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Raccolta di poesie di Annalisa Scialpi
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

L’amore di una madre

 

L’amore è duro.

 

L’amore di una madre

è amore che spacca le rocce,

che dona pelle, viscere,

nervi e cuore.

 

L’amore che resta nel deserto.

 

L’amore che parte

nonostante tutti i venti contrari.

 

L’amore.

 

Più forte di una mastice.

Più forte del tempo.

Più forte di tutto il dolore

                       del mondo…

 

L’amore.

 

L’amore di una madre.

*

Spingi il dolore

Spingi il dolore,

anche se fa male,

anche se sembra una catena;

 

spingilo

alle soglie più estreme

del tuo sentire,

 

accoglilo;

è un bimbo che piange

e ha le labbra larghe

per il troppo urlare…

In fondo alla notte

 muta, la stella,

 che non giunge mai.

 

Spingilo

nei tuoi ricordi rottamati,

tra i legni sparsi dei sogni spezzati,

le rotte conchiglie d’occasioni mancate,

le lacere radici disseccate…

 

Tu stringi,

stringi forte il dolore;

ti prego no, non scappare!

 

E’ il tuo maestro,

la caverna segreta

in cui ti puoi inginocchiare,

pregare,

risvegliare

e libero, ricominciare…

*

Solo un’altra roccia

Ti rompesti l'armatura

sulla tua stessa sabbia;

denti e memorie in frantumo

come conchiglie spezzate.

 

Stupido come un soldato,

indietreggiando sul ghiaccio

che ti lambiva

come un sepolcro d'oro.

 

Ero io.

 

E per un attimo sospettai

che i tuoi occhi sentissero,

 

ma era preghiera

gocciolata coi pipistrelli

della mia carne strappata

 

e tu solo un'altra roccia;

uno spuntone nel costato. 

*

Un figlio

Un figlio è una parola,

forse un gancio

o un nodo.

Forse niente.

 

Ed io su quel niente,

dentellato come sega,

mi spaccai.

Più e più volte.

 

Schizzi di carne

sulla lama;

sul gancio.

 

Perchè figlio

è una parola

o forse nodo,

o forse niente.

 

O forse il niente

in cui annegarono i padri.

*

I fiori bianchi

Questo tu temevi

che, densa come olio,

ti entrassi nell’osso.

 

Per questo tossisti.

“Scusa” dicesti,

e avevi una falce

sulla lingua.

 

Poi venne il giorno

dei fiori bianchi

come i vestiti dei bambini.

Il tuo silenzio si fece denso,

più dell’olio.

 

Scolorò la pietra;

Quella a cui rimanevi attaccato

solo per codardia,

pur non sapendola tua.

 

“Scusa” va’ a dirlo a lei,

dicesti alla libellula.

 

E quella venne da me,

dicendomi che i fiori bianchi

erano la tua neve.  

*

Camminando per le strade di Roma

 

Tra queste mura, queste chiese,

questi acquedotti e tesori nascosti

tra rifiuti sparsi, cerco…

 

E forse sono nel ticket di un bus

che rotola, non visto,

tra stranieri occhi con l’agrodolce

dei mari attraversati nelle pupille.

 

La malinconia morde randagia i calcagni,

il chiarore dei tuoi cieli è irreale;

la luce pigmenti di carta stracciata

come coriandoli di un carnevale infinito

tra spazi vuoti come anestesie.

 

Cammino per le tue strade, vestita di deserto,

con la paura incisa nel nervo della fierezza,

tra i tuoi ruderi urlanti parole perdute

tra tutta questa gente che t’assale,

senza riuscire a vederti mai.

*

Arianna e il Minotauro

Venni per ucciderti,

per farti uccidere da lui,

di cui ora non ricordo più

                              il nome;

lui che era principe,

lui col sole negli occhi,

lui che era biondo

e aveva le unghie pulite.

 

L’incendio di te mi espropriava,

feroce,

ma io non sapevo

verso quale mare

stavo precipitando.

 

Prevedibile era il viaggio

di Teseo

-ah, ora ricordo!-

Quasi certo.

Salda, così mi sembrava,

la nave.

 

La notte prima del misfatto

mi tappai le orecchie

per non sentire i tuoi ruggiti.

E non osai chiamarti fratello

o amato

non osai confessare

di quali inenarrabili incendi

si ustionava il mio corpo

sull’effige nelle carni

scolpita dal tuo odore.

 

Bestia, ti chiamavano,

ingorda e assassina.

Ed io stessa vidi il sangue

sulla tua insaziata bocca.

E colma di spavento,

mi unì

a chi ti urlava contro.

 

Immondo, cosi ti dicevano,

sputando sul tuo nome.

 

Ed io selsi Teseo,

il delitto maggiore.

 

Ma non potei mai

cancellare l’arena.

 

Il labirinto

era la nostra arena,

mio amato

ed io acqua che danza,

ininterrotta,

colma di segreti.

 

Colma di te.  

 

 

*

Varcando la soglia della Porta Magica

A Roma è possibile visitare, quasi nascosta in Piazza Veneto, nel quartiere Esquilino, la Porta Magica di villa Palombara, in origine appartenuta al marchese Massimiliano Savelli Palombara, noto alchimista. La porta è l'unica sopravvissuta perchè la villa è stata 'rasa al suolo' dopo l'unità d'Italia, con altri edifici della zona, per costruire palazzi e isolati borghesi 'in perfetto stile piemontese'. L'unica a salvarsi fu la porta magica, sulla quale è possibile reperire, attraverso la simbologia espressa sulla porta e sull'architrave, alcuni principi dell'Arte Regia, cioè dell'Alchimia. Essa parte come tecnica chimica che ha come scopo la formazione della pietra filosofale, detta anche Oro Potabile. Ma l'alchimia è soprattutto una disciplina spirituale che mira al perfezionamento dell'essere spirituale, affinchè attraverso di esso non solo si raggiunga l'androginia, ma si possa mettere anche il proprio sapere a servizio dell'umanità. Il dio egiziano Bes, guardiano della soglia, sorveglia la porta. Il suo scopo è tenere lontani i semplici curiosi. E permettere al devoto, a colui che è disposto a passare dalla 'porta stretta' di compiere il suo viaggio. Visitare la porta magica è, di per sè, un percorso iniziatico, che apre le porte verso l'approfondimento dell'Arte Regia. E spinge il visitatore, a patto che non sia un turista distratto, a porsi delle domande cruciali: Chi sono? Che senso sto dando alla mia esistenza? Buona visita!
 
Varcando la soglia della Porta Magica
Ho varcato la soglia,
attraversando la tua piazza,
densa di nuvole e di mistero.
 
Per farlo divenni essenziale,
nuda come il cinabro,
lapis tortuoso, ma ardente.
 
Entrai,
morendo ancora nell'athanor;
fuori ancora strepito di sinedrio.
Ma i veli si squarciarono.
 
Spianata, ormai, era la via
e il dio Bes era un angelo
guardiano di altri illimitati mondi.
Annalisa Scialpi

*

Feroce eternità

 

Foglia mortale cade

dall’acero immortale,

 

gira e rigira,

mozzicona sul marciapiede.

 

Gela di febbri, il monte,

cicalando tra le vene

una feroce eternità.

*

Ci sono guerre

 

Ci sono guerre senza bombe,

senza sangue,

senza morti apparenti.

 

Ci sono guerre

dove le bombe sono il silenzio,

le mitragliatrici l’ignoranza,

le armi biologiche la cecità.

 

Ci sono guerre

dove il vessillo è una ragione

anomala, ipertrofica,

che ammazza la pietà.

 

E sono guerre

senza esclusioni di colpi

dove le vittime

sono anche carnefici,

perché hanno scelto di esserlo.

*

La storia di Ermanno

           La storia di Ermanno: liberarsi dagli obblighi d’amore inconsci per realizzare il proprio destino   

    C’era una volta un giovane appartenente ad un’antica dinastia di guaritori. Sfortunatamente, il governo aveva perseguitato la sua gente e sua madre era stata costretta ad affidare il bambino ad una famiglia della città vicina. Lo aveva lasciato innanzi alla porta di quella casa ed era fuggita per tornare al suo villaggio, temendo l’arresto e la prigionia. Nella famiglia, composta di tre fratelli, erano tutti molto alti, con teste gigantesche che urtavano il soffitto e toraci strettissimi. Il padre faceva il fabbro nella bottega al pian terreno, mentre sua madre si occupava delle faccende domestiche. Era una ‘famiglia’ davvero singolare. Viveva, infatti, isolata dal mondo. Anche perché un loro parente, vittima dell’abuso di alcool e violento, era morto di cirrosi epatica. E da allora, tutti scansavano quella famiglia di beoni. L’isolamento li aveva resi ancora più rudi. Non c’era affetto, in famiglia, nè ideali, né bellezza, né nulla per cui valesse la pena vivere. Suo padre adottivo era, inoltre, avaro e teneva il denaro chiuso in una cassetta. Sua madre era pingue, querula, insoddisfatta. Odiava i fiori, perché, come i figli, richiedevano delle cure. L’unico motivo per cui li aveva messi al mondo era riempire il suo vuoto. E visto che non ci era riuscita, li odiava ancor più. Odiava, in realtà, tutto ciò che richiedesse cura. Preferiva lamentarsi o spettegolare. Quando si pranzava e si cenava il cane, vedendo suo padre, si nascondeva. Ed egli metteva sul tavolo un bastone di legno, con cui colpiva chiunque disturbasse il pasto con parole o altro.

     “Sta’ zitto, non vedi che tuo padre è stanco?” diceva sua madre se voleva comunicargli qualcosa. Così Ermanno imparò a tacere, a ‘farsi gli affari suoi’, ad essere silenzioso come un gatto. Ma nel tempo, tenne un diario, a cui diede un nome, per liberarsi del suo dolore e trovare un po' di senso alla sua vita. In quel tempo frequentava la scuola, ma senza una particolare gioia. Tutto gli sembrava stantio e falso. Tuttavia un giorno venne una nuova insegnante di disegno, la quale permise ai ragazzi di disegnare liberamente. Mostrò loro degli album di alcuni animali e disse loro di ispirarsi a quei disegni.

    Ermanno, che quel giorno era molto triste, perché voleva scappare di casa, disegnò un leopardo delle nevi. Quando lo mise sul foglio, il leopardo era così fatto bene, che Ermanno lo contemplò, fino ad udirlo parlare:

“Ciao Ermanno, non scoraggiarti. Io e te percorriamo, soli, il sentiero. Questo serve per la resistenza. E’  questa virtù che ci aiuta a scalare le cime”.

Ermanno era stupefatto. Voleva raccontare all’insegnante l’accaduto, ma anche continuare il suo dialogo.

“Sei bellissimo, Leopardo, ma ti prego, dimmi come posso arrivare lassù, con te”.

Ma prima di lasciare al leopardo la risposta, disegnò delle splendide cime innevate e una, altissima.

“Ti prego, leopardo delle nevi, non lasciarmi qui, portami con te, perché dove vivo io non c’è bellezza e neve, ma solo bruttezza e fango. Ti prego, portami con te… “ disse, con forza, uscendo di soppiatto dalla classe col foglio in mano.

E quando ritornò a fissare il disegno per ricevere la risposta, vide se stesso, bambino, portato dal leopardo. Rivide la sua vera madre, il villaggio assediato. Il leopardo gli spiegò ogni cosa, poi gli disse:

“Non vedi? Io ti ho salvato e ti ho portato nel fango e nella bruttezza, affinchè tu potessi sentire più forte il richiamo delle tue origini e dirigerti verso casa”.

“Ma come, come farò?” disse Ermanno.

“Nello stesso modo in cui sei arrivato qui: devi immaginare. E credere fermamente che, un giorno, sarai proprio lì dove hai immaginato di essere”.

“Sarà il tuo amore a darti la forza per creare. Ma tu non dimenticarlo mai… Mai…”.

Quando l’insegnante di disegno raggiunse Ermanno in corridoio, allarmata, questi tacque sull’accaduto. L’insegnante era una donna in gamba, ma quello era il suo segreto di sciamano.    

    Quel giorno Ermanno tornò a casa con la segreta gioia nel cuore, ma vide che tutti erano riuniti attorno al tavolo.

“Abbiamo deciso che lascerai lo studio. Mangi pane a tradimento e devi imparare a guadagnartelo” bofonchiò suo padre.

Uno dei suoi fratelli lo guadò con un sorriso nel quale c’era qualcosa di diabolico.

“Ma io vorrei disegnare, diventare un artista”.

A quella parola ‘artista’ tutti risero, non conoscendone nemmeno il significato.

“Tu non sei nostro figlio” irruppe suo padre

“E nemmeno nostro fratello” dissero i fratelli in coro.

“Però il motivo per cui ti abbiamo preso non è mantenerti, ma esserci utile. Sei legato alle sorti della famiglia e questo è il tuo destino”.

“Mai” urlò Edoardo.

Con la sensibilità di uno sciamano, sentì che quelle parole entravano nel suo corpo come una specie di maledizione.

Di corsa, andò in camera sua e prese il quaderno col leopardo, in lacrime. Chiuse la porta.

Il leopardo, come se fosse stato presente all’accaduto, gli disse di stare calmo. La fede lo avrebbe aiutato.

“Ricorda che tutto volge al bene” disse.

Ermanno era spaventato per le parole di suo padre e il leopardo, per tranquillizzarlo, gli svelò la formula magica “Nell’amore, sciolgo ogni catena”.

Ermanno ripetè la formula più e più volte, ma sentiva sempre una sensazione di pericolo.  

“Ricorda quello che ti dissi: il tuo amore e la tua capacità di immaginare ti salveranno. E usa la formula magica: è potentissima”.

Ermanno non lo sapeva, ma tutti quegli ostacoli stavano rafforzando la sua fede.

Così, quando suo padre venne a bussare alla sua porta, per condurlo in bottega, Ermanno riuscì a vincere la disperazione. Lavorava con suo padre e i suoi fratelli. E riusciva a resistere alle loro prepotenze, immaginando il momento in cui sarebbe salito nella sua camera a fare nuovi disegni del leopardo delle nevi e a parlare con lui. Così, nel tempo, accumulò tantissimi disegni, custodendoli in un album che nascondeva sotto l’armadio.

Ma, un giorno, sua madre si accorse dei disegni e lo disse agli altri fratelli. Il più malvagio li bruciò in giardino in sua presenza, mentre un altro fratello lo teneva imprigionato. Il dolore di Ermanno fu così grande che divenne egli stesso un leopardo delle nevi. E liberandosi dalla stretta, assalì il fratello, penetrando i denti nel suo collo. Poi fuggì.

Corse senza guardarsi indietro, fino a quando, guidato dall’istinto, raggiunse il villaggio. Lì tornò nel corpo umano mentre, in fondo al cuore, ricordò la casa innanzi alla quale si trovava e il sorriso di sua madre.

Anche sua madre era una sciamana. E come se conoscesse la sua storia, lo abbracciò e gli disse:

“Non devi sentirti in colpa. Hai fatto ciò che andava compiuto per essere uno sciamano: ritrovare il potere dell’immaginazione e della fede, sciogliere gli obblighi d’amore, ribellarti alle ingiustizie. Il tuo fratellastro andrà nel mondo di Ade e forse da lì si redimerà dalla sua malvagità, dovuta alla repressione della natura selvaggia. Tu hai superato tutte le prove e ora sei pronto per essere uno sciamano, tra la tua vera gente. Questa è la tua ricompensa.

      Ermanno sorrise e lanciando lo sguardo oltre il villaggio, vide il leopardo delle nevi che si voltò un’ultima volta, per poi scomparire oltre l’orizzonte.    

 

 

*

Viaggia leggera

Viaggia leggera,

come se non avessi nessuno da attendere,

nessuno ad attenderti.

 

Metti nel tuo zaino

una scatola di sorrisi,

la voglia di stupirti

e di scoprirti,

un po' di santa follia

e viaggia…

 

Leggera sulle ali della fede,

certa che questo mondo sta mutando

e tu stai andando

verso il tuo vero villaggio.

 

Lascia nel paese dei mattoni d’argilla

gli schiavi ciechi alle loro fatiche,

lascia i tuoi dubbi,

i rimorsi,

il senso del dovere,

il senso del peccato,

i legami che ti strozzano,

il fango che ti blocca

 

e và, leggera,

segui le libellule,

la fragranza delle cime

addita il sentiero,

 

il villaggio che cerchi

dista poco d lì,

 

perché è già qui,

nel tuo cuore,

lo senti?

 

E’ già qui…

*

In fondo alla notte

Quando scrivi una poesia e la lasci andare, come foglia d'autunno, muori un pò anche tu. Per questo scrivere è una delle più grandi esperienze che si possano fare. Ti fai canna vuota, raccogli umori, spiriti, emozioni... E impari a morire, per non morire più...
 
In fondo alla notte
 
Cammino per queste strade,
che ormai non m’appartengono più.
 
Mi sono persa ancora,
in un ricordo, in un amore;
la notte raccoglie briciole
di quello che fui.
 
Marciapiedi stanchi,
inutili vetrine;
affondano i piedi nel ghiaccio.
 
Forse un altro sole
nascerà dal mio dolore,
le stelle stanno solo
preparando il suo splendore;
 
nascoste là,
in fondo a questa notte
che abita il mio cuore.
 

*

Il pettirosso

Stamane, seduta su un dolore,
ho spinto lo sguardo
al cielo blu oltremare.
 
Accanto alla finestra
il dolce tulipano
stentava a aprirsi al sole
con tutto il suo clangore.
 
E poi è venuto lui,
col petto suo scarlatto:
"Ti porto una canzone,
ti dono un'emozione;
l'inverno hai superato
e un nuovo sole è nato".
 
E volando sul tulipano
è scomparso nel cielo lontano.
E quando il fiore piegato
infine ho guardato
ho visto che era fiorito
nel suo brillante rosso acceso.

