chiudi | stampa

Raccolta di testi in prosa di Tania Scavolini
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Quel dolore

C'è un dolore liquido che ti bevi tutto d'un fiato come una medicina amara e un dolore solido come una morsa alla gola di mani che stringono e non ti fanno respirare.

E poi c'è il dolore quieto che resta nel fondo, stratificato sotto il peso del tempo... Rimane lì come un relitto in fondo al mare, su cui si depositano conchiglie di ricordi, mentre alghe fluttuanti danzano intorno, anziane ballerine del rimpianto.

Non so dire quale dolore sia peggiore, quale il più sopportabile, ma so che ogni dolore contiene un suo tormento e una sua forza, può piegare qualsiasi tipo di anima, qualunque tipo di cuore. Forse non rimane che aggrapparsi a quel relitto cercando di vederne un'altra di realtà, nel tentativo di essere più forte, per superare quel dolore. Ma più sei forte, più te lo vai a cercare di nuovo quel dolore, perché non sopporti che la persona che ti manca se ne vada per sempre.

*

Una delle tante

 Una delle tante (menzione d'onore al Premio Internazionale di Letteratura "Per Troppa Vita che ho nel Sangue" sezione narrativa)

 

 Passo spedito, stretta nel cappotto di lana, Giuliana dopo la giornata di lavoro finalmente si avvia alla macchina parcheggiata di fronte alla stazione.

 Non è finita pensa: “Devo ancora ritirare i panni, stirare qualcosa, preparare la cena, ma tanto non mi aspetta nessuno…”

Due mesi fa ha lasciato l’uomo con cui era fidanzata da circa tre anni, nessun rimpianto, nessun ripensamento.

 Filippo è stato l’uomo a cui ha voluto molto bene, perdonandogli ogni volta qualche sfuriata, sempre a causa della sua gelosia esagerata.

 Mentre guida per tornare a casa, ripensa a Filippo e gli riappaiono le mani di lui, grosse, sempre alzate in segno di minaccia.

 E poi le risente sferrate contro di lei, con violenza brutale, mosse da una forza bestiale.

 I segni sul viso e sul corpo ancora purtroppo sono visibili, ferite ed ecchimosi che per passare le hanno detto al pronto soccorso ci vorrà parecchio tempo. Ma le ferite dell’anima quelle già sa che non passeranno mai.

 Al pronto soccorso aveva dovuto mentire, dire che era caduta per sbadataggine sulle scale. Altrimenti avrebbe dovuto sporgere denuncia, ma avendo paura della reazione di Filippo, aveva rinunciato.

 Ovviamente, dopo questo ennesimo episodio di violenza, aveva trovato il coraggio di lasciarlo, comunicandoglielo al telefono, perché temeva la sua reazione fisica se lo avesse affrontato di persona.

 Lui, appena saputa la notizia, neanche aveva aspettato di ascoltare le motivazioni, aveva cominciato ad urlare come un ossesso, minacciandola.

 Si sa, quando uno è arrabbiato possono uscire quelle frasi “Ma io t’ammazzo! ti spezzo le gambe”, eccetera eccetera.

 Ma proprio perché considerava che fosse molto arrabbiato, lei non voleva dargli peso e credere che potesse dire sul serio o almeno lo aveva sperato.

 Giuliana è quasi arrivata a casa, l’ultimo semaforo prima di svoltare e parcheggiare. “Semaforo giallo, no! Non ce la faccio a passare”, borbotta tra i denti…

Ed essendo impegnata ad inchiodare, non si accorge dell’ombra veloce che, come un fulmine, arriva allo sportello destro della macchina, lo apre e di scatto si piazza seduta sul sedile accanto.

 Lo riconosce, è Filippo.

 Ha un coltello in mano e urla, urla, urla!

 Le ordina minacciandola con il coltello puntato addosso, di accostare al parcheggio sotto casa.

 Lei con le mani e le gambe tremanti esegue l’ordine.

 Non è capace minimamente di parlare o di spiegargli qualcosa per il terrore che la paralizza del tutto.

 Lo implora solo, piangendo sommessamente, di non farle troppo del male.

 Ma Filippo è completamente fuori di sé, sbraita frasi senza senso, accusandola che se la fa di sicuro con qualcun altro ed esplodendo di rabbia arriva al culmine della durezza, dell’aggressività.

 Giuliana sente di colpo un gran calore che si espande, nello stomaco, nel petto, nel collo…

Sente tanto fluido caldo che scivola sulla sua pelle, ma non vuole vedere, tanto lo sa quello che sta accadendo.

 Che cosa ha sbagliato, si chiede, ma non si risponde nemmeno.

 Non fa in tempo, nell’oscurità della sera si leva l’anima lieve di una giovane donna di nome Giuliana, di cui si parlerà all’indomani, di cui ci si dimenticherà come una delle tante.

 

#taniascavolini #femminicidio

*

Una delle tante

UNA DELLE TANTE

 

Passo spedito, stretta nel cappotto di lana, Giuliana dopo la giornata di lavoro finalmente si avvia alla macchina parcheggiata di fronte alla stazione.

Non è finita pensa: “Devo ancora ritirare i panni, stirare qualcosa, preparare la cena, ma tanto non mi aspetta nessuno…”

Due mesi fa ha lasciato l’uomo con cui era fidanzata da circa tre anni, nessun rimpianto, nessun ripensamento.

Filippo è stato l’uomo a cui ha voluto molto bene, perdonandogli ogni volta qualche sfuriata, sempre a causa della sua gelosia esagerata.

Mentre guida per tornare a casa, ripensa a Filippo e gli riappaiono le mani di lui, grosse, sempre alzate in segno di minaccia.

E poi le risente sferrate contro di lei, con violenza brutale, mosse da una forza bestiale.

I segni sul viso e sul corpo ancora purtroppo sono visibili, ferite ed ecchimosi che per passare le hanno detto al pronto soccorso ci vorrà parecchio tempo. Ma le ferite dell’anima quelle già sa che non passeranno mai.

Al pronto soccorso aveva dovuto mentire, dire che era caduta per sbadataggine sulle scale. Altrimenti avrebbe dovuto sporgere denuncia, ma avendo paura della reazione di Filippo, aveva rinunciato.

Ovviamente, dopo questo ennesimo episodio di violenza, aveva trovato il coraggio di lasciarlo, comunicandoglielo al telefono, perché temeva la sua reazione fisica se lo avesse affrontato di persona.

