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Raccolta di testi in prosa di Massimo Campigli
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Nuvole cariche

Alle 6.00 la sveglia suonò, ma inutilmente; due occhi stanchi fissavano il soffitto già da un’ora.

Non era stata una buona nottata; nonostante la bella compagnia della sera prima, i brindisi all’amicizia e i racconti sui ricordi di una vita, il sonno era arrivato tardi ed era proseguito a stento, spezzato in minuti piuttosto che in ore.

Lasciò suonare la sveglia una sola volta, come gli avevano insegnato tanti anni fa, poi l’ammiraglio si alzò e come tutte le mattine, in 30 minuti esatti fu pronto per andare in ufficio.

Solo dopo aver ricevuto il saluto dal segretario poté oltrepassare la porta.

La caraffa nera lo aspettava, bollente, in un angolo, ed il vapore che ne fuoriusciva portava nell’aria di quella piccola stanza un profumo che rendeva tutto un po’ più familiare; quella era una delle poche cose che lo rilassavano, un piccolo risveglio della memoria che lo riportava un po’ a casa ma che, come sempre, sarebbe scomparso nel giro di qualche minuto.

Nessun messaggio, niente di nuovo sulla scrivania; solo gli appunti sulle manovre della giornata e qualche rapporto da controllore prima di incontrare il generale, per la riunione della domenica mattina.

Un vento forte, potente, arrivava dal mare quel giorno; lui si fermò per un attimo davanti alla finestra che dava su Ford Island: poteva vedere le otto corazzate ben allineate, a due a due, stagliarsi sull’azzurro del mare.

L’interfono dette il suo annuncio ed un attimo dopo la porta si aprì.

“Entra pure Walter, accomodati”

Nonostante gli anni trascorsi insieme, potevano concedersi queste piccole informalità, solo quando si trovavano da soli.

Bastò un solo sguardo al generale:

“Come stai? Non hai l’aria di essere troppo in forma. Ci sono stati problemi questa settimana?”

“No, nessun problema. Le esercitazioni di martedì sono andate abbastanza bene, anche se mi dicono di non aver ancora risolto il problema con il puntatore per i 340mm. E tu che mi dici? Ci sono novità? ”

“Niente di rilevante, il preavviso di 10 giorni fa sembra non ci riguardi. Mi preoccupano piuttosto i sabotaggi che potremmo subire da parte dei residenti.”

“Allora intensifica i controlli e tienimi aggiornato. Se non c’è altro, credo che possiamo….”

Si interruppe.

Guardò dritto negli occhi il suo amico, come se stesse cercando la risposta ad una domanda che nessuno gli aveva fatto.

Il generale, seduto, con le gambe accavallate, attese per un attimo, interdetto, poi aggrottò le sopracciglia cercando di interpretare quello sguardo.

Nessun movimento, sembravano essere in attesa l’uno delle mosse dell’altro; poi fu Walter a rompere quell’equilibrio:

“Ti senti bene?”

Non rispose, e non distolse neanche lo sguardo; i suoi occhi si socchiusero un poco, come a voler acuire la vista; poi, senza dire una parola si alzò dalla poltrona, si avvicinò alla finestra, ed aprì le due ante lasciando correre lo sguardo lungo tutta la linea dell’orizzonte.

Il generale, seguendone i movimenti, si era alzato lentamente per raggiungerlo, cercando di non disturbare quella specie di concentrazione che l’altro sembrava aver trovato.

“Che cosa succede?”

“Walter che cosa senti?” rispose con una domanda.

Il cielo limpido della prima mattina era ancora carico di quel vento freddo che trascinava con se il salmastro, saturando ogni angolo della città.

Il generale provò a tendere i sensi, tutti quanti: non sapeva a che cosa si riferisse ed in quel momento non poteva escludere niente.

“Non sento niente, solo l’odore del mare.”