*

La storia di Elio

La storia di Elio: trasformare la frustrazione e ritrovare l’amore perduto.

     C’era una volta un atleta di nome Elio, che aveva corso in gare importanti e vinto numerose gare. Il suo corpo era forte, muscoloso, elastico e il suo temperamento impulsivo, franco. Per questo suo modo di essere e per l’invidia della sua bellezza era spesso osteggiato, oltre che invidiato. Allora, per mostrare che dei cicalecci di paese non gli importava nulla, Elio prese a correre in paese a torso nudo e con pantaloncini cortissimi, anche in inverno. Inoltre dipinse la sua macchina con colori sgargianti e la decorò con perline colorate. Come sempre accade in simili circostanze, prima ci furono i pettegolezzi, poi fu ignorato. Nonostante tutto Elio vinceva ogni gara ed era la sua bravura a scatenare l’odio dei rivali, più che la sua eccentricità. Così, in una gara dei 5000 metri, un gruppo di atleti riempì la sua borraccia con dosi massicce di tranquillanti.Elio non solo perse la gara, ma inciampò, fratturandosi la caviglia. 

      La frattura lo costrinse a stare in casa. Ma, poiché egli era un atleta e soprattutto, un corridore, decise almeno di inseguire le sue emozioni. Fu la prima volta che sperimentò intensamente la frustrazione. La sentì come un fuoco nel cuore. Entrò più profondamente in essa. Il fuoco scoppiettava con pezzi di legna morbida. Elio immaginò di infilarsi le scarpe per la corsa e andò verso quel fuoco. C’era erba fresca e un ruscello vi scorreva accanto. Più in fondo vide un bosco con due cipressi al suo ingresso e desiderò di entrarvi. Ma, prima che potesse giungere lì, una donna gli si avvicinò. Era grassa e dal muso grinzoso.

“Chi sei” gli chiese Elio.

“Sono lo spirito della rassegnazione. Cosa speri di trovare là, in fondo al bosco? Forse la bella dai seni d’oro?”

Elio divenne freddo come un morto a quella vista. La donna aveva una gonna rossa che gocciolava come sangue.

“Va’ indietro, per te sarebbe molto più semplice. Hai la corsa, per vivere la tua energia. Non ti basta?”.

Elio avvertì una grande pesantezza, dopo aver guardato la donna negli occhi. Essi erano grandi, eppure spenti, come occhi di un morto. Quella donna lo rese infinitamente triste. E provò nel suo cuore una grandissima compassione per essa

“Cosa posso fare per te?” le domandò.

Per un attimo gli occhi della donna brillarono di stupore. Elio sentì che aveva toccato il suo dolore e una lacrima scese sul suo viso. Dal bosco sopraggiunse una creatura alata, dorata, simile a una libellula. Si posò sul suo torace e bevve la lacrima.

“Ho sempre desiderato di ballare e di essere guardata” disse.

“Se qualcuno mi guardasse sarei felice, perché potrei ritornare al mio sogno di bambina: danzare ed essere ammirata”.

“Danza allora cara, danza. Io ti guarderò”

La donna, piena di entusiasmo, danzò, dapprima goffamente, poi sempre più scatenata. Mente danzava, perse le sue vesti, che si trasformarono in un velo bianco. Ora il suo corpo era snello e al posto della vecchia donna, spuntò una fanciulla bellissima, di una bellezza inafferrabile. Il suo volto, magicamente, assumeva una diversa bellezza ogni volta che incontrava lo sguardo ammirato del giovane. Poi, finita la danza, la donna si trasformò in libellula e si posò accanto al suo orecchio.

     Grazie Elio di aver operato la magia. Il tuo amore mi ha trasformato e rotto l’incantesimo di uno stregone malvagio. Ora voglio farti un regalo, che è il mio segreto:

“Nulla è reale. Per questo ogni cosa può essere trasformata”

E dopo aver svolazzato un po' attorno al tuo sguardo, aggiunse:

“La tua compassione ti ha portato, naturalmente, a conoscere questo segreto. Infatti è la compassione che apre ogni porta. Ma ora conosci ciò che è alla base della magia: nulla è reale e tutto può essere trasformato. Il segreto è amare ogni immagine”.

Ma Elio era triste, perché la sua amata stava volando via sotto forma di libellula. E così, infatti, accadde e lei scomparve nel bosco.

Rimase lì, sconsolato. E pianse, mentre le sue lacrime si trasformarono in pioggia. E piovve sugli alberi, sull’erba, sui fiori, sul ruscello…

“Non hai ancora compreso” udì ad un tratto.

Quando sollevò lo sguardo, vide un tizio vestito da monaco, con una barba bianca.

“Chi sei” chiese l’inconsolabile giovane.

“Hai avuto un dono speciale, oggi”.

Elio smise di piangere e immediatamente, la pioggia cessò.

“Sì, rispose. Nulla è reale e tutto può essere trasformato. E tuttavia oggi ho ritrovato e perso il mio amore. Per cui questo dono non ha grande importanza”.

L’uomo, che sembrava un monaco, rise. Elio si irritò.

“Cosa c’è di divertente” chiese.

“Hai visto la bellezza e l’amore e hai voluto afferrare l’uno e l’altra. Se avessi riconosciuto l’uno e l’altro come parte di te, la bellezza e l’amore, spontaneamente, sarebbero venuti a te”.

Elio rimase deluso e provò amarezza. Sentì che le parole del mago erano vere e che non sapeva ancora amare.

“Quando emergerai da questo viaggio, avrai un compito: sviluppare in te tutte le qualità che hai veduto e apprezzato nella visione della tua amata. Quando lo avrai fatto, lei tornerà a te.

Elio fu felicissimo: quel viaggio dentro sé non solo aveva acceso il desiderio dell’amore, ma gli aveva anche indicato la strada per realizzarlo. Ora la sua vita aveva uno scopo più alto del semplice gareggiare e vincere. Così ringraziò il mago, al quale offrì la sua tristezza. Benedisse la radura, il ruscello, i fiori e il cielo e ritornò nella sua stanza.

La frattura guarì in poco tempo e fatto inspiegabile per molti, tornò presto a correre. Ma, questa volta, il suo fine non era più la vittoria in sé. Egli desiderò esprimere, attraverso la corsa, la bellezza del suo corpo che amò e nutrì e curò sempre più con amore. E trasformò la corsa in una danza sempre più perfetta. A volte, per questo, perdeva, ma la gente lo amava perché aveva qualcosa di unico da offrire. Tante ragazze del paese venivano ad assistere alle sue gare e ben presto, fu il giovane più ambito. Ma Elio aveva fatto una promessa a se stesso: solo quando avrebbe espresso il massimo della bellezza e dell’armonia, avrebbe scelto la sua donna.

     Così, in una delle corse, mentre attorno a sé la luce sfavillava come ali di colomba, capì che quello era il segno che la perfezione della bellezza era stata raggiunta. E dal suo cuore uscì un grido potentissimo, che era di liberazione. E fu in quell’estasi che vide libellule attorno a sé. Nel cuore sentì così tanta gioia che temette di morire. Le libellule si spostarono sul suo lato sinistro. E quando lui si voltò, vide lei. Era l’unica in piedi che applaudiva, mentre tutti gli altri erano delusi del fatto che avesse arrestato la corsa. Lei era l’unica ad aver compreso la sua devozione e la sua ricerca e l’unica che meritasse il suo amore. E ora era lì. Ed Elio sentì che lei non era fuggita, ma aveva aspettato che lui diventasse leggero come una libellula affinchè, insieme, riuscissero a volare.

*

Donna

A tutte le donne e alle donne che vivono nell'uomo...
 
Donna, asciuga le tue lacrime,
cheta i tuoi pensieri.
Non piangerai più.
Questo è il giorno in cui fiorisci
come musica d'alba,
tra crochi e viburni...
Questo è il giorno
in cui le illusioni del nostro tempo
cadono come castelli di sabbia.
 
Tu no,
non cadi, Donna,
ma come divina fenice risorgi.
 
L'urlo è ora canto
di acque limpide e chete,
che nutrono i giardini
dei tuoi figli dimenticati.
 
Donna, Regina,
è tempo di uscire
con le tue divine fiabe
dalla foresta che ti accolse,
per custodire il genio
della tua poesia,
il Sogno che sai,
che dei ci fece
e non schiavi di schiavi....
 
Immacolata fortuna,
è tempo ora di risplendere,
perchè il rosso di terrestri stelle
sparse sui tuoi capelli,
nutra questo deserto.
 
Si sanerà la vite,
rifiorirà il narciso,
la terra ancor berrà stelle
dai tuoi capezzoli pieni di grazia.
 
Perchè Grazia,
Immacolato Splendore d'Ombra
tu sei,
Divina generatrice del mondo
e di esso, regina.
Annalisa Scialpi

*

Trastevere violata

Sono rimasta nei tuoi vicoli

come un segugio d’antichi umori,

in bilico tra tavolini invasori

che ingombrano le tue vie.

 

Una rassegnata stanchezza

abitava i tuoi portoni,

incastrati in mura sfiorite

sui sampietrini divelti,

da passi adombrati.

 

La folla accalcata dietro trattorie

o negozietti di souvenirs,

presto si mescolò a una pioggia strana;

 

la fanfara pronta al saccheggio

svuotò le tue vie,

lasciando di te, Trastevere,

tra abusi e rifiuti,

scampoli di una magia che,

da tempo,

non t’appartiene più.

*

A volte

A volte sono stanca,

ipocrita, confusa

a volte

 

A volte sono febbre

che sale dalle ceneri

 

a volte

sono vuota

 

o affamata

come lupa nel deserto

e mangio dai cassonetti

delle idee in avaria

o dei sorrisi filtrati

 

prima

di accorgermi del delitto,

a volte.

 

Però sempre

mi spendo come l’onda

e la fede porta

sulla mia barca

tonnellate e tonnellate

di pesci d’oro.

*

Roma di notte

Quando dai tuoi nudi cieli

cade il velo della pietosa notte

tu mostri il tuo vero volto,

piangente sotto le luci degli hotel

e le ombre arrese tra immortali vestigia

in una spirale di bellezza e di spavento.

 

Allora il battito si fa veloce,

                         quasi furtivo

e tutte le lacrime del mondo

bagnano le tue stanche strade

di templi, segreti e porticati,

glissando dalla carità della luna.

 

Ed io così ti vidi, una notte,

zingara nella tua armatura oscura

a scuotere le ali appesantite dal giorno,

a penzoloni dai magnifici palazzi arresi;

 

e piovere da lì

il nettare scarlatto

di tutte le solitudini del mondo.

*

Sutura d’argento

La ferita sul cuore

sembra una bocca.

Vi respira Assenza. 

 

Sutura d'argento,

sul suo dolore,

è il canto di madre

nel canneto del cuore.

*

Al museo delle anime purganti

Nota: l'ironia della poesia è stata dettata dall'atmosfera di quel giorno in cui andai a visitare la chiesa del Sacro Cuore del Suffragio, a Roma. C'era un prete straniero, che era stato spostato da poco lì. Io mi ero dilungata in una conversazione sullo sciamanesimo e sulle 'anime in transito', concetto che mi sembrava molto affine a quello del 'purgatorio', ma il prete non era molto informato, per cui procedetti, un pò delusa, nella mia visita in sacrestia. Per chi ama la Roma esoterica, questo è un altro posto 'inedito' da visitare...

 

Al museo delle anime purganti

Nella chiesa delle anime purganti

c’è un prete pio dalle mani di carta,

il volto stanco, il corpo curvo,

tra i marmi ingombranti e gli ori pesanti.

 

Con aria un po' mesta

mi porta in sagrestia

a contemplar le resta

delle anime supplicati,

conservate in teche come impronte.

 

E quando il passo ho fermato

quelle mi han spifferato

che, nell’intervallo delle messe

il prete si spoglia del suo talare

e con loro, si mette a ballare.

*

La fontana del Tritone


Nota: il Tritone, uno dei simboli più belli di Roma, magistralmente 'portato in essere' dal Bernini. Sono rimasta tanto tempo, incantata, sotto la fontana, accanto a un simpatico venditore di rose. Dalla buccina dello splendente e bellissimo dio marino, le acque esondano. E rappresentano l'abbondanza, la forza generativa dell'eros che, quando più scorre, dona, tanto più straripa, accrescendo il vigore...

 

 

La fontana del Tritone

Un tempo le tue carni

mi parvero oro

e sangue, le tue acque

come i tramonti fiammeggianti

sul fiume, sazio di vita.

 

Allora i freddi delle mie

pallide malinconie

erano ignoti ai tuoi nervi,

tesi in uno spasmo d’assoluto.

 

Roma era una vergine fremente

e la sua luce di velluto

sposava il tuo vigore

in un orgasmo infinito

 

così che il traffico in piazza Barberini

sembrava una giostra

e noi danzatori del sacro,

in bilico sulla ruggente eternità.

 

Oh! Avessi potuto estrarti dalla fontana

come una gemma lucente!

Avrei medicato la crepa del cuore,

                           di chiarore furente,

la stessa che ancora m’incendia

e fa roteare gabbiani e gente attorno

                                   alle tue acque

e a questa città che non muore mai.

*

La Cripta dei Cappuccini

A Roma, in via Veneto, a pochi passi dalla fontana del Tritone e Piazza Barberini, c'è la Cripta dei Cappuccini, un luogo che ha impressionato persino il marchese De Sade e che ha ispirato romanzieri. Si tratta di una costruzione risalente al 600 e annessa al Convento dei Cappuccini e alla sovrastante chiesa di Santa Maria della Concezione. All'ingresso, vengo accolta da una zingara che siede sui gradini della chiesa. Poi, mi trovo 'catapultata' o meglio 'risucchiata' negli inferi, come Proserpina. Non c'è tempo per capire: le ossa sono ovunque: ossa del bacino, teschi, femori, scheletri in altrettante nicchie di ossa formano un macabro arredo di porticati, lampadari, oggetti tutti realizzati con ossa. Mi sento come Peseo che deve affrontare Mudusa senza lo scudo di Atena e improvvisamente, sento che ho cambiato mito. "C'è un senso a tutto questo" penso. "E non è certo suscitare il pensiero della morte in vista delle indulgenze, come vorrebbe certa retorica religiosa", continuo a pensare. Cerco di fare qualche foto, ma una voce in fondo al macabro corridoio mi ammonisce: le foto sono vietate. Questa, viva. Sono in un film? mi chiedo, sentendo di aver perso la sensibilità. Quando esco è già ora di pranzo, ma mi è rimasta un'angoscia addosso che, dentro, non avvertivo. Tutti i morti conosciuti sfilano nella mia memoria. E non si tratta solo di gente che ha lasciato questo piano d'esistenza. Finalmente avverto con assoluta chiarezza quanto, dimenticando la morte, si diventi necrofili. Quella cripta non serviva come monito per acquistare la vita eterna, ma per acquistare QUESTA VITA. e il passaggio dalla 'morte in vita' alla vita senza morte è la CONTEMPLAZIONE STESSA, quotidiana, della morte. Un conto è saperlo. Un altro farne esperienza. Consiglio vivamente di visitare questo luogo misterioso.
 
 
La Cripta dei Cappuccini
La notte agita ossari;
tra sogni alla penicillina
nemmeno nausee o sentori
di rigurgito nel macabro mitreo
dei giorni abbacinati.
 
Ma sfilano ossa, a dispetto,
sottratte al patibolo
in questa ferma danza macabra
 
dove i frati, col cilicio,
ancor fanno sberleffi alla vita
 
e chiamano la morte
chiamano la morte
chiamano la morte
o ogni osso ha il suo nome.
A.S. (Immagine dal web)

*

L’uomo di strada

Con me ho un piccolo zaino,

che porto sempre addosso

per non farmelo fregare

dentro

c'è una coperta

e più in fondo,

la mia testa

con la faccia dipinta

che indosso

quando devo attraversare. 

*

Ci rivedremo

 

Ci rivedremo, dopo,

quando saranno fiorite le ombre

e leggero sarà il passo della farfalla.

 

Ci rivedremo quando la spiga

fiorirà tramonti

e il pianto

sarà divenuto torrente.

 

Ci rivedremo,

oltre i graffi delle rotaie

che sfilano preghiere al cielo

 

quando divelte saranno le fondamenta

del regno di Moloch

e ci muoveremo come graziosi uccelli

nell’aria, sì, nell’aria;

 

senza più paura.

*

Girovaga

 

Girovago tra queste strade,

tra questa polvere eccelsa.

 

Ho lasciato mani, labbra, volti

nel calore freddo dell’occhio del paese.

 

Ho lasciato me,

per ardere di pura vacuità.

*

L’amore rimase nudo

 

La purezza si ruppe

nel lago, in mille loti;

ogni petalo tagliente,

ogni petalo un graffio.

 

L’amore rimase nudo

come un’ostia sospesa,

dopo che gli angeli scoccarono

le ultime frecce di vanità.

 

Ed io mi decomposi,

con loro;

braccia, testa, ali

 

e come falena

andai a dirlo ai venti;

là, sui campanili.

*

Un giorno a Roma

La città era bella;

sulle cupole fiorivano zagare

portate dal vento di un suono

di pianoforte vibrante in una villa

                                            eccelsa…

 

Turisti.

Sparpagliati come foto di famiglia

nelle mani di un bambino

 

e la pietra, dura di memoria,

morbida di evanescenze

come le statue nelle fontane.

 

Le Naiadi nella sfuggente

notte dei misteri;

odori di spezie e kebabberie

dietro le svolte dei vicoli ignari.

 

Così glissa la vertigine,

appena incastrandosi

nell’apparente nudità

del basolato.

*

Guerra

 

Cristi sospesi sull’orlo dell’abisso

e studiati congegni per far esplodere cervelli.

 

Orfani vagano come fantasmi

mentre il grigionero dei carri armati

vomita amnesie.