Lui, appena saputa la notizia, neanche aveva aspettato di ascoltare le motivazioni, aveva cominciato ad urlare come un ossesso, minacciandola.

Si sa, quando uno è arrabbiato possono uscire quelle frasi “Ma io t’ammazzo! ti spezzo le gambe”, eccetera eccetera.

Ma proprio perché considerava che fosse molto arrabbiato, lei non voleva dargli peso e credere che potesse dire sul serio o almeno lo aveva sperato.

Giuliana è quasi arrivata a casa, l’ultimo semaforo prima di svoltare e parcheggiare. “Semaforo giallo, no! Non ce la faccio a passare”, borbotta tra i denti…

Ed essendo impegnata ad inchiodare, non si accorge dell’ombra veloce che, come un fulmine, arriva allo sportello destro della macchina, lo apre e di scatto si piazza seduta sul sedile accanto.

Lo riconosce, è Filippo.

Ha un coltello in mano e urla, urla, urla!

Le ordina minacciandola con il coltello puntato addosso, di accostare al parcheggio sotto casa.

Lei con le mani e le gambe tremanti esegue l’ordine.

Non è capace minimamente di parlare o di spiegargli qualcosa per il terrore che la paralizza del tutto.

Lo implora solo, piangendo sommessamente, di non farle troppo del male.

Ma Filippo è completamente fuori di sé, sbraita frasi senza senso, accusandola che se la fa di sicuro con qualcun altro ed esplodendo di rabbia arriva al culmine della durezza, dell’aggressività.

Giuliana sente di colpo un gran calore che si espande, nello stomaco, nel petto, nel collo…

Sente tanto fluido caldo che scivola sulla sua pelle, ma non vuole vedere, tanto lo sa quello che sta accadendo.

Che cosa ha sbagliato, si chiede, ma non si risponde nemmeno.

Non fa in tempo, nell’oscurità della sera si leva l’anima lieve di una giovane donna di nome Giuliana, di cui si parlerà all’indomani, di cui ci si dimenticherà come una delle tante.

 

 

Menzione d'onore sez. narrativa

Premio Internazionale Letteratura "Per troppa vita che ho nel sangue" seconda edizione                      

 

 

 

                        

*

Madame Florence

 

 

1- La bottegaia e la fanciulla

 

Madame Florence era sulla porta della sua bottega di vecchie carabattole con lo sguardo fisso sulla strada, l’acciottolato reso lucido dalla prima pioggerella della giornata e al lavoro che l’aspettava. Le avevano portato da Clermont Ferrand delle cartoline della Belle Époque che doveva catalogare sulla sua agenda, su cui passava veramente di tutto. I conti della spesa di casa perfino e quelli della bottega, le petit dejeuner al bar prima di aprire e la baguette calda presa alla boulangerie di fronte, le vecchie cose che riusciva a comprare in qualche brocante d’antichità. Le cianfrusaglie di ogni genere provenivano non solo dalle sue perlustrazioni in giro per la cittadina in cui abitava e in qualche campagna lì intorno. A incrementare i suoi scaffali erano anche vedove di generali, ammiragli e altri militari con i loro oggetti appartenuti ai mariti e che avevano un certo valore come medaglie d’oro e d’argento, antiche bussole e strumenti di navigazione, o addirittura vecchie divise. C’erano poi le donne del borgo che per arrotondare ogni tanto le piccole entrate dei mariti agricoltori le affidavano qualche oggetto di famiglia, con la speranza potesse essere venduto a qualche turista di passaggio. Ogni tanto non era strano vedere passeggiare qualche signorotto con la macchinetta fotografica con cui si fermava a inquadrare un tale particolare: una casa a graticcio, la torre con l’orologio medioevale, le guglie della cattedrale con la fontana di fronte. E tra le varie attrattive, capitava che s’ incuriosiva di fronte alla vetrina di Madame che davvero mostrava le cose più disparate.

 Un giorno si avvicinò alla vetrina una fanciulla di buona famiglia col cagnolino in braccio, un batuffolo bianco di cui non si riuscivano a vedere neanche gli occhi. Madame la vide sgomitare più volte contro il fianco della madre, perché aveva adocchiato una bella bambola di biscuit con tanto di vestito di velluto e merletti, i capelli raccolti con dei boccoli biondi che spuntavano da sotto il cappellino di paglia. Poi di colpo se la vide entrare nella bottega, senza aspettare il consenso della madre.

 <<Bonjour madame, mi potrebbe far vedere la bambola della vetrina?>>

 <<Certamente mademoiselle, è una bambola molto graziosa, gliela prendo subito!>>

 <<È un amore di bambola!>> esplose con allegri gridolini la fanciulla, ammiccando alla madre che nel frattempo era dovuta entrare.

 <<Quanto costa?>> Chiese brusca la madre.

 Madame rispose: <<Praticamente quasi nulla, è un dono della contessa di questo borgo che l’ha acquistata durante i suoi viaggi in Provenza. E io ve la regalerei a patto che mi donaste qualcosa anche voi.>>

-Che bizzarra richiesta- pensò la madre della fanciulla. <<Questa è pazza>>, sibilò alla figlia.

 Ma la fanciulla voleva a tal punto quella bambola che non ci pensò due volte e le porse il cagnolino, in segno di dono. La madre sgranò gli occhi fuori dalle orbite e sgridò la figlia con tutta la sua veemenza.

 <<Ma cosa fai cretina, regali il cane che ti abbiamo comprato a Cheverny? C’è costato un occhio della testa ..brutta scellerata che non sei altro!!>>.

 Fu un attimo.

 La bambola prese il posto del cane che fu accolto dalle braccia di madame, che lo desiderava tanto da indurre quella ragazza a fare proprio ciò che aveva pensato. Quasi si spaventò di questo potere scoperto per caso. Ma quel batuffolo morbido dal pelo bianco era suo e questo solo contava.

 La fanciulla si allontanò felice con in braccio la bambola mentre la madre le inveiva contro apostrofandola con tutti gli appellativi negativi possibili.

