seno la piccola quando le sue scorribande ricominciarono daccapo. Ma stavolta era preparata, non era più una principiante, non avrebbe più permesso che accadesse quel che era accaduto con il prete. E Rosa, in un modo o nell’altro, aveva finito per essere sua complice perché, di tanto in tanto, Marcella le lasciava la piccola per un affare urgente e, benché avesse i suoi sospetti, Rosa se li teneva per sé. Metteva la bimba a giocare con Nino e badava alle faccende di casa sua.
III Rosa tornò a sedersi con la tazzina in mano e continuò a girare lo zucchero nel caffè che ormai s’era fatto freddo, ma non le importava. Gli occhi ridotti a fessure sottili puntavano un angolo insignificante della stanza. Non le importava più di niente. Come era arrivata a questo punto? Era la vita che scivolava via, si disse, e nonostante tutto si accumulava sulle spalle come fardello insopportabile – no. Ci fosse stato Nino l’avrebbe redarguita, è una metafora che non tiene, mamma, la vita se scivola via non può accumularsi sulle spalle, deciditi, resta o se ne va? E l’avrebbe fatta ridere, in fondo era di questo che sentiva la mancanza più di tutto. Di suo figlio come era una volta, ma anche di Benedetta che era diventata sua nuora e di Marcella, vecchia amica che, nel momento stesso in cui era diventata consuocera, aveva cancellato dalla sua vita. Aveva nostalgia delle risate che avevano fatto insieme, della leggerezza che si impossessava all'improvviso di lei e le faceva dimenticare rabbie e rancori accumulati dall' aver vissuto dietro alle tende della finestra – a spiare le vite degli altri, le loro gioie e le loro disgrazie, catalogando entrate uscite e facce che suonavano alla porta delle case dirimpetto – oppure ad ascoltare con aria indifferente i discorsi sussurrati dalle donne al mercatino rionale – registrando tutto nel suo libricino nero dei peccati e, quando opportuno, a far giungere all'orecchio giusto l'ingiuria contro il tale o la tale. La verità è che s’era sentita di diritto umana solo insieme a loro. Poi, quando rimaneva sola, i vecchi e i nuovi rancori tornavano a soffocarla e l’odio diventava più forte di qualunque cosa. E, quando Nino aveva sposato Benedetta, la figlia di Marcella, il suo mondo era imploso. Rosa finalmente bevve il suo caffè d’orzo ormai ghiaccio, guardò il telaio appoggiato sul divano, la stoffa si era allentata e i fiorellini che aveva ricamato avevano tutti il capo all’ingiù. Non aveva voglia neanche di prenderlo in mano, quel ricamo somigliava ormai alla tela di Penelope e, anche se non lo sfasciava di notte intenzionalmente, ogni scusa era buona per modificarlo all’infinito di giorno, e quel ricamo non finiva mai. Decise allora di scendere nel suo piccolo giardino e portare un poco d’acqua ai fiori. Ma, appena fu sull’uscio, sentì lo scatto della porta di casa di fronte alla sua e si trovò davanti la sua vecchia amica. Marcella ristette immobile e seria e Rosa le fece il solito cenno della testa che le riservava ogni volta che la sfortuna voleva che si incrociassero, poi scese la rampa di scale esterna e portò l’acqua ai fiori. Tolse qualche foglia secca, qualche petalo appassito, osservò il piccolo giardino fiorito senza nessuna gioia e risalì le scale. Marcella era ancora lì, ferma fuori dalla porta e la guardava. Rosa pretese di ignorarla e spinse il portone per rientrare in casa ma quella, ostinata, pazza, la chiamò: «Rosi’!». Rosa si fermò, e dandole le spalle, «Che vuoi?» disse. «Ma non è ora di finirla con questa assurdità?» Rosa si girò lentamente e guardò la vecchia amica «Non finirà mai, perché siamo legate per sempre e questo non te lo perdonerò mai». «Ma noi eravamo amiche, Rosi’, ci siamo volute bene, io a te e tu a me, così come eravamo, ti stava bene allora.» «Allora, sì, poi Nino ha sposato Benedetta e tutto è cambiato. Adesso lasciami in pace». «E la chiami pace? Cosa fai tutto il giorno, tieni il conto delle malefatte altrui, tiri le somme dei peccati degli altri? Tieni mai