 

Dietro ogni sparo i nostri spari

delle coscienze otturate dagli amen

e dai sissignore.

 

E dicono, i morti, le ombre;

quelle che furono

quelle che fummo, tacendo. 

*

A volte, la luce

La luce è quasi triste.

Ora, per esempio, disegna

le tue ciglia all’insù;

una vecchia assuefazione.

 

Ha il volto sporco di cioccolato

di un bambino ridente di stupida innocenza;

a volte, a volte, a volte…

 

Oppure s’allunga sulle mani,

le mani che diventano lunghe, infinite,

che vorrebbero portarsi il mondo alla bocca.

*

Innocenza

Fu passo di danza

la tua purezza.

 

Fuori, le carte accartociate 

                           del pane,

il mare a battere

su scale grigie

dove i sogni vestivano 

l'evanescenza del fuoco,

nel crogiuolo dei cieli.

 

E poi dentro tu 

coi tuoi occhi scuri

da cerbiatta smarrita,

in attesa della scatola

          delle caramelle.

 

Non dicevi niente

ma fluttuavi sull'accordo,

aperta come i fiori surreali.

 

Dicono che ti chiamavi Innocenza,

poi nessuno seppe più di te. 

 

*

Sei stata

Sei stata focaccia di farro

per Giove Capitolino,

o liscivia

sotto cenere cava. 

*

Restò un fiore

Mi scacciarono dal tempio,

mi misero a tacere,

legandomi con catene.

 

Spirò poi l’alba

sulle mie carni uccise

-          ed erano le carni degli alberi,

le vene dei fiumi,

il respiro dei venti sulle vette,

il cuore dei villaggi.

 

Ma restò un fiore

 

e fu da quel seme del mio amore,

che germinò il nuovo sole.

*

I cieli di Roma

I cieli di Roma

s’impregnano di sogni di Naiadi volanti

tra dei e spiriti erranti

su balconi fioriti e nei caffè.

 

Parlano tutte le lingue,

tramutano il pianto in storie,

leggere come i gabbiani

a picco dai palazzi,

scaldati dalle ere.

 

Sì, perché i cieli di Roma

hanno promesse scritte

tra nuvole che cullano

nel loro latino Parnaso,

tutti i Parnaso a venire…

*

Il Nuovo Giorno

I fili spinati sembra

non finiscano mai.

Ancora duri gli inverni,

tra nevi sporcate dal sangue.

 

Il sole si sveglia con brividi;

uomo contro uomo, ancora,

ancora l’età del ferro schianta

                           le coscienze.

 

Sotto cieli a brandelli

di memorie ancor fumanti

di uomini ammazzati

già si prepara l’ennesimo eccidio,

in giaccacravatta vestito e ragion di stato!

 

E tuttavia da albe illuminate

sorgono sorgenti che lavano il passo;

su divergenti davanzali

nuove ossa cantano, fiorendo

il nuovo Giorno dell’Uomo Nuovo.

*

Al mare

Quando sto con te

cosa può servirmi ancora?

Azzurro canto di gioia,

musica dolce e trasparenza

d'estati riflesse!

 

Quale desiderio

non puoi esaudire,

madre azzurra e prospera

di pesci e dell'immensa vita

che il cielo celebra affacciato

                  al tuo splendore?

 

Perchè quando sto con te

sono azzurra e immensa,

remota e divina

come una conchiglia infinita. 

*

Torna la rondine a primavera.

Un tratto non taglia il cerchio.

Nessuna mano può sradicare un fiore

o oltraggiare il filo d'erba.

 

E anche se la carne macellata

geme su un filo di dimenticanze,

nessun silenzio può bucarti.

 

Si torna, come le rondini a primavera

e che passino dieci o mille primavere

è indifferente.

 

Incessante il fabbro tornisce

e soffia, di Efesto, la fucina;

torna, torna,

prima o poi,

la rondine a primavera. 

*

Questa sera

Questa sera il cielo

avvolgeva le strade

come una petola nera.

 

Sentore di passi radi

cadeva come moneta arrugginita.

Stanche case se ne stavano

ammucchiate

come girasoli sfioriti.

 

Pure lo stanco sorriso

                       dell’oste

era una musica triste,

appena spolverata dai setacci,

appesi agli spiriti della pietra.

 

Mai, come in questa sera,

ho desiderato di essere

un immenso giardino

per rapire dalle spire avvolgenti

                                     della notte

una fragranza di eternità

o forse solo

di felicità. 

*

Dal fuoco

Pazza, avanzai

lungo le eretiche sponde

della viva fiamma.

 

Tra l’aria di piatto azzurro

gravida di pianto imminente,

non ascoltai il ramo

appena smosso

da un refolo di vento.

 

Inscenai la danza

a due passi dall’arena

bruciando, lenta,

la mia vecchia canzone;

 

nel crepitio dolente,

odore di ferraglia

e di segatura.

 

Ma improvviso

tornò il pianto;

il cielo di pialla più duro

del tuo cuore di piombo.

 

Tornarono i corvi,

le croci,

la tomba.

 

Ma pure io tornai;

da varchi inaspettati

risorsi dal fuoco

vestita di nuovo fulgore.

*

A null’altro anelai

Fu questa strana euforia,

questo avvertire, trasparente,

il tragitto dell’acqua

entro la foglia di velluto

a proteggermi

dal piombo delle idee sensate,

dalle valvole delle abitudini,

dalle scorciatoie dei santi pensieri,

aperti su un baratro di nulla.

 

Fu Prometeo in persona,

travestito da folletto,

a donarmi il fuoco.

 

E da allora,

rifiutai di capire

e spingendomi in alto

più in alto, più su,

a null’altro anelai

che a fiorire.

 

 

*

A un passo

Luce, da una finestra.

Un uomo passeggia

nella sua casa.

Ha in mano chiavi

di sole.

 

L'inverno ha traghettato bastioni,

smosso opache caligini.

Ora, nel lago,

s'aggirano pesci inquieti

d'ombre diseredate.

 

L'uomo è a un passo

dal suo ultimo inverno.

Dall'ultima gelatura. 

*

Cade il dio denaro

Stasera sono uscita,
per fare acquisti;
tra luci sparate
e sorrisi di burro,
sembrava la fine del mondo.
 
Incassare e in fretta, virare
incassare e in fretta virare...
 
Ma forse è davvero
la fine del mondo;
 
cade il dio denaro,
simbolo ormai svalutato;
imprevisto, abbandona chi,
per ignoranza,
gli ha consacrato l'anima.
 

*

Sammasati

E' tempo,

scrolliamoci il sapere,

vuotiamo le bisacce.

 

E' tempo

di renderci puri come oboi.

 

Sammasati,

ricorda chi sei.

 

Ricorda che sei il grido

la freccia

l'arciere

 

Sammasati,

ricorda il patto

che ti legò a Shiva

 

e tu sciogliti,

danzando,

diventa nettare per la terra

che prega con le sue radici

riverse sui fiumi inquinati,

le cime saccheggiate,

i cieli scheggiati...

 

Sammasati,

non servono corazze,

solo

il riverbero scntillante

che brilla sul tuo capo.

 

Sammasati,

tu puoi

risvegliare illuminare

risvegliarti illuminarti

 

tu

già sei;

 

Sammasati,

ricordati che sei un risvegliato.

 

 

*

Stamattina

Stamattina ero tutta

uno scrichiolio di dolore;

i passi piccoli,

come quelli dei vecchi;

lamine di ferro

nelle scapole, nel cuore.

 

Il soldatino di piombo

rigido nelle mie carni

a sfregare sull’osso,

il paesaggio inutile

come una cartolina sbiadita.

 

Ma ho camminato,

stretta nell’abbraccio di gennaio

coi  suoi contorti rami secchi.

 

“Uccidimi” ho detto al dolore,

prendendolo su me,

sentendo che era me.

 

Ma lui, inaspattatamente,

dopo tanti passi,

ha fatto fiorire il sole,sulle resilienti rose,

affacciate al mio dolore.

*

Fuori la luce è mite

Fuori la luce è mite,

come un anelito accarezza

l'ultima ora del sole.

 

 

Si spande clemente

sulle cime spogliate

da refoli d'inverno,

 

Avanza, lieve

come preghiera

e accarezza la terra turbata.

 

E nell'ultimo tempo,

donando colore si concede

a monti di nuvole indaco e cenere

 

inspiaggiandosi, lenta, su altre dune lunari

*

Il nuovo mondo

Stai finendo, vecchio mondo,

coi tuoi turiboli e le vecchie insegne

dorate sui portoni.

 

Sei finito

con le tu carrozze di velleità, 

i tuoi stemmi,

quei fottuti rostri

benedetti dalla ragion di stato.

 

Mani nere, screpolate di gelo,

gridano al vento

litanie gitane,

occhi a mandorla,

pelli di curcuma e zafferano

spodestano divani di velluto

di vecchie nobildonne scorreggione.

 

Nel cielo roteano sciami di polvere

sopra rotti registri di albi professionali

e titoli decaduti,

disciolti come neve al sole.

 

Si organizza un sabba

tra l'ulivo la quercia e il fico,

anche se non c'è alcun diavolo

e son finiti anche quelli che lo hanno inventato,

coi loro personali inferni.

 

Perciò venite, venite gente nuova

illuminata come l'acqua e il sole

come l'allodola il pesco la marmotta,

 

Venite, venite

il mondo che attendevate è già qui

sulle macerie del vecchio,

che già non è più.

*

Preghiera al fiume, contemplando il Tevere


Fiume, dove conduci?
Specchio d'argenteo chiarore
e d'acque illuminate

 

Fiume che sei canto
con la poesia che sorge
dalla musica del tuo andare

 

A te affido
i cigni dei miei pensieri più puri
i detriti dei sogni spezzati,
la musica incastrata nella pietra...

 

Tu, ti prego,
che sei puro
nel tuo scorrere,
portali con te

alla tua foce,


sì, là
fino al mare...

*

Giovannino

Giovannino era un bel bambino;

portava a spasso i suoi etti di carne secca

con la severità di un chierichetto.

 

Ma nessuno sapeva

delle pentole di latte cagliato

scaraventate da sua madre

dalla finestra del terzo piano.

 

E così Giovannino

'lu figghiu de la pazza'

teneva la scena come un soldatino

                                    di piombo,

con un cespuglio di fiamme nel cuore.

 

E nessuno seppe niente,

quando scoppiò, 

forse perchè si confuse

coi fuochi d'artificio

per il santo del paese. 

 

*

Questa sete

Ti morderei sul collo,

assaltandoti nella notte,

mio semplice amante,

analfabeta come l’erba e la luce,

con la tua verga eretta a ostensorio.

 

Perchè fu un impatto di purezza

assuefarmi al tuo mare

con la sete che intossica, 

irredenta, di te…

 

Questa sete che non mi lascia,

che porta l’oro coi pesci,

verso le mie sabbie lunari…

 

Oh! Chi sei?

Idolo o fantasma?

Dimmi, perchè ho ancora sete

di te,

che non finisci mai. 

 

*

Questa sete

 

Ti morderei sul collo,

assaltandoti nella notte,

mio semplice amante,

analfabeta come l’erba e la luce,

con la tua verga eretta a ostensorio.

 

Perchè fu un impatto di purezza

assuefarmi al tuo mare

con la sete che intossica, 

irredenta, di te…

 

Questa sete che non mi lascia,

che porta l’oro coi pesci,

verso le mie sabbie lunari…

 

Oh! Chi sei?

Idolo o fantasma?

Dimmi, perchè ho ancora sete

di te,

che non finisci mai.

 

*

Il ruggito (ispirato a un recente fatto di cronaca)

Non sono fatta

per stare in gabbia,

per divertire in pista

un pubblico coi popcorn.

 

Ho assalito, morso,

sono una tigre,

e allora?!!!

 

Il ruggito della Madre

delle Tigri e delle Foreste

era in me;

ed è solo l'inizio

della fine di questo morto tempo,

nemico della selvatichezza.

 

Per cui,

anche se soccomberò,

dall'altra parte della Grande Soglia

ancora

vivrò.

 

E mi riprenderò il posto,

gli sconfinati spazi sottratti

tra questa fila di superflui

che, ormai, Natura rigurgita.

 

L'uomo potrebbe essere un accidente,

ci avete mai pensato?

 

Guardate coi miei occhi gialli e ardenti,

credete ancora

che l'uomo sia il centro dell'Universo?

Quest'uomo minimo ripiegato

nella sua stessa palude di consumi?

 

Per questo tornerò,

lo giuro, l'ho promesso alla Grande Madre

a tutte le tigri,

tornerò

e il ruggito della Foresta

libererò!

*

Grazie

Questa non è una poesia, ma una preghiera. La dedico a tutti voi, coi quali ho camminato in questo tempo del mio percorso artistico e di crescita personale. A voi che mi avete dimostrato che esiste una piccola fetta di mondo che ancora sa donare il suo tempo e la sua creatività, senza calcolare se il tempo speso gli 'frutterà' o no. Grazie ai gestori del sito, a tutti i poeti di La recherche e in particolare, grazie a Silvia, Vincenzo, Salvatore, Caterina, Elisa, Angelo. Vi auguro un nuovo anno di fioritura, col cuore. 

 

Grazie,

per il suolo che tocco ogni mattina,

per gli occhi del mio cane

che mi guarda con amore.

 

Grazie per il freddo,

le notti tetre;

grazie a chi bussò

e alla mia mano,

che aprì.

 

Grazie

a chi mi diede amore

e a chi, rifiutandomelo

mi liberò.

 

Grazie a chi volle,

per me,

questo sogno chiamato esistenza.

 

Grazie al dolore,

ombra della gioia

e mistero della profondità.

 

Grazie agli spiriti

degli animali, degli alberi,

di ogni specie vegetale,

agli spiriti elementali

e dei Maestri 

e a dei, avi, abitanti dell’invisibile,

che mi tengono per mano

nel cammino dell’Anima. 

 

Grazie agli arconti,

perchè la resistenza all’evoluzione

è radice della mia forza

e spinta verso la Bellezza. 

 

Grazie,

perchè immensamente posso amare

tutto ciò

e così procedere verso la liberazione

a vantaggio di tutte le creature senzienti.

 

*

Lazzaro

La luna, tra le nubi,

fuma una febbre clandestina.

Lazzaro torna dalla caverna murata;

addosso ancora odore di segatura. 

*

Emozioni

Guaine, le emozioni,

finchè resisti all'ombra.

 

Non scorre una sedia a rotelle crepata.

*

Fuori la notte

Un locale in pietra

                     fuma

una vaga aria natalizia.

Fuori la notte

s'attacca sul muro.

 

Come una macchia.

 

O un vuoto. 

*

Notte di Natale

Lunga, la notte;

poi fui il legno

a glissare

 

Dalla stella.

*

Il vecchio abete

Fuori c'è una donna,

sul balcone di una casa popolare,

smarrita in un Natale strano.

 

Da tempo tiene le parole

in un lido di cenere

e le mani in grembo,

come quando la luna bussò

e la corolla era rosso sangue...

 

Ma lei conosce 

i nomi dei rami dell'abete

di fronte alla sua casa,

con le luci, ora, sospese.

 

E le tiene accese per lui,

per quel vecchio testardo

che non vuole morire.

*

Tu non moristi

Tu non moristi;

fermo era già il vagone.

 

Là, piangevo

i miei morti;

l'erba già alta

attorno ai sepolcri.

 

Inutile,

l'unguento profumato.

*

Io ti cercavo

Io ti cercavo

nel chiaro abbaglio della luna

o nella notte,

china sul mio arco.

 

Ti cercavo nell’oro

d’una fotografia d’argento

o nel nastro che chiudeva

                    il mio chignon,

prima dell’ultimo arabesque.

 

Ora sei l’urlo del vento

nella foresta nera

ove ti lasciai,

un tempo, senza scampo

 

ora

sei questa pioggia

antica e metropolitana

che scende, scende, scende;

senza un perché.

*

Il fungo velenoso

 

Sono cresciuta su un fungo

                               velenoso,

umido, scivoloso;

sotto, il fango coi mastini.

 

La tristezza aveva morso

                         di tenebra;

implacabile, Ade

mi teneva al laccio

 

-il calderone sempre più nero

 di indicibili misfatti che, invano

mio padre bruciò nella Geenna

in fondo alla casa-.

 

Lindi, i bicchieri;

linda la lama della morale.

 

Ma un peso m’inseguiva;

ed io correvo, correvo, correvo

col mio inguine sporco.

*

Fino a lasciar cadere...

Spogliami,

fino a lasciar cadere

i sigilli

alle rose

*

Dall’alto, un falco

L’aria torbida

ha ingoiato tutto;

delle foreste non resta,

quasi

che una nenia bruciata.

 

Dall’alto, un falco

osserva lo stanco acquario

e se la ride.

 

I guerrieri fanno ormai le capriole

sulle parole morte dei preti,

mentre la morte corrode

l’ultimo scoglio.

*

Oro

 

Misi una corona

sulla tua sabbia,

ma tu mancasti

l’atto di fede.

 

Dissanguasti polvere,

non bevesti,

alla mia sorgente bianca.

 

Ma è oro, ora,

questa brillante malinconia,

nato dalla polvere,

tornato alla sua purezza.

*

La bambina di neve

Oh bambina,

nella neve ti eri perduta,

sola coi tuoi mancati accordi,

china in una lunga amnesia.

 

Bambina,

guance rosse ed occhi ardenti,

presi in prestito Pegaso,

baciai i serpenti di Medusa,

per venirti a cercare…

 

Ti ho ritrovata là,

nella città d’oro azzurro,

nella città che sognai

per ritrovare te,

mia dolce bambina di neve.

 

 

 

 

 

*

La scatola di caramelle

 

Ora che le pareti

sono dipinte ad affresco,

percorro nuda,

a grandi bracciate,

la foresta…

 

C’è ancora un nero gingillo

che mi spia e sopravvive,

duro come pietra;

un’icona bruciata

che lascia un soffio al cuore.