 Era molto carino il cagnolino, si chiamava Charlie, il nome lo aveva sentito dalla fanciulla per fortuna. Lui non sembrava particolarmente dispiaciuto del cambio e si accoccolò subito in una cesta che madame teneva per terra con delle maglie di lana da riparare. Da quella postazione guardò la sua nuova padrona, che sembrò cogliere una sfumatura di ringraziamento in uno sguardo particolarmente dolce e il tipico sorriso che mostrano i cani quando sono contenti. Forse non era così benvoluto, azzardando un’ipotesi, ma in ogni caso era il suo cagnolino ora. Prese delle pezze di caldo tessuto che teneva in un baule e gli cucì all’istante un simpatico cappottino. Adesso cominciava a far freddo in quelle giornate di fine estate, dove il sole compariva di rado e il cielo scaricava a intermittenza piogge sempre più intense. Queste avevano sicuramente un compito di grande utilità, oltre a lavare il lastricato a pavet delle strade, fornivano il giusto nutrimento per le piante di fiori poste intorno ai lampioni, o anche nelle aiuole dislocate un po’ ovunque. Erano esplosioni di colori che scendevano a grappolo, rossi e bianchi, fucsia e gialli amalgamati in una maestria unica. La pioggia sostituiva qualsiasi irrigazione, di cui non c’era alcun bisogno.

 Anche madame davanti alla sua bottega, ai lati della porta d’ingresso, aveva delle ciotole piene zeppe di fiori, di cui si occupava lei stessa. C’erano dalie e margherite di vario colore con la profumatissima lavanda al centro.

 

§§§§

 

2- La bottegaia e il marinaio

 

L’episodio del cagnolino non fu l’unico segno della “stregoneria” di madame.

 L’oceano Atlantico non era lontano. Ogni tanto a madame piaceva fare delle gite fuori dal suo borgo, e così prendeva il treno, si metteva comoda in carrozza a leggere un libro, e senza accorgersene arrivava a destinazione. Poi s’incamminava verso la plage di Etretat, con la vista sulle falesie, il vento che le scompigliava le ciocche dei capelli. Madame non era bellissima, ma aveva una grande grazia nel suo portamento, la figura esile e il visino sognante contribuivano a creare una delicata immagine di lei. Il suo stato d’animo era sempre in perenne stato malinconico, forse perché era rimasta sola in famiglia. I genitori erano morti e una sorella era andata da sposata ad abitare a Parigi, quindi si vedevano di rado. Di fidanzati ce ne erano stati in effetti, non tanti ma giusto quel numero che aveva indotto madame a pensare poi di stare bene anche da sola, date le delusioni.

 La sua vita in ogni caso era abbastanza piena, la bottega dava il suo da fare, poi amava leggere e viaggiare appena poteva, soprattutto nelle vicine località marine. Lì sentiva uno strano senso di libertà e appagamento. Le bastava sedersi a un bistrot, prendere un bicchierino di calvados e qualche tartina con vari tipi di paté, qualche ostrica e si sentiva felice. Anche solo seguire il volo a planare dei gabbiani sulla spiaggia era un simpatico diversivo. Capitava che qualcuno di essi la notasse e si avvicinasse stridendo. Aspettando un pezzetto di tartina magari. Un giorno invece si avvicinò un uomo, un marinaio dalle grosse mani e il viso rugoso ma piacente, ancora giovanile. Le chiese se avesse bisogno di qualsiasi cosa, lui era momentaneamente libero e si rendeva disponibile per madame, senza neanche conoscerla. Quello sguardo languido e trasognato, quella figurina esile ma formosa al tempo stesso, lo aveva in breve conquistato. E poi le piaceva come si gustava le tartine, con un’eleganza che era rara, dando ogni tanto un’occhiata al libro sul tavolino che sembrava le interessasse molto.

 <<Mi scusi madame se mi sono permesso, ma sarei libero per accompagnarla dove vuole o per renderle qualsiasi altro servigio. Insomma sono a sua disposizione.>>

 Veramente madame aveva un desiderio. Avrebbe voluto inoltrarsi per un sentiero che portava ad un’ altura dalla cui sommità era sicura avrebbe goduto di uno splendido panorama. Ma da sola non se la sentiva di affrontare la passeggiata, che in ogni caso era un po’ impervia. Mettere un piede in fallo poteva essere fatale. Con i tacchetti delle sue scarpe poi, non era proprio il caso. E se si fosse appoggiata al braccio di questo marinaio? In fondo non era così disdicevole, pensò. E lui si era offerto di aiutarla in qualsiasi cosa.

 Quasi a leggerle nel pensiero, il marinaio aggiunse:

 << Se vuole la posso accompagnare su quell’altura là>> indicandola col dito, >> da lassù si ha una vista mozzafiato, glielo garantisco. Ne vale proprio la pena! Si vedono altre falesie e la costa d’alabastro, ma bisogna tenersi bene sia per il vento che soffia forte, sia per il sentiero che non è tanto battuto e ci sono sassi e pietre sporgenti. Ma io la posso aiutare!>>

 Ma era lei che glielo aveva suggerito col pensiero? Era proprio quello che desiderava, ma non avrebbe forse mai avuto il coraggio di chiederglielo, per paura di essere giudicata sfacciata. Madame era nubile e anche se non giovanissima poteva ancora essere considerata “da marito”, ma lei si faceva comunque chiamare con l’appellativo di madame. Quindi considerando tutto ciò, non si sarebbe mai fatta avanti. Ma a proporlo era lui e insisteva, non accettare oltre tutto sarebbe stato scortesia. Ma accettare anche subito non era il caso, avrebbe dato l’impressione di una “facile”. Insomma doveva farlo aspettare un po’.

 <<La ringrazio monsieur…monsieur? Il suo nome, prego?>>

 <<Mi chiamo Louis Morgant, per servirla.>>

 <<Monsieur Morgant, la ringrazio molto della sua proposta, ma la trovo un po’ azzardata per le mie scarpe e il mio vestito stretto. Comunque non le nego che mi piacerebbe l’idea di quella vista. Oltre tutto, come vede sono con il mio cagnolino che temo di non poter portare a prendere tutto questo vento freddo. Sa, è molto delicato>>

 Io le ho detto il mio nome ma non conosco il suo, mademoiselle…?

 << Prego madame, madame Florence>>

 << Allora Madame Florence, le consiglierei di lasciare il cagnolino in deposito a questo elegante bistrot, di cui conosco il proprietario. La figlia se ne occuperà durante la nostra passeggiata. Per quanto riguarda le sue scarpe, non ho nessun rimedio, ma si potrà sostenere al mio braccio e le darò un bastone con cui potrà salire su per il sentiero. Il vestito in effetti è un po’ strettino, se ha difficoltà se lo può arrotolare di qualche centimetro alla vita. Le giuro che non le guarderò le gambe>> disse ridendo il marinaio.

