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I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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La mia Ceres
(monologo interiore. L’autocoscienza) La Ceres non era una birra qualunque. Era il limite esatto della mia onnipotenza da giovane scapestrato convinto di saperla lunga. Un confine traballante tra il “posso fare tutto” e il “non capisco un cazzo della mia vita”. Ancora oggi ho dei forti dubbi su cosa ho capito e no! In quelle notti senza pubblico e senza luna, col vetro scuro infilato tra le gambe mentre guidavo verso un esilio scelto con la stessa lucidità con cui si sceglie di farsi del male, tipo “ guidare a fari spenti nella notte per vedere se è così facile morire”, la bottiglia diventava la mia compagna più onesta. Perchè di onesto là fuori non c’era nulla. Rifletteva una faccia che non avevo il coraggio di guardare direttamente. Io ero il mio unico testimone, seduto al volante come un disertore che non trova una guerra migliore da combattere. Il freddo della bottiglia durava più di quanto avrei voluto. Tracciavo confini invisibili fra il suo aspro alcolico e il grigio dell’alba che arrivava sempre come un cazzo di fallimento, ricordandomi che nessuna fuga è mai vera, perché ti porti dietro le ossa, i debiti e le rovine e quel sangue che ancora, nonostante tutto ti scorre dentro. Una notte, la lingua ferita dai troppi pensieri vomitati male, mi rivelò il dolore di aver lasciato le mie radici marcire nelle stanze dove ero cresciuto. Stanze diventate caverne. Echi di una famiglia che si sgretolava in silenzio. Aspettavo un arcobaleno che non esisteva, un’illusione sentimentale, un emozione e intanto l’unica luce reale era quella che filtrava tra un sorso veloce e una camel tirata come se dovesse salvarmi dal mondo. Ero innamorato, sì. Ma più del mio bisogno di scappare che di quella pelle che mi cercava. Più della mia ferita che della donna. Scambiavo la fuga per salvezza, la solitudine per libertà, la crepa per identità. Ogni notte buttavo fuori un pezzo di me, come se potessi svuotarmi fino a diventare innocuo. Ricordo ogni Ceres che ho bevuto. Ogni amaro che mi ha lasciato in bocca. Era libertà, certo. Ma era anche una solitudine che non avevo il coraggio di chiamare col suo nome. 2022
Id: 2921 Data: 19/11/2025 11:11:28
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Un certo momento
C’è un punto, nella vita, in cui ti guardi allo specchio e ti accorgi che non ti riconosci più. Non è solo questione di rughe o di tempo passato, è qualcosa di più sottile. È come se fino a quel momento avessi vissuto dentro un corpo non tuo, dentro una storia scritta da altri. Ti dici: “Va bene, ho fatto quello che dovevo, ho avuto il mio ruolo, ho tenuto botta”, come si dice. Ma sotto quella corazza, qualcosa inizia a muoversi, a sbriciolarsi piano. A me successe all’improvviso, ma con radici lontane. Forse avevo già sentito i primi scricchiolii, solo che non volevo ascoltarli. Fino a un certo punto della mia vita ho creduto di sapere chi fossi: il lavoro, l’uniforme, la divisa, le notti, il senso del dovere, il fumo, le corse al parco, le donne che passavano come stagioni. Tutto sembrava bastare, ma dentro era solo nebbia. Poi, a un certo punto, è arrivato il silenzio. E nel silenzio, la domanda. Quella vera: “Chi sei, davvero?” All’inizio è una sensazione sgradevole. Ti manca qualcosa ma non sai cosa. Ti senti come uno assetato nel deserto, che scava la sabbia sperando di trovarci l’acqua. È una fame di identità, e brucia più della fame vera. Capisci che non basta respirare per dirsi vivi, non basta lavorare per dirsi realizzati, non basta amare per dirsi interi. Ci vuole un riconoscimento. Non degli altri, ma tuo. Ci sono momenti, rari, in cui la nebbia si apre. Non è una rivelazione mistica, non è nemmeno gioiosa. È più simile a un’alba fredda: la luce arriva piano e tu resti lì, a guardarti come se vedessi un estraneo. Ma è un estraneo che ti assomiglia terribilmente. Ricordo quando lessi di Gertrude Stein e del suo ritratto fatto da Picasso. Lui la dipinse con il volto spigoloso, maschile, scomodo. Lei all’inizio non si riconobbe. Poi sì. Capì che quello era il suo volto vero, quello che fino a quel momento aveva evitato di guardare. Non era un’immagine, era una rivelazione. Ecco, succede così anche a noi, se siamo abbastanza onesti da non scappare. La mia identità non l’ho trovata in un’illuminazione, ma a colpi di dolore, di errori, di amori sbagliati. Ogni perdita è stata un pezzo di specchio che si rompeva, ma anche un riflesso in più che si rivelava. Oggi credo che conoscere se stessi non sia un traguardo, ma una resa: smetti di fingere, lasci che le crepe mostrino la forma di chi sei davvero. E quando ci arrivi, quando finalmente ti guardi e non hai più paura di quello che vedi, capisci che la vita, con tutto il suo casino, valeva la pena solo per arrivare lì.
Id: 2917 Data: 07/11/2025 14:01:27
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Sulla mia ragione
Ci sono delle cose che agli altri sembrano leggere, quasi inutili. Io invece le sento addosso come macigni invisibili. Forse esagero, lo so. Mi succede spesso di scambiare una nuvola per un enigma, un dettaglio per una verità da smontare con cura. È il mio modo di restare vivo, anche quando la vita mi stanca. Dicono che sia l’età, e forse hanno ragione. Ma se questo è un difetto, me lo tengo stretto. Perché in questa ostinata necessità di capire, di sezionare ogni cosa con la logica e l’istinto, ancora trovo la mia salvezza. La mia ragione non è un porto sicuro, è una marea che mi travolge e poi mi restituisce alla riva. È morire e tornare, capire ed esistere. È guardare i passi fatti e quelli che tremano ancora nell’attesa. Dentro c’è confusione e armonia, come due amanti che non riescono a lasciarsi. La mia ragione è un lampo che si accende, brucia, si spegne, e poi, puntualmente, ricomincia. novembre 2016 (2025)
Id: 2915 Data: 03/11/2025 05:00:26
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Appunti di un pianista alla fine del mondo (fuori dal coro)
Non ho mai sopportato le regole. Soprattutto quelle decise da altri. Ho sempre fatto di testa mia, anche quando la testa era un campo pieno di mine. Ascolto tutti, sì, ma alla fine decido io. Sbaglio? Può darsi. Ma almeno è roba mia, e di nessun altro. Per me la libertà di pensiero è sacra, più della verità stessa. La critica, quella onesta, quella che taglia, è la sola forma di rispetto che conosco. Ma la gente vuole essere accarezzata, non lacerata. Non è sempre stato così. L’impulsività che avevo l’ho sepolta con gli anni, anche se a volte scalpita sotto la pelle. Ora osservo. Scruto. Mi perdo nei dettagli e a volte mi sfugge il quadro, ma pazienza, me ne fotto! La verità si nasconde proprio lì, tra le crepe sui muri e i graffi nella pelle. Guardo le persone, le loro storie, i loro drammi minuscoli. Mi piace rubare pezzi di vita. E se devo scegliere qualcuno da tenere accanto, scelgo sempre il nemico. Lui almeno non finge, non sorride per convenienza. Non porta con se sorrisi paralitici. È onesto nel suo odio, e questo mi basta. 2022
Id: 2914 Data: 23/10/2025 08:56:12
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Il Treno
[Un breve componimento scritto nel lontano 2015, quando avevo ancora, nella scrittura, tutta quella ingenuità, parole buone e messe al posto giusto. L’originale era completamente diverso, non era il caos di oggi (lo preferisco). La scrittura era tenera e patetica, diciamo anche “ben educata”. Si sentiva la voglia di chiudere tutto con un fiocchetto di prima comunione. Lo adattato alla scrittura di oggi, quella con il sangue tra le dita.] Il treno corre, sì. Non per arrivare, ma per scappare da tutto quello che resta fermo. Troppe cose immobili. Fuori la vita passa, si sbriciola in case che non conoscerò mai, in alberi che nessuno abbraccia più. Dentro, visi stanchi, dita che scorrono su schermi per non guardarsi davvero. Io aspetto, come sempre. Non so cosa, non so dove. L’attesa è il mio binario. Le mani sul grembo, lo stesso grembo che ha fatto nascere quattro destini. Li guardo oggi e so che non mi appartengono più, ma li riconosco negli occhi quando ridono. Lì, mi sento ancora vivo. Ogni tanto riaffiorano i volti che mi hanno costruito: mia madre col suo sorriso ostinato, mio padre che si inventava storie per far sembrare meno brutto il mondo. Li porto dentro come cicatrici buone, come nomi che non servono più dire. Anche tu, nonna. Tu che davi tutto, anche quando non avevi niente. Sei il mio pensiero quieto, quello che non si sporca mai. Degli amici ricordo le risate e i silenzi, le ubriacature di troppo e i ritorni che non ci sono stati. La vita ci ha dispersi come cenere al vento, ma ognuno di loro mi ha lasciato addosso una ferita con la sua forma. E poi tu. Compagna, amante, sopravvissuta insieme a me. Di noi resta la fatica, la pelle, i silenzi. Ma anche quella testarda voglia di restare, nonostante tutto. Il treno andrà avanti, e prima o poi ci butterà giù. Ma finché ci saremo, vaffanculo al capolinea. Febbraio 2015 - 2025
Id: 2913 Data: 22/10/2025 21:31:11
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Alla ricerca di me
Sono sempre alla ricerca di me stesso. Forse mi cerco anche negli altri. Sono cerebrale, imprevedibile, difficile da vivere. Con me si rischia il corto circuito. Oggi, che ho già percorso più di tre quarti di vita, ho iniziato a spogliarmi dalle maschere, ad ascoltare quella parte di me che non ha bisogno di platee, ma solo di una voce che parli la mia stessa lingua: diversa, muta. Gli altri non capiscono? Me ne fotto. Io sì, mi ci ritrovo. E se accade, vuol dire che è vero. La mia è sempre stata una guerra interna. Due condottieri mi abitano la testa: uno grida “andiamo a prendere a calci in culo il mondo”, l’altro fuma su un letto disfatto, sussurrando che è tutta una farsa, una gran puttanta. E l’equilibrio? Forse non c’è mai stato. Dicono che io abbia un ego da bestia affamata. Ma io non ho mai voluto arrivare primo. Sono sempre stato dietro le barricate, a guardare i fantocci vestiti da lupi scannarsi tra loro. Da lì, da dietro le quinte, si vede tutto. Non sono mai stato in pace. Se lo fossi, sarei uno dei tanti che chiacchierano alla fermata del tram. Io devo fermentare dentro. Ho bisogno di rumore di fondo: chiamatelo pensiero, memoria, rimpianto, visione. Non mi sono mai accontentato dell’equilibrio mentale. Io cerco la visione. Sempre. G.L.
Id: 2911 Data: 22/10/2025 05:03:00
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Perchè scrivo
Scrivo per sopravvivere. Non per piacere, non per farmi leggere, non per ottenere applausi. Scrivo solo perchè se non lo faccio, esplodo. O peggio: mi svuoto. Un pò come i 5 km di corsa la mattina, se non li faccio è la fine. Scrivo da circa 40 anni circa e i miei testi nascono quasi sempre da ferite vere, mai rimarginate. Scrivo di ricordi, di pelle bruciata, di fantasmi che non mi lasciano la notte. Di donne sparite e riapparse. Scrivo di solitudine che ho imparato ad ascoltare e del dolore che mi tengo stretto, perchè almeno quello è sincero. Scrivo con la stessa urgenza con cui suono. Si, il pianoforte è stato sempre il mio pallino, sin da quando avevo 15 anni. Lo studio del pianoforte non è solo disciplina, è terapia. E lì, tra i tasti bianchi e neri, che riesco a mettere ordine dentro al mio caos. Quando improvviso, quando lascio andare a fanculo le mani, quando non guardo la tastiera, è come se il dolore trovasse un suono, e il silenzio smettesse di fare paura. Scrivo ascoltando la mia musica, il blues, il jazz, il soul, una costante nella mia vita, una fede, un modo per dire quello che le parole, spesso, non riescono più a reggere. Non so quale sia il mio stile di scrittura oggi, ma mi rendo conto che non è gentile. Le mie parole non chiedono permesso, non bussano: entrano con i piedi sporchi di terra nella testa del lettore, almeno spero. Se proprio dovrei collocarmi, direi che la mia scrittura è esistenziale, sporca, viscerale, emotiva. Qualcosa che mischia Bukwoski e Dostoevskij, con le vertigini di Camus e le tragiche maschere di Pirandello. Non ho mai creduto alla letteratura che vuole insegnare, semmai credo in quella che ti fa sanguinare. Quella che ti prende per il collo e ti sbatte davanti a uno specchio, dicendoti la verità. Quella nascosta, quella che cerchi di nascondere come un vomito andato male. A volte l’immagine riflessa è orribile, ma è vera. E io, della verità, anche quella più scomoda, non ho mai avuto paura, anzi, ho cercato sempre di coltivarla. Scrivo perchè ho bisogno di raccontare la mia vita senza filtri. Perchè anche le parti più schifose, più sbagliate, più fragili, meritano di essere messe su carta. Scrivo di me, ma dentro ci troverai anche te, si tu che stai leggendo, se hai il coraggio di riconoscerti. Non cerco redenzione. Cerco solo di dimenticare chi sono stato. E chi sono adesso. E se nel frattempo riesco a disturbare qualcuno, a farlo piangere, incazzare, ridere o pensare, anche solo per un attimo, allora ne è valsa la pena. E in culo al mondo! agosto 2025
Id: 2909 Data: 20/10/2025 06:39:27
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Fuori Posto
Per me esistono due tipi di persone: chi semplicemente è, e chi invece riesce a toccare le mie corde più profonde. Solo questi ultimi sanno entrare in connessione con il mio cervello già fottuto di suo. E non faccio distinzioni: può essere un barbone incontrato per strada, un macellaio con le mani sporche di sangue o un borghese del cazzo con la cravatta stirata e l'orologio d'oro. Quando scatta quella risonanza (non quella medica, lo specifico per gli idioti di passaggio), non m’importa da dove arrivi né chi sia. Gli altri cercano attenzioni, visibilità, applausi. Io, invece, cerco solo vibrazioni autentiche. Forse è per questo che mi sento sempre fuori posto: parlo una lingua che pochi capiscono. E credetemi, per me è un difetto. Nella mia vita, solo pochissimi hanno saputo sintonizzarsi sulla mia frequenza disturbata, e quando succede, anche solo per un istante, mi sembra di respirare davvero.
Ottobre 2025
Id: 2908 Data: 20/10/2025 06:22:32
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Quella domanda...
(Riflessioni sulla Libertà e la Felcità)
La libertà non è un diritto, ma un rischio immenso. È quel momento in cui ti trovi solo, di fronte al mare, e capisci che non c'è nessuno da incolpare, nessun Dio da pregare, nessuno da aspettare. Ci sei solo tu e quella linea sottile dove il mare si sposa col cielo. E quell'orizzonte ti interroga, senza dire parola, chiedendoti se sei disposto a guardarti davvero. La libertà non è la foto che scatti, ma è ciò che ti attraversa dentro mentre scatti. È il gelo dell’acqua che ti morde le caviglie, la luce che ti taglia gli occhi, il silenzio che ti scava fino all'osso. È l'accettazione che la vita sia una sequenza di attimi non ripetibili, che accadono, e che ognuno di essi sia una piccola morte, una piccola resurrezione. La Felicità, al contrario, è una parola troppo bastarda. Essa illude di essere pace, ma è solo una tregua effimera. È quell’istante in cui non pensi, in cui non ti difendi dalle cose. È quando l'alba cessa di essere un orario e si rivela una singola, inaspettata possibilità. Due gabbiani sulla sabbia. Un corpo solo che scruta l'onda. Il vento entra nelle ossa come una carezza crudele. È lì che tutto si ferma. Lì che il tempo si piega su se stesso e ti concede quell'attimo di eterno. E tu, in quel secondo, smetti di essere spettatore: sei parte del tutto. Sei solo un piccolo frammento che respira il mondo, e che non chiede salvezza.
Settembre 2025
Id: 2907 Data: 18/10/2025 19:21:12
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Non so quante volte ho cercato me stesso
Di notte, nelle stanze vuote, con la testa appoggiata al muro e il cuore che faceva più rumore del silenzio. E di giorno, tra la gente, fingendo di essere uno di loro, mentre dentro mi chiedevo cosa cazzo ci faccio ancora qui. Una volta mi fermai davanti a un negozio. Non ricordo che merce vendeva, ma il colore viola di qualcosa mi scosse la testa come una doccia fredda. Poi la bolla è scoppiata, e il rumore è tornato. Ogni tanto penso che sia tutto un brutto scherzo: un mondo di marionette appese a fili invisibili, che si muovono per paura di restare ferme. Io ci ho provato a tagliarli, quei fili. Più di una volta. Forse sono malato. O forse sono solo troppo sensibile per vivere in mezzo a questo circo di maschere e rumori. Ho analizzato tutto: me, il mondo, gli altri, quel Dio che non esiste, il nulla. Ho guardato così a fondo dentro di me che a un certo punto ho avuto paura di non uscirne più. Ma poi la paura è diventata casa, e io ci sono rimasto a vivere. A volte, prima di dormire, chiudo gli occhi e cerco di sentire solo il battito del mio polso. Lento. Regolare. È l’unica parte di me che non mente né urla. Dura dieci secondi. Poi riparte l’inventario. E allora continuo a cercarmi. Nel fondo di un bicchiere. In un pianoforte che suona male anche quando non tocco i tasti. In una parola detta male. In un abbraccio che non arriva mai. Ho cercato l’amore, quello vero, quello che ti scioglie l’anima. Ma ogni volta che ne ho sentito il calore, mi sono spaventato. E sono fuggito. Perché amare, per me, è come guardarsi allo specchio. E io, con me stesso, non ho mai fatto davvero pace. A volte penso che non troverò mai quel punto di equilibrio tra il troppo e il nulla. E forse, nel fondo di questa oscurità, c’è un punto minuscolo che assomiglia alla pace. Non è felicità. È solo l’assenza di lotta. Un’ammissione stanca. E forse va bene così. Forse l’unica verità che mi resta è continuare a cercare, a inciampare, a risalire dal pozzo. Perché finché cerco, almeno esisto. ottobre 2024
Id: 2904 Data: 17/10/2025 20:32:03
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La letteratura è morta
La letteratura è morta il giorno in cui hanno iniziato a pubblicare tutti gli influencer del cazzo. Non serve più scrivere bene, basta “piacere”. Basta una foto con la tazza di caffè, un libro aperto (che non hanno mai letto) e una didascalia tipo “sono fragile ma forte” per essere chiamati scrittori. Intanto chi scrive davvero — chi sputa sangue, chi si scava dentro con le unghie — resta nell’ombra, ignorato, perché la verità non è vendibile e fa male. Il pecoraio di gente vuole solo consolazioni, non specchi. Io invece credo che la scrittura debba far male, deve graffiare, deve lasciare il segno come una cicatrice sempre aperta. Io scrivo da tanti anni e non lo faccio per piacere a qualcuno, né per raccattare cuoricini e like del cazzo. Scrivo perché se non lo faccio, mi marcisce l’anima. Muoio. Scrivo per dire quello che gli altri non hanno il coraggio nemmeno di pensare. (almeno io ci provo) La mia scrittura non profuma ma puzza, ha l’odore della vita vera, di errori, di sangue e di solitudini che non si possono postare. Sarebbero troppo scomodi. Non ho la necessità di essere letto da tutti, ma solo da chi ha le palle di reggere uno specchio senza filtri. La mia scrittura non consola, non accarezza: graffia, brucia e a volte ti fa a pezzi come fa a pezzi me. Ma quando finisci di leggere, ti resta addosso. E non se ne va più. ottobre 2025
Id: 2903 Data: 17/10/2025 20:23:30
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Amo e odio Pirandello
Lo dico senza incertezza con quella lucidità che viene solo dopo aver guardato troppo a lungo nell’abisso. Lo amo perché ha avuto il coraggio che pochi hanno avuto: non quello di offrire risposte, ma di scoperchiare tutte le domande possibili. Ha tolto l’uomo dalla sua “confort zone” e gli ha sbattuto iin faccia se stesso. Nudo. Contraddittorio. Inafferrabile. Ha mostrato che non siamo mai davvero uno, ma cento, mille persone. Che viviamo continuamente mascherati, non per inganno, ma per pura necessità. Perché l’uomo, se dovesse restare senza maschere, senza finzioni, non potrebbe più vivere. Sarebbe sopraffatto dal silenzio del suo stesso volto. Lo amo perché ha rivelato la violenza che ci abita. Non quella chiassosa ma la più sottile: la violenza dell’identità imposta, delle convenzioni sociali, dell’ipocrisia quotidiana. Ha visto che l’essere è un rebus che ci divora continuamente, e ha avuto l’onestà di non nasconderlo. In un’epoca che pretendeva di spiegare tutto, lui ha difeso il mistero. Ha mostrato che la logica, quando è assoluta, porta al disastro. Che la ragione può fallire, e che spesso fallisce. Ma lo odio. Lo odio perché non ha avuto pietà di nessuno. Perché ci ha lasciati senza una via di scampo, senza un appiglio. Ci ha mostrato l’inganno, sì, ma non ci ha dato alcuna redenzione. Neppure l’illusione della speranza. Solo per pochi, forse per nessuno, esiste uno spiraglio. Per gli altri, il dramma eterno della ricerca continua. Una verità che non si lascia mai afferrare, che si ritrae ogni volta che crediamo di toccarla. Eppure, anche in questo, c’è una sorta di giustizia. Una dignità spietata. Pirandello non ci consola, non ci accarezza, né tanto meno ci salva. Ma ci obbliga a guardarci dentro. E forse questo è l’unico gesto di verità possibile. Nel teatro dell’assurdo che è la vita, la sua opera non ci dà il senso, ma ci ricorda che esistere è resistere al non senso. E in questa resistenza, forse, c’è già tutta la nostra grandezza. Maggio 2014 - 2025
Id: 2902 Data: 17/10/2025 06:33:47
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Fuori Mercato
Non sono mai stato una merce da banco. Il mio essere non è mai stato in vendita, il mio spirito non è un saldo di fine anno. E quando devio dalla rotta, la punizione arriva puntuale, salata, spesso esosa. Ma porto le mie croci, le mie vittorie e i miei naufragi, senza mai delegare a nessuno il peso della mia esistenza. Ci sono mattine in cui sbatto contro portoni già chiusi, con la rabbia che tuona nel vuoto. Altre, in cui il passo si fa felpato, la porta si chiude piano, e l’uscita di scena è discreta, per non disturbare la quiete. Chiunque io sia stato, chiunque io sia ora, chiunque io diventerò, non sarò mai l’eco della massa. La mia ribellione affonda le radici in un tempo remoto: forse una scheggia impazzita nel mio codice genetico, forse un’antica devianza. Oggi la celebro. Ne sono fiero. Mentre la società si getta in una dissoluzione senza precedenti, io mi scopro sempre più orgoglioso di essere un’anomalia, un’increspatura nella massa uniforme. Le pecore con le pecore. I lupi con i lupi. Non cercatemi nei mercati, tra le bancarelle dell’ovvio. La mia casa è tra i ruderi, in cima a una montagna solitaria, dove la neve resiste anche d’estate. In culo al mondo! @ottobre2025
Id: 2901 Data: 14/10/2025 09:22:16
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Improbabili Memorie dal Sottosuolo
(il vorticoso flusso di coscienza) Poi ci sono i rumori. Sempre. In testa, attorno, dentro. La pioggia sul tetto, il traffico che non smette, le voci dei vicini che pensano di non sentire. E io che sento tutto, ogni sfumatura, ogni cazzo di dettaglio che gli altri ignorano, come se il mondo fosse un film senza audio. Vorrei buttare via i ricordi, ma restano appiccicati come gomma sotto le scarpe. Ogni volta che penso di averli dimenticati, ritornano, e ti giuro, sempre, ti stritolano. Le donne, le facce, le notti che non torneranno più… e io lì, a contare le macchie di luce sulla parete, a inventarmi storie che nessuno leggerà mai, a cercare un senso che non esiste. La solitudine… cazzo, la solitudine è un animale domestico che morde appena ti distrai. Non la vuoi, eppure ti accompagna. Ti osserva con occhi che sanno troppo di te. E quando credi di dominarla, ti scopri a parlare da solo al vetro del bagno, a ridere di battute che solo tu puoi capire. E poi il silenzio. Quello vero, che ti entra dentro e ti schiaccia. È un pugno nello stomaco, eppure lo cerchi. Perché senza quel silenzio, senza il niente intorno, non riusciresti mai a sentire te stesso. E io voglio sentirmi, anche se fa male. Sempre. Il passato ti viene addosso quando meno te lo aspetti. Un odore, un rumore, un colore e bam: sei lì, in una stanza che non esiste più, con gente che non esiste più, a litigare con te stesso perché non sai se era meglio scappare o restare. E ogni scelta ti torna addosso come una frusta. Ricordo le notti a Palermo. La città che ti mastica e ti sputtana senza pietà. Le luci tremano sulle strade bagnate, il fumo delle sigarette non sazia mai, e io cammino, cammino, cammino… sempre. A volte penso che correre sia l’unico modo per non pensare, ma i pensieri ti rincorrono e ti superano, cazzo se ti superano. E le persone. Sempre le persone. Quelle che ami, quelle che odi, quelle che non capisci e che ti affascinano allo stesso tempo. Tecla, Giusi, mia madre, le facce della polizia, della vita… tutte attaccate al cervello come adesivi che non vengono mai via. E io rido, piango, parlo da solo, perché è l’unico dialogo che funziona. La morte. Sempre in agguato. Non come idea lontana, no. Come una stanza vuota che ti segue ovunque, che ti osserva. Ogni respiro, ogni passo, ogni cazzo di decisione ti ricorda che è lì, pronta. E io gioco con lei come fosse un vecchio complice, senza fidarmi, senza mollare davvero. Eppure scrivo, continuo a scrivere, perché se smetto… allora sì che è finita. Anche se ciò che scrivo fa male, anche se è sporco, anche se nessuno lo leggerà. Ma almeno io l’ho visto. L’ho sentito. L’ho sputato fuori. Il corpo… cazzo, il corpo non mente mai. Ogni dolore, ogni brivido, ogni tensione ti ricorda che sei vivo, maledettamente vivo. Il cuore che batte troppo forte quando ricordi certe notti, certe mani, certe bocche… e il diabete, la pressione, tutto che urla dentro di me e io che mi sento una macchina arrugginita che cerca di correre ancora. La pelle che sente, le dita che tremano sui tasti del pianoforte, ogni nota un pugno, un respiro, un ricordo. Improvvisare è come vomitare la vita: note che non torneranno mai più, che non appartengono a nessuno se non a te, e che ti rendono libero e schiavo nello stesso tempo. E il fumo. Sempre il fumo. Due pacchetti al giorno, forse tre quando la testa non ce la fa più. Ogni boccata un pezzo di passato che ti ritorna in gola. Sigarette come piccoli totem di sopravvivenza, mentre il mondo ti passa accanto e tu lo osservi, sempre più cinico, sempre più stanco, ma incredibilmente curioso. La mente… quella stronza che non si ferma mai. Ti trascina dentro corridoi bui, stanze piene di urla e silenzi, ti mostra ciò che non vuoi vedere e ti fa sentire tutto, tutto insieme. Emozioni che si accavallano, pensieri che si annodano come liane, e tu che cerchi di non impazzire… ma impazzisci lo stesso, in silenzio, con un sorriso cinico stampato in faccia. E poi il niente. E poi tutto. Tutto insieme. Il dolore, il piacere, la memoria, l’adrenalina, il rimpianto, la rabbia, la noia… un unico fluido che ti attraversa e ti lascia sporco, esausto, eppure incredibilmente vivo. Sempre vivo. Scrivere è l’unico modo per restare, anche se il mondo se ne frega, anche se tutto è fottutamente inutile. La vita è una barzelletta raccontata male. Senza ritmo, senza punchline, e la gente ride lo stesso, forse per imbarazzo. Io non rido più. Annuisco e accendo un’altra sigaretta. Ci ho provato a capire, lo giuro. Ho cercato senso nelle persone, nei libri, nella musica, nei tramonti che tutti fotografano. Ma il senso non c’è, o forse c’è solo per chi si accontenta. E io non mi sono mai accontentato, nemmeno quando avrei dovuto. Sono fatto così: mi piace scavare. Anche quando so che troverò merda. Ci scavo dentro, nella testa, nel passato, nelle parole non dette, nei silenzi di mia madre, negli sguardi delle donne che ho perso. E ogni volta che credo di aver trovato qualcosa, mi accorgo che era solo un’altra illusione. Ma va bene. Forse vivere è questo: continuare a cercare anche quando sai che non troverai un cazzo. E ridere lo stesso, magari con un filo di vino in gola e la musica giusta in sottofondo. La gente parla di speranza. Io parlo di resistenza. Resistere al vuoto, alla stupidità, alla routine, a te stesso. Resistere all’idea che tutto finisca nello stesso modo, nel silenzio, nella polvere. Ogni mattina mi alzo. Corro al parco, anche se fa male. Bevo il mio mate, accendo una sigaretta, scrivo due righe. Per un momento — uno solo — mi sento in pace. Poi torna il rumore. Ma va bene così. Il rumore è vita, e finché lo sento, so che non sono ancora morto. Mi guardo allo specchio e non mi riconosco. Non per le rughe, non per i capelli che se ne vanno. È lo sguardo che mi frega. Quello sguardo stanco, di chi ha visto troppo e non ha più voglia di fingere entusiasmo. Però c’è ancora una scintilla, piccola, bastarda, che non vuole spegnersi. Quella che ti tiene in piedi quando tutto dice di mollare. Forse è orgoglio. O follia. O semplicemente la mia dannata incapacità di arrendermi. Arrendersi, per me, è morire due volte: nel corpo e nell’anima. Non credo più nelle grandi redenzioni. Non credo nei finali felici, nelle persone che cambiano, nelle promesse eterne. Credo solo nei momenti veri: una risata sincera, un bicchiere di vino bevuto senza pensare, un silenzio condiviso con chi capisce senza parole. Il resto è rumore da buttare via. Ho passato una vita intera a cercare risposte, ora mi basta farmi le domande giuste. Chi sono? Non lo so. Cosa voglio? Nemmeno. Ma so cosa non voglio: mediocrità, ipocrisia, finto buonismo, sorrisi di plastica. Preferisco un “vaffanculo” sincero a mille strette di mano false. Forse è questo, alla fine, il mio equilibrio: stare in bilico tra rabbia e tenerezza, tra vita che scappa e morte che aspetta. E quando tutto tace, quando il mondo sembra dimenticarmi, allora sì, riesco quasi a sentirmi libero. Un uomo qualunque, sporco di vita e verità. Ma vivo. Ancora vivo. C’è un momento, prima che arrivi il sonno, in cui tutto tace. Anche la testa. Sospensione. Come se l’universo trattenesse il fiato e ti lasciasse vedere la verità senza i suoi orpelli. Lì capisci: la vita non è fatta per essere capita. È fatta per essere vissuta, male o bene, ma vissuta. Guardo