conto di tutto quello che hai fatto tu?» «E che avrei fatto io? Niente ho fatto, ho cresciuto un figlio da sola, e sempre sola sono restata. Io sono pulita». «E invece noi siamo sporchi, vero?» «Tu sei sporca di sicuro». Marcella indietreggiò sulla sua porta come colpita da uno schiaffo. Che aveva vissuto per quanto le era stato possibile la sua vita era certo, ma in verità non aveva mai fatto male a nessuno. Quando hai un marito che passa più tempo con gli amici al circolo e non ti fa mai una carezza che è una, e che se parli con lui è solo di problemi di casa, è come essere socia di una s.r.l., anziché una moglie. La vita vera, la vita di carne e sentimenti non era contemplata. Lui portava il pane sulla tavola e lei pensava a Benedetta e alla casa. E il bene, Marcella, se lo andava a prendere dove stava. Era colpevole di questo? E, sia. Ma non aveva intenzione di chiedere scusa a nessuno. Aveva amato e cresciuto con tenerezza sua figlia ma avrebbe voluto anche molto di più per se stessa, anziché andare a dormire ogni notte della sua vita con roccia inerte che crollava sul letto e si addormentava. Il paese lo riteneva un santo. Ebbene, il santo era un sasso freddo la cui unica scintilla di umanità l’aveva dimostrata quando, per la vicenda del prete, s’era attentato alla sua dignità di marito. Ah, l’etica dei paesotti quanto era sempliciotta e vuota, un’etica tutta di superficie, basata su una morale del piffero che non valeva niente perché serviva solo a salvare le apparenze, lo stesso che mettere il profumo senza lavarsi. La puzza saltava sempre fuori. Marcella aveva in mente altro quando s’era affacciata sulla porta, oggi tornava da Parigi la loro nipote adorata, Diletta. Nino e Benedetta sarebbero stati a pranzo da lei, avrebbero festeggiato il ritorno di Diletta, ragazza sveglia che fra qualche mese si sarebbe laureata alla Sorbonne. Marcella era fiera di quella nipote, una ragazza studiosa che puntava alla conoscenza, che aveva viaggiato e creduto al suo futuro, una ragazza libera, intelligente che non avrebbe vissuto la sua vita nel recinto di quelle menti ristrette come era toccato a tutti loro. Marcella s’era affacciata sulla porta per dire a Rosa di prepararsi ché sua nipote sarebbe passata a trovarla, ma non ce l’aveva fatta, Rosa con quel suo grugno di donna tutta d’un pezzo non le aveva dato modo, né lei era riuscita a prenderselo. Era stanca, soprattutto di far ragionare chi non voleva ragionare e poi aveva da fare, presto sarebbero arrivati tutti e lei doveva ancora apparecchiare la tavola. Più tardi Rosa s’accorse di un rumore in strada e subito andò alla finestra, scansò la tendina quel tanto che bastava a vedere e non esser vista e scorse suo figlio insieme a Benedetta e Diletta. Erano tutti presi a scaricare dalla macchina pacchetti e valigie. Quando Nino si fece davanti al cancello di casa di Marcella guardò per un attimo alla finestra di sua madre, per un attimo gli occhi suoi incrociarono, dietro alle tende, gli occhi di Rosa. Nino sapeva che sua madre era lì, forse aspettò per un secondo o due che lei si affacciasse alla finestra o alla porta di casa sua, ma lei non lo fece, come sempre. Nino gliel’aveva promesso tanto tempo prima, «finché non tornerai sui tuoi passi e non ci amerai tutti, io non sarò più tuo figlio». No, Rosa non si affacciò, lasciò la tenda e prese il telaio, accese la tv e s’immerse nel suo infinito, insensato ricamo ma, poco dopo lo gettò a terra, disgustata, pensò alla cucina della casa a fianco, alle risate e ai discorsi amabili fra quei commensali. Pensò che gli occhi di Diletta sicuramente brillavano di gioia nel raccontare a sua nonna Marcella delle sue storie d’Università a Parigi, della bella città romantica che avrebbe amato anche lei, se fosse finalmente andata a trovarla. Vide davanti agli occhi Nino e Benedetta che, sorridenti, si scambiavano una carezza, la carezza che a Rosa la vita aveva negato, che lei stessa si ostinava a negarsi. Li odiò tutti e pianse.
Id: 5517 Data: 29/07/2023 13:33:07
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Il cammino di Cobá
Lasciando Tulum, la strada 109 dello Stato di Quintana Roo, in Messico, prima serpeggia in mezzo a case e ranch, a negozi e ristoranti, a pompe della Pemex e a fabbricati in costruzione, poi avanza dritta in mezzo alla giungla. È l’una e mezza di un pomeriggio di piena estate e il caldo comincia a farsi sentire. In alto, nuvole bianche in formazione libera cospirano per attenuare la luce, altrimenti abbagliante. Il verde è vivido, il cielo sbuca ovunque con guizzi d’azzurro. In lontananza riesco a vedere il riverbero del vapore che sale dalla strada. Vai immediatamente alla Iglesia di Cobá e cerca la stele numero 11. C’è scritto così, sul biglietto dai bordi bruciacchiati che mi ha messo in mano il vecchio messicano, al ristorante. Poco prima avevo detto a Marcello: – Vado in bagno – ma lui troppo concentrato a guardarsi intorno, non mi aveva nemmeno sentita. Così avevo avuto per un attimo l’agio d'osservarlo non vista, osservarlo come la microbiologa (che non ero) avrebbe osservato un batterio al microscopio elettronico. Marcellusbapter, ingrandito un milione di volte, mostrava non solo le sue appendici pelose e vischiose, riuscivo pure a vederne le sue agguerrite e fameliche cellule interne, innocue fintanto che non ci fosse stata una preda alla sua portata. Avevo strizzato gli occhi e scosso la testa per liberarmi da quella visione, forse era vero quello che mi avevano detto, in Messico succedevano cose strane. Nell’unico bagno del ristorante si era creata una discreta fila, un vecchio si era messo in coda dietro di me e subito si era chinato ai miei piedi, aveva raccolto qualcosa e poi mi aveva dato quel biglietto. – Le è caduto questo, signora. Aveva occhi curiosi e divertiti d’ossidiana argento che spiccavano sul volto meticcio inciso da mille rughe e io sapevo che il biglietto non poteva essere mio, ma lo avevo preso lo stesso e lo avevo guardato e, nel fare questo, quando avevo rialzato la testa il vecchio si era dileguato, svanito fra la folla del ristorante, inghiottito per intero, e avrei potuto pensare di averlo solo sognato, non fosse stato per la sensazione che mi aveva lasciato il bagliore del suo sguardo. Il biglietto non era mio né poteva essere diretto a me, ero a Tulum da due giorni e non conoscevo nessuno a parte Marcello. Ero tornata nella sala, avevo cercato il vecchio con lo sguardo, fra i tavoli, al bar, verso l’uscita ma era scomparso. Però riuscivo benissimo a vedere Marcello, la sua espressione da ladro riservata alle occasioni golose. C’ero cascata in pieno. Non ci era voluto del genio da parte sua, ero stata proprio io ad avere ignorato tutti i segnali di pericolo. Il mio problema sono io. Marcello fiutava l’infelicità e l’insoddisfazione di una donna. Percepiva a pelle i suoi bisogni emotivi. L’insicurezza di lei lo esaltava. Sapeva che da una donna con quelle caratteristiche avrebbe potuto ottenere il massimo del vantaggio per se stesso. Mi girava un poco la testa, ma mi sentivo lucidissima. A tavola avevo sorseggiato una birra, in attesa del mio ordine, mentre lui era concentrato a spuntare nella sua preziosissima lista tutte le cose da fare. Locali da frequentare, spiagge da vedere, barche da affittare. Quello era il suo momento di rimettersi in pari con il mondo, finalmente avrebbe avuto tutte le cose belle della vita che meritava, attraverso me. Mi era venuto da ridere. Io, ai margini di una sala affollata, con un biglietto in mano destinato a chissà chi, a osservare Marcello e, insieme a lui, tutti i passi falsi che mi avevano condotta fino a lì. Allora, avevo fatto marcia indietro ed ero rientrata in bagno, mi ero lavata il viso cercando sollievo nell’acqua fresca. Quando avevo rialzato la testa, il mio volto nello specchio non mi sembrava il mio, invece quella con il kajal un po’ colato agli angoli degli occhi era proprio la mia faccia. Potevo tornare al tavolo, continuare a stare al gioco, nascondere sotto a un sorriso pensieri di tutt’altra natura. Che ci faccio qui? Perché sono partita con lui? Perché volevo fare questo viaggio, ma avevo paura di farlo da sola – no. Perché lo amo. Cioè. Lo amavo. Riprova. Credevo di aver bisogno di lui. Così va meglio. Sì, avrei potuto tornare al tavolo, soffocare quella rischiosa lucidità improvvisa che mi proiettava all’improvviso su un piano più elevato della realtà; certo, avrei potuto ignorare tutto e andare avanti come se niente fosse, come avevo sempre fatto ogni volta che un lampo di consapevolezza aveva cercato di disturbare la mia visione delle cose. Invece era stato in quel momento che avevo deciso di uscire dal ristorante ed ero corsa a prendere la macchina. La Iglesia di Cobá dista meno di cinquanta chilometri da Tulum e, ora, sono sulla strada. Sola. E, non ho paura. Arrivo nel parcheggio della zona archeologica che è zeppo di auto e pullman, ma c’è poca gente intorno, i turisti sono quasi tutti dentro. Le ore calde non vanno bene per iniziare queste visite, lo capisco pure da me. Ma non ho nessuna intenzione di tirarmi indietro. Compro il biglietto e al botteghino mi offrono subito una guida, però preferisco fare il percorso per conto mio. In fondo, la mia non è una vera visita, assomiglia ogni secondo di più a una missione. Pago l’uomo per farmi spiegare tutto quello che devo sapere. Lui mi mette in mano una mappa e mi dice quello che devo fare, devo tenermi sempre sulle strade bianche, le sacbeob, non entrare nella giungla, avere dell’acqua con me e un cappello. Nel lago di Cobá, alle nostre spalle, dice, ci sono i coccodrilli. Mi guarda dalla testa ai piedi, fino agli infradito e fa segno di no con la testa. – Prendi una bicicletta, appena dentro o non riuscirai a vedere tutti i templi. La guida è pensierosa, scuote di nuovo la testa. – Perché non hai messo scarpe adatte se sapevi di venire qua? – Perché non sapevo di venire qua. – Uhm. Claro. Claro, – si gratta il mento, scrutandomi. Ha una faccia simpatica, gli sorrido e lui mi dà una piccola pacca sulla spalla, come a un vecchio amico. – Mucha suerte, señorita. – Grazie, – rispondo e vado subito a fare quello che mi ha detto. Compro una bottiglia d’acqua fresca e uno di quei cappelli con la visiera che mi sono sempre stati di merda e me lo metto. Faccio quello che devo. La Iglesia di Cobá è il primo tempio che si incontra nel percorso. Sembra una pagnotta di marzapane, dà quasi una sensazione di morbidezza. La guida ha segnato sulla mappa tutte le stele da visitare, ha detto che devo assolutamente vederle, ci sono incisioni e iscrizioni che testimoniano addirittura il ruolo importantissimo delle donne nelle cerimonie sacre. Spero solo che non sia perché fossero proprio loro a essere sacrificate. Ma – ehi – comunque, niente di nuovo, sorelle! A me, per il momento, interessa soprattutto la stele numero 11 che si trova proprio davanti al tempio, protetta da una tettoia di paglia. Solo che adesso non so che fare. Mi guardo intorno, nel caldo e nel vociare tranquillo dei turisti. Io volevo venire qui. Ho sempre voluto visitare queste rovine. Ero partita per questo, ma Marcello non voleva saperne. Per lui i templi avrebbero anche potuto crollare, era la bella vita quello che gli interessava. E io avevo rinunciato a visitarli. È mia la colpa, il difetto è in me. Paura della solitudine. Non amore per me stessa. Desiderio di colmare un vuoto. Ero un I-Ching vivente dall’esito necessariamente infausto. Invece ora sono qui. Mi avvicino alla pietra e ci appoggio il palmo della mano, sembrerebbe una roccia compatta ma a uno sguardo più attento si notano piccole crepe. Ce n’è una più grande, la osservo meglio, riesco pure a infilarci due dita, c’è qualcosa. Con l’indice e il medio afferro i lembi di un pezzetto di carta. Lo estraggo piano. È un altro biglietto bruciacchiato sui bordi, come l’altro: Ora al Nohoch Mul. Sali in cima e siediti. Sì, lo voglio fare. Sulla mia mappa il Nohoch Mul è indicato a circa un chilometro e mezzo sulla sacbé bianca. Quarantadue metri di altezza, una delle poche piramidi Maya che si possano ancora scalare. Mi guardo i piedi nudi nelle ciabattine sottili e allora torno indietro e decido di noleggiare quella bici. Quando ripasso davanti alla Iglesia, mi fermo un attimo per ricontrollare le indicazioni e mi avvio per la strada immersa fra gli alberi. È la strada giusta. Mi chiedo soltanto, “questa strada ha un cuore?”[1] Oggi questa domanda ha un senso per me. E anche se mi trovo qui per eseguire gli ordini di uno sconosciuto, sento che è giusto così. Pedalo fra gli alberi del bene e del male. – Non toccarli! – ha ammonito, la guida, – crescono insieme intrecciati, uno produce una resina urticante e, l’altro, un siero che la guarisce, tu non toccarli! Pedalo sulla strada ricoperta di stucco bianco che forse, duemila anni fa, serviva a renderla più visibile durante la notte, e alla fine arrivo alla piramide. Non è maestosa come l’avevo immaginata, e sembra che il tempo la stia sgretolando. Al centro della piramide c’è una scala che arriva fino in cima e in mezzo corre una corda per aiutare nella salita. Lascio la bici e comincio a salire, faccio qualche gradino mettendo bene i piedi e mi accorgo che è una salita davvero ripida. I gradini sono molto stretti e ho quasi le vertigini a guardare giù. Ma c’è tanta gente che sale con me, allora scherziamo insieme sull’altezza e con tenacia, con il sole completamente allo scoperto, ora, e il sudore che ci cola dalla fronte continuiamo a salire. Infine, sono lassù e, improvvisamente, ovunque io guardi, in ogni parte dell’orizzonte c’è solo giungla, una distesa smisurata di verde fino all’estremità delle terre dello Yucatan, fino agli oceani, fino alla fine del mondo. Mi siedo in mezzo agli altri, nel silenzio. Questa strada ha un cuore. A ogni gradino ho lasciato dietro di me una zavorra inutile, ogni forma d’illusione, ogni mezzo di distrazione e adesso riesco a sentire la mia libertà. Siedo in cima alla piramide per molto tempo, per tutto il tempo di cui sembra aver bisogno la mia mente per tornare a una visione limpida e così semplice, in fondo, delle cose che dovrei fare per ritornare davvero a me stessa. Solo a quel punto scendo e riprendo la via del ritorno. A Tulum, in albergo, decido di parlare subito con il direttore e gli spiego la situazione. – Nessun problema, signora. Le faccio portare le sue cose nell’altro hotel. Non dovrà neanche vederlo. Nella fretta di uscire, per timore che Marcello si materializzi proprio mentre lo sto piantando, noto due vecchi che mi osservano dalla veranda all’aperto di fianco alla hall. Qualcosa nel loro atteggiamento mi spinge, appena fuori, a girare di lato alla porta principale e fermarmi dietro ai tendoni bianchi che si gonfiano al vento. Sono solo due vecchi seduti a un tavolo che parlano e ridono. – È la donna del biglietto? – Chiede uno. – Sì, – risponde l’altro. – E dove l’hai mandata, questa? – A Cobá, ai templi. È stato facile, era quasi pronta. – E, si è trovata, vero? – Oh, sì! – ride – si trovano tutti, basta spingerli a cambiare strada, per un po’. E mentre pronuncia queste parole, un colpo di vento scosta il tendone dove mi sono nascosta e riconosco il vecchio messicano. Lui mi guarda e mi sorride con quello strano bagliore nel suo sguardo d’argento.
[1] Castaneda Carlos, A scuola dallo stregone. BUR. 2013, pag.83 edizione Kindle
Id: 5497 Data: 21/05/2023 12:49:12
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Dalla Finestra
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