 Come dire di no a questa allettante proposta?

 I due dopo aver lasciato il cagnolino alla figlia del proprietario Margot, che si mostrò ben felice di occuparsene, si avviarono insieme verso il sentiero. Madame sotto braccio al marinaio e con un bastone a cui si appoggiava per iniziare a salire verso l’altura. Era difficile se ne rese conto subito, nonostante il freddo vento sentiva un certo calore impadronirsi di lei. Mentre procedeva, rifletteva sul marinaio, che ammise tra sé che le piaceva sia nel fisico che nei modi così gentili. Ora per esempio la stava intrattenendo parlandole di quanto fosse affascinante quella costa e di quanto fossero preziose quelle falesie, in termini di importanza geologica e di quanto fosse unico al mondo quel paesaggio. Tanto che famosi artisti erano venuti in passato ad immortalare quella bellezza. Madame ascoltava rapita la sua voce calda e pacata, rassicurante come piaceva a lei. Finalmente dopo la parte più ripida, il tratto diveniva più piano e la fatica diminuì. Madame si fermò un attimo a prendere fiato, e a calmare i battiti accelerati, dovuti sia alla salita sia alla vicinanza con il marinaio. La cima dell’altura era vicina, e tutto questo le procurava un’intensa ebbrezza. Lo desiderava talmente da tanto e finalmente era giunto questo momento così a lungo atteso. "Ma cosa? salire sull'altura o il marinaio?" Pensò madame.

 Un senso di sbandamento procurato dall’altezza e dalla bellezza di quella vista meravigliosa improvvisamente la colse. Rimase letteralmente a bocca aperta ad ammirare il panorama. Il vento era ancora più forte e i boccoli, da sotto la cloche, non ressero alle folate e i capelli liberi cominciarono a svolazzarle intorno al viso. Il rumore delle onde dell’oceano era talmente intenso che non riusciva più a percepire esattamente le parole del marinaio. Ma poi anche lui si ammutolì di fronte allo spettacolo del paesaggio: le falesie che si vedevano da lì erano a strapiombo sul mare, immense, altissime, e stupefacenti, quasi da brividi. Madame con circospezione si era avvicinata il più possibile al ciglio per ammirarne di più la loro magnificenza, ma il precipizio faceva veramente paura. Si girò allora verso Louis per avere un sostegno, ma lui si era leggermente allontanato da lei. Madame fece qualche passo per tornare indietro, ma un sasso sporgente intralciò il suo cammino. Praticamente si trovò a terra in un attimo. La caviglia si era leggermente slogata e le faceva ora molto male. Louis prontamente arrivò.

 << Ma madame, non posso lasciarla sola un attimo che mi combina guai? Mi dispiace tantissimo che sia caduta..le fa male la caviglia?>>

 <<Sì!! tantissimo!>> rispose madame, preoccupata di come sarebbe potuta tornare indietro.>>

 Quasi a interpretare i suoi pensieri Louis disse: <<non si preoccupi madame, al limite la prenderò in braccio io>>

 Dal lontano bistrot, Margot si era preoccupata, aveva visto madame inciampare e cadere. In cuor suo, sperò che il rude ma gentile marinaio, che era tanto amico di suo padre, cedesse al fascino della donna appena conosciuta. Sognava per loro che il destino avesse cucito una storia a lieto fine apposta per loro. Nel frattempo, Il cielo si era fatto molto scuro forse per un altro arrivo di nuvole cariche di pioggia. E il vento ancora era forte specialmente lassù in alto. Nell’inchinarsi per prendere madame in braccio, Louis si avvicinò a tal punto che i loro profili si sfiorarono, la tentazione di baciarla era imbarazzante, non era più un ragazzino, ma sentiva che era attratto da lei, senza che potesse in qualche modo deviare quei gesti che si apprestava a fare.

 Madame era nervosa, forse aveva intuito qualche intenzione, i capelli erano ormai un vortice attorno al suo viso, vide avvicinarsi il viso del marinaio e il suo sorriso bellissimo e quasi non sentiva più il dolore della caviglia. Stava succedendo tutto molto rapidamente, non aveva tempo di annotare ogni singola espressione ed emozione, dopo avrebbe ripensato con calma a tutto, ma ora stava capitando qualcosa…la stava vivendo.

 Monsiuer Morgant, Louis per i più intimi, era vicinissimo a lei, le prese il viso con le due grosse ma tenere mani e posò con la stessa tenerezza le labbra sulle sue, farfugliando prima qualcosa, ma per via del rumore del vento madame non aveva sentito cosa aveva detto. In quel momento, mille pensieri attraversarono la sua mente: che fare? Lasciarsi andare, lasciar fare a uno sconosciuto per lo più che la baciasse? In un solo secondo decise.

 Margot che già li osservava da un po’, ne fu felice, tanto che anche lei scoccò un bacio al cagnolino di madame. Erano troppi anni che il marinaio era solo, era rimasto vedovo e non aveva figli. Per l’entusiasmo della notizia, cacciò fuori vari gridolini, tanto che il padre uscì fuori e li vide anche lui Madame e Monsiuer scambiarsi tenere effusioni, e poi stretti in un abbraccio appassionato, focoso.

 Poi li videro staccarsi, e Morgant prendere in braccio madame per tutto il tempo della discesa.

 Al bistrot arrivarono tutti e due rossi in viso, un po’ imbarazzati. Lui si fece dare del ghiaccio e lo mise avvolto in un suo fazzoletto, sulla caviglia di madame. Lei le era grata di tutto questo, le sembrava che, nonostante avesse avuto questo incidente, la sua vita stesse prendendo un’altra piega, tutto forse perché quando lo aveva visto qualche ora prima, e incontrato il suo sguardo, aveva desiderato inconsciamente e ardentemente che quell’uomo fosse il suo uomo.

 Ed era esattamente ciò che stava accadendo.

 

§§§§

 

3- La bottegaia e la felicità

 

Madame Florence si sposò con Louis di lì a poco.

 Lei indossava un abito bianco trattenuto in vita da un fiocco di pizzo con dei fiori di lavanda. Gli stessi fiori, confezionati dalla fioraia del suo borgo, rappresentavano il suo bellissimo e semplice bouquet.

