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Raccolta di testi in prosa di Sara Ludovico
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Spigoli

Solitudine, freddo, ghiaccio che si scioglie, e mi piace questo freddo, queste gocce di un liquido che non mi danno la sensazione di calore. Non voglio il calore, non ho voglia di un camino acceso, e nemmeno di sentire l’acqua della tisana nella pentola che bolle, fumeggiante e menefreghista. Non voglio sentire la sensazione di prurito con i calzettoni raspanti e graffianti color grigio topo, né voglio sentire la sensazione della morbidezza del pigiama in pile, di guardare le luci di Natale che sfavillano sull’albero verde e colorato. Ho bisogno di freddo, ho bisogno degli spigoli di un tavolo di legno, usurati dal tempo, che mi graffiano la pelle. Ho bisogno di colori freddi, della carta vetrata, dei fazzoletti dei bar, duri, severi, così come ho bisogno di graffiarmi con la lama color acciaio di un coltello. Quando vuoi aprire un pacco, un regalo, un qualcosa che semplicemente hai comprato, utilizzi arnesi pericolosi. Forbici, coltelli, taglierini. E scopri cosa c’è dentro una scatola anonima. Io sono un cartone vecchio, di quelli che trovi fuori i negozi dopo una giornata di lavoro, in un cassonetto sporco, in cui rovistano i poveri che non hanno niente da vincere e niente da perdere. Sono un cartone, ma non so cosa ci sia dentro. Come faccio ad aprirmi a me stessa senza qualcosa di tagliente? Come faccio a capire cosa c’è che mi fa sentire sola nella mia casa, in questo silenzio assordante, come faccio ad uscire dalla trappola di spigoli che mi circondano e che mi impediscono di avanzare?
Ho solo voglia di un calore che non devo conquistarmi, che non devo attendere. Non voglio l’abbraccio della mamma, né il bacio di un fidanzato, quelli sono amori che vanno cercati, anche solo con una telefonata. L’unico modo per sentire calore è proprio tagliarmi con spigoli pungenti. Gli spigoli graffiano, il colore della pelle, rosa pallido, si sporca di un rosso acceso, e io sento di essere viva.

Osservo il quadro appeso nel soggiorno, è davvero orrendo, non so nemmeno perché l’ho messo lì. È un vicolo con colori verdastri, stagnanti, non hanno niente da dirmi. È silenzioso, come questa casa, come me.
Allora mi metto a frugare negli armadi, per cercare una risposta a queste domande. Come si fa ad amare sé stessi? Come si fa a conoscersi davvero?
Gli armadi sono disfatti, il disordine si accumula. Dietro il quadro, solo il muro. Nello specchio, una figura qualunque. Nella cucina, pentole fredde. Un tavolo con quattro spigoli. Posate lucide. La mia camicia sa di fumo, e di catrame. Forse è da quando non ci sei che tutto ha questo sapore cancerogeno. Forse non so più chi sono perché mi sono abituata a guardarmi coi tuoi occhi.
Allora vado in bagno, accendo la luce. Il pavimento è celeste, freddo e fastidioso sotto i piedi scalzi. Cammino in punta di piedi, alla ricerca dell’unica cosa che è rimasta di te. Apro l’armadietto bianco anonimo, e lo vedo, lì, solo come me. Non c’entra nulla, in mezzo alle mie creme, alle mie maschere, ai miei dischetti di cotone. È un rasoio blu, a tre lame, posato lì, disteso. Lo prendo, lo apro, passo lentamente le dita sulle lame taglienti, e mi sento un attimo più a casa. Hai lasciato l’unica cosa che è rimasta di te e di me. Tre piccole lame, quelle che abbiamo usato verbalmente, mentre scavavamo a fondo nei nostri corpi, per cercare un motivo per rimanere insieme in questa casa. Abbiamo sanguinato molto, per rovistare. E alla fine ci siamo arrivati. Solo che ora che non ci sei più, ho dimenticato. Eppure ci ho riflettuto così tanto su quel divano Ikea, che all’improvviso è diventato duro come il marmo.