E in effetti, anche l’ammiraglio, ad occhi chiusi, la testa leggermente inclinata all’indietro, sembrava protendere il naso verso l’esterno, per annusare l’aria, per percepire qualcosa.

Poi di scatto si girò verso, a capo chino, e con le braccia tese in avanti  afferrò il generale per le spalle. Erano di nuovo l’uno di fronte all’altro.

“Ed ora? Adesso che cosa senti?”

Evidentemente il monsone stava per arrivare e portava con se il primo carico di pioggia, perché si cominciava ad udire, in lontananza, un rombo cupo, provenire dal cielo; ed anche se l’aria appariva ancora pulita, il fragore pareva aumentare velocemente.

“Credo stia per piovere, di questi tempi è normale”

L’ammiraglio lo guardò con una punta di sdegno, insoddisfatto della risposta che aveva ricevuto; poi si voltarono insieme verso la finestra.

In fondo, sforzandosi di spingere lo sguardo sin laggiù, si poteva vedere il cielo farsi scuro, nuvole grigie, pesanti, avvicinarsi sin troppo velocemente, e con loro un tuono costante, pauroso, sempre più potente.

Quel minuto sembrò non finire mai.

Il generale, fronte tesa, braccia lungo i fianchi, come gli inermi, incapace di pronunciare anche una sola parola, sbalordito di fronte a ciò che stava prendendo forma di fronte a lui; l’ammiraglio, costretto a reagire, ma incastrato tra l’incredulità e la rabbia, già consapevole di ciò che sarebbe stato di li a poco.

Il peggior inferno che avrebbero potuto immaginare si stava per abbattere su di loro: la porta si spalancò con uno schianto contro la parete; il segretario, con il terrore negli occhi, aveva fatto irruzione nell’ufficio tenendo un foglio stretto tra le mani, nella cui intestazione era indicato:

Washington, 7 Dicembre 1941, destinatario: Ammiraglio Kimmel, Pearl Harbor, Hawaii.

*

Il Bove

“L’ultimo lo fai te!!”

Me lo aveva detto, con quella ghigna che non sopportavo più, e alla fine l’ultimo era arrivato.

“Forza, ora lo prendi, vai di là, e lo sistemi!”

Porca puttana…

Presi un attimo di tempo per pensare, a chissà cosa poi, e sentendo gli occhi puntati, decisi di muovermi.

Mi alzai con fatica: dopo 11 ore di tensione, 132 chili sulle gambe si facevano sentire.

Mantenendo sempre una certa distanza di sicurezza, feci un gesto con la testa, ad indicare la direzione da prendere, e “l’ultimo” capì.

 

Mi sembrava incredibile: da quel momento la mia vita sarebbe cambiata per sempre.

Solo che non doveva andare così, e non so neanche come mai non sia riuscito a tirarmi indietro quando ancora potevo farlo.

Come avevo fatto ad essere così ingenuo?

Conoscevo da tempo lo Zuga, sapevo quanto fosse inaffidabile, matto come un cavallo e perennemente fatto di coca. Perché mi ero fidato di uno così?

Forse perché anche io, in fondo, tanto normale non ero.

E come potevo esserlo!

In casa ero dovuto crescere in fretta; c’era poco da divertirsi di fronte alle mani anellate di mio zio. Per me dico, perché lui, invece, pareva trovare la cosa abbastanza divertente.

Da allora era cominciato il declino, lento, immutabile, della mia vita.

Sono cose che possono accadere, ad un certo punto la vita comincia a piegare verso il basso, non si sa perché e non si riesce a fermare la caduta.

Ok.

Troppo presto però. Non può essere così per un ragazzino che cerca di tirare avanti quel mozzicone di famiglia come può.

Così, era cominciata male ed era andata avanti anche peggio.