 Lui era in divisa da marinaio bianca e cappello con fregi. Si sposarono sulla spiaggia di Etretat, mentre i gabbiani stavolta non volteggiavano stridendo, ma si erano appollaiati sul bordo di una barca ad assistere alla funzione. Venne il sindaco in persona ad officiare il matrimonio. Perché non un prete? Diciamo che nessuno dei due lo desiderava particolarmente. Ed erano felici così, senza tanti orpelli, senza tante cerimonie o convenzioni. C’erano gli amici e le amiche di ognuno, i parenti più stretti, la sorella di Florence con la famiglia venuta da Parigi, e i colleghi di lavoro di entrambi, c'erano anche Margot con il padre e ovviamente il cagnolino Charlie.

 Aveva desiderato che il suo sogno si concludesse o meglio iniziasse ad Etretat, e questo era quello che veramente stava vivendo Florence.

 Si spaventò di tanta felicità che lei stessa si era augurata o meglio aveva intensamente desiderato.

 Che fosse una specie di maga, o discendente delle streghe bruciate sui roghi al tempo della loro caccia? Forse sì o forse no..

 Ciò che contava solamente era quello che i suoi occhi stavano fissando e conservando nella sua memoria.

 Ma giurò a sé stessa che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbe interferito coi suoi desideri che poi si trasformavano in realtà.

 Avrebbe continuato, in ogni caso, a vivere intensamente.

 Avrebbe continuato ad amare la vita, i suoi fiori, il suo mare, i suoi affetti più cari ed ora anche suo marito Louis. Avrebbe lasciato d’ora in poi che le cose capitassero, senza interferenze da parte sua. Avrebbe lasciato che il dolore entrasse, quando più avanti avrebbe perso il suo primo bambino. Avrebbe lasciato che la sofferenza s’impadronisse di lei. Aveva capito che la vita è anche questo, senza costruzione né artificio alcuno.

 Florence ebbe poi una vita felice in ogni caso. Dopo la perdita del primo figlio, divenne mamma di una bella bambina e Louis continuò ad amarla con la stessa intensità, ma sempre per vera intenzione, non perché Florence lo avesse in alcun modo guidato.

 Il potere di madame era grande, ma se avesse pilotato con fredda intenzionalità, avrebbe avuto una vita piatta e triste, senza sobbalzi, senza vero amore, senza vera passione per la vita stessa.

 E invece bisognava anche soffrire per riconoscere la vera felicità.

 

#racconti #taniascavolini

 27agosto2017

 

*

La coperta a scacchi rosa e blu

Un sottopassaggio sporco che puzza di latrina, bottiglie dimenticate anche dall'ultimo sorso per sopravvivere.

 Cartoni che nascondono un fagotto dalla forma umana, avvoltolato in una coperta a scacchi rosa e blu.

 Anche questa mattina Luisa per recarsi al lavoro attraversa quel sottopassaggio e non può fare a meno di notarla.

 

 QUELLA COPERTA!

 

 Uguale alla sua che serve la sera a riscaldare lei e il suo fidanzato e che avvolge quell'amore al dolce riparo dal mondo esterno, una coperta quasi "magica" che capisce e conosce i loro reciproci umori, le loro reciproche attenzioni.

 Una riflessione colpisce profondamente Luisa:

 

 "Ma che contraddizione è la vita?

 Due stesse coperte, forse acquistate in quei negozi che si trovano ormai dappertutto:

 una però più fortunata, profumata di tenere promesse avvolge l'amore che nasce e si rinnova, l'altra disgraziata, puzzolente di emarginazione, avvolge il sonno o la morte di un barbone nell'alba nascente di una ordinaria giornata di città."

 

*

L’automobile magica

L’AUTOMOBILE MAGICA

 

 1-Era l’estate del ‘66, quando iniziai a viaggiare con la fantasia, sfruttando l’unico “viaggio” che i miei facevano.

 Era il trasferimento dalla città di Roma a Fiumicino, nella casa di vacanza che poi divenne casa di abitazione.

 Sembrava lungo il tragitto, forse perché da bambini si hanno percezioni difformi, ma in realtà era di circa 30 km e per me pieno di nuovi giochi.

 Lo stesso viaggio ripetuto per anni, ma sempre diverso perché i miei occhi riuscivano a vedere cose diverse.

 Contavo ora le case, ora gli alberi, poi i cespugli lungo la strada, i cartelli stradali.

 Indovinavo di quale città fossero le targhe delle auto che incontravo e organizzavo delle gare tra loro.

 Esaurite le targhe, passavo alle marche e contavo Fiat, Opel, Citroen, Mercedes.

 I pensieri correvano veloci come il vento che fin dai primi metri entrava dal finestrino aperto.

 Viaggiavo verso una meta solitaria, deserta, come una naufraga su un’isola, legando dei paletti con le foglie delle canne, procurandomi cibo con arnesi di fortuna.

 Non so perché mi piacesse questa visione.

 Forse perché cresceva in me la voglia di essere indipendente come accadde davvero.

 O perché sapevo che mi sarebbero piaciuti viaggi senza meta come quelli che poi realizzai a bordo di un camper.

 Mia mamma ricordo che all’epoca fosse particolarmente felice.

 Lei infatti sapeva già che avrebbe trascorso mesi rilassanti.

 Avrebbe coltivato le rose in giardino, bollito bottiglie di pomodori per fare il sugo da conservare in inverno.

 

 2- Accendo il motore, 7,00 di mattina: come tutti i giorni mi appresto al “viaggio” per andare al lavoro.

 La vita mi ha riportato qui nella stessa casa di allora.

 E più o meno il viaggio è simile a quello di cinquanta anni fa.

 Solo che allora mi sembrava un vero viaggio. Ora è solo il percorso da e per l’ufficio.

 Imbocco l’autostrada e, dopo tratti liberi, gli ingorghi sono in agguato.

 Incolonnata, con lo sguardo assorto ammiro i colori del cielo strabilianti.

 Ed ora come allora creo storie, ipotizzando dove siano dirette le persone a seconda di chi sia al volante.

 I solitari come me vanno in ufficio, le coppie di anziani forse si recano per visite mediche in ospedale, le donne con bambini sono mamme che lasciano i figli al pre-scuola o al centro estivo.

 Io immagino non di andare in ufficio, ma in un posto dove lasciare a briglia sciolta le parole e i colori, in modo che le parole diventino poesie e i colori diventino quadri. Un posto magico, dove mi pregano di scrivere e dipingere.

