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Raccolta di testi in prosa di Silvana Baroni
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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nonna pupilla



Il treno sbuffa lungo la china dei ricordi, plana sulla pianura dell’infanzia, falcidia ingovernabili distese d’erba e rimpianti, fino al crinale arso dagli attuali incendi dolosi. Rare case e pagliai, ognuna col suo fabbro che batte sull’incudine le curve del tempo. Insomma, un paesaggio straziato da stradine sterrate che salgono a scardinare dal cielo un coperchio di piombo.
Brando torna al paese dalla nonna materna, che gli han detto morente, per immortalarla con la sua nuova Canon, comprata di seconda mano a Quattrobaseleghe di Mezzo.
Nello scompartimento è seduto tra una monaca di Palermo e un Commissario di Monza. Più li osserva più si convince che i due non la raccontano giusta a parlare di tip-tap, ma conclude che non sono poi fatti suoi se il sangue siciliano non è acqua, se l’acqua brianzola non è sangue.
Quindi si mette comodo a riflettere sulla sua gente. Ai pro, ai contro.
Che poi, a ripensarci, se è vero che la mafia non bada a spese sui proiettili, è altrettanto vero che risparmia, coi pizzini, sulla cancelleria.
A mezzogiorno il treno rallenta fino a svenire su di un binario storto, corto, morto.
Attorno fossili di locomotive e cani randagi sbadiglianti sotto panchine divelte.
- È finita!- Urla il capostazione schiodando le braccia in un eureka.
- Non se ne parla più fino a martedì! -
E, tirandosi su le maniche, i baffi e il pomo d’Adamo, riprende il suo posto al gioco del tressette accanto al manovratore, al netturbino e avanti al sindaco di San Basiluzzu Suprusceccu.
Il sindaco, che per hobby fa il ritrattista, sfuma il profilo degli amici con la nicotina della sigaretta, socchiudendo gli occhi cisposi a cerca negli astanti di un barlume di condivisione.
Brando, così si chiama per la passione di sua madre per Marlon, si avvia, sgomitando tra i vicoli, verso la casa che non conosce, descrittagli come un cubo gigante in cemento armato, posto in alto sul finire del paese.
Si racconta che, alla vista di tanta equivoca bruttezza, il geometra del Comune, costretto a firmarne il progetto, avesse preso a picchiettarsi gli incisivi col righello fino a procurarsi una piorrea a soli trent’anni.
Brando rivanga l’infanzia con difficoltà, così da doverla picconare dove più gli resiste.
Ricorda gli gnomi sotto le gonne della nonna, il gioco a sottomuro con le palline di vetro di Murano, la festa del Congedo dai Geloni a febbraio, il grufolare dei grulli in tripudio a San Tristino, le papere di Pasqua, i porci sulla griglia a Ferragosto.
Il cubo che ora lo fronteggia sa di sterilità sanguinaria.
È un pugno nell’occhio, una cassaforte in ardita fierezza isolana; e, tra i cespugli qua e là, monconi di pollice verde.
Il tutto recintato da inferriate importate a prezzo dimezzato dal cimitero di Düsseldorf attualmente in restauro.
La bianca facciata del bunker crepita al sole ventiquattr’ore su ventiquattro, di fronte alla stazione dei pompieri.
Una vecchia, che mastica epiteli inesorabilmente con le sole gengive, e che resiste imperturbabile alle crescenti esigenze domestiche dei suoi animali da cortile, lo anticipa:
- Tu sei Brando! –
Il giovane sta per risponderle, quando nonna Pupilla compare sulla soglia, tutt’altro che moribonda, anzi fin troppo altera per la sua età, penetrandolo con sguardo indagatore e smaliziato.
Con un cenno rapido della testa invita il nipote ad entrare e:
- Prima di tutto scusami per averti attirato con l’inganno. Sapevo che altrimenti non saresti venuto… ma dimmi….ti ricordi di me? Eh? Della tua nonna?-
E continua scandendo le vocali come revolverate tra consonanti invece cerimoniose:
- L’ultima volta che ci vedemmo avevi soltanto nove anni…ti sarei venuta a trovare a Quattrobaseleghe…soprattutto dopo la morte della tua povera mamma…ma…il mio Michele, che è agli arresti domiciliari ormai da molti anni… non sopporta che lo lasci solo…insomma mi ricatta…dice che potrebbe morirne.-
Così, infilato il braccio sotto quello del nipote, lo conduce all’interno, attraverso corridoi e cunicoli fino a stanze perfettamente insonorizzate.
La paranoia del giovane s’affaccia sfrontata dalle vene della fronte nel sapere d’aver tutto per sé un salottino di Gerrit Thomas Rietveld, una camera da letto disegnata da Kaare Klint e un bagno progettato da Eames e realizzato dalla Evans Products Company. Insomma un quartierino niente male rivestito da carta da parati disegnata a bossoli, che già lo incarta e l’aggroviglia in dubbi e sospetti.
Più tardi, davanti a una tavola apparecchiata di ogni ben di Dio, Brando è solo.
Nemmeno l’ombra di Don Michele e la nonna.
Affamato, se pur dedito alla morigeratezza, s’avvolge in panegirici al prosciutto, si trastulla tra sedani e cardi evitando i soliti bocconcini d’antipasto, triti, troppi.
Ma quando la serva gli sfodera davanti la caponata pepata di Trinacria, non resiste; scorpaccia di tutto, fino alla nausea.
Quindi torna alle sue stanze e si sdraia sul letto a confondersi le idee.
Un poliziotto in divisa, dal viso di cuoio, dai capelli impomatati, dalle basette a cespuglio, entra dopo aver delicatamente bussato. Sostiene un vassoio dorato sul quale fuma una tazzina di caffè.
Un colpetto di tosse e via che rantola, servile, tutto d’un fiato:
- Don Brando! Agli ordini! È grandissimo onore pe’ mia servire vossignoria…nella casa dell’eminentissimo Don Michele e Donna Pupilla…-
Ritossisce e rirantola:
- La vita qui è dura, madre arcigna e rancorosa, pronta sempre a incolpare o affamare. Dopo tante esperienze, io ho preferito la colpa.-
E ancora in affanno:
- Sempre se voi lo desiderate, potrei accompagnarvi dal barbiere, a far spese in città o da Natuzza bedda…voi intendete!?…Insomma, agli ordini vostri! -
Brando beve il caffè ma si nega alle aspettative del poliziotto. È stanco per il viaggio e il sonno sta per calargli come una mazzata sul capo.
Rimasto solo, infatti, subito si addormenta.
Durante la notte sogna di aver sonno. Si sveglia per un incubo, si riaddormenta in piedi, si sveglia sdraiato. Insomma delira.
All’alba nonna Pupilla siede al capezzale del nipote e lo bacia con pressanti labbra a misurargli la febbre.
- Deve essere stato il caffè di San Basiluzzu Soprusceccu…a volte lo fa con chi non è del luogo.-
Commenta Pupilla col poliziotto che tenta di prodigarsi in cento modi tra ghiaccioli al gelso e lecca lecca al mandarino.
La febbre è a quaranta. La mente del giovane sciaborda fuori dal cervello, tenta rientrare invano dal lavandino del respiro, resta in sospensione come un miraggio nel deserto. A quarantuno urla:
- Dio è …Maestrale… Zeffiro…Tramontana…vento di famiglia, vento della nostra Famiglia…-
Pupilla, intuendo bene dove sta andando a parare, lo innaffia di rosolio e sostituisce prontamente il monologo del giovane con il suo:
- Dio è implacabile nell’impigliarsi nel potere dell’imponderabile e se ne impipa dell’infinito, anzi, lo prende tra parentesi e se lo mette proprio dove gli pare e piace…-
Colpito dalla aulicità della predica, ma senza nulla capire, il nipote si fa più sotto al viso della nonna, e cambiando tono e argomento:
- Madre Adalgisa mi preparò alla primina…sorella Gioia mi preparò alla Cresima…cugina Trudy mi preparò al sesso…ma… mia madre cosa cavolo faceva nel frattempo? -
- Nipote caro! - Risponde la donna, puntuale, con la punta acuminata della lingua a girare la vite spanata della storia.
- Devi sapere che la vita è un party meraviglioso in cui manca sempre il padrone di casa e troppo spesso lo Champagne…Si sa…chi ha il pane non ha i denti…e quei pochi che hanno il salmone si fanno le tartine o le penne per i fatti propri...Tornando a tua madre, devo ammetterlo, da sempre, fin dall’infanzia, come dire, fu scarsa di lievito…-
A questo punto Pupilla appare la vecchia che è. Piange ininterrottamente per un’ora e smette solo al fracicarsi evidente delle ossa. Poi riprende:
- Suo padre, tuo nonno, avrebbe, per l’amore che le portava, messo su una fabbrichetta di impacchi e cataplasmi…per farla felice… ma un ferale giorno arrivò tuo padre e se la legò al dito con un semplice cerotto. Ce la portò via, su al nord. Così noi, poveretti, rimanemmo soli. Si, tu dirai che avevamo altri sei figli. Ma queste cose le capirai soltanto quando sarai padre anche tu!
Successivamente venimmo a sapere che tuo padre s’era fatto impertinente e tracotante, e che soprattutto imperversava spudoratamente senza nessi tra i cessi del McDonald’s abbandonando sempre più spesso tua madre sui divani in esposizione all’Ikea..
Per tuo nonno temetti il peggio, s’era fatto impenetrabile nel volto e nella fondina. Quindi, disperata, mi decisi.
Insomma, chiesi a Don Cimino Della Chiaia Viola di intervenire.-
Brando, appena Celsius e Faranaith smettono di giocare a morra con i gradi del suo povero corpo, si trasferisce in poltrona e:
- Ma Don Cimino Della Chiaia Viola…se ben ricordo…non era…?-
- Si! Proprio lui! - Ribatte Pupilla stringendosi al nipote.
- Certo! Don Cimino esagerò, come sempre usava fare in questi casi. Trovò la soluzione che più gli era congeniale. In conclusione non avemmo più notizie di tuo padre. Tua madre però tornò a casa. In cinta di te.-
E guarda finalmente il nipote con occhi di nonna. Poi:
- Noi all’epoca eravamo molto poveri, tuo nonno oltre ai nostri sette figli, aveva anche quattro figli naturali, naturalmente un po’ qua, un po’ là, così riandai a parlare con Don Cimino, a chiedere il da farsi. Finchè tu nascesti ci accontentammo di otto pensioni di invalidità e sei assegni d’accompagno, ma poi, con la tua nascita, le esigenze aumentarono. Così Don Cimino aggiornò le nostre entrate con altre due pensioni di guerra e quattro assegni integrativi per ex-terremotati o alluvionati…non ricordo…Ci costruì una casa, ci comprò un’auto a testa...e quando tu nascesti volle che ti chiamassimo Brando Cimino. -