All’inizio solo furti, per rimediare qualche soldo; piccole cose, saltuarie, qualche mano tesa da amici che poi si è rivelata più viscida di quella dei nemici…

Il salto vero lo avevo fatto con una rapina ad un distributore di benzina: quella era stata la prima volta che avevo lavorato con lo Zuga. Era facile: uno aspettava in macchina, con il motore acceso, l’altro entrava, ripuliva e via.

Ne avevamo fatti tre o quattro, poi lo Zuga aveva cominciato a farsi prendere la mano e dalle armi finte era passato quelle vere. Non mi piaceva; mi ero allontanato un po’ perché prima o poi sarebbe andato storto qualcosa ed io non volevo aggiungere casino alla mia vita già abbastanza compromessa.

Il fatto è che non puoi tirare avanti così per sempre. Non puoi continuare a rischiare di essere beccato ogni volta che metti il naso fuori di casa, a vivere nell’ombra, solo, senza amici fidati e senza una donna accanto, perché non te la puoi permettere.

“In qualche modo devo uscirne” pensavo,

“In qualche modo devo chiudere e ricominciare”.

Queste erano le parole che mi giravano in testa, giorno dopo giorno, quando lo Zuga mi beccò di nuovo.

Aveva conosciuto due tizi che, a quanto diceva, si muovevano sul sicuro.

Uno era italiano, si era presentato come “il Moro” ed in effetti aveva i capelli corvini; l’altro era un armadio di quasi due metri, dal nome impronunciabile, così tutti lo chiamavano “il Russo”.

Lo Zuga aveva una cosa da offrirmi: la possibilità di risolvere una volta per tutte, le miserie della mia vita.

 

Ecco, mentre camminavo, avessi potuto urlare sotto quel passamontagna, gli avrei chiesto volentieri se era così che pensava di risolvere le mie miserie!

 

Tutto era andato storto. E lo avevamo capito sin dall’inizio, da quando avevamo visto che all’interno della banca invece di tre, c’erano cinque persone: tre impiegati e due clienti. Avevo fermato lo Zuga e gli avevo detto che era meglio mollare. La riposta fu veloce:

“Bove, stai zitto. Ora siamo qui e lo facciamo!”

Il Russo era rimasto in silenzio e per il Moro non c’erano problemi.

Dentro la banca invece, di problemi ce ne furono. Quel rincoglionito del Moro, non solo non aveva contato le persone che erano entrate, ma non si era neanche preoccupato del direttore, chiuso nel suo ufficio ancor prima dell’apertura degli sportelli; così, mentre noi ci preoccupavamo di bloccare gli impiegati, quello aveva dato l’allarme!

“Professionisti, gente che va sul sicuro…. come no!”

In un attimo la rapina era diventata anche sequestro di persone, avevamo degli ostaggi, ed a me non sembrava davvero possibile di essermi ficcato in un casino simile.

Il peggio però doveva ancora arrivare.

Lo Zuga, fatto come non mai, aveva subito perso la testa ed aveva sparato alla ragazza che si trovava vicino a lui; ora lei era a terra, a faccia in giù, in mezzo al sangue e non sapevamo neanche se fosse viva o morta.

Poi si era girato verso di noi e con una smorfia ci aveva detto che non lo avremmo lasciato solo in quel puttanaio, che avremmo dovuto fare la nostra parte. Ed a me disse che sarebbe toccato l’ultimo ostaggio.

 

In quel giorno di delirio era successo di tutto, con la polizia che aveva isolato lo stabile ed i TG che mandavano in onda la diretta…

Ora stavamo camminando lungo il corridoio, lui due metri davanti a me. Non facevamo una bella coppia: io con quel cazzo di cappuccio in testa, la pistola puntata, la pancia sporgente in avanti ed i piedi a papera; lui, piccolo, magro, con la zucca pelata tranne che per la ciambella attorno alla nuca, tremava ad ogni passo.

Tremava perché sapeva come sarebbe andata a finire; ma con la sua, sarebbe finita anche la mia vita.