Ora non lo so. Ora non ho più risposte. E in casa piove, gocce che bagnano il viso e questo rasoio usato che non ha più niente da dirmi. È solo un oggetto come un altro, ma ha un colore freddo, e questo mi immette una calma innaturale. Non ho la forza di buttarlo, non ancora. Cerco di individuare i tuoi occhi color cervone che mi hanno fatto sorridere e mi hanno inquietato tante volte, ma non li vedo più. E ti cerco in questa casa che non sa più di casa, cerco nel freddo qualcosa che mi faccia sentire in compagnia, perché questa solitudine non so gestirla, perché star soli significa parlarsi, e io non sono in grado di farlo.
La gente ha paura della solitudine, e anche io. Quando i punti interrogativi ti logorano, quando il silenzio si fa acuto, quando hai la febbre e nessuno ti cura. Quando hai bisogno di dire a qualcuno cosa hai fatto durante il giorno, anche se è solo stupida routine che non può realmente interessare qualcuno. Quando cerchi di conoscerti, per saperti gestire meglio. Io avevo solo iniziato a studiare me stessa attraverso te. Non ricordo più quelle pagine che ho letto, come se dovessi ricominciare tutto daccapo, ma senza libro. Dovrei bastarmi davvero? Dovrebbe esserci qui, forse nella milza, forse in qualche piccolo angolo del cervello, un manuale di autoconoscenza ?
E invece non lo trovo. Ho solo questi spigoli che mi fanno compagnia, e mi parlano un po’ di me. D’altronde, nessuno riuscirebbe a starmi vicino in questo momento, neanche tu. Vi tagliereste. Non riuscireste a camminare per raggiungere la meta, è un viaggio che devo intraprendere da sola. Vorrei solo conoscere il modo di arrivarci.

Sei andato via, portandoti via qualche bugia, qualche segreto non detto, e i tuoi occhi pieni di me. Solo tu sei riuscito a conoscermi, ma non hai fatto in tempo ad insegnarmi chi fossi, sei andato via troppo presto.
Non posso essere solo un insieme di spigoli, non posso solo essere un coltello senza marca incisa sulla lama. Non posso essere un lago ghiacciato che si spacca per la troppa pressione, né un fiocco di neve in mezzo a mille altri. Sento di essere più di questo, molto di più.
Allora che si fa? Devo prendere questa strada senza sapere dove mi porta? Esplorarmi in mezzo a spine rosso sangue, in mezzo a sorrisi disegnati con un rossetto liquido, in mezzo a quadri che non parlano, che mostrano disegni buttati lì a caso?
Ci provo, in fondo sono una sognatrice. Non conosco il percorso, ma posso inventarmelo. Posso immaginarmi sedie di legno, piene di vestiti e di peluche enormi, posso entrare in un mondo psichedelico, posso colorarla la strada, con i colori che scelgo io. Voglio correre su questo percorso, per cercarmi in mezzo ai mille spigoli che fanno male, voglio farmi male, per capire che cosa rappresentano, perché li sento così miei. Voglio ferirmi, voglio ascoltarlo, questo dolore. E poi voglio buttare quel rasoio nel cestino in mezzo a mille altre rasoi usati, in mezzo ai nostri ricordi sanguinosi che non hanno più niente da dirmi. Voglio trovarmi, prima di farlo. Voglio conoscermi a fondo, voglio esplorare anche le vie più buie, e non posso farlo più con te. Allora sporco di inchiostro un foglio, mi taglio con un paio di forbici, mi spacco la pelle con un colpo su questo muro che non ci racconta più. Voglio camminare, non fermarmi, fammi andare avanti, sono curiosa, voglio sapere. E allora la esploro questa strada. Vedo colori ad intermittenza. Vedo una sbucciatura dopo una caduta dalla bicicletta. Vedo una bambina che va a fondo al mare per prendere un pugno di sabbia, e risalire col fiatone, bagnata ed eccitata. Vedo una delusione a scuola, il dolore per la perdita di un’amica, la consapevolezza di quante cose esistono nel mondo che meritano di essere conosciute. Vedo te, la gioia di averti incontrato, il nostro abbraccio che ha il colore del crepuscolo, che in questo momento trovo insopportabile. Vedo le risate nel letto pieno di briciole, con il pacco di Pan di Stelle aperto sul comodino, che abbiamo scordato di chiudere, e poi vedo una caffettiera che ci sveglia la mattina, il profumo del mattino presto, più fresco del sole costante dell’ora di pranzo. Vedo te che te ne vai, e il freddo che cala in fondo alla mia pelle, il sangue che si ghiaccia, e io che non ricordo più definirti e definirmi. Perché per me eravamo così in simbiosi che avevamo totalmente perso la nostra individualità. Ma ora la sto ritrovando, nei miei successi, nei miei fallimenti, nelle mie cadute, nella tazza di latte che uso da otto anni, nel mio film preferito, nel libro che ho scoperto in una libreria ormai dimenticata del centro. Eccomi, sono lì, sono nel tunnel del dolore adesso, sembra come quella stanza horror dell’excape room, e vedo il dolore di cui mi sono cibata per sopravvivere. Il desiderio che tu mi facessi male, più che mi ignorassi completamente. Cercavo il dramma per scrivere un film più emozionante della mia vita monotona, che sapeva di sedano il primo giorno di dieta.