- Ma quello che dici è tremendo! – Urla Brando, come un sughero esploso a mezzanotte dell’ultimo dell’anno.
- Il peggio deve ancora venire.- Prosegue Pupilla:
- Seguirono gli anni in cui tuo nonno, per comprovare le invalidità dichiarate, dovette emigrare, recarsi in varie stazioni termali, viaggiare in lungo e in largo per l’Italia, per sottoporsi ad indagini diagnostiche assai specialistiche, perfino in Svizzera andò e poi a Bruxelles. Finché, un triste giorno, un autartico, gli fece un aut-aut proprio difronte alla fermata dell’autobus. Fu troppo! Nonno gli sparò. E jella volle che all’autopsia trovassero proprio il suo autografo. La vita del povero nonno fu così disegnata dall’autocommiserazione, anzi di più. Fu definitivamente segnata da una mina. Fu in udienza che gli si spezzò per sempre l’autoritratto.
Don Cimino pagò i funerali, ma, per rimettersi dalle spese, pretese che io e tua madre andassimo a vivere da lui, insomma lo servissimo, ognuna a suo modo. Inoltre riuscì a farti partire militare a nove anni, per tenerti lontano dagli avvenimenti, divenuti oltremodo scabrosi. Insomma…che devo dirti?!
Tua madre, donna assai debole e indifesa, ne soffrì fino a morirne.-
Accorata, continua:
- Per me fu troppo! Comprendi? Quindi, per regolare una lunga serie di equivoci, io in persona, presi la decisione irrevocabile di uccidere Don Cimino.
Dalle nostre parti, tu ancora non lo sai, non è concepibile che una donna possa tanto da sola. Ferirebbe l’orgoglio maschile. Per cui nessuno mi incolpò. Insomma la passai liscia.
Soltanto Don Michele mi fu grato, per via di alcuni interessi che aveva sulle proprietà del morto. In seguito, qualche mese dopo, mi chiese la mano.
Io acconsentii, pur riducendo il consenso a quattro dita, sapendo ormai bene che nella vita bisogna sempre trattare. Lui, da signore che è, ci mise sopra tre smeraldi, due diamanti, quattro rubini. Adesso puoi ben capire l’origine della tua rapida e smagliante carriera militare. E vedrai che presto salirai ancora di grado! -
Pupilla, a questo punto, abbassa la voce, abbassa le serrande, scende dall’enfasi e dai tacchi. E solo per poco riprende:
- Devi sapere che per colpa di Michele, che sta agli arresti domiciliari… e ce ne vorrà ancora per molto, temo, ho dovuto limitare gli affari. Gli uomini, da queste parti, sono lenti a capire…a progredire. Sono retrogradi. Tu non sai, che vivi al nord! Lì ti ho mandato proprio perché evolvessi, come Padania comanda! Poi ti saprò dire.Ho in animo, per l’appunto, di studiare con te un progetto a cui penso da mesi…e che potrei affidarti volentieri…sempre dopo aver constatato la tua abilità a trattare certi argomenti. Ma adesso pensa a riprenderti!
Ah! Dimenticavo…mi sono permessa di predisporre il tuo trasferimento a Palermo, senza fretta, però, senza fretta…Hai tutto il tempo che vuoi per ambientarti e studiare come qui stanno le cose. –
Così dicendo gli rimbocca le lenzuola, lo scruta benevola ma sempre con occhi d’acciaio, ed esce tirandosi dietro l’uscio e un progetto.
- Non lo lasciare per un minuto soltanto! - Comanda al poliziotto seduto dietro la porta.
Quindi Pupilla percorre il lungo corridoio fino alla sala delle riunioni, dove in otto già l’aspettavano.