Avevo la mente vuota, ripulita di ogni pensiero, anzi, probabilmente non riuscivo a pensare a niente. Mi muovevo un po’ imbambolato, intorpidito, quasi anestetizzato.

Alla fine del corridoio, sulla sinistra si trovava l’ufficio del direttore e pensai di portarlo lì dentro.

Appena lui scomparve dietro l’angolo, fu il buio.

Sul momento non capii e d’istinto mi voltai indietro; chiamai lo Zuga, ma non ebbi risposta; poi pensai che non avevo più la situazione sotto controllo; il tizio, nel buio, sarebbe potuto scappare, nascondersi, oppure armarsi con qualche cosa e colpirmi.

Non trattenni la paura, mi affacciai all’angolo del corridoio e sparai due colpi un po’ a casaccio, altezza uomo, nella direzione in cui credevo si trovasse.

Nessun grido di dolore.

Rimasi in ascolto, in attesa che il fischio scomparisse dalle orecchie: man mano che il sibilo svaniva, affiorava in sottofondo, dal basso, qualcosa che conoscevo bene: il lamento del mio ostaggio, vicinissimo a me.

Era passato solo qualche secondo, e la luce tornò. Lo guardai.

Non aveva neanche provato a scappare; si era solo accasciato a terra, annichilito dalla paura di morire; e questo lo aveva salvato, evitando i colpi che avevo esploso.

Che cosa c’entrava lui con quella storia? Perché doveva pagare con la vita le pazzie di quattro disperati?

Gli chiesi di alzarsi, ma non ci riuscì. Era come ipnotizzato dalla mia mano armata, ma cercava anche i miei occhi.

Così lo accontentai: mi sfilai il passamontagna, sapendo che da quel gesto non si torna indietro, e cercai di sostenere il suo sguardo implorante.

Vinse lui.

Per me era finita; mi abbassai e posai la pistola a terra.

Il diversivo aveva funzionato: la polizia stava già entrando.

 

*

Bianco

Per qualche metro non toccai neanche terra.

Provai ad aprire l’occhio, ma tutto ciò che riuscii a vedere, furono quattro ciabatte bianche, sfondate sui fianchi, che si alternavano a mezzo metro dal mio naso.

Così girai la testa, per capire. Inutile.

Poi, di colpo, tutto si fermò, quando i miei capelli sfiorarono una parete di metallo, lucida, fredda; e persino questa puzzava di quell’odore acre che non riuscivo più a togliermi dal naso.

Solo qualche secondo e quella si mosse. Si mosse perché non era una parete.

Finalmente lasciarono la presa e sentii la porta chiudersi alle mie spalle.

Riuscivo a tenere solo un occhio aperto; l’altro lo sentivo gonfio, con le palpebre appiccicate forse dal sangue, forse dal sudore, forse da entrambi.

Detti subito uno strattone con la spalla destra. Niente.

Allora provai con la sinistra. Niente.

Di nuovo con la destra, più forte. Ancora niente.

L’unico effetto era di ruotare su me stesso, facendo perno sui piedi.

Stanco e fradicio di sudore tentai un’ultima spinta: fu debole, ma bastò per farmi cadere, e lo feci senza neanche mettere le mani davanti a me; l’impatto con il pavimento però non fu così duro, ma piuttosto attutito, ammorbidito.

Il viso a terra premeva proprio sul bulbo tumefatto e sentii la testa scoppiarmi dal dolore.

Non so per quanto tempo rimasi in quella posizione, fermo, immobile.

Da lì, con la vista rasente terra, ebbi una vertigine. Non distinguevo più il pavimento, dalle pareti e dal soffitto; tutto sembrava omogeneo, monotono, senza soluzione di continuità sia per le forme che per i colori; ogni angolo di quel buco era fatto della stessa materia e modellato con la stessa trama.

Era certamente la vista con un solo occhio che mi faceva perdere una dimensione, e che rendeva tutto così piatto.

Silenzio.

Silenzio spinto direi, di quelli che ti infilano nel cranio un sibilo acuto, continuo, come un filo trascinato da un ago che entra da una parte, attraversa il cervello, ed esce dall’altra. Neanche il ronzio delle lampade difettose mi fu concesso: quella incassata nel soffitto funzionava benissimo.

Solo una cosa sentivo forte: il rantolo del mio respiro; inspiravo l’aria schifosa di quel posto, carica del suo aroma metallico, la spingevo con forza nei polmoni e quella, prima di uscire, mi lasciava in bocca il suo timbro acido, come l’aria che si respira nelle autofficine.

Sputai la saliva accumulata, e sul bianco di quel pavimento morbido, gli schizzi rossi, brillanti, non furono assorbiti dal tessuto ma rimasero integri, come piccole sfere sparse attorno alla bocca.

Sfinito mi girai a faccia in su e senza la pressione, sentii subito allentarsi il dolore alla testa; rimasi così per un po’, a godere del sollievo come fosse il premio per la conquista di quella posizione.

Poi sollevai la palpebra, e la speranza di scoprire che era stata solo un’illusione svanì immediatamente: non era cambiato niente.

Un’unica lampada al neon illuminava quel posto; mi parve glaciale, penetrante, quasi a voler scandagliare anche ciò che si trovava dentro di me.

Fu in quel preciso momento che cominciai a sentir cambiare l’aria; un soffio leggero muoversi attorno al mio corpo, come se qualcuno mi avesse sfiorato con un gesto.

Solo che non c’era nessuno accanto a me, né finestre in quella stanza.

Occhi puntati, orecchie tese, antenne direzionate a cogliere qualunque mio movimento, respiro o pensiero che fosse. Ogni singola sensazione, ogni singolo impulso di dolore veniva captato, analizzato e archiviato.

Non avevo il coraggio di emettere nessun suono, nessuna richiesta d’aiuto, paralizzato dalla paura di essere intercettato.

Dopo tanta attesa, le congetture si erano fatte certezze, le teorie erano state dimostrate ed io ne ero la prova tangibile. Tutto quadrava, tutto andava come doveva andare.

Mancava solo l’ultimo anello: il mezzo. In qualche modo dovevano entrare, doveva pur esserci un passaggio!

Poi, come fosse stato suggerito al cuore ed al cervello, in un attimo capii: era la luce.

L’unica cosa alla quale nessuno di noi può sfuggire, che costantemente ci avvolge, ci nutre, l’unica cosa di cui hanno bisogno tutti gli esseri viventi!

Mi sentii perso: chiuso in una stanza quadrata, vuota, senza neanche un posto in cui nascondermi e ripararmi da quel fascio bianco come la luce delle stelle, capii che ormai ero diventato preda, fu chiaro che ciò che volevano era il contenuto, per poi disfarsi del contenitore.

Adesso la paura si era infilata violenta dentro la braccia, le gambe, il corpo; mi ero pisciato addosso ed il tanfo forte di ammoniaca, benché nauseabondo, era la cosa più umana che sentivo.

Prima che la paura mutasse in terrore, la disperazione mi spinse a rialzarmi per provare a scappare, a sottrarmi al mio destino, e solo quando provai a farlo mi resi conto in che razza di situazione mi trovassi.

Mi stavo abbracciando da solo, avvolto in me stesso, imprigionato in una sorta di tuta bianca accessoriata di fibbie e lacci.

Tutto vano; ogni movimento mi si ritorceva contro; allo stesso tempo carceriere di me stesso e vittima di una forza troppo più grande di me.

Non opposi più resistenza.

Ricordo lo sgomento, opprimente, sfociare in un pianto non più di rabbia, ma di resa, di abbandono della vita.

Fu allora che la porta si aprì di nuovo: le lacrime sfuocavano la vista del mio unico occhio ciclopico; sentii solo la voce:

“Oscar, è arrivato il dott. Petri, per la terapia del pomeriggio”.