 Mi suonano col clacson, perché ad uno scatto di qualche metro non mi sono mossa.

 È il ritorno alla realtà, piove o sono lacrime?

 

 3-Mentre l’auto procede il suo viaggio, mi addormento.

 Dune di sabbia intorno a me.

 Il sole filtra tra le canne della capanna che abbiamo costruito noi della banda.

 Al buio o quasi, sono impegnata a contare gli asparagi di campo che abbiamo raccolto. Li porterò alla mamma per farci una frittata!

 Poi esco in bici e faccio tanti giri, sempre gli stessi, perché ho dei confini da rispettare.

 Però mi allargo a qualche metro in più e mi ritrovo davanti a palazzi nuovi.

 Qui il terreno non è asfaltato, è di brecciolino, sul quale è facile scivolare e cado.

 La pelle sanguina velocemente.

 Esce una signora dal palazzo richiamata dal mio pianto, ha già in mano alcool e cerotti. Non perde tempo, mi disinfetta e m’incerotta. Io dico grazie e scappo via.

 Racconto tutto alla mamma ma lei si arrabbia, dice che non ci dovevo andare così lontano…

Che se avessi ubbidito non mi sarebbe accaduto!

 Mi mortifico e non parlo per un po’.

Il sogno continua…in strada c’è il capetto della banda di ragazzini.

 Vuole rubarmi la mia bici, ma scherziamo?

 Reagisco!

 Una sberla e un calcio ben assestato, lui non se l’aspetta e lascia la bici, non senza avermi apostrofata con una parola che non conosco.

 Mi sveglio un attimo, ma sprofondo presto in un altro sogno.

 Entra un cane randagio in giardino. Io esclamo:”Che bello mamma, possiamo tenerlo?”

La mamma: “Sì ma solo per la durata dell’estate, poi si ritorna a Roma e dove lo mettiamo?”

E’ un lupo dal colore fulvo, un po’ malandato ma bello. Lo portiamo a spasso col guinzaglio di corda e io mi sento importante con lui al fianco. Tutti i ragazzini si fanno intorno e mi riempiono di domande.

“Dove l’hai preso? Quanti anni ha? Come si chiama?”E io: “Jack! Si chiama Jack!”

Altra scena: Jack torna dal suo giro sanguinante.

 Io urlo, mamma urla, urliamo tutti!

 Lasciamo Jack dopo averlo medicato ad un signore che si occuperà di lui, noi dobbiamo tornare in città.

 Sono triste e piango, mi sveglio con le lacrime o è sudore?

 Comunque siamo arrivati! Ora inizia o finisce la vacanza?

 

 4-Sono entrata in città direzione centro, ferma con l’auto al primo, secondo, terzo semaforo rosso.

 Ripenso a quando ero una bimba felice, pregustando la vacanza.

 Che poi una grande vacanza non era…al mare non mi portavano quasi mai, spesso restavo fuori casa a giocare con altri bambini e ad andare in bici.

 Io ad ogni modo ero contenta di stare con la mia famiglia.

 Quarto semaforo rosso.

 Mi viene un groppo alla gola, considerando che a quegli anni sereni seguirono tanti anni infausti.

 Ma voglio fantasticare ancora e riesco a vedere mamma felice che mi avvisa che la merenda è pronta.

 Nel frattempo, la mia strada di viaggio si trasforma in un lungo nastro color verde prato dove volano farfalle gialle, grandi come girasoli e…

 … io, gioiosa nel sognare la felicità, per una volta, torno ad essere bimba, felice di vivere la magia di quegli anni.

 E arrivo correndo con Jack guarito dalle ferite.

 

 racconto breve di Tania Scavolini

*

Un’altra notte - short story

Andava a letto senza sonno e senza tanta convinzione di poter dormire. 
Stesa con le mani lungo i fianchi, ascoltando il ritmo del respiro lento e pesante. Ombre lunghe come quelle che vedeva da bambina rendevano l’atmosfera più cupa, densa d’ansia.
Si tormentava la mente proiettata sul domani, si martoriava pensando al passato e a quello che le aveva dato pena, sofferenza. Ogni tanto ristabiliva un equilibrio tra supplizio e respiro, mentre si chiudevano gli occhi ma solo per simulare lo stato del dormiente.
Ore acuminate come spade infliggevano la tortura: essere svegli durante la notte e aver paura. 
Aveva paura, sì anche per quello forse non dormiva.
Paura dei ladri, paura dei fantasmi, paura dei sospetti, paura di aver paura.
Ogni rumore rimbombava nell’eco della stanza, poi si placava e il silenzio tornava padrone del tempo residuo.
Un’altra notte a raccontarsi dubbi e verità. 

6 maggio 2015
© Tania Scavolini

*

Invidia e Bontā - favola

Invidia e Bontà

 

 Una vecchia rugosa e curva dai vestiti sciatti e sbiaditi di nome Invidia e una donna dal sorriso accomodante e dal dolce sguardo chiamata Bontà procedevano insieme lungo un sentiero, apparentemente vicine ma un po’ distanti l’una dall’altra. La vecchia guardava di sottecchi spesso la donna più giovane, nutrendo per lei sentimenti di rancore ingiustificato, di invidia malcelata. Quel sorriso ostentato le dava fastidio, quella sua andatura lenta nel rimirare al meglio la bellezza della natura, le meraviglie a lei intorno…i fiori, gli alberi, gli animali e le persone che ogni tanto incontrava al suo passaggio. La osservava e pensava che avrebbe voluto vederla inciampare e cadere rovinosamente sul selciato, senza possibilità più di sorridere ancora.

Questi i pensieri malevoli della vecchia, mentre la donna avanzava tranquilla pensando all’esistenza del bene come del male, ma percependo la forza del bene come potente antidoto per ogni avversità. Aveva sofferto molto in passato, ma non voleva soffermarcisi ancora…voleva andare avanti con coraggio e speranza. Bontà non era capace di provare odio, invidia, cattiveria, era semmai a volte solo indifferente con le persone maligne. E purtroppo, queste si celavano sotto mentite spoglie, mostrando larghi sorrisi e complimenti. Alla lunga però si svelavano per quel che erano e allora meritavano di essere confinate nel distacco.

Morale: Invidia e Bontà percorrono sempre la stessa strada, bisogna solo saperle distinguere anche se i loro aspetti potrebbero ingannare la loro reale entità. A volte infatti non sono i vestiti o l’aspetto indicativi per l’identificazione dei soggetti. Invidia si può camuffare sotto altri panni e anche Bontà si può scoprire in quelli più impensati. Ma sono i comportamenti che rivelano chi è Invidia e chi è Bontà. Quindi una volta capito, bisogna scegliere da che parte stare, se vivere nell’ombra delle perfidie ed elucubrare malignità come Invidia o vivere in serenità senza procurare o augurare male a nessuno, senza architettare congiure, senza criticare ingiustificatamente come Bontà.

Io ho scelto da tempo e voi?

 

11 febbraio 2015

 

 

*

Hernst e Molly - short story

 

Un pigro risveglio sorprese la cittadina di Hoorn, tra gabbiani stridenti e lo sventolio delle bandierine delle barche in darsena. Hernst, anziano marinaio annusava l’aria frizzante di metà gennaio, fumando lentamente la pipa e sfogliando le pagine del quotidiano locale. Si era smarrita un’imbarcazione la sera prima senza fare ritorno.

 Avevano cercato ma l’aria e le acque gelide avevano fatto sospendere le ricerche. Strano pensò. Chiunque fosse di lì, sapeva che con quel mare così infuriato non era prudente neanche partire. Finì la colazione e salutando allegramente Brigitte la cameriera del bar, si avviò verso la sua barca.

 Non era in realtà proprio sua, ma era come se lo fosse. La “Old Holland” dalla primavera cominciava a portare i turisti oltre la baia, ma come sempre necessitava di manutenzione. Ed era lui ad occuparsene da vent’anni. Sulla barca Lo aspettava Molly, una beagle elizabeth dagli occhi dolcissimi che appena lo vide, guaì.

 Molly aveva tra i denti un guanto da marinaio, che non era il suo certamente. Un guanto con una etichetta italiana.

 Come aveva fatto Molly ad entrare in possesso di quel guanto? A chi apparteneva? E soprattutto chi era salito sulla sua barca?

 Interrogativi che aspettavano una risposta.

 

 

*

Il sogno di Sofia - short story

Il sogno di Sofia - short story

FINALISTA contest letterario " Lo stomaco delle farfalle" di prosa e poesia promosso dalla Oubliette Magazine

 

Sofia si era svegliata con la luna storta anche quella mattina, ma il dovere l’aspettava: il suo posto di lavoro con tutto quello che conteneva, pro e contro, simpatie e antipatie, pettegolezzi, piccole scaramucce e maldicenze. Prima di arrivare a questo scenario un’ora di traffico lento e puntuale come un orologio. Preferiva defilarsi appena arrivata e non buttarsi subito nella mischia dei colleghi, amava ascoltare le notizie alla radio e un po’ di musica, aprire il computer e leggere la posta. Prendersi un caffè in santa pace, prima di tuffarsi nel lavoro e nel marasma. Ogni giorno succedeva qualcosa, bastava mettersi in finestra e aspettare. Una o due ore di attesa e come d’incanto la chiacchiera del giorno arrivava come una mannaia a decapitare il buonumore se lo aveva o viceversa a incrementare il malcontento. Per lo più Sofia sorrideva ed era accomodante, per non farsi sangue amaro preferiva essere serena dentro e fuori. Certo il fuori a volte mascherava il non coinvolgimento, il distacco completo da tutto quello che la circondava.

 Era su un altro pianeta e ne doveva scendere spesso a fatica. Avrebbe voluto essere altrove, essere altro, essere in un altro posto.

 

*

I sentieri dell’anima - short story

 

 Appartenevano a lei quei passi lievi sulla neve fresca, uno dopo l’altro a comporre un sentiero. Jacob ne scorgeva solo le orme, non la distingueva mai a occhio nudo, specie in quei percorsi impervi in cui riusciva a malapena a camminare, affranto da sofferenza e dolore.

 La vedeva solo prestando un’attenzione maggiore, cogliendo le sensazioni più impercettibili, ascoltando i richiami più impellenti del cuore, dimenticando le sue lacrime di rimpianto e frustrazione.

 A volte la percepiva ancora meglio quando smetteva di pensare sempre a sé stesso e riusciva a riconoscerla mentre lei saltellava felice lungo i suoi sentieri, scodinzolando al vento e al sole, scivolando sulla neve con generosità, sorridendo al cielo e al mare. Quando Jacob la vedeva così, voleva dire che la trovava finalmente vicino a lui, anzi era dentro di lui.

 La sentiva presente l’Anima, che aveva il potere di renderlo sensibile facendolo aprire al prossimo, scrollandogli di dosso l’egoismo e la chiusura, facendolo mostrare radioso come un raggio di sole. Erano i momenti più belli della sua vita, quelli in cui riusciva a vivere coi riflessi dell’anima, della sua scontrosa, ma prodiga anima.

 

*

La Terra dei Ricordi

La Terra dei Ricordi (vincitrice contest letterarioOubliette Magazine "La Terra dei Silenzi")

Era un posto speciale quella Terra, un posto dove si nasceva già coi ricordi della vita precedente. Quella era la Terra dei ricordi, in cui si partiva con tanti bagagli diversi.
Chi era stato un soldato proprio perché ricordava le brutture della guerra, ora non l’amava e desiderava solo Pace, chi era stato avaro ora era generoso d’animo, perché non voleva essere abbandonato e solo come nell’altra vita. 
E poi c’era Juliette, lei era stata una donna felice, aveva amato ed era stata amata. Ricordava bene le carezze e i baci, il soffio del respiro di lui nell’incavo della nuca, le attenzioni dolci e le stravaganze della passione. 
Juliette partiva svantaggiata. Mai poteva sperare che anche in questa vita sarebbe stata amata come in quella precedente. La terra dei ricordi era una verdeggiante terra, con belle case e vialetti alberati. Durante una passeggiata un signore si imbatté nella bellezza di Juliette, nei suoi occhi dolcissimi e teneri, se ne innamorò a prima vista e subito la attirò a sé e le fece una carezza. Juliette gliene fu grata e lo dimostrò subito, scodinzolando e seguendolo. Forse si sarebbe davvero realizzato il desiderio di essere tanto amata come nella vita precedente.

*

E’ tardi papā

Padre “piance”, diceva la badante polacca raccontandoci di come mio padre piangesse di fronte a una fiction in televisione. Pareva che fosse per lui un appuntamento irrinunciabile, posizionandosi sul letto con le orecchie ben tese.
Così lo lasciammo vedere la sua fiction dopo aver terminato il pranzo.
Fino a quel momento lo avevo visto ancora più distante, lontano dai discorsi, dal capire e dal partecipare. Io non compresi bene se apparve così per colpa della sua malattia, oppure per aver deciso di proposito di non parlare quasi per niente.
Di fronte alla fiction piangeva di lacrime indotte, non prodotte da sentimenti suoi, da ricordi suoi, come di solito accadeva, ma da qualcosa di fittizio.
Fu tutto un po’ surreale, trovarsi poi a conversare con la badante e la compagna, essersi fatti tutti quei chilometri per andarlo a trovare, riandare via con la sensazione che qualcosa fosse andato storto. 
Come quegli esperimenti non riusciti, in cui l’impegno era stato messo da parte di tutti ma senza tanta convinzione. 
Un presagio già avvertito prima di partire, un dolore sordo al bordo del cuore, tra nuvole gonfie di pioggia e la distanza da colmare di anni di assenza.
Ma ormai è tardi papà..

*

E’ la stagione..

È la stagione dei papaveri che sbiadiscono al sole, che svolazzano al vento caldo come farfalle.
Ed è anche la stagione dei pomodori rossi e maturi. Con le schiene curve al sole, gruppi di immigrati sollevano il capo ogni tanto per prendere fiato e poi si tuffano di nuovo in quella tavolozza di colori, chiazze rosse in un mare verde.
Parlano poco per non consumare energie, per far andare le mani velocemente.
I pensieri volano lontano verso le persone care che hanno lasciato e il cuore batte più forte, lacrime silenziose e furtive rigano la pelle scura.
Sono pagati poco per questo lavoro, ma per ora questo poco è sopravvivere alla miseria. Questo poco serve a dare sostegno alla famiglia, serve per non morire.
Il giovane Ahmed tutto ad un tratto si alza da terra e senza preoccuparsi delle reazioni del caposquadra, comincia a protestare a gran voce, urlando che la paga è troppo bassa.
Sembra come un segnale.
A quel gesto di coraggio, anche tutti gli altri si alzano, lasciando cadere dalle mani i pomodori.
Chini non sono più, con fierezza rivolgono lo sguardo al cielo e finalmente lo scorgono non tanto lontano: un orizzonte sfolgorante di luminosa speranza.

short story Tania Scavolini

*

Il baule degli antichi segreti

Il baule degli antichi segreti è sempre stato nella soffitta, nessuno lo ha mai spostato. Quando era piccola lo chiamava così fantasticando chissà quali storie fossero appartenute a quel baule.
A katy piace ancora andare in soffitta, aprire il baule e far scorrere le dita su cartoline e lettere, dimenticate dal tempo.
Forse appartenevano alle donne della sua famiglia che in epoche passate aspettavano inquiete il ritorno dell’amato, sicuramente scritte per raggiungere l’amore lontano.
Katy in effetti ora che ci pensa, ricorda una sua lontana parente, di cui parlava la nonna addirittura, che era stata lasciata giovanissima dal fidanzato partito soldato al fronte e mai tornato.
Forse sono le loro lettere che si scambiavano i giovani in quei mesi di lontananza divenuta poi tragica separazione. Sanno ancora di lacrime e gocce di pioggia, sanno di sale del mare e rose essiccate, sanno di logori ricordi che riprendono vita ora che alla luce ritornano.
Hanno il sapore della solitudine di quella giovane amata, ma non sono tristi, emanano ancora emozioni remote, intrise di profumi di violetta, ornate di consumati merletti.
Katy le accarezza teneramente, desiderando per un momento di voler riportare in vita quei giovani per un ultimo eterno, appassionato bacio.

Tania Scavolini

*

Il richiamo del mare

Oggi il mare m’ha chiamato a sé con il suo richiamo forte, potente. L’ho inseguito per tutta la lunghezza della strada cercando di sbirciare dall’auto la sua striscia azzurra, ma il muretto che delimita la spiaggia ne impediva la vista..era lì, lo sentivo, ma non lo vedevo.

Solo in lontananza nitida l’immagine del vecchio e solitario faro, a guardia di un’ultima propaggine di terra. Uno spicchio, un angolo ogni tanto entrava nel campo visivo di una me alla guida che lenta procedeva e che si faceva scaldare attraverso il vetro dal sole di febbraio, come un leggero senso di piacevole carezza.

Finalmente uno spazio sgombro da mattoni mi ha aperto una finestra sulla distesa azzurra, docile, immobile.

Il mare d’estate non ha mai di questi colori l’intensità, d’estate qui l’acqua si imputridisce un po’, assumendo le tinte, gli umori, i sudori della calca, ma d’inverno è uno specchio limpido in cui riflettere i propri pensieri, elaborare le proprie riflessioni.

Mi sono trovata così a tuffare nel mare di questa mattina le mie giornate della scorsa estate, nel mio primo giorno di ferie di quelle vacanze non consumate, spese lungo corridoi di ospedali, in attesa di un domani migliore che mai sembrava arrivare.

Nel mio primo giorno di “vacanza” non potevo che essere qui a ritemprare lo spirito, a respirare a fondo l’aria salmastra sollevata ancora di più da una brezza pungente. Ma la vista del mare non è stata l’unica cosa a dare senso alla mattina: ho incontrato un vecchio conoscente che non mi vedeva forse da quand’ero ragazza, che mi ha abbracciato e si è commosso mentre lo faceva, mentre diceva: “la mia ragazzina!”

E davanti a questo mare, nell’abbraccio del mare e dell’anziano amico, non sono riuscita a trattenermi, l’emozione mi ha colto. È stato un attimo..

Non riuscivo a trovare le parole, mentre l’abbraccio si faceva più stretto, come per comunicare di più con le parole che nella stretta di quelle mani: il passato trascorso, gli anni che ci avevano visto entrambi più giovani e il senso dei giorni futuri ancora incerti per me, curvi sulla vita per lui.

La voce si è appuntata a metà tra le labbra e il cuore, oppure lì dove l’azzurro è ancora più azzurro, su quella linea d’orizzonte netta e definita.

La linea che separa il mare dal cielo, la vita dalla morte.

 

Fiumicino, 3 febbraio 2011