E ora sono in una stanza bianca, con le pareti cotonate. Sono morbide al tatto, e vedo me che ricucio la pelle con le mani logorate dagli anni, come mia nonna con l’uncinetto. Concentrata, senza smuovere gli occhi da lì. E d’improvviso, una sensazione di sollievo mi pervade. Come se stessi guarendo con quel lavoro. È tutta questione di concentrazione. È tutta questione di conoscersi meglio senza perdersi di vista. Mi sto riscoprendo piano. Mi osservo, guardo le mie emozioni, le metto in fila in una libreria polverosa, le osservo, alcune le sfoglio, non le ricordo più. Poi sporco qualche altro foglio con un inchiostro apparentemente inutile, e finalmente capisco.
Questo percorso non dura tre pagine di riflessioni, e neanche duecentocinquantasette. Non ha la durata dei Fratelli Karamzov, o di un trattato di Seneca. Forse non ha la complessità del pensiero di Nietzsche, e nemmeno il sentimento color cobalto di Gabriele D’Annunzio. Non ha la forza delle suffragette, e nemmeno la durezza di Mussolini. Non sono colori mescolati che restano distaccati fra loro, è semplicemente una ricerca che comporta salire molti gradini, a volte perdendosi, altre ritrovandosi, altre ancora fermandosi per riprendere il fiato.
Esco da questa stanza con più sicurezza, ed entro nel quadro color verdastro.
Cerco un qualcosa che ancora non conosco.
Ma questa sensazione mi fa ballare.

*

Lettera bianca

Dio di misericordia, il tuo bel Paradiso l'hai fatto soprattutto per chi non ha sorriso, per quelli che han vissuto con la coscienza pura. L'inferno esiste solo per chi ne ha paura.

Il nero non mi ha mai intimorito. Sembra un colore come un altro, come il blu o l’antracite. Singolare, individuale, non ha bisogno di mescolarsi con qualcos’altro per essere migliore. Il bianco, quello è un colore che mi terrorizza. Non si trova in mezzo alle altre tinte, anche se ha mille sfumature all’interno, come se contenesse tutti i colori e nel contempo nessuno. È un colore che non comprenderà mai chi è davvero. Neanche tutta la vita basterebbe per fargli comprendere chi è realmente. Se è blu, rosso, giallo, nero, arancione, lavanda, verde prato o verde acqua. Si sentirà sempre diverso. Si sentirà sempre messo da parte. Servirà per dare anonimato a ciò che ha creato l’uomo, o per contrastare i colori protagonisti. Come le strisce pedonali, i muri dell’ospedale, i fogli vuoti. Ecco, lui è vuoto e pieno allo stesso tempo. Ma la sua pienezza non viene compresa, studiata, nessuno ci fa caso. Sarà sempre un colore che è lì, in mezzo agli altri, e nessuno saprà mai il perché.
Ecco, io sono così. Bianco, anonimo e senz’anima. Vorrei rivolgermi a voi, che vivete dei momenti sereni, che non pensate al futuro prossimo, e neanche al giorno dopo. Voi, che vi fate coccolare da una coperta che vi darà la sensazione di casa, con la tv che vi parla comunque, che voi l’ascoltiate o meno, in fondo la cosa importante è riempire i vuoti del silenzio. Voi, che cucinate la cena per qualcuno che amate, o solo per voi stessi. Voi, che preparate i vestiti sulla sedia da indossare domattina. Voi, che aspettate il sole per sentirvi utili in questo mondo, per farvi riscaldare il sangue che sentite troppo freddo e non volete soffermarvici troppo. Spero non vi dispiaccia se oggi leggerete queste parole graffianti, queste verità che tanto detestate.
La morte ci attende. Ci attende, nei secondi che passano nei vostri orologi costosi, regali assassini di Natale o del compleanno che voi avete tanto apprezzato. Ascoltate quel ticchettio, guardate quelle lancette. Non girano come una giostra, compiendo movimenti circolari che iniziano e finiscono nello stesso punto. È ciò che viene a mancare dalla vostra ora, dal momento in cui saluterete questa Terra e queste finte ricchezze. Quelle giostre con i cavalli colorati, che vi fanno brillare gli occhi per le musiche e i colori, su cui fate salire i vostri figli, quelle sono una bugia. Perché girano a vuoto, senza meta, senza cambiare mai. Quelle lancette invece uccidono ogni secondo un bambino, un padre, un nonno, una madre, una figlia, una moglie. Quelle lancette vi tolgono un pezzo di voi fino a farvi giungere alla morte. E nel frattempo non sarete mai uguali al secondo precedente.
Questo continuo mutamento può consolarvi, può rendervi curiosi addirittura. Può affamarvi di altri secondi, può rendervi vincenti. Oppure no. Oppure vorreste rimanere identici, perché ci mettiamo tutta la vita a comprendere la nostra essenza, tutta la vita a sentirci unici, per ritrovarci uguali a milioni di altri, e da un secondo all’altro, improvvisamente, sentirci diversi. E dobbiamo ricominciare daccapo.
Per voi è semplice, però. Non vi ci soffermate troppo, non vi interessa magari. Però siete pronti a giudicare. A puntare il dito. E quindi, mi rivolgo a voi, signori della Corte, quella Corte fatta di un altare e di un cerchio bianco di pane azzimo; voi, che avete sopra il Cristo redentore sporco di sangue e dei vostri peccati, che siete attorniati dal giallo che sa di luce, ma che avete rabbuiato con le vostre prediche, le vostre interpretazioni. Grazie a voi abbiamo paura, tutti paura di nominare quella parola; quella notizia scritta nero su bianco sui giornali vi fa rabbuiare, vi destabilizza e si insinua in voi un dubbio, ma non potete, non potete parlarne, è peccato anche solo pensarci. E vi crogiolate nelle idee superflue e meschine, colpevolizzando la mancata sanità mentale nei nostri corpi rivolti sull’asfalto, che non solo vi consola, ma ve ne fa uscire vincenti. Non potete avere paura se sono cose che non vi riguardano. Passate avanti, prego. E aspettate la domenica, per allontanarvi da Dio, nella sua casa da cui l’avete sfrattato per rendervi ancora una volta protagonisti di una storia che non è la vostra.
Immaginate se Gesù fosse vissuto oggi. Immaginate se vi predicasse di non fare agli altri ciò che non volete fosse fatto a voi stessi. Di porgere l’altra guancia. Che gli ultimi saranno i primi. No, non l’avreste venerato. Lo avreste nuovamente crocifisso, su una croce colorata magari, ripreso da migliaia di telecamere, occhi fissi sul suo corpo inerme e colpevole. Noi siamo gli ultimi, signori. Siamo quelli che nessuno ha voluto ascoltare, nessuno ha voluto comprendere. E voi ci considerate peccatori.