*

Boomerang



Leonardo giace, pesce morto sulla lapide del letto, quando irrompe dall’alto una luce.
Il carrello tintinna spinto avanti da una grassa infermiera, la segue un’ombra informe ghermendo una matassa di fili tra le chele. Due occhiate lo penetrano a forza tra le ciglia cispose, martelletti di acciaio gli scandagliano le vertebre, mani ghiacce lo tirano su come un cristo di plastica, gli incoronano la testa con clip di metallo e bigodini di garza.
Il giovane tenta una smorfia di scontento, poi si arrende e sprofonda nel water bianco dell’attesa.
- Promesso! Guarirai! -
La falsa prognosi è del professor Amilcare Assolto, che, unitosi al gruppo, sta per fulminarlo nel cervello, premendo contro i muri delle tempie i volt consentiti dall’ultima direttiva O.M.S..
Insomma una pistolettata per nulla a bruciapelo nel volume della mente.

A pratica eseguita, dopo sobbalzi, bava e membra inarcate, l’infermiera e l’improvvisata portantina ( altresì cuoca e all’occorrenza giardiniere) paiono due suorine soddisfatte al cospetto di un povero appena rifocillato. Quindi chiudono le luci, indietreggiano, passo lento dopo passo cauto, in ritirata dall’altare su cui giace la vittima sacrificale, e s’involano scodando dietro il camice a svolazzo del demiurgo.
Leonardo ora è solo. Il suo cranio rasato, divelto dal corpo, come lanciato da un aereo a quota diecimila, giace su un prato di periferia, contro una rete sfondata da un calcio di rigore.
Mille schegge lo ingombrano assieme alle urla dei Metallica. Poi il walkman smette e comincia un sogno: tra fichi d’India e sotto un cielo cocente, si perde in un amplesso furibondo, che esorbita dallo schermo.

Al risveglio Leonardo ha impellente necessità di altro sangue, altro fegato, altre gengive, e altre palle. Anche degli occhi.
- Su su! Alzati! -
Ma il suo labbro scheletrico non risponde, non può, ha sputato calcinacci per l’intera notte.
Si guarda attorno, nuvole bianche sparano dalla finestra, lo accecano. Sul tavolino, a lato del letto, lo attende un vassoio di pastiglie, capsule, supposte, e un petto di pollo grigiastro affogato in una purea di patate ancora più anemica.
- Poche storie, alzati e cammina! -
All’unisono tentano il miracolo, le due donne col dito puntato sul matto.
Spodestato del pudore, il poveretto mostra le gambe secche e il suo pendulo membro color fucsia, un pisello in galleggio in un consommè lasciato freddare.
Un buffetto materno di Olga, e oplà! L’addomesticato è sul cesso.
Ormai è un bolo di prozac e cloropromazina che vaga autodigerendosi tra il letto e il corridoio del quarto piano di Villa Paradiso.

Lunedì, ore sette. La pendola, al centro del corridoio del primo piano, detta il tempo.
Dal suo trampolino di lancio, le ore schizzano, nate dalle unghie e dai denti di un passato eterno e ringhioso. Il buonumore non ci azzecca, sarebbe una infiorescenza a gennaio che rischia il gelo.
Pur tuttavia il giovane si alza, si fa la doccia, si sbarba, cambia il pigiama, e nudo fissa lo sguardo alla finestra. Vorrebbe essere uno steward che sparecchia il cielo dalle nuvole.
Ha deciso, è venuta l’ora di far pulizia d’ogni scarafaggesco annidamento, quindi entra risoluto nello studio, con il cuore che gli trilla cento al secondo e gli alza il pullover giallo mascarpone in una erezione del ventricolo sinistro da lievito Bertolini.

Sa di sandalo e violette, in un mix da stordire all’impronta, la maliarda strizzacervelli, che lo fronteggia in portamento di caccia.
Il giovane è un moschettiere al cospetto della regina. La dottoressa Serena De Soavi Swarosky, assisa sul suo trono, lo scruta con occhi megalitici, in affaccio dai fiordi di un vistoso foulard.
Ma appena costei si libera della seta, ecco il giovane navigarle nella scollatura, lambire voluttuoso le rosee gelatine che fuoriescono dai merletti impeccabili, acciottolarsi ai piedi della dea come un fagiano spennato, scrutandola concupiscente mentre lei scuote le natiche sulla poltrona e ballonzola i calcagni, in un collant tigrato nero, fuori dai tacchi.
Preda dello spigliato accavallar di gambe della dama, polpaccio destro su rotula sinistra, polpaccio sinistro su rotula destra, Leonardo cade in una sorta di stato ipnotico simile a quello che anni prima gli procurò il colombiano professor Juan Alfonso Uribe de Ribeira, finendolo col suo pendolo, presso la Casa di cura Santissima Assoluzione e Assunzione.