il soffitto, ascolto il ticchettio dell’orologio. È un suono familiare, rassicurante. Ogni “tic” un ricordo che se ne va, ogni “tac” uno che torna a bussare. E io resto lì, nel mezzo, testimone del mio stesso caos. Penso a mia madre, al suo sorriso prima che il male la portasse via. Penso a Tecla, al suo odore che ancora mi cammina dentro. Penso a Palermo, al sangue, alle sirene, alla polvere che non se ne va mai. E penso a me, a questo corpo che resiste e a questa mente che non smette mai di cercare, anche quando tutto è perduto. Forse non serve capire, serve solo accettare. Accettare che la vita è un esperimento senza metodo, una prova generale senza spettacolo finale. Ognuno recita come può, inciampa, sbaglia, improvvisa battute che non fanno ridere nessuno. Ma va bene così. Perché anche nel buio più nero, c’è sempre un piccolo bagliore che non si spegne. E quello — quella fiamma che non vuole morire — forse è l’unica forma di eternità che ci resta. Mi giro sul fianco. Chiudo gli occhi. Domani tornerà il rumore, la corsa, la rabbia, la sigaretta. Ma stanotte no. Stanotte c’è silenzio. E nel silenzio, finalmente, ci sono io. 2012 -2025
Id: 2900 Data: 12/10/2025 00:10:50
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La necessità del silenzio
A volte mi chiedono se la necessità di stare da solo mi pesa, come se fosse una malattia, un difetto di fabbrica. Io sorrido, tanto non capirebbero un cazzo. Non è che non mi piaccia la compagnia, è che certe presenze, con il loro chiacchiericcio insipido, fanno più rumore del silenzio. E allora mi rifugio nella quiete sospesa, dove la mente si fa limpida e i pensieri, invece di scappare, cominciano a parlarmi. Per me la solitudine non è isolamento, è una sorta di manutenzione dell’anima, una specie di tagliando che devo fare per disintossicarmi dal caos. È quel momento in cui spogli la mente di tutte le menzogne e ti racconti la verità, perché solo così puoi sopravvivere. C’è chi la teme perché, appena si trova senza i rumori umani, sente il proprio vuoto urlare. Io lo guardo in faccia, quel vuoto, forse con un po’ di cinismo, e poi ci faccio pace. Il buon Nietzsche diceva che “chi non può restare solo è schiavo di un altro.” E aveva ragione. Solo chi sa stare con sé stesso, nudo e senza distrazioni, può incontrare davvero l’altro. Gli altri invece vanno in giro a riempirsi di gente, di notifiche, di schermi incollati al viso. Non stanno vivendo, stanno solo evitando di ascoltarsi. Questa mia profonda necessità di quiete, questa sensibilità che mi fa percepire il superfluo come un peso, la sento a volte come un difetto, un’anomalia. Eppure, proprio in questa nudità spirituale trovo il mio più grande appagamento. Certe sere, quando il mondo si spegne e rimane il rumore del vento, capisco quello che intendeva F. Pessoa: “Vivo senza compagnia, come chi ha letto tutto e ricorda tutto.” Ed è in quei momenti che sento la volontà di connettermi al mondo in modo autentico. Sto bene quando posso ammirare le nuvole scure che si incendiano al tramonto, o all’alba davanti al mare, dove il silenzio, le onde e quella palla rossa che si affaccia, mi riempiono di un senso di appartenenza che nessuna folla può dare. O quando la mattina corro a perdifiato tra i boschi e respiro come non mai. Sto bene quando riesco a connettermi con gli altri a un livello cerebrale, perché la solitudine mi ha insegnato a non tollerare interazioni superficiali. C’è una dolcezza strana in quel sentirsi malinconico ma lucido, come se la malinconia fosse una forma più intelligente di felicità, nutrita dalla contemplazione del vero. La solitudine non è per tutti. Ci vuole fegato per guardarsi dentro senza usare l’anestesia. Gli altri scappano, io resto. Non per eroismo, ma per necessità lucida. Alla fine, quando sei solo e ti ascolti davvero, non solo senti il mondo respirare dentro di te, ma riscopri la tua collocazione in esso. E capisci che non sei mai stato solo: eri solo troppo circondato per accorgertene. In culo al mondo. @G.L ottobre 2025
Id: 2899 Data: 10/10/2025 19:07:56
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Amo il Silenzio

Detesto le persone che parlano incessantemente, immerse nei loro racconti infiniti della loro esistenza che, nella maggior parte dei casi è piatta. Per ogni argomento hanno la loro esperienza unica, sembrano aver viaggiato ovunque, visto tutto, fatto ogni cosa. Non sopporto chi è privo di empatia, o peggio ancora, chi finge di averla solo per riportare l’attenzione su di sé, per far brillare nuovamente il proprio ego. Nutro invece, una predilezione per chi parla poco, anche se sono portato alla diffidenza, (una delle mie grandi contraddizioni). Preferisco ascoltare piuttosto che parlare; l’ascolto mi risparmia l’imbarazzo di non avere nulla da dire, mi fa sentire compreso e mi permette di non parlare quasi mai di me stesso. A chi interessa davvero? Non credo di avere nulla di così interessante da condividere con “gli altri”, o forse sì, ma non pretendo che altri mi ascoltino. Le cose più importanti preferisco scriverle (una mia abitudine che coltivo da tanto tempo), oppure fotografarle… rubare attimi di vita, ma solo in bianco e nero, dove la verità non si può nascondere. Nelle foto a colori la realtà è falsata, ognuno vede quello che vuole vedere. Quando incontro qualcuno che parla poco, spesso intuisco che questi custodisce una storia straordinaria, ed è allora, solo in quel momento, mi sento spinto ad aprirmi, a parlare. Quando questo accade, gradualmente, quella persona riesce a far emergere la mia vita, a farmi condividere con lei quei frammenti di esistenza che credevo perduti nei remoti angoli della mia memoria. In questo modo, ho l’opportunità di riscoprire me stesso e magari qualcosa in più. Ma non lo vado a dire in giro. - 2022 -
Id: 2805 Data: 24/06/2024 13:08:38
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Lettera a mia madre
È da un po’ che non ti parlavo più, forse sei andata via o hai avuto altro da fare o semplicemente sono stato distratto. E’ da un po’ che volevo parlarti, ho una foto davanti e ti sto guardando, il capo appoggiato da una parte, sembra che guardi altrove. Sai, qui è tutto normale o forse no…, lei è in cucina o alle prese con la madre, Francesco sta girando l’ultima scena del nuovo cortometraggio, Luca infilato nella rete, crede di essere l’ultimo hacker sulla terra. Mattia sta crescendo e vuole fare il cuoco, oggi ha quattordici anni e infine Andrea… gioioso con il suo trolley pronto per il primo viaggio scolastico. Io… io ho lasciato alle spalle quello che è stato “il mattino” per diciannove anni perché a un certo punto il mio cuore ha ceduto il passo e adesso ho molto tempo per pensare. Oggi sono ventitré anni che non ci sei più e perdonami ma non è semplice esprimermi per dirti quanto ci manchi. Non hai conosciuto i miei figli lo so, ma loro conoscono te, forse meglio di chiunque altro; non trascorre giorno che non racconto a loro di te di cosa sei stata e di cosa sei, di quella vita fatta di noi, di occhi felici e travagliati. E’ da un po’ che volevo parlarti, di cosa è stato quaggiù in tutto questo tempo. Adesso siamo ovunque, in qualsiasi luogo della terra, siamo con tutti e nessuno, non abbiamo più confini, tutto in tempo reale, siamo pieni d’illusioni che scorrono come lenzuola piene di noia, sembra tutto scontato, abbiamo perso un po’ di tenerezza, forse siamo più cattivi, ma i respiri di chi manca quelli no! Noi non li abbiamo persi. Volevo parlarti, dirti che ti sento sempre dentro di me, perché io sono parte della tua carne, del tuo sangue, del tuo cuore e adesso sto bene credimi. Volevo dirti che un altro pezzo di cuore è andato via – ma sono sicuro che già lo sai – e che altri cuori si sono riuniti quaggiù, altri… hanno deciso di recidere il cordone… Sono trascorsi ventitré anni e avrei tanto da raccontarti. Alle volte piove e guardo fuori dalla finestra queste lacrime che cadono e mi pare di sentire la tua voce e sento come un profumo che sale, un sorriso, uno sguardo e un nodo alla gola. Ciao mamma.
Id: 1580 Data: 11/04/2015 09:38:53
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Dolce Nera
Ho sempre pensato, dato il mio viscerale trasporto letterario verso lo “ zio Luigi Pirandello “ che, come lui, il mio feretro se ne andasse via senza nessun accompagnamento di rito, da solo, in silenzio, su un carro tirato da solo due cavalli stanchi. Ma così purtroppo non è stato! La Dolce Nera, ho sempre chiamato così la morte, giunse imprevista una notte di un giorno qualunque. Non importa il giorno, ne il mese ne tanto meno l’anno; molti pensano invece che l’anno sia importante, scongiurano sempre che arrivi più tardi possibile. Perché ? dico io!. Il bello della vita è proprio questo, le cose impensate e inattese colorano spesso la nostra esistenza, come una cascata fulminea di pietre rotolanti sull’asfalto di una strada affogata di auto. Così me ne andai proprio come “ quando cade un quadro”, come scrisse A. Baricco nel suo “ Novecento”; il quadro, di sorpresa, senza nessun motivo apparente cadde giù; così la mia vita giunse all’epilogo. Non mi resi conto di nulla, del resto come potevo? Avvertì solo una grande leggerezza e di botto mi ritrovai attorniato da persone a me sconosciute. Fluttuavo tra loro, passavo attraverso loro, ma non capivo il perché di quello strano stato, ne mi posi delle domande. Sentivo solo che quella condizione improvvisa forse era naturale… quasi mi divertivo a guardare tutti quegli sconosciuti che brusivano qualcosa che le mie orecchie non riuscivano a percepire.
Id: 704 Data: 29/02/2012 08:07:05
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