Dante ci ha disegnati in una selva, come quella che lui ha attraversato prima di compiere il suo viaggio. Ci ha fatto a immagine e somiglianza di arbusti con foglie stanche, le nostre anime intrappolate nei tronchi antichi e rugosi, a farci torturare dalle Arpie, e saremo gli unici condannati nel Giudizio Universale a non unirci ai nostri corpi: quelli saranno appesi con una corda ai nostri stessi rami, e noi costretti a sostenere quel peso ancora per l’eternità.
Signor Poeta, io a questo non ci credo. Non abbiamo sorriso, non abbiamo amato la vita. Abbiamo ucciso noi stessi. Noi siamo gli ultimi per davvero, non abbiamo messo al primo posto i nostri cari e nemmeno noi stessi. Non possiamo nemmeno definirci egoisti. Abbiamo peccato contro di voi, contro di noi e contro Dio. Gesù ci amerà per questo. Ci guarderà, e ci accompagnerà fra le stelle e le nuvole, fra il nero e il bianco, ci mostrerà una nuova strada, ci bacerà caldamente dandoci quella speranza che non abbiamo trovato nella vecchia città, in mezzo a uomini superficiali, in mezzo a bacche rosse, ad alberi verdi e a sorrisi lucenti, negli odiosi oggetti colorati di cui vi riempite le case, non l’abbiamo trovata in una dimora, in un’opera d’arte, in una natura costantemente vessata da mani troppo forti per poterle ostacolare. Non l’abbiamo trovata negli occhi di nessun altro, con nessuno abbiamo potuto dividere questo filo di ferro intricato e tagliente, abbiamo solo cercato di lasciarci andare, giorno dopo giorno, consapevoli della Natura che non ci ama, che quando può spazza via uomini, vite e mondi, decide a suo piacimento, non importa chi, che storia abbia dietro, può morire un’anima innocente o un’anima cattiva, questo le è indifferente.
Signor Poeta, io però ti ringrazio. Perché in questo momento, su questo ponte duro e severo come i miei organi e la mia essenza, come il colore anonimo dei miei occhi invisibili, so di essere Dafne, so di aver preferito trasformarmi in albero che farmi sovrastare da una forza come quella di Apollo.
Guardo le mie lacrime che scendono, finalmente esternamente, fuori dal mio corpo. E mi vedo trasformare, vedo il mio sangue tramutarsi in linfa, guardo il verde nella mia pelle così bianca, guardo il mio sorriso indurirsi e quella lacrima. Quella lacrima trasparente che prende i colori che vuole, che non ha paura di cadere, che attraversa ogni superficie senza farsi male. Come quella di Dafne, lei, che è rimasta eterna sul capo di ogni poeta che la succederà nei secoli dei secoli. E in questo momento la leggerezza pervade questo vento che fa a pezzi le foglie, che agita i capelli e il mare, e ci scombussola le anime. Dafne si è salvata, Seneca anche. Ripenso alla ginestra di Leopardi, guardo l’acqua gelida che mi fissa attenta, per paura di perdere un solo passo. E poi guardo il cielo, che piange su di me. Sa cosa sta per succedere, ma poteva anche non saperlo. Lì, tra le nuvole e oltre, c’è un Dio che mi tenderà il braccio. E voi sulla Terra non lo saprete mai. Tornerete in quella casa di pietra intrisa di incenso e di ipocrisia, amerete voi stessi e crederete di amare il prossimo.
Vi siete scordati di noi, ma noi non ci siamo scordati di voi.
Osservo la mia vita bianca, e poi guardo giù, il gelido mare nero che mi tende le braccia.
E spicco il volo. Gesù verrà a salvarmi, mentre voi mi ignorerete.
Vi amo comunque, perché so che non volevate essere quello che siete. Però mi raccomando ciò che vi raccomandò Cesare Pavese: non fate troppi pettegolezzi.
Domani ci sarà Cristo dentro me, e io dentro di lui, fra le sue braccia che non hanno bisogno di giudicare, ma solo di amare.

Quando attraverserà
L'ultimo vecchio ponte
Ai suicidi dirà
Baciandoli alla fronte
Venite in Paradiso
Là dove vado anch'io
Perché non c'è l'inferno
Nel mondo del buon Dio.