A questo punto è bene far sapere al lettore che Leonardo è uso a ricoveri forzati, presso la Casa di cura Preludio del Sacro Cuore e Assistito Rimpianto, nel reparto Paradiso, gestito dal primario professor Amilcare Assolto e dalla sua assistente, appunto, dottoressa Swarosky, poiché la sindrome di cui è affetto, determina l’altalenarsi di periodi di mania furibonda ad altri di depressione a rischio di autolesionismo. Ma vale ancora precisare che, avvezzo da anni all’indaco del disorientamento, non disdegna i vantaggi secondari della malattia, per nascondersi ai richiami pressanti del reale.

Col passare dei giorni, sempre più spesso Leonardo si rifugia nello studio della psichiatra, e in sua assenza, nel silenzio assoluto, nella fitta penombra della stanza, parte a sfrecciare sul fuoribordo del sogno ad occhi aperti, in fantasie osé che la coinvolgono. Seguono i più arditi virtuosismi, le oscenità più acrobatiche, in un distillato porno da fare invidia al più dissoluto editore hard. Insomma, il paziente è invaghito di chi lo cura, della voce che lo penetra, del corpo in livrea d’esperta che lo serra ,tra le tette, a promessa di una nanna perenne.

Ma la pepata peculiarità di tutta questa storia sta nel fatto che Leonardo debba poi riferire queste fantasie, esibite, richieste, riesibite, con dovizia estrema di particolari e sforando di molto l’orario pattuito, al suo psicoanalista professor Candido Traccheggia, ex collega, da sempre invaghito della Swarosky. L’analista voyeur, che in effetti si ritrova un Super-Io assai rigido, e un Io alquanto mistificante, approfitta delle catarsi del paziente per godersi gratuitamente scene eroticobulimiche, polimorfoperverse, che a osare di persona, non si perdonerebbe.

Leonardo, succhiato dalle vampiresche indagini del terapeuta, completamente in balia della patologia di lui, ormai si è ridotto a un pugile rintronato, un automa privo di energie e quindi innocuo.
Di conseguenza l’Assolto, colpito dalla scarsa belligeranza del poveretto, ne propone la dimissione per un mese di prova; lo consegna ai familiari e allo psicoterapeuta privato consigliando casomai di intensificare ulteriormente le sedute.

Ma il Traccheggia ha perso, oltre al decoro personale, ogni dictat professionale; in balìa degli istinti più infimi, regredisce assieme al suo paziente, precipita in caduta libera nell’eros.
Quindi avviene ciò che qualsiasi assistente sociale alle prime armi avrebbe facilmente immaginato.
Alla decima seduta, al culmine di un’orgia-fobico-catartico-ossessiva, Leonardo, invaso e pressato dalle necessità invereconde dello psicoterapeuta, vola, Icaro, oltre il coperchio del mondo.
Catapultato in una onnipotenza senza ritorno, perde ogni capacità critica.
Come si usa in gergo, fa il botto!

E’ sabato mattina, una giornata primaverile. Leonardo, uscito da casa, ha attraversato due quartieri, e giunto alla facciata ottocentesca della clinica, penetra nel parco, colmo di variopinti garruli visitatori.
In preda alla furia degli ormoni montati a mille, nulla più lo trattiene.
Ha spinto le mani fino agli avambracci nel fondo delle tasche, come a dichiarare che il mondo è roba sua e può farne quel che vuole. Entra a passo lungo sotto il porticato di colonne rosa; un principe che va a incoronarsi. Al suo cospetto fiero e intransigente, tutti si spostano. Chi ha problemi di dentatura, si fa da parte, neppure sorride consapevole di poter rovinare la scena.
I passi cadenzati e potenti seguono la guida rossa fino alla porta dello studio del primario, ma questi, intravista la malaparata, in rapido sobbalzo, corre a specchiarsi nel bagno, fingendo interesse per l’incipiente areata alopecia.
Responsabile, al suo posto dietro la scrivania, resta la Swarosky, imperterrita e stakanovista; la rotula destra immancabilmente sotto il polpaccio sinistro.
Leonardo le si schiera davanti. Un pavone che sparge generoso la sua ruota di feromoni nell’aria.
Veemente, …come Jack Nicholson nel Il postino suona sempre due volte, lascivo come Mickey Rourke in Nove settimane e mezzo, spudorato come Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi, perverso come Michael Douglas in Basic instint… con un rapido scatto di reni, eccolo saltare sulla scrivania, tuffarsi sulla preda, palpeggiare avidamente tutte, ma proprio tutte, le polpette.

La donna urla a perdifiato, si dibatte, poi cede allo sgomento e stramazza a terra a mo’ di sogliola, sotto il peso del pazzo persecutore.
Nell’arco di un minuto l’infermiera, la portantina e il professor Amilcare immobilizzano Leonardo, l’annodano in un camice di tela grezza, lo stringono alle traverse del letto, con bende, clip, e lacci improvvisati, fino a farne un festone natalizio.

Il giorno dopo, Leonardo siede mummificato tra madre e padre avanti alla scrivania del primario.
Il virus del sospetto s’è incuneato tra le sopracciglia inarcate di tutti i partecipanti al consesso.
Il professore, domina la scena con brandelli di citazioni sui classici, poi sbatte le palpebre, e quasi fosse un esperto in tubologia, chiude rapido lo sgocciolio del dire, sentenziando - No! -
Non ricovererà mai più presso la propria Clinica il poveretto!
- Mai più! Le inclinazioni perverse recentemente esplose e inequivocabili, in particolar modo nei confronti della dottoressa Swaroski, sono di necessità fonte di disagio insostenibile per la stessa, e rischio e pericolo per l’intera comunità -
Quindi offre in visione opuscoli che reclamizzano altre cliniche, fornite di parco-giochi, tavoli da ping-pong, minicampi per calcio e palla a volo, dotate perfino di boomerang, elargibili a sola discrezione della Direzione e per internati supercollaudati.

A due giorni dalla sentenza, Leonardo, imbottito di calmanti, siede ebete avanti al Traccheggia che non può non constatare lo sfacelo in cui è precipitato il paziente.
Il clinico sta per valutare criticamente e moralmente il proprio operato, quando Leonardo gli allunga un biglietto, vergato direttamente dalla dea Swaroski.
In preda ad un malcelato presentimento, il medico passa a leggere:
“ Caro Collega, gli episodi gravi di cui so che tu sai, e che tutti sanno, hanno obbligato la sottoscritta e la stessa Casa di Cura a interrompere le prestazioni sanitarie al nostro carissimo infelice Leonardo. Di conseguenza, finché la famiglia di lui non prenderà contatti con altro nosocomio, ti pregherei di intensificare il tuo impeccabile lavoro di sostegno, in modo che il poveretto non resti sguarnito di professionalità e calore umano, nella speranza possa riprendere in altra Clinica e al più presto la terapia farmacologica idonea.
Sono dolente di dover interrompere una collaborazione così fruttuosa, ma la situazione, credo ne converrai, richiede un taglio netto, per evitare a tutti incresciosi sviluppi.
Con questa mia, inoltre, intendo ribadirti tutta la mia inossidabile stima professionale.
Cordiali saluti, Serena.”

Il Traccheggia ha di fronte un uomo senza sogni, un sogno senza uomo, a riferirgli stitici resoconti di episodi quotidiani con la madre, lo zio, e qualche diverbio insignificante col figlio del portiere.
Prima di riporre nel cassetto più intimo della scrivania il biglietto di Serena, senza che Leonardo per altro se ne accorga, lo porta alle nari, lo aspira con voluttà, come fosse l’ultima sigaretta.
Quindi, si rincantuccia, in obnubilante tristezza, sotto l’impero del proprio Super-Io.
Arreso alla vita e allo schienale, inforca gli occhiali:
- Dunque…mi dicevi…quante volte ti sei…ieri…lavato le mani? -