 

Ma, poco fa,

ho dato una scatola di caramelle

                                 giallo-arancio

alla mia bambina triste

e un fiore bianco

che splende come uno scherno

sulla sua veste a lutto,

sulle più feroci piaghe dell’amore.

*

Si ricuce il mare

Si ricuce il mare,

segno per segno,

oro su oro.

 

Eppure la penna

incide segni, nel cielo,

con la coda di nuvole erranti;

 

cola un pianto rosso

sul cappello di un bambino,

che va, lungo la riva,

mentre cade dentro al sole.

*

Il vuoto.

Non sono 

lo straniante, umiliante vuoto

delle cattedrali,

ma vuoto divino

che imprime nel silenzio

la sua canzone d'amore. 

*

Psiche e l’unguento di Persefone

 

Freddo era l’abisso,

ma laggiù dovevo andare,

se Amore volevo ritrovare.

 

Disperai e mi dissi arresa,

ma un lupo venne al mio fianco

e mi accompagnò laggiù,

dov’era rotto il pianto.

 

Ma, giunta là, che orrore!

Villaggio dei perduti,

così si spezzò il cuore,

tra vecchie streghe a cuocer

                                    budella

e una macabra processione.

 

E poi l’oro, pestato, ignorato

tra panni rosso sangue.

E ancora bimbi, speduti

tra gelide grotte

e fuochi vani che non scaldano

                                     il cuore…

 

Così di fuggire desiderai

 dalle infere caverne,

‘che tanto era il dolore,

ma poi un carillon sentii suonare

e levato il volto,

un passero vidi e il volto di Amore

splendente in un alto sole.

 

Così, benedicendo andai,

oltre la fredda folla delle ombre;

lasciando un seme di carità,

tenendo stretta l’ampolla

senza voltarmi mai.

*

Ti meriti

 

Ti meriti un amore

che può guardarti tutto il giorno,

senza mai dire che è stanco,

che riesca a tenerti con ogni vento,

                                 con ogni luna,

senza mollarti mai;

che ti dica ‘sei perfetta’

con le tue calze bucate

e le unghie morsicate.

 

Ti meriti mattine intere

seduta ad un caffè,

mentre il mondo ti sfila innanzi

e tu lo guardi con innocente stupore

o lo dipingi col tuo colore.

 

Ti meriti di danzare nella pioggia

nuda, se ti va,

di ridere per niente,

a crepapelle…

 

Ti meriti di lasciar andare

chi non ti vuole ascoltare,

chi ti fa stare male,

ti meriti compagni liberi

che sappiano volare

e non ti lascino cadere…

 

Ti meriti di contraddirti,

di essere fragile, confusa,

di andare in tuta nel ristorante migliore

perché quel giorno hai deciso che così ti va

e con nessuno ti devi giustificare…

 

Ti meriti i vestiti migliori,

le cose più sacre, le idee più vere…

 

Ti meriti di guadagnare, gioire, creare,

ringraziare,

di plasmare con le tue mani

il tuo più alto valore,

riflesso nella luce che sei,

che splende nelle tenebre di chi

odia il mondo

ma non non ha mai fatto niente

per poterlo cambiare…

*

Il tuo corpo

Il tuo corpo è puro

come neve d’agosto

ed io lo bevo d’un fiato

come vuotassi il calice

della mia agonia.

 

Il tuo corpo è fiume di frecce

e ogni freccia una spada

che mi trafigge,

nel cuore del silenzio.

 

Perché questo corpo sei tu,

eucarestia senza omelia,

che basta.

 

 

*

La mosca

Ti scaccio, ma resisti;

plani sul palmo, dove

prima c’era un chiodo

e poi sui libri e i loro tarli,

in fila nei funerali delle idee…

 

Riparti in picchiata,

non ti arrendi

e sei sulla stampante

sui biglietti ancora intatti

di un viaggio che non feci,

di neve,

nell’affondo in una cioccolata

blu Danubio…

 

Mi alzo

e mi sembri assai più reale

                          dell’irreale;

con le zampette tergi gli acari

da quel ritratto interrotto,

con le conchiglie rosa carne

appena abbozzate,

incollate su un collage bucato…

 

Ormai sei mia,

ferma sul nodo di legno

della mia scrivania

e mangi le lettere della tastiera

con torva avidità.

 

Ecco, ti ho catturato,

cara mosca inopportuna

e roditrice!

 

E tuttavia poi ci ripenso,

apro la mano;

Ti lascio stare.

 

In fondo c’è una coppa vuota

ed io, ora,

devo andare…

*

Il canto di Estia

 

Nel tuo ventre stetti male,

padre Crono;

nera palude di spavento,

abitata da belve immonde!

Ogni tocco un’offesa

ogni tocco una ferita.

 

Cercai di uccidere le belve,

per te;

soffocando i pianti d’abbandono.

Disperata,

uccisi i serpenti acquattati

nel fango dei tuoi visceri,

ribollenti di disprezzo.

 

Non mi amavi.

Tardi sciolsi l’illusione,

accecata nella tua stessa tenebra.

 

Mi vomitasti,

coi miei fratelli e le mie sorelle,

assieme al tuo veleno.

Solo il dolore infinito

fu la tua eredità;

la tristezza senza redenzione,

come una macchia sul mio candore.

 

E ora che son fuori,

dal tuo ventre avaro

che fu la mia prigione,

porto con me il fuoco

con cui illuminai

la tua oscurità cadente.

 

Non scapperò.

Non chiuderò le porte

con nessuna chiave,

come hai fatto tu.

 

Starò al centro,

per sempre fedele custode

di quel fuoco che non conosci,

che unisce ogni mondo, ogni cuore,

chiamato Amore.

 

*

L’elfo

Cade, la goccia

su un lamento di plastica,

che veste questo sabato stanco.

 

L’abete s’inverna

sullo stanco cielo;

è un esule, il faro

smarrito nel vasto,

inutile azzurro.

 

Ma c’è una bimba

                  dipinta

sulla tazza del caffè;

e mi sorride

col suo berretto da elfo.

 

*

Mi sono persa

Mi sono persa,

in qualche giorno,

in qualche strada,

in qualche nome

fragile come i ponti

crollati, senza progetto.

 

Mi sono persa

in un silenzio di gomma,

sorvegliato da una stella opaca,

in un ritornello ripetuto al vento,

senza emozione.

 

E poi in un muro di specchi,

senza sapere il tassello mancante

di una storia troppo stupida

o forse solo troppo vera.

 

E infine, mi sono persa

perché era lì che volevo arrivare;

a imparare a perdermi in due occhi,

 

fino a naufragare…

 

 

 

 

*

A casa non c’eri

A casa non c’eri;

nel barattolo della frutta secca,

nella posta lasciata sul tavolo,

 

non c’eri.

 

I calici a testa in giù,

sul lavandino,

le briciole già raccolte,

la bottiglia di vino,

inerme come un soldato

                        in congedo.

 

Il silenzio venne in ciabatte

e assalì;

senza rumore tranne quello

del vuoto assordante.

Dalle finestre chiuse.

 

Perché tu non c’eri,

ed io sono una zingara

che ti cerca nel vento.

*

Andromeda

 

Sono diventata una schiava,

io, Andromeda, figlia di sovrani!

Sono verde come l’alga che mi tiene,

nuda, spaccata dall’arsura…

 

Dove sono gli eserciti?

Dove sono gli avi?

Dove sono gli eroi?

 

Sanguino come l’alba violata

e rosso è anche il mare!

 

Ma il corallo sa,

che feci coi miei capelli,

sì, il corallo sa!

Moriranno gli dei,

ma io no!

 

Anche se qui crocifissa

io resterò,

non perirò…

 

Sangue che graffia

e incide lo scoglio,

pane del mare,

che volle bere di me,

senza fine…

*

Assalto

Non essere gentile;

raggiungi, se puoi,

questa leonessa, tra i monti

fino ad affondare i denti

nella fiamma feroce

che dalla mia criniera, sale.

 

E lì, nella presa,

lascia esplodere l’urlo,

fino a far rivoltare,

come un verme,

questa grande inversione

chiamata civiltà.

 

E’ tempo del ritorno

delle terribili fiere;

guarda la tigre

che spia dall’altura

avanzando, affamata,

dal deserto!

 

Già affonda gli artigli

nella foresta nera

che rimase, intatta,

nel seme delle nostre

inconcepite e divine voluttà!

 

Oh no, amore,

nessun diavolo ti prenderà

                                   l’anima,

semmai si tramuterà in angelo

nella tormenta fusiosa dei sensi

tesi fino allo spasmo!

 

Perciò, vieni,

ruggendo nell’assalto,

finchè suonerà l’ultimo amen

e salterà l’arrugginita campana

 

finchè scriverai coi fiori,

scoppiati dal ventre di questa

                                           follia,

il nostro nome nell’acqua.

 

 

 

 

 

 

*

Tu non mi fai perdere tempo

 

Tu non mi fai perdere tempo;

vieni, siedi accanto a me,

accanto al mio focolare…

C’è ancora tanta legna,

castagne e del buon vino

 

oh no! Tu non mi fai perdere tempo…

 

Guarda il cielo dalla finestra:

blu notte, blu cielo…

Ascolta la pioggia sottile che sentivi

                                     da bambino,

con quella magia che solo tu avevi,

in cui il mondo non credeva….

 

Ascolta… Mentre ricordi le tue canzoni,

o il suono delle tue risate sulla strada;

quella musica è qui, per noi,

e la teniamo in pugno, in una mano…

 

Perciò tu,

tu non mi fai perdere tempo,

perché non esiste il tempo,

esistiamo solo noi, che ci guardiamo,

che ricordiamo… Quello che eravamo,

prima che inventassero il tempo,

prima che ci rubassero le fiabe.

*

Un uomo giusto

 

Pensavi tutto sarebbe arrivato,

uomo giusto del nostro tempo;

il salumiere metteva arsenico

                nel prosciutto locale

mentre tu gli dicevi:

“tre euro in fette sottili,

così vuole la signora”.

 

Oh uomo delle ferie d’agosto

decise a tavolino da uomini

                     dalle dita pulite,

credevi fosse cosa buona e giusta

un giaciglio, una razione

i soldi della pensione

con la santa benedizione!

 

Così, dicevi, fanno gli uomini giusti

così fanno i figli dei padri.

 

Ma poi satana venne

per un pezzo di cuore,

il televisore smise di trasmettere

omelie in differita

e il prete scappò, così dicono,

con la cassetta delle offerte

in cui aveva chiuso il dio lontano.

 

Così a te, uomo giusto,

non restò niente,

tranne che l’ingombro

delle tue troppe virtù.

*

Una musica triste tra le stelle

Si era già fatta sera

e tu portavi a casa

il tuo sacchetto di ossa morte,

senza memoria né gloria.

 

Il cielo si fece cupo

dalle tre di pomeriggio,

il tuo sepolcro si chiamava

famiglia o casa o moglie

e lei non era nemmeno

la gallina dalle uova d’oro.

 

Mi lasciasti con la luna scucita

a mettere insieme le toppe…

Ehi, lo so, stavi soltanto proteggendoti!

Ed io ti odiai, ti odiai a tal punto

che dissi a Medea di riportarmi,

dall’Ade, i miei figli:

 

Ma uno non c’era;

era là, sulla luna, a suonare una canzone;

una musica triste tra le stelle,

sì, una musica triste tra le stelle.   

 

 

 

*

Danae

 

Mio padre mi chiuse

               in una torre

e a guardia, vi pose

leoni ruggenti,

come il suo cuore,

avido di potere.

 

Piansi mille notti

e mille giorni,

piansi tutto il mio pianto…

 

Ma fu lì, nella luce cupa

che s’addensò l’orma di un dio,

come pioggia d’oro

nata dal grido.

 

E già vidi Medusa

e Andromeda e me;

nell’acqua chiara vidi il giglio

chiamato Perseo,

fiore bianco del mio dolore

nato nella prigione della mia

                             frustrazione.

 

 

*

Sanguino

 

Sanguino sui muri di pietra,

nel silenzio dei relitti;

là una vecchia chiama,

sussurrandomi segreti…

 

Sanguino questo sangue

rosso ciliegio rosso scarlatto

in memoria del sangue dei vinti,

delle foreste abbattute

degli animali squartati e venduti,

dei figli ammazzati.

 

Sanguino questa melodia

che nessuno sente;

che è la mia nostalgia,

la mia poesia

e la mia oscura alchimia.

 

Sanguino per un mondo rapace,

che non sa sanguinare,

restituire,

ma solo usare, sporcare, violare.

 

E sanguinando anche per chi

non sa sanguinare

redimo il mondo

in un bagno rosso, d’amore.

*

Nudo da Fino a quando, dal marmo, fiorimmo

Nudo, sei bianco

come polpa di mela che addento

fino alla ferita del cuore.

 

Nudo 

sei liscio come pietra levigata

che non cede alle mie mani frementi

e tuttavia lascia

un sapore aspro di salsedine

sulla mia lingua che ti percorre.

 

Nudo

sei una valle incantata

ed io l'antico fachiro

che sveglia, col serpente,

i guardiani dei tuoi sensi

che vanno verso le mie acque.

 

Nudo

sei la mia pesca miracolosa

che agita, nelle mie acque

magma e cenere e acqua e fuoco,

mentre esplodono i sensi,

tra luce e terrore.

 

Ma, nudo

sei il mio stesso corpo,

vuoto e pieno

e sei il canto dell'anima

che, da questo abisso,

vagisce...

 

Questo abisso

che devo attraversare;

 

senza sapere niente. 

*

Non so

Se mi capita di pensarti

subito dico: è uno stupido vecchio,

un mercenario della più squallida vacuità.

 

Eppure, com’è che tu aprivi i pori

                                         nella pelle,

sovvertendo i visceri, in anarchia

fino al puro, denso fuoco

che, dalla schiena, risaliva

fino all’affondo

nella più esaltante follia?

 

Non so.

 

Come non so

com’è che la bellezza mi opprimeva

riflessa nell’ombra torbida dei tuoi occhi

                                     di cristallo tagliente

e verginale il mio cuore fremeva

tra le tue dighe scassate, i pesci morti

tra i rottami di una stupida vita.

 

Non so.

 

E’ che qualcuna, l’altra me,

è rimasta lì

 

ad aspettarti.

 

Come una sposa.

*

Io mi contraddico

 

Io mi contraddico:

dico A e faccio B

(spesso fa lo stesso).

 

Mischio i fogli.

Piango sopra le righe.

 

Non so niente e lo so.

Prendo lezioni dal banco dell’attimo.

 

Bevo la morte nel vino della vita.

 

Imprendibile come il vento,

l’onda,

che vola

 

come la vita.  

*

Ritornerà il fiume

(Ho conosciuto eccezioni, anime sensibili e sincere tra costoro di cui parlo. Tra queste eccezioni qualcuno voleva 'tornare indietro'. Non so se l'ha fatto. Ma erano solo 'eccezioni')

Avete il ventre gonfio,

menti astute come i vecchi scorpioni

che vi divorano, nelle straziate notti,

a respirare il vuoto e lo stantio

nelle vostre anguste stanze.

 

Sotto strati di paramenti incensati

nascondete la peste

e grottesca è la parola carità

sulla vostra bocca spalancata

come una fossa di serpenti.

 

Strappate le anime a brandelli,

le scucite, confondete,

per darle in olocausto al potere,

retto dai vostri bassi appetiti e

                    dalle sete di potere.

 

Voi, anime codarde e basse,

che temete il vento fresco

il ronzio dell’ape,

la danza delle foglie nell’aria

                                     più pura!

 

La pestilenza che voi dite

venire dal dio lontano in cui

          voi stessi non credete

è nella durezza opaca dei vostri stessi

                                                          cuori,

chiusi come sagrestie.

 

Ma ora è il tempo

in cui il dolore del mondo

spezza le ruggini delle nostre

                                        catene

e le false fondamenta costruire

sugli acquitrini delle vostre parole

                                             perverse.

 

Verrà la nuvola a aprire cieli nuovi,

pulirà la pietra imbrattata

e da essa fiorirà l’albero.

 

Tornerà il fiume.

*

La rosa tradita

Non c’è solo il dolore,

mia piccola rosa tradita

che sfiori la ringhiera

nella tristezza di ruggine

di inizio novembre.

 

Non c’è solo dolore

in questo vento sazio

             di malinconie,

tra queste foglie cadute,

                  dimenticate;

 

fu la pietà dell’acqua

che chiuse i tuoi petali,

per proteggerti dal livore.

 

Perché non c’era solo dolore

nei giorni vuoti di sole,

rotti come inutili mattoni;

 

da lì, una stella sbucava

per te, solo per te,

per la mia piccola rosa tradita.

*

Sono stata in silenzio

 

Sono stata in silenzio

quando troppo c’era da dire

e l’anima si spegneva, come una

                                            candela,

nella polvere della saggezza e della

                                          morale.

 

Sono stata in silenzio

col sogno sospeso di un grande amore,

mentre non osavo dire alle strade il mio nome.

 

Sono stata in silenzio in conventi,

orfana in un giardino ghiaccio

che sanguinava i bocci a primavera.

 

E ancora,

tra i venditori di rumore

i banditori del sapere con le loro

                            ciotole di caos,

le ostie marcite,

ammuffite nottetempo nell’interminata

                                   notte della civiltà.

 

Sono stata in silenzio,

non so dire dove, come, quando…

Forse ero il vetro rigato di pioggia

che ripeteva al vento la sua inutile

                                       melodia.

 

 

 

*

Promessa

 

Vestimi di te, delle tue ciglia,

tra i bagliori del giorno,

le farfalle di seta dei tuoi pensieri

                                       più puri,

 

Vestimi dei tuoi baci come un altare

e lava con la tua lingua

il cuore che ringhia il tuo nome,

senza temere

gli occhi ciechi di menti marce.

 

Perché fu Promessa, quest’amore

che incarnò sostanza nel portico del mio stare

e il vento la portò all’acqua,

alla fonte insaziata di questa sete,

che non può morire

 mai.

*

Ecate

 

Il mio cuore è una grande piazza,

in cui la notte scava una tomba;

s’odono, rade, voci lontane

e invano i lampioni confortano

                                       la pietra.

 

Qui il mio cuore perde il canto

tra marce stanche di passanti

                             e di mercanti

e la mia solitudine ha il passo breve

dell’estate che lascia le vesti leggere.

 

Però, a volte, crepita un fuoco strano

che fa turbinare le foglie sparse:

è Ecate, mia eletta madre!

Lontana dalle luci, m’addita nuovi varchi…

*

Eredità di gioia

 

Gli alberi, oggi, lasciano una strana scia;

accanto ai portici gocciola una bouganville

in pieno splendore, ancora, in questo testardo

                                                         autunno,

lavato dalla pioggia.

 

Mi sopravvissi in quest’assenza millenaria,

dura come la pietra che rompe, col sangue,

                                                  gli specchi

 

e tuttavia è vita

questa trasparenza d’acqua, questa sottile

                                        impermanenza

che scioglie i tuoi occhi sul vestito

 

e non resta che danzare,

su quello che resta e non resta

di te, di me…

 

In questa domenica di pioggia

raccogliere con le dita l’eredità di gioia

                                    che mi lasciasti

e morire

di nuovo, ancora,

e poi ancora….

*

Uno scorrere lento, equanime

In questa stanca sera,

la solitudine stringe

come uno stretto vestito,

mentre un’estranea finestra

getta una luce d’alluminio

                         sulle strade.

 

Si può morire così,

in un’opaca sera,

nella musica della fontana

                          di piazza

o nelle parole, sottili

sparpagliate come i lego

nel sonno della pietra.

 

E’ penso che la morte

sia così;

uno scorrere, lento,

                 equanime

oltre l’abbaglio della vita.

*

Volevo essere

Volevo essere ordinaria

come un tronco o l’aria azzurra,

con te che siedi su una corolla d’alba,

portando la mia cesta, colma d’amore.

 

O stando su spiagge deserte,

seppellire la mente che invano spegne

i venti delle malinconie,

perché tu non ci sei

e hai il filo rosso che ti diedi.

 

Volevo essere nuvola,

per planare nei silenzi assoluti,

priva di ogni congettura

di ogni ‘come’, di ogni ‘perché’.

 

 

 

 

*

Follia

Io ero matta,

matta da morire,

matta d’amore.

Per questo, puntandomi

dicesti: scelgo te.

 

Fu un tiro al poligono,

poi t’avventasti

come un corvo avido,

senza nemmono accorgerti

                             dei lividi.

 

Io planai verso te,

naufragando in orbita;

la mia carne rabberciata scendeva

dalla tela di una luna bucata.

 

Amami, amami, amami, ti dicevo

 

Amami, amami, amami, mi pregavi

 

e intanto colpivi a morte,

succhiando dai rattoppi

anima in agrodolce.

 

Nessuna avrebbe amato te,

poco più di un avanzo di galera

e tuttavia certe volte scendeva un seme buono

                                    dal nero della tua codardia,

un rimasuglio di pianto

nascosto in un presepe impolverato.

 

Ed io ti amai per questo,

perchè scambiai l’amore con la croce;

ma qualcuno era già morto

e la croce solo follia.

*

Solo il chiodo

Tu non eri giovane,

nè vecchio;

tu eri il fuoco,

il suo ramo, il tronco

e la resina ambigua.

 

Ed io esplosi in te

come cratere aperto

dalla bocca della luna,

ebbra di felicità,

ebbra della follia

dai mille specchi.

 

Tu eri

ogni luna 

ogni astro 

ogni sole

ed io l'intervallo...

 

Solo il chiodo

ti teneva crocefisso,

a esalare la ruggine

       dei tuoi morti

 

mentre io andavo via.

 

*

Lasciatemi qui

Lasciatemi qui, tra gli alberi,

tra questi fiori così fragili così belli

e l’aquila che solca il cielo

e non è mai stanca…

 

Lasciatemi qui,

fuori dai commerci delle vostre

                            sante intenzioni;

lasciatemi rotolare sulla soffice terra

che m’impregna del suo sacro stare

 

o nelle vie infinite, tra i tronchi vegliardi

e la preghiera liquida dell’onda turchese

                                           che mi cura

e mi culla, nel profondo, là

con la tenerezza che voi non conoscete.

 

Lasciatemi

dondolare nel sole,

penetrando il suo oro con un’ardente

                               preghiera nel cuore

e un grido di giubilo

mentre una campana risuona,

tra gli ulivi , le case bianche e le pergole

                                               un po' tristi…

 

Lasciatemi,

perché è qui che morirò

                        e rinascerò,

nuova, rifatta dalla carità del vento,

che sa quando soffiare e riportarmi

tutta quella vita che non ho mai vissuto

perché era la vostra vita,

ingabbiata, prudente

e non la mia

 

e non la mia.

 

Per questo, ora lasciatemi;

lasciatemi

lasciatemi qui…  

*

Ti amai oltre ogni misura

Ti amai oltre ogni misura

-          esiste, in amore, misura?-

e versai boccali di vino

sulla mensa imbandita di me

e di te, pensavo…

 

Il tuo corpo era un carillon

                             disperato

ma lo stesso il mio giradischi

                               isuonava,

dalle ruggini delle mie sere,

sospese su terribili profondità…

 

Tu eri l’accordo,

inaccettabile e segreto

 

E se ti amai oltre ogni misura

fu per quel vincolo tremendo

che unì la luna scarlatta

alla sua foce antica

 

e fu il mio tabernacolo

e la mia croce.

 

*

L’orchidea dimenticata

Stamattina, al mercato

ho acquistato un’orchidea mezza secca,

giaceva lì, dimenticata

tra le belle sgargianti screziate e color luna.

 

Ma vividi i pochi petali rimasti

hanno emanato un canto color ciclamino

e l’osso non ha resistito.

 

Nessuno conosce la sua storia,

soffocata dalle brame e dalla mercanzia,

per questo l’orchidea era bella,

vergine come le cose inutili e dimenticate;

 

la sua tristezza era il suo canto

e la sua segreta magia.

*

La bambola

Mi sono presa il tuo ghiaccio,

la tua immobilità,

vivendo, per amore, nell'ombra

del tuo stesso incantesimo.

 

Mi sono vergognata di te,

della tua stessa vergogna,

ma tu non facevi niente.

 

Hai lasciato la mia bambola

                            al freddo,

senza nemmeno intuire

che quella bambola

aveva un'anima.

 

Perchè quella bambola

ero io. 

Ed eri tu.

 

*

Il desiderio di Parsifae

Oh Parsifae,

sorella di una maga

e figlia di un dio

e dea a tua volta,

cosa ti attrasse dell’armento?

 

Minosse era un eunuco

assetato di potere,

sua madre cagliò il suo latte

col suo stesso veleno.

 

Ma tu eri già magia

e la magia, in te, era sangue

la magia era carne

e tu la conservasti

per la splendente fiera!

 

E quando il toro bianco

sfondò della giovenca

il bel varco di legno,

Minosse era un villaggio

di carte già cadute…

 

E cadde pure il trono

e l’occhio quando vide

del figlio dell’amore

la furia della carne

la sete, già, di sangue.

 

(E florida esultò la messe

pasciuta in tale, soddisfatto ventre…)

*

Il mio amante è un dio

 

Il mio amante è un dio;

febbri pure, i suoi orgasmi,

che penetrano fino all’osso.

 

I suoi orgasmi sono deliri,

perché il mio dio mi vuole sempre

e non mi lascia andare mai.

 

Che sieda nei fiori o nel vento,

alle soglie dell’alba o nella tenebra

                                        più fitta,

su rive chete o scosse da tempeste,

nel gelo o nelle torride estati

egli

 

è

 

e mi vuole sempre

e mi prende sempre

 

perché siamo Uno

io e il mio dio

tutto

e il niente più splendente

che partorisce tutte le stelle.

 

*

Estati interrotte

 

Fiammeggiano sulla rupe,

ancora, resilienti papaveri

-          li scuote un forte vento-.

 

Là vaga una vanessa solitaria,

tra i pini a strapiombo.

 

Fondo è il ghiaccio

nel desolato monastero;

tante lingue parlano voci

d’estati interrotte.

 

Oh se,

con tutto questo freddo,

potessi almeno coprirmi i piedi!

*

Questa febbre

La parete rosa è un’utero

di fronte a me;

quasi una culla.

 

Forse, prima,

c’era uno specchio;

prima che frantumasse

e mi frantumasse.

 

L’orologio gracida

come una stanca rana

sul mio corpo fermo,

da manichino.

 

Gli arti sembrano moschetti,

il ventre è un urlo di dolore

che sanguina, sanguina, sanguina…

 

E tuttavia dalla finestra

entrano memorie

che appartengono al mondo;

 

romantiche rotaie,

Roma di notte,

un vecchio film del dottor Zivago,

la Russia e la neve…

 

…è la febbre,

lo so,

la febbre…

 

Questa febbre

che mi brucia

chiamata nostalgia.

*

Il canto di Ginevra

Oh Lancillotto,

io ero una foresta vergine,

io ero una tavolozza di stelle.

 

Artù era il mio pilastro,

il mio sgabello dai cinque piedi.

 

Io ero già altare,

sacrificio

e sacerdotessa,

 

trina come la rondine

quando, con l’ala,

taglia il cielo.

 

E tu che venivi a cercare?

 

Cercavi il taglio

sul monte di ghiaccio?

 

Oh valoroso Lancillotto,

tu, solo tu, sapevi…

 

Proprio lì, sulla lacerata cruna

stava appesa

la scintillante luna!

*

Ombre

Ombre m’assalgono,

dal tubo del lavello;

alcune sono streghe

che suonano il tam-tam,

le loro risa spaccano

le orecchie!

 

Altre volte le ombre

cadono sul sofà

come tele sdrucite;

l’impatto è lacerante,

veloce, il cuore

pompa sangue rosso.

 

Ma, quando le ombre

sono buchi

tu, come Alice,

ci cadi dentro…

E rotoli, rotoli, rotoli,

rotoli…………..

 

Senza mai arrivare.

 

*

Stamattina c’era la pioggia

Stamattina c’era la pioggia,

la pioggia, la pioggia, la pioggia!

La pioggia mite, benedetta,

la pioggia che entra nell’osso,

giù, giù, giù…

 

Le ho dato in pasto un po' di

                                   memoria

come alle belve del Colosseo

e lei scendeva, scendeva, scendeva…

 

Fino a quando il mondo è diventato

                                     una tela bianca,

con tutti i paesaggi e nessuno

e qui ho visto zampettare una bambina nera,

furente di malinconie.

 

Ho detto: “Minosse, avanti!

Fatti sotto, fratello!”

e la mia spada era una spiga,

era un papavero d’oro

che non uccideva,

non uccideva nessuno.

 

Nemmeno te.

*

Un giorno a Roma

 

 

Nello stupendo fragore

di un teatro biancheggiante,

le strade traboccano farneticanti inedie

tra le cupole i palazzi

che stringono Roma in una morsa

di bellezza brutale e impietrita.

 

Solitudini astrali boccheggiano,

                                             feroci,

nei camerieri rapaci all’angolo dei

                                            ristoranti,

o tra botteghe scoloranti in epiche memorie

                                               di fasti andati;

 

La morte serpeggia in filigrane

d’occhi nuotanti su derelitti volti

e sembra che la somma dei cieli abissali

porti una musica grave

sulle baracche, tra i rifiuti.

 

E che un altro cielo, oscuro, impiombato

se la rida della grazia, della bellezza

e degli eccessi di una città bella e invereconda

che, come un Cristo mai morto e mai risorto

sembra prendere, su sé,

tutte le piaghe del mondo.

*

Ritorno all’età dell’oro

Un solo istante

e tutto crollerà;

non senti la smania

tra fondamenta divelte?

 

Nessun fragore

smuoverà le tombe

-          ‘che quelle son già passate’,

solo una lanterna

illuminerà la notte.

 

Tremerà la rosa degli esodi,

il ferro sarà colata d’oro rosso.

 

Non vedi?

 

Resterà il papavero.

A cantare le odi.

A divellere il tempo.

*

Quel pensiero

 

Porto la mia spina con inclemenza,

trafitta dal ricordo

della rugiada che non conobbi.

 

Già, prima del mio tempo,

i soli falciavano la terra

coi sudari dei braccianti.

 

L’eccelso e l’imo mi braccavano,

di luce riflessa tra mille, splendenti fuochi,

e fu il pensiero, quel pensiero,

che mi salvò dalla macina dei giorni

a macerare destini stanchi

all’ombra di invalidi santi.

*

Penelope

Il mattino, questa mattina,

era così bello,

roseo come le carni di un bambino

quando, dalla notte, sale aurora

con le sue gambe di cigno.

 

Ho detto:

“Andiamo, andiamo!”.

L’ho detto ai venti, al falco,

alla rondine, al gabbiano

e avevo le reti piene,

piene di pesci guizzanti...

Ogni pesce intessuto

nella tela della notte

 

ed io, Penelope,

lasciai l’altra Penelope,

lasciai Itaca,

felice,

senza nessuno da aspettare.

*

La ferita

Tu eri una ferita avara

che invano tentai di smacchiare

col candeggio della poesia.

 

Appena nata mi avvoltolai

                nel giorno strano

come triste astro nella sabbia.

 

Poi mi feci un carapace

perché l’alba non dissanguasse.

 

E ogni primavera

deposi uova amare là,

sulla sabbia rossa,

senza saperne la sorte.

 

Ma fu

da quell’alveare decomposto,

senza regina,

che trassero il mio nome,

a arpioni;

 

come da un pozzo artesiano

dove, di notte, arde una stella.

*

Piena di grazia

 

Nacqui già piena di grazia,

già sacramento;

sulla fronte il segno.

Poi da una gonna rude

come un’uniforme

cadde uno scheletro.

 

Uno scheletro di donna

portato in processione.

Donna-tutta-luce

Donna-tutta-bianca

Donna-tutta-panna.

 

Mio padre, san Giuseppe,

pose un sigillo sulla mia gonna

(aveva già perso molti pezzi

nel calderone delle magiare, figlie dei Padri).

 

Nella vasca per pesci del paese

vedevo teste e interiora di donna,

accanto a onischi vestiti da prete.

 

Ancora l’Inquisizione.

 

Io, scalza, spettinata,

mezzo svestita.

Rotta e ricomposta.

Dannato germoglio d’Eva,

sporca puttana.

 

E tuttavia il segno non morì,

con me, sul rogo.

 

Rinacqui piena di grazia,

benedetta da una rabbia benedetta

la stessa che mi fa volare coi cigni

là, sul lago, fino alla vetta…

 

Sorella e figlia

benedetta dagli dei.

*

Notte nuova

 La notte è nuova

come un tuorlo.

 

Tu sei il mio albume nero.

La palpebra sul guanciale.

La fame. La sete.

 

Le marionette sono rotte;

il sangue schizza...

Fili recisi pendono,

come liane

 

Dal ventre della balena,

disegnano una nuova notte

                                     su noi,

beduini braccati,

fuorilegge d’eternità.

*

Saturno

Mi lasciasti con un nodo

di febbre sul cuore,

un buco di pellicola

                 ustionata.

 

A cesellare vuoti.

A scolpire assenze.

 

Il tempo si allungava

come filo arrugginito

sul lume pacchiano

della mia vita.

 

Tu, Saturno,

che ancora ruoti

con la tua anima gelida e minerale

nel vuoto siderale

fatto di pezzi di me.

*

Lucia di Lammermoor

 

Oh cara colomba,

eri disposta a tutto,

a tradire la farsa,

a svelare la tresca…

 

Per LUI, si racconta…

 

Lucia dal ventre bianco,

Lucia occhi-di-neve.

 

Sotto il velo d’inganno

ti mangiasti le unghie, per noia.

 

Sotto il velo

ti s’ingroppò la voce.

 

Edgardo era un uccello nero.

Edgardo era il tuo pugnale.

 

Sposasti i tuoi serpenti,

al posto di Arturo;

neri, crudeli,

magnifici e divini!

 

Dal cappio della famiglia

a quello del matrimonio,

il passo era breve.

 

Tu chiudesti i serpenti

nella tua vongola inanimata

fino a che il dolore

ti mutò in branda esangue.

 

Edgardo capì;

fino alla morte ti amò.

 

Edgardo era il tuo pugnale.

*

Fino all’alba

Ti uccisi per troppa carità;

limai la punta del coltello

                               e entrai

dove ormai non scorreva più sangue.

 

Fu un innesto necessario,

che aprì la tua tomba di eternità.

E lì portai il mio fegato scuro,

il cuore rosso,

i nervi ardenti, i villi palpitanti.

 

Ma tu dubitasti;

versasti l’olio della lampada

e oltraggiasti il dio nel suo sonno

                                    da demiurgo.

 

E gridando il nome della tua prima

                                            madre

che era anche quello della morte,

lasciasti le orbite alla cecità totale.

 

Tua moglie ti leccò le piaghe

con la sua lingua secca.

 

Pensavi che ciò bastasse ma,

quando esalasti il dolore

            dal tuo congegno

dalla bocca ti uscirono cortei

di vespe vestite a lutto.

 

E in un istante,

sentisti il vento trafiggerti coi miei occhi,

rompere il velo della tua notte abietta.

 

Accadde là,

appena sotto al mio santuario,

dove mio figlio reggeva il pugnale

col sangue che seppi darti;

 

fino all’alba.

*

Palazzi di potere

 

Che c’avete da dire

miei bei palazzi ben vestiti

come i signori mani di cera

che vi frequentano ogni giorno?

 

I vostri segreti ve li tenete stretti,

non trapelano dal rosa salmone,

né dall’avorio fascista dei marmi.

 

Ma siete sicuri che questi segreti

non escono per strada?

 

Ci vanno, ci vanno, eccome…

E per pietà, li beccano i piccioni.

*

L’errore di Ulisse

Avevi denti troppo larghi;

ogni tirata d’aria

uno sbuffo di menzogne.

 

Ora dimmi, caro,

tutto questo dove ti ha portato?

 

Ho visto un’ambulanza

sotto la tua casa;

il buio mordeva il cemento,

Penelope fradicia e sfatta

come cartone bagnato.

 

Era questo che cercavi?

 

Oh Ulisse,

calpestasti i fiori nella mia isola segreta,

i fiori tanto amati,

ogni corolla un nodo d’amore…

Non sapevi che ero una maga?

 

Io vedevo…

Itaca era una palude,

Itaca era un pugnale,

una spina secca schiantata

                             nel fianco.

 

Itaca non c’era già più,

forse non era mai esistita

 

e Argo era la morte

da cui eri in fuga.

 

*

Curcuma nera

Raffiche di vento,

cosa c’è nelle mie catacombe?

Sono Teseo, tu Arianna;

Teseo meno stronzo di Teseo

-          per un attimo abbiamo ruoli invertiti-.

 

Tu sei il mio gomitolo rosso sangue.

 

Tu sei il mio sudario.

 

Oh! Oh! Oh!

 

Il fuoco brucia dal ghiaccio.

Il fuoco brucia dall’acqua.

Brucia dai tuoi capelli.

 

La miccia sale fino al cuore,

spacca gli angoli retti,

spacca la mela con la dolce violenza

della tua anima di curcuma nera.

*

Danzatori del fuoco

 

Sguscio sulla sedia,

un nero mi spia,

danzatore del fuoco

-          occhi tanto grandi

da incendiare il mondo-.

 

“Voglio portarti nell’isola

                         caramello,

voglio spettinarti l’anima,

affidarti le ossa,

perché sopravvissi

ai conquistadores,

agli inglesi,

ai francesi,

persino ai missionari”.

 

“E allora vieni,

mon cher,

danziamo sulle balle del mondo,

danziamo sugli specchi,

sui girasoli dei cinesi,

sulle nicchie vuote come crani,

sulla ruggine dei palazzi di potere,

sui proiettili in bocca ai macellai.

 

Danziamo,

io e te,

fuoco nel fuoco,

anca nell’anca,

perché così,

così siamo fatti io e te,

metà animali,

metà uccelli…

 

La danza

è il nostro regno!”

*

L’attesa della rosa

O dolce Maestro

chi ti tolse le spine?

 

Fu forse il corvo,

fantasma redivivo

del tizio dell'intingolo?

 

Parlasti a ratti

con la lingua degli angeli

e la serpe non perdonò;

 

la tua innocenza

fu la tua vera croce.

 

O dolce Bob Marley

o caro Jim Morrison

appassionato Guierrillero Heroico,

stenditi, stenditi, stenditi

sul tuo letto di spine!

 

Tua madre, un pò serva

                  un pò tonta

ha ancora da fare il bucato

(e tu sai che, un giorno,

la porteranno in processione).

 

Domani, ancora, dopo le 15:00

i paparazzi prepareranno una storia,

costruiranno un nuovo tempio di parole

ma senza abbattere il vecchio

 

e tu, ancora, negli inferi

camminerai,

palestra della qualunquità.

 

Era la nozione rimasta interdetta

(l'unica importante, che tralasciasti, 

ancora in fondo giovinetto)

e tu 

che sai manipolare il tempo

la vedrai,

riguardando il Calvario, 

ripensando all'errore.

 

Correggerai la bozza.

 

E sarà senza discorsi e vaticini

nè clamori di folla

che verrai.

 

Starai lì, in silenzio,

ad attendere la rosa

fiorire dalle spine. 

 

 

 

 

*

Scivolando nella notte

Mi han tolto l’anima in fil di ferro

e braccia, gambe, testa

son cascati penzoloni…

 

Povero Pinocchio cresciuto

troppo in fretta

o troppo tardi!

 

Dio padre è andato in un bar

a fumarsi una sigaretta

e non sa se aprirà più lo studio

                                    di regia

nella celeste Cinecittà.

 

Il dolore è un infiltrato;

un gatto nero su un muro

                                di calce

che agguanta falene…

 

Non ho più alibi.

 

Scivolano via i libri le estati

gli articoli di giornale i sogni

imperfetti gli occhi sui binari

le carezze mancate…

 

Scivolo…

 

E sono il gatto

o la falena

o la notte corazzata

sulla mia anima in fil di ferro

che scivola…

 

sci

vola

 

sci

vo

la

..  

 

 

 

 

*

Al bar

Oh bar, tu mi rendi felice!

Felice, felice, felice!

Col tuo blues,

i divanetti ad affondo,

i liquori in fila sullo scaffale

come i soldati a Bukingam palace

(pace alla regina).

 

Un approdo, le tue barchette

di paste con zucchero a velo,

le torte son pupazzi di neve

nelle sfere di cristallo…

 

Qui può nascere l’amore,

in un giorno di pioggia….

 

Qui

ci si può versare glassa

sulle piaghe

-          niente da obiettare-.

 

E che musica i cucchiaini

nei piattini,

meglio del blues,

meglio della marcia funebre,

appesa al cordone verde rame che ancora mi

                                                                       tiene,

legata come un’assassina

a una stazione di polizia.

 

“Elì, Elì, lemà sabactàni?”

*

La voyeure

 

Al n.35 di via del mare calmo,

poco distante dal molo,

una donna spia dalla canna fumaria…

 

Sigla di un film di Fellini,

con tanto di lacrimoni,

si spande dai tavolini

del bar di fronte…

 

Nessuno si muova.

 

La donna spia

coi suoi occhi di rubino ignifugo

(la sigla di Fellini ora è un valzer).

 

Spia la signora-gambe-oliate, che

sorride al cameriere con denti d’avorio,

spia la donna giovani tettine

di latte tutto a venire,

spia il bacio di due al miele salato…

 

(Torna Fellini, Roma, più bella che mai).

 

La spiona è ora un lampione antisisma

e il suo bottino, lanciato da lì,

dal 35 di via del mare calmo

spacca il molo

come un martello pneumatico.  

*

Pioggia

...

 

Pioggia.

 

Pioggia benedetta.

 

L’aria è azzurra e tu

sei fonte battesimale.

Non contraffatta.

 

Sei fiume

per la tortora assetata,

madre leggera

sulle viti sfiancate.

 

 

Benedetta, così

 

Leggera, leggera…

Sui tronchi rossi,

sulle rose color carne,

sulle croci crepate nelle edicole

 

su queste foglie color sangue,

sui tappi di plastica e le lattine,

sui laterizi abbandonati nei fossati

                                    delle ferrovie

 

sui cani alla catena,

sui pacchetti di sigarette

IL FUMO UCCIDE,

su di me che mi bagno

 

sul mio grido

 

pioggia rossa,

azzurro sangue

saliva di dio,

medicamento del figlio

per la tarantola

che mi divora il cuore.

 

 

 

 

 

*

L’obolo a Caronte

 

Un obolo può stare in un sacchetto, in tasca,

è il tributo

prima che Caronte mangi la chiave

tra le stelle spezzate e i lumi disciolti.

 

L’obolo era una promessa,

prima che il tarlo divorasse l’azzurro

e spezzasse le primavere

come cadaveri in pensieri di ghiaccio.

 

E ora che i fiori sono morti sul fossato,

l’obolo è ancora il pedaggio

dei fiori mai recapitati,

delle membra consumate d’attese,

coi pezzi rossi del mio cuore

che, tuttavia, non molla,

mai…

 

Caronte è pronto

e apre il fiume come un rubinetto

                          dai miei occhi neri,

nascosti dietro un foulard da signora.

*

Una notte sognai il paradiso

Una notte sognai il paradiso;

una notte senza tombe da scrostare

sul mio corpo forato d’assenze

          come vecchio vasellame.

 

I ferrovieri erano già tornati,

quella notte

e dalle anche esalava un odore strano,

assai diverso dal bianco e nero dei giorni,

assai diverso dal solito latte versato.

 

Feci così, quella notte, quel sogno strano

dove la nostalgia vibrava su laghi

mai nemmeno immaginati

e i tuoi occhi erano farfalle pazze

che volteggiavano su me, libere, in delirio…

 

Fu un attimo, perdersi in quei colori

lasciare al tempo, matto per davvero,

le pagine di vita che non scrissi.

 

Un attimo…

 

La scimmia del dolore lontana dall’assedio

mi salutava con la sua zampa d’osso,

dicendomi che, in fondo, mi aveva amata

e condotta lì, tenendomi al caldo

sotto la sua pelliccia di vergine oscena.

                             

 

*

Perdendomi, una mattina

 

Una mattina mi persi

nei passi di una bianca città.

Il treno che fischiava,

zaini dell’uomo ragno a una vetrina,

i fiori di plastica nei vasi dei cinesi…

 

Tutto era irreale

come la realtà,

fermo e mobile

come il traffico,

i tubi di scappamento,

i poveracci in fila

al centro delle suore…

 

Il cielo basso

con nuvole come divani.

 

Anche la strega era più mite,

allegata alle fiabe

della grande libreria salotto

coi suoi perdigiorno…

 

Fu lì,

che mi persi.

E per un attimo,

mi confusi coi piccioni,

con le tende nuove di una casa

bassa per novelli sposi,

 

per un attimo

dimenticai la tomba

premuta sul cuore.

*

Una mattina

 

Una mattina, ancora;

l’anima persa in un boato di ruggine.

Gazze strane, i segni sui tronchi,

nudi, nudi, nudi….

 

L’anima chiama a raccolta

le sue croci,

ancora odore di caccia

e d’ossa decomposte…

Spazzola, spazzola via

padri non disposti a cercarti!

 

Annego in strane stoviglie;

mattanza di cose e lettere

marcite, mai spedite, bruciate…

 

Ma c’è un sole rosso,

questa mattina, trainato

da una carovana fastosa

di zingari pensieri…

 

Affonda,

nel sangue più buio

dei luoghi più rotti e profondi

dove un vento, stregato di pietà,

ancora m’accarezza…

*

Nel paese tranquillo

 

Nel paese tranquillo,

assediato solo dalle mosche,

una giovane donna un po' tocca

scrive la sua poesia nera

in una tazza del caffè Retrò.

 

“Il colpo è stato forte”

dice un vecchio color dentifricio;

qualche tempo fa

cercò di pulirsi la testa

con la candeggina e poi…

Fumava due sigarette insieme.

 

La barista è gentile;

le offre sempre il caffè,

ma poi sopraggiunge un uomo

-forse suo padre, forse no –

le dice ‘Sali in macchina’

e lei va via.

 

Il vecchio tace.

La barista ripulisce

il caffè versato;

 

domani i cittadini

andranno a votare.

 

 

 

 

 

*

La città di pietra

 

Ci sono mura

che non vogliono cadere,

laterizi immortali

incollati col sangue

e fiumi di gesso

dove l’acqua non lava

                    la pietra…

 

Gli alberi se ne stanno

nei viali infestati di noia,

impeccabili tribuni della plebe…

 

E’ sangue pure il tronco

e i rami rugginosi,

contorti in uno spasmo.

 

In questi posti

non ci sono fiabe,

né bambini

a cui poterle raccontare;

la vecchia fontana,

mangiata nella pietra

è il solo mangianastri cadenzato…

 

Letargici, i passi,

si appendono agli scavi;

ognuno lascia a un’anfora

a un elmo o antica fibula

una voluttuosa litania di dolore.

 

Il fiume è altrove…

*

Ancora guerra

 

Strida di gabbiani

tagliano il cielo,

ne strappano l’azzurro che cola,

come vetro frantumato.

 

Il sangue schizza a fiotti,

senza nemmeno odore di redenzione;

astanti in cravatta dalle dita illibate

divorano carni ai banchetti.

 

Fantasmi s’elevano

dall’anfora biancastra

di una donna spettinata,

scomposta dal dolore.

 

I pezzi di vetro

hanno agonie d’animali morenti,

galleggiano,

sconnessi,

portati dalla marea…

 

Chissà dove…

 

 

 

 

*

Il colonnello

Il colonnello era tutto d'un pezzo;

mangiava ad orario 

e sempre a misura

e quando usciva,

prendeva l'ombrello

che non si sa mai

degli scherzi del tempo.

 

Il colonnello guardava diritto,

perchè conosceva i suoi doveri;

ma ora che si è fatto vecchio

e dritto non cammina più,

volentieri si scorda l'ombrello.

 

Guarda le donne 

e con rabbia s'aggancia al bastone

perchè, nel frattempo,

              si è accorto

che si è fatto fregare l'amore. 

 

*

La nobildonna

La signora tutta balze

sta tra bambole ed arazzi;

sui divani dormon tarme

fino a dentro i bei cuscini,

che ha cucito una sartina

per il suo gusto di regina.

 

La signora tutto onore

c'ha un rossetto caramello

sulla carne mezza guasta;

 

dona l'anima ai suoi santi,

fa l'offerte ai poverelli

che le portino lo spirito

ben lontano dalle tarme,

che la elevino dal peso

delle forme sue sgraziate.

 

Non si sa se c'ha una vita

la signora tutte grazie;

cade a pezzi il suo castello

in affondo tra le balze. 

 

 

*

Il segreto

 

Stamane ho visto un lombrico

marciare su foglie marce;

nemmeno la consolazione

di una sigla da telenovelas…

 

Marciava coi miei occhi penzoloni

sul suo sudario di peli e di zampette,

tra gli abissi dischiusi da ogni foglia.

 

Talvolta l’ho visto perdere una zampa

e il sangue schizzare sui tronchi inerti

come i parenti alle cene di Natale.

 

Allora gli ho dato un bastone

ricavato dalla mia corona di spine.

 

Il lombrico ha sorriso,

perché finalmente aveva un segreto.

(Il bosco l’ha saputo

e ci ha lasciati passare).

 

 

 

 

*

Bagni di fango

Il mercante di lombi,

emissario di Barbablu’,

venne alla mia porta,

scricchiolando su nodi

             di foglie morte.

 

Aveva una ciotola di fango

 in cui limava coltelli

e sulla coda scodinzolona

una fiamma di fuoco fatuo

al sapore di rosa marcita.

 

Baratto noia con etti di lombi,

ma tu chiamali come vuoi,

disse

e mosse le zampe di ragno,

come a ghermirmi.

 

Io non feci in tempo

a dire di no che già

danzavamo la tarantolata

sul teatrino cartone, corrotto

                                      dai tarli.

 

Accadde.

Non so perché.

Forse

era una reminiscenza,

una crudele nostalgia

dei bagni di fango

di mio padre.

*

Roma

Roma è una stanca signora;

la notte riposa sui lampioni lucenti

tra palazzi addormentati e cupole

                                       adagiate

in sbuffi di gloria andata.

 

Roma è un'isola rapita;

il vento le riporta i fasti antichi

come in un racconto scritto

dalla regia del Mistero.

 

Roma è tutte le luci e tutte le voci

e come ladra di cuori

gozzoviglia nei cuori zingari

e nei tanti randagi di strada;

 

l'anima gliela prende la notte

e la porta lassù,

oltre le cattedrali, le pietre rotte

e le statue distratte.

 

Perchè Roma è una bella sottana

bucata di bellezza

e se piange, è solo

per farti innamorare. 

*

Non cercai l’estintore

 

Tu eri un amore al colostro

e quando venne la prima pioggia,

-          la prima pioggia color vena –

tu virasti con le tue zampe retrattili

                            da vitellino triste.

 

Presentii già l’umido da presepe

e mi vennero i reumatismi alle gambe.

Allora per te divenni una statua d’oro

nella teca dell’amore!

 

Che amore da museo!

Che amore da eutanasia!

 

Così, prima del matrimonio,

ruppi la teca e non cercai l’estintore;

e passando con lo stop,

fuggi con l’ultima mia estate

col mio passo di fiamma.

*

Mi manchi

 

Mi manca l’herpes

all’angolo della tua bocca,

il filo rosso che ti lasciai,

fuori al tuo studio,

appeso al mio ombelico.

 

Mi manca la tua barba

a pungermi la faccia,

i lutti esagerati dei tuoi

                      “a presto”

e le resurrezioni dei ritorni.

 

Mi manca la tua testa

pesante sul mio petto,

quando ti nascondevi dal mondo

tra i miei capelli

con quei silenzi goffi, da bambino.

 

Tu mi manchi.

 

E segreta, la tua voce,

torna all’aria come un richiamo.

 

E addento la voliera

di passi arrugginiti

solo

per lasciarti una scia

del sangue che mi resta,

 

perché tu possa ritrovarmi;

ancora.

*

L’occasione

 

Ti morderei ancora,

come un’arancia;

fino all’osso.

Perché mi lasciasti,

regina delle nevi

nel mio regno di ghiaccio.

 

Perciò spara,

sulla crepa!

 

Rovesciando il Graal

dalle cosce,

fino a spaccare

questa neve dura!

 

L’appendiabiti verde scuola

che ci esplorò nelle notti

dei tirocini dell’amore è lì;

pulito come un tovagliolo,

come la camicia bianca

che ti avvolse il ferro.

 

Il nostro amore claustrofobico

è ora grano tostato

per il tiro al poligono.

 

Perciò,

spara!

 

Questa

è l’occasione.

*

Palazzi di Roma

 

Immortali stanno

i palazzi di Roma

affacciati a una gloria

                        solitaria,

eterni

nella pietra.

 

L’aria più lieve

bacia loro le bocche

agli angoli delle vetrate,

 

colombi dormono

           sui frontoni,

carpendo i segreti

più antichi del mondo,

 

portandoli al fiume

che scorre con l’oro

tra sponde senza domani,

 

laggiù….

 

 

 

 

 

*

Gialla mummia

 

Fa freddo, anche se è estate;

perciò accendo un cero innanzi

alle mie spoglie che passano

tra i tanti passi.

 

Conto il nero delle cicche

                   sulle chianche.

 

Me lo infilo addosso,

come un cappotto

sulla mia gialla mummia

 

che va,

 

trainando un inno incoerente.

*

Stelle

 

Le stelle ruotan come farfalle pazze

e sembran piccole streghe

con torce splendenti.

 

Sfavillan nella calda notte,

s’aggrumano in sillabe d’oro,

danzando l’Aum dell’eterna gloria.

 

Qualcuna scende,

s’accomiata al mio letto

e poi torna su, dal tetto…

…fumando già l’alba dal narghilè.

*

Lavori in corso

 Il tempo è una gola d’oro,

sazia di sassi.

 

La sistole dura al rilascio,

la mia bambola asmatica

talvolta soffre ancora d’apnee;

fame d’aria.

 

Il dolore è un catarinfrangente

nella c4, c5.

E tuttavia i tir

depositano sabbia.

Il movimento sembra non finire.

 

L’urlo incastrato, lì,

nella mia anatomia decomposta ad artificio;

sposta gli assi, ristruttura, arreda, per la vendita.

 

Freddo, il ferro,

muove i denti alle sedie

impagliate, impigliate

in ragnatele d’assenze.

 

Il libro dei conti,

i salmi dei soldi.

Istanti macellati,

colati nel lavandino.

 

Ingorghi.

 

Nessuno a darmi una pastiglia.

 

Nessuno a farla finita.

 

Acido pure il miele,

come il sangue sulla tagliola.

 

Solo,

il sibilo del vecchio frigo….

*

Il topo in cantina

 Ti chiusi nella scatola del tonno

e ti portai in cantina;

“per costruire nuovi musei all’amore

bisogna omettere le tombe:

insidiano le fondamenta”,

così mi consigliò

l’architetto che conosceva i cervelli.

 

Niente da ridire;

i morti ai loro morti.

 

Ma, una sera, udii un rosicchiamento

                                                 in cantina;

Scesi.

L’umido forava le ossa.

Un topo, travestito da falena,

attentava la latta.

 

Cercai allora il mio domatore di scimmie,

pazza, gli dissi:

“presto tutto l’olio sarà versato

e dovrò tumulare la fiamma!”.

 

Ma il mio help man,

che aveva idee secche e concentrate

                       come sardine in scatola,

ineccepibili come il peccato originale

mi disse, asciugandomi il sudore dalla fronte:

“Stai calma e ricorda

la parabola dei musei”.

 

Sembrava così credibile

coi suoi nervi diluiti

nel sorriso rosa bambino,

che volentieri ci avrei dato una tirata.

 

Invece mi misi a letto,

buona buona.

 

Ma, poco prima del sonno,

udii ancora lo stesso fragore

                                 in cantina.

Mi buttai per le scale, a rompicollo;

nella scatola c’ero io

e il topo mi divorava

coi suoi denti bianco confetto.

*

La mia casa

Dalla mia vecchia casa

presero il frumento, di notte;

 

Il latte UHT

munto a miglia di distanza

da vacche computerizzate;

 

la confezione in plastica

di merende all’ogm.

 

La fame e la siccità han fatto il resto;

mi hanno deprogrammata,

mutandomi in un congegno rotto;

una bambola rattoppata

con rosari verde bile.

 

Nemmeno un sibilo dai ritratti

dei morti sul comò;

la trisavola se ne stava intontita

nel suo silenzio nero catrame.

 

Dal televisore spuntavano nani

dalle dita rosso assedio

e nessuno a urlare.

Al ladro! Al ladro!

 

I vicini tenevano il televisore

a tutto volume.

 

Dio nella mia mano

era un pappagallo pazzo;

in quel pane,

in quel vino

non ci voleva stare.

(Sempre più nero feccia,

infatti, era il vino di mio padre).

 

E allora, un giorno,

presi con me il mio pappagallo pazzo,

lo appesi al lobo come un orecchino

e fuggì,

lontano,

là dove il niente non ci poteva stare,

 

verso una casa tanto grande

da poterci mettere il mare.

 

 

 

*

La luna verde pistacchio

Un tempo c’era la luna

           verde pistacchio;

si calava come una befana

sui palazzi grigi, issati

sulle strade rotte e deserte.

 

Il falegname aveva già l’investitura

per livellare i sogni inquieti;

nell’atrio cicaleggiavano televisori

                                in bianco e nero.

 

Mi sporgevo dalla finestra

con la mia bambola nuda

e per consolarla le dicevo:

“quando avrai le tette

sarai più fortunata!”.

 

Poi richiudevo la finestra,

temendo la notte

mi strappasse il cuore

-          da dentro -.

 

Rotolavo nel letto

con la mia ciotola di azzimi.

Ma, una mattina,

non trovai più la mia bambola

dagli occhi azzurro/gatto.

 

Forse era volata via

sul veliero

di una luna verde pistacchio.

 

*

La vecchia sbirciona

Certe volte barcollo nelle sere;

come una vecchia in sottoveste

porto le zattere incerte dei piedi

su vetrine rosa/pesco arancio/tristezza.

 

Temo che tutti vedano

la mia croce di carne crepata.

 

Allora penso a un tempo

senza porte murate,

mi do un tono di charme

                   rosso gladiolo

di fronte alla gentilezza del droghiere,

con le sue battute d’oppio marcio.

 

Però sono anche una vecchiaccia testarda

e m’infilo come una cimice in ogni fessura,

persino nei tubi di scarico

e porto lo scherno come trofeo

del mio essere viva di nudità.

 

*

Un chilo d’amore

Nel bel paese tutti son santi cristiani,

così avevano detto a mia madre

e lei, a sua madre,

eresse una tomba nera

sopra lo stipite in cucina,

e accese un cero al lingam

con svogliata sottomissione.

 

Avevo gambe come anguille

e il salumaio, che affettava

                       carne esiccata

con puritana purezza da orafo

non udiva mai, intera,

la mia richiesta:

“… e un chilo d’amore, grazie”.

 

Poi lo spauracchio della guerra

                                     in Iraq.

A cosa serve il petrolio?

 

Le uova rotolavano dai gradini

                              della scuola,

dove avevano incastrato la mia testa.

 

Io rimanevo fedele alla comanda,

evaporando come un incensiere.

 

Sedevo sulla panchina accanto alla fontana

dove i piccioni si facevano il bidet

a pochi passi dal monumento dei caduti

                                           per la patria

e intanto dicevo:

“Un chilo d’amore, grazie!”.

 

E per non scordarlo,

lo scrivevo col dito sulla polvere

delle finestre di scuola

che nessuno ripuliva,

che nessuno leggeva

 

tranne

quel vecchio birbone del piccione

che, poi, tornava alla fontana

per la solita toeletta giornaliera.

*

Un pomeriggio, in un posto qualunqu

Un pomeriggio mi fermai

in un posto qualunque,

sandalo ristrutturato,

gonna lunga dalle grosse camelie,

pois…

 

La macelleria aveva un’aria familiare,

le persiane se ne stavano, diroccate

come i denti dei vecchi.

 

Mozziconi nel catrame,

che si dicono sotto la sottana

di quel bar all’aperto?

 

Le sacrestie esalavano sui vichi

doccioni di noir di polvere e tufo.

 

Perché sono ancora tutti vivi?

 

Il caldo gonfia le tette di cupole,

urla, la pietra, da bifore incatenate.

“Appartenevo alla terra” dice.

 

Risponde l’oleandro

incastrato nell’aiuola,

glabra come i sepolcri.

 

“Prima stavo sul mare”

e piange lacrime rosa floreale.

*

Azzurro temporaneo

Fu solo azzurro temporaneo,

una cornice senza specchio,

un fuoco d’artificio senza zolfo

averti incontrato.

 

In un attimo

infilasti i tuoi artigli da rapace

nel mio braccio.

Il cuore già sanguinava.

 

Io mettevo il naso

nel profumo dei panni stesi,

respirando odore di bucato…

 

Ma i tuoi panni erano sporchi;

sporcasti la mia casa

con le tue zampe di fango,

come in un nero avvento.

 

E tuttavia sapevo

che il cacciatore sarebbe tornato

e quando scoccò lo sparo

da te

non uscì fuori niente.

 

Nemmeno sangue.

 

Fu solo azzurro temporaneo,

averti in incontrato.

*

La volpe argentata

 

Godemmo già le stagioni dell’amore,

ma poi lasciammo le penne sulle spine,

dissanguati come aironi feriti.

 

Costruimmo muri di neve

sulla nostra poesia spezzata.

 

Restammo misere creature alate

e la tristezza soffiò l’uggia nelle sere,

calando una palpebra grigia sui cieli.

 

Mi spezzai come un sasso.

La mia fiaccola ruggì, nei crocicchi.

 

Ma, non sapevo…

 

Stavo entrando nel castello del sole nero

costruendo un nuovo nido, per noi

col sangue di una nuova poesia

colato dalla mia coda di volpe argentata.

*

Io ti venivo a cercare

Io ti venivo a cercare

perché tu eri il mare

e la tua spuma

spezzava i miei sassi.

 

E anche ora

che il tempo ha lasciato

                           una scia

di farfalla in agonia,

ergo un tempio all’amore

che veniva, prima dello sparo.

 

E ti venivo a cercare

come una bimba sull’orlo

                        dell’oceano,

sola

nella felicità dell’orma,

persa

nei tuoi passi perduti.

 

E ti venivo a cercare

perché tu

eri il mio mare.

 

 

 

*

Solo la tua maschera

 

Ti vedevo irraggiungibile,

come un dio delle fontane,

ma ci respiravamo nel midollo

dalla rotta di collisione delle ere.

 

Non sapemmo ritrovarci

che per perderci,

ancora

ed io bagnai i miei piedi da bambina

nella risacca che riportava il sudario

lontano da me.

 

Fu un giorno senza destino,

quello;

sentirti fin dove

scompariva il confine.

 

Solo la tua maschera

rimase, a terra;

dissanguando.

*

Accendi questo fuoco

 

Accendi questo fuoco,

nel solco di questa assenza,

perché volammo tra i millenni

sul filo d’oro di questa follia.

 

Saltami addosso, dall’aria,

perché questo amore

incise il nervo del fuoco,

ferendoci nell’osso.

 

Poi l’orgoglio arrestò il flusso

 

Cademmo,

come uccelli febbrili

nell’abisso assoluto

di una furente malinconia.

 

Fu il nostro peccato originale.

 

Restare vuoti di parole,

passandoci il mondo di dosso.

 

Ma resta lì, il fuoco,

canta le estati già mietute,

per noi,

che non possono finire.

Mai.

 

 

 

 

*

La casa azzurra

Laggiù c’è una casa

con le finestre azzurre

sta là, immota,

nel sonno delle formiche.

 

Dicono che hai perso

i tuoi tramonti,

rovesciando il latte

che tua madre

non ti ha mai versato.

 

Io sono ora un grande uccello,

un’aquila reale

e disegno un sentiero

a picco sul monte,

a picco sul mare

dove lasciasti

il mio gomitolo d’amore.

 

E quando LORO

marceranno dallo spazio

e l’oracolo avrà ancora il sigillo

che ti impressero le mie labbra

col fuoco

tu

che farai?

Chi invocherai?

 

Ho ancora la conchiglia,

tra le dita.

Sta nella casa azzurra,

là,

dove ci siamo conosciuti.

*

Promessa

 

Il tuo osso è rimasto

impigliato nel mio canto.

Sarà per l’oro delle verbene

o la prodigalità delle cicale…

 

E… che ti sto ancora cercando,

ramo dentro ramo,

radice delle mie sponde,

 

lacrima rossa.

 

Ed io che penso

quando verrai

ti farò una tenda di yuta

e con le palme, un letto;

 

ogni raggio brillerà da un’assenza,

ogni lacrima sarà viola

sulla terrazza di un cielo

che non finisce;

 

mai.

*

Memorie

Vango memorie con l’aratro,

contadina acerba di fuochi.

Ecco laggiù una pallida stella,

un presepe a forma di nuvola…

 

Ogni bacio impresso

(o solo immaginato)

s’appende alla carne

come uno sbuffo.

 

Le solite cantilene.

 

Il mare è triste come un cucchiaio,

nei brodi dei vuoti galleggia Medusa,

nella mia gola ci ha messo serpenti.

 

Un tablet spento, l’albero.

 

oh Ifigenia!

oh Andromeda!

oh Danae!

oh Medusa!

Quanto ancora dovrete aspettare,

la spiga schiantata resuscitare?!

 

 

*

La felicità

 

E’ scesa, la felicità,

con le sue scarpe rotte.

 

Nessun intervallo di linee.

 

Il sole s’è messo

una sottana azzurra,

per ripararsi dal miele.

 

Mio padre era un fabbro irreprensibile;

la mia eredità l’ha incastrata nel ferro.

 

Cantano solo i nomi;

la notte, come aedi.

 

“Verrà la fata buona” dicono.

“Disgelerà la follia

col suo midollo rosso

ed essa canterà all’aurora”.

 

Dicono sia questa,

la felicità;

togliersi il cappello

mentre, nella stanza, piove.

 

 

*

La donna nera

La donna sta,

sospesa.

Ai due lati un teschio.

Sorride la testuggine;

sul carapace è dipinta

la morte.

 

Allora mi giro

e rigiro nel letto,

la rabbia è la donna nera

che esce dalla spina.

Non la riconosco.

 

Non è un'eroina

e neppure un'antieroe

e il lenzuolo è una disesa

irta scoscesa

attraversata da palle

di neve nera.

 

Perchè si asciugarono gli impuri

sulla mia veste?

La mia veste era presa dal lago

e aveva pesci bianchi, verdi 

e color argento

e ogni pesce era una porta.

 

Ma, forse

tutti i fonti battesimali

hanno un fondo di mattanza.

La donna nera ride

con un solo dente.

La donna nera sa. 

*

Il critico

o mio agrodolce critico illuminato,

chi hai bisogno di correggere, redarguire, illuminare?

la tua vita è fronzoli

e tu non vuoi lasciarli andare!

Sei rimasto un ciucciatetta

e il latte s'è aggrumato 

sulla scorza del tuo ego!

 

o dolceamaro critico illuminato,

hai mai provato ad aprire le finestre?

a respirare coi tuoi polmoni con il tuo cuore?

 

vedrai, 

vedrai,

vedrai che ce la fai!

*

Il geco

Appiattato sulla mia porta

tu, geco, offri

il tuo canto intermittente,

tra l'occhio dolce della luna

che splende l'erba di fulgori.

 

E il tuo canto lenisce

i nodi dei miei vuoti,

che la tua cadenza schiude

come primule bianche

nel refrigerio della sera. 

*

Una donna

Una donna siede l'azzurro

nel suo vestito aquilino;

 

cercando un ramo bianco.

*

Il leone

Fiero della dura solitudine,

avvolto nel raggio dell'irto fuoco,

avanzi,

nella tua nobile possanza,

dall'arida steppa dell'ieri,

fino all'afondo dell'oggi;

sovrano, già,

del domani. 

*

La ferita del giglio

Da rododendri d'esili

acqua piovve,

corrose l'ossa

su foglie secche di malinconie,

sepolte in aspri fossati.

 

Un rondò le ombre

nel segreto traffico

dei sensi in rivolta,

sotto un cielo di fiamma feroce

e strade sterrate tramutate

in torrenti ghiacciati.

 

Nei mattini di chiarore infermo,

lidi di pietre sepolte

lasciavano scoperta

del giglio, la ferita

inesorabile, nonostante;

fulgido e vivo

nelle affamate valli,

di notti, rafferme. 

 

*

Spingendo l’abisso lassù

Nel sapore consunto

di pigolanti istanti,

tra la pioggia corrodente

il feltro nero del cuore,

m'arriva il richiamo di questa vita...

 

Sale tra le dita,

estasi febbricitante

tra lenzuola macchiate

di monologhi interrotti,

nudi,

come i bambinelli nei presepi 

                               a Natale...

 

Salire,

scansando pattumi di false

                    appartenenze

solo

per mettere un piede più in là;

 

spingendo l'abisso lassù...

 

*

Hai lasciato

Hai lasciato fiori,

da qualche parte,

dove è più confuso lo scoglio

 

E con essi,

una musica insoluta,

come la nebbia,

come l'amore che non perdesti,

col tuo sangue

perchè, dai tuoi nodi

potessi germogliarti;

dentro. 

*

Fiori

Ho visto un ciuffo d'erba

crescere dai tuoi capelli,

intrecciarsi alle mie mani,

fin dove

non sapeva l'amore

e anche

se ho morso lo stelo

coi miei denti di bambina,

da lì sono germogliati

altri mille ciuffi d'erba;

 

sembravano edera,

ma erano fiori. 

*

Compagni di scuola

E ci dissero:

"V'insegniamo qualcosa,

a tenere la penna,

a tenere la riga,

ma intanto state fermi,

vi prego, sono confusa!

A casa c'ho un gatto

che parla con gli spiriti

e nel pomeriggio

c'ho da portare mia figlia all'ACR,

quella che se non si dà una regolata

mi toglierà pure la pace della pensione!"

 

E i nostri occhi erano puri,

smarriti come le biglie 

rotolate per strada

e non ci credevamo

che avremmo imparato qualcosa,

perciò ci tenevamo stretti

come i cuccioli nelle gabbie

dei negozi d'animali;

 

mordendoci appena,

perdendoci appena,

pensando che il tempo

nessuno

lo avesse inventato mai.

*

Sere

Ci sono sere che gocciolano

come rubinetti rotti

e per quanto tu finga

di tenere insieme

un'immagine di te

come i vestiti sui manichini,

qualcosa cola nel lavello

della grande illusione del mondo;

un occhio, un lobo,

un gomito...

Talvolta, il cuore.

*

Tiranni

Non sanno,

coloro che ergono silenzi

a servizio della tirannide

che quei silenzi

sono sassi sputati dal vetro

o profezie appuntite,

anche quando celano

un ragno abbarbicato

alla sua bavosa tela

di acidi biliari in fermento,

protetto in calcolate distanze

dall'umido delle cantine. 

 

Nutrono Barbablù,

il pappone,

tali silenzi

e tornano

- tornano, prima o poi -

con le loro punte,

cariche di veleni. 

*

Eterna corrida

E' là,

dove infiammano le correnti,

che il tuo respiro non ha

tregua,

entra

nelle ossa, scarnifica

pungola il tendine,

assedia il midollo

 

e forse è questa

l'Origine

dove non c'è buio

nè luce

e lo splendore ha il sapore

- il terribile splendore!_

di un'eterna corrida

che lenta dissangua

 

e quell'arena

siamo noi. 

 

*

Ci ritroveremo là

A volte piove anche se è estate,

sopra mattoni di parole

che non rendono le cose perse

ma stanno,

come albatri fermi in volo

sopra spoglie scogliere.

 

Eppure, tra i boschi

umidi e nudi

dove svaporano umori,

un canto s'insinua, fermo

ad una inarrestabile gioventù.

 

Ci ritroveremo là,

nel ritmo lento degli effluvi 

                               di selva,

dove le ombre offrono ai raggi

l'appuntamento segreto

tra la nostalgia

e la felicità.  

*

Tronchi

 
Tronchi,
eretti in una veglia antica,
a sostenere cime
che toccano le stelle.
 
Così, vegliardi, stanno
nell'alba dell'allodola
o nella notte della civetta
a raccogliere trame
del mondo sparso degli invisibili
o dei visibili.
 
Li rallegra il fringuello,
il cardellino,
altalenanti sui rami,
tra gli incensi delle cortecce.
 
Loro, che Sanno,
e lo dicono ai venti,
semplici
nel mistero profondo
del loro stare.

*

la libertà del funambolo

C'è un vuoto dove arretrano

le stelle, stanche di aspettare

e il vuoto di un letto vuoto

di promesse mai mantenute

che spargono un sangue acre

tra i nudi sassi del cuore,

insonni nelle albe livide

di risvegli mancati.

 

E poi c'è un vuoto 

che serra la gola

e tu marcisci nel silenzio,

tra gli spacci di morali

tagliate di borghese buon senso

e campane cigolanti

tra rovine di un mondo

che non ti ha conosciuto mai.

 

E ancora c'è il vuoto annichilito

di torrenti arrestati,

dirottati sull'asse

e quello lasciato dai canti

                     delle sirene

delle affinità temporanee

 

e poi il vuoto della vendetta

contro la gioia,

sempre affittata a caro prezzo

e quello della stanchezza lacerata,

sanguinante di grazie mancate,

di pani ammuffiti

che lasciano vuoti più immensi

delle cattedrali

o dei cimiteri

 

e ancora, il vuoto di un taglio di vuoti,

che raschia, dentro te, come un coltello,

fino alla polpa,

fino a perderti

per ritrovarti, ora e mai, 

su quella corda sul vuoto

che è la libertà del funambolo,

pieno ormai di tutti i vuoti

che ha incontrato,

celebrato,

e amato.  

*

Poi venne il mostro nella città di Taranto

Un tempo c'era l'acqua
chiara, dicono
e giochi di delfini d'argento
nel turchese;
poi venne il mostro
e sbuffò fumo nero dalle ciminiere,
erette
come falli in delirio di onnipotenza.
 
Stuprarono il cielo,
le barriere coralline,
appassirono fiori e case
e gente ridotta a oltraggi viventi
su strade ammorbate
mentre la Madre, invano,
agitava le sue acque,
intorbidate dagli omicidi
di tutti i suoi figli ammazzati.
 
E l'omertà strisciò
tra paludose vite strette al serraglio,
deragliate in un terno presente
assai peggiore dell'ingresso infero
narrato dal poeta,
perchè lì la speranza
non è da lasciare;
morì già quando soffocarono il grido
della Grande Madre dell'acque, della terra e dei venti

*

Sono stata sola

Sono stata sola mille anni

o forse diecimila o cento,

sospesa su una barca,

vuota di parole mai pronunciate.

 

Ho visto stazioni, motel,

percorso muri a secco

con una valigia di cartone,

asfissiata dal grido di dinamite

che mi bruciava il cuore.

 

Sono stata sola

mentre mia nonna raccontava

favole ai gatti

e le vetrate di una pasticceria

dicevano il dolce che mancava,

anidato in patine bluastre

di repressioni e di orgogli ostinati.

 

E scendeva la neve

sui reati mai commessi

e allora inventai una colpa, per fuggire

dai tanti vuoti deragliati

tra i greti asfissianti di insoluti perchè.

 

E sono stata sola

perchè così volle la luce ostinata

che invoca, acerba, sul monte

degli angeli indenni

perchè mi narrassero una nuova solitudine,

nata dai fiori

di nuovi transiti stellari. 

*

La congrega

Stamattina i corvi

stavano innanzi alla congrega.

Uno s'allisciava il panciotto,

l'altro stava dentro a tener cassa:

"Per l'esumazione fanno 400 euro

se è bell'e cotto,

300 se ci sono ancora, intere, l'ossa",

così disse al poveretto

che era lì per le resta di suo padre.

E intanto i corvi non s'accorgevano

che avevano le penne già tutte lise

e pure la coda già puzzava di fumo.

Così, almeno,

ai figli o agli eredi

non avrebbero dato problemi

e questi, al cassiere della congrega,

avrebbero 

detto, in un solo colpo:

"Ti do 400 euro

e arrivederci".

*

Il calabrone

L'uomo che pareva tutt'un pezzo

ma che, in fondo, era un pupazzo,

c'aveva la 'cintola' infuocata

e tra un metti e un togli

incappò, un giorno,

nella bella addormentata

che credeva di esser stata svegliata

niente meno che da un principe innamorato.

Ma siccome il principe nel sonno ci stava

                                                        bene,

perchè, tutto sommato, una moglie, una casa

e il posto fisso di impiegato statale ce l'aveva,

giocò con lei come fa il gatto col topo,

senza alcuna pietà.

Ma, una sera,

mentre si stava a riparare

dentro le fredde lenzuola

(attentissimo a non toccare i piedi di sua moglie)

dalla finestra entrò un grosso calabrone:

era il diavolo

e al crapulone portò via in saccoccia

anche l'ultimo pezzo di cuore. 

*

I poveri di Spirito

Beati i poveri di Spirito

sentì dire un giorno al catechismo

o in chiesa, non lo ricordo.

Siccome ero bambina

e non capivo bene,

allora domandai al prete;

quello mi diede 

una lunga spiegazione,

ma io continuai a non capire...

Allora mi tenni il sospetto blasfemo

che i poveri di spirito

sono beati

solo per chi comanda.

 

*

Lor’altri

Li vedi, gambe accavallate,

infradito, all'angolo dei marciapiedi,

le spalle chine 

come a voler benedire l'asfalto

o forse

è l'asfalto che ha bisogno

d'esser benedetto

da quel fiume di tristezze

ingroppate sulle spalle di cammello,

che gli hano portato via tutto;

 

forse pure il dolore. 

*

Amarti

Amarti fu un lungo
travisamento,
l'ennesimo,
uno staccare reti e alghe
dalla chiglia, inesorabile.
 
Amarti
fu inventarmi ancora
nel fragore della pioggia,
nella sete clandestina
di un giorno assoluto
 
ripetere
il gioco della morte
d'una odissea senza approdo
solo
per bere il verbo
dalla tua bocca
 
e perdermi,
ancora...
 

*

Amo pure

 
Non ho ancora messo le mani
nei vermi del tuo fango,
per seppellirli,
mon amour
e parte di me imputridisce
ancora nei tuoi vizi,
nella decomposizione del tuo costato,
già concavo di respiro,
eppure
amo pure questa morte sospesa,
improbabile,
l'amo
come amai te,
testarda come un oltraggio,
scioccante,
invereconda
come il tarlo di te
che sbriciola le mie ossa
sul tuo scheletro.
Annalisa Scialpi

*

Marchi nudi sull’eternità

Sulla lettiga del sogno
sei giunto, o mio sovrano,
ad affondare l'algida spada
della tua scintillante regalità
nell'intricata polpa del mio cuore,
lacera di dimenticanze
e di assedi di ruggine.
 
E quanto ti ho cercato
lo sa il sangue,
il diluvio dei sensi
a stento governato
dalle redini delle arterie.
 
E questo bacio
che ora c'infiamma, col sale,
è l'amrita della stella
che ci impresse,
come nudi marchi,
sul canovaccio dell'eternità.

*

Il fuoco e la neve

 
Il diavolo era un sì,
l'angelo un 'sii prudente'.
Il diavolo abitava il fuoco,
tenendo il mio corpo nella neve
che, dell'angelo, era il vestito.
Poi vennero i fiocchi, copiosi,
e la neve si sciolse
nutrendo un nome
che il mio corpo già conosceva,
perchè, già prima,
l'aveva inciso il fuoco.
 

*

Ricordi di scuola

L'odore acre dei cassini,

graffi, sulla lavagna

che non disseppellivano tombe,

non resuscitavano

i piccoli Lazzari in grembiule. 

*

Retorica radicale

radici,

impilate tra colonnati di sante intenzioni,

tenute come ostaggi nei marmi.

 

I vecchi che, sempre,

hanno da insegnare ai bambini

certezze condite di acidi biliari.

 

Sardine in scatola

tra latte di carni esiccate

e carrelli di inefficati clisteri

                 da confessionale.

 

Radici

o solchi tombali, nella terra

invasata di rettili aggrovigliati.

 

Tale, spesso,

è l'aura di melma

della retorica radicale. 

*

Lì, tra i molti regni

C'è una strada azzurra
là, oltre la finestra,
dove becca, la tortora, l'ulivo,
offrendo l'olio al sole.
 
Lì, tra i molti regni,
occhieggia un lido
dove la rosa,
gravida del mare,
esala il carminio,
senza temere il ragno.
 

*

La musicista di strada

Suono per chi ha voglia
di danzare
e per chi no.
Suono per il vento, il cielo, le stelle;
per tutte le foglie cadute
e per quelle rimaste
attaccate al ramo.
Suono perchè questo mi resta
di una vita spogliata
di inutili allori.
Nella notte e nel giorno,
nel riposo e nella quiete,
suono...
E m'accompagna il canto
dei danzatori alati,
s'espande, tra le cortecce,
a risvegliare gli elfi
dal lungo sonno del cuore.
Suono
e dolce è il pianto che s'eleva,
trasmuta in preghiera,
disgela...
Oh sovrani del suono,
musici della parola,
venite a me,
fate che vivere sia solo questo:
suono, folle o leggero,
piovuto dal nettare di un dio.
 

*

La donna color cielo

Una donna cammina per strada,
ha il cappello color cielo,
-chissà dove va, chissà!-
 
Ora passa innanzi
a una chiesa gialla,
poi sosta a prendere un caffè.
 
Ha lasciato per strada
profumo di rose
e di poesia.
 
Nessuno sa chi è,
ma qualcosa è cambiato
al suo passaggio.
 
E' una donna color cielo
e profuma di rosa,
e chissà dove va,
chissà...
 

*

Tutta colpa di una mela

In un tempo non molto lontano
gli uomini giocavano tutti la stessa partita
di baseball o di calcio
-non aveva molta importanza-.
 
E non c'erano i santi,
perchè dio era in un fiore
e le brame le raccoglieva
o disperdeva il vento,
come si fa con i bambini,
poi non so
cosa accadde
pare
sia stato tutta colpa di una mela
se ancora
ci stiamo uccidendo.
 

*

Senza te

 

Senza te

è un continuo inverno;

inutili, le stagioni,

vano il canto del ciliegio.

 

Senza te

la vita è la corsia

di un pallido ospedale

dove trascino la mia invalidità,

tra davanzali di rose di cenere.

 

E’ notte, senza te

e non quella

che commuove i poeti,

ma una sfilata di vecchie,

inutili ombre

attorno al carillon scordato

                               dei giorni.

 

Perché non c’è luce

senza te,

non c’è pace, oltre

questa feroce agonia

che d’insaziata sete

mi consuma l’ossa,

con le ore.

 

E ripenso ai baci traditi

dall’incapacità di vedere l’oro

in quel fiume

che un angelo benedisse,

che tu non capisti;

 

ed eravamo noi.

*

I bambini non c’entrano niente

 
Che colpa ha un bambino?
Me lo son chiesta, stasera,
davanti al pubblico spettacolo
di un bambino che piangeva
attaccato a un palo.
 
"No, a casa non voglio tornare"
diceva, singhiozzando
a un grosso ragazzo che era suo fratello.
 
Un signore molto distinto
ha chiesto al bambino
perchè a casa non ci voleva tornare.
"Mi picchiano" ha risposto il bambino.
Allora il signore distinto
ha insultato gli stranieri che portano in Italia
(la Nostra Italia!!!) le loro regole barbare,
ha minacciato il fratello
senza capire niente
(poi è uscita la madre).
il signore distinto
ha chiamato la polizia
ed è scappato via.
 
Che colpa aveva quel bambino?
 
La madre ha detto che piangeva
perchè gli aveva impedito di uscire;
era in punizione,
perchè a scuola non ci voleva andare.
Ha detto che aveva sei figli da gestire
e poco tempo per capire
e poi è arrivata la polizia
a servizio dei 'capi'
a cui della gente non importa un fico secco,
sono loro
che hanno fatto piangere e scappare
quel bambino
e nutrito disperazioni
negli occhi di quella gente.
 
Sono loro
che alimentano violenza,
ignoranza
loro
che dicono di proteggere e di salvare
questo mondo,
ma poi la colpa è sempre della gente.
 
Spetta noi doverci risvegliare.
illuminare,
smettere di servire, obbedire e consumare
e liberarci da queste inutili comparse
e liberare i bambini,
i bambini che non c'entrano niente
che pagano intero il prezzo
delle loro criminose omissioni.
 
Perchè i bambini
non c'entrano niente.

*

L’abbraccio

 

Scorreva la linfa

nel tronco del nostro abbraccio,

che secoli, ti attesi, dietro alle cortine

forate di ricami di languida tristezza;

lettere, di sangue scritte, come di preghiera.

 

E venisti, un giorno

e non era carne, forse,

           la tua immagine,

che sangue blu non t’infiorava

le vene di guerriero

 

e tuttavia un dio m’abbracciò,

in te, infiorando promesse

tra le rose e i fiordalisi pendenti

                             dalla mia bocca,

dicendomi arriverà

quella benedetta linfa

che te risorgerà, dalla stella.  

*

Illuminati inferni

 
La giovinezza mi passò addosso
come se tutte le folgori e i venti
si fossero accatastati in una nebbia
surreale e oscura,
nascosta nel fondo dell'anima.
 
Uragani silenziosi palpitavano
tra i vetri ghiacci delle fabbriche
del consenso,
dove morivano le primavere del mondo.
 
Ed io mi piegavo d'amore
coi rami del bosco e i loro segreti,
portati dal canto di farfalle in volo
nulla conoscendo, tra quelle morte stanze,
se non il sapore dell'erba in rivolta
lo stesso
che accende d'incubi beati i miei sonni
e i miei giorni,
sempre a un passo dal precipizio vivo
con tutti i suoi illuminati inferni.
Annalisa Scialpi

*

Supposizioni

Sei stato qua,
certamente,
da qualche parte,
stregato
anche tu.
 
Ti mancavano congetture
o forse troppe
su quella
taciuta rosa
che stava là,
al centro,
senz'acqua
 
mentre tu,
supponevi.
 
Come gli altri.

*

Al largo

M'assale, presaga,
una celeste misantropia.
Quel che dicesti, poco fa,
è già misura del fuoco.
 
Brucia la mente, brucia...
Sposta il confine
al limitar della soglia.
 
La morte è tra gli astanti;
una virile malinconia palpita
tra robuste chiome di quercia,
che graffiano il vento.
 
S'ode un ululato di caverne;
 
al largo punta la nave,
al largo punta e si slarga...
Annalisa Scialpi

 

*

Auschwit

Auschwitz è nel nostro cuore.
Non dite 'non è così'. Lo è.
E' neve ghiaccia di sangue rappreso,
che attira al freddo fondo.
 
Auschwitz è il Padre Onnipotente,
la Ragion di Stato
garante di tutti i Padri Onnipotenti.
 
Auschwitz è togliere ai bambini la magia.
 
Auschwitz è il binario a senso unico dell'abitudine.
 
Auschwitz è il dovere di far soldi che sorpassa ogni legge,
anche lo stato naturale della felicità.
 
Auschwitz è l'ignoranza sovrana.
 
Auschwitz sono i deboli al governo.
 
Auschwitz è fondare un mondo sulla malattia
e tararlo a misura di chi è stato reso perdente.
 
Auschwitz è 'Freud ha capito tutto'.
 
Auschwitz è la madre e il padre della morale.
 
Auschwitz sono i giornali al servizio del potere.
 
Auschwitz è una società di randagi umani
che marciscono nelle retrovie o sotto i cupoloni.
 
Auschwitz è una società fondata sui ruoli,
con gli ordini professionali per salvaguardare le caste.
 
Auschwitz è la morte il più lontano possibile.
 
Auschwitz è credere che la luna
esista solo per luce riflessa.
 
Auschwitz è bollare come pazzi gli sciamani,
i visionari, i profeti.
 
Auschwitz è una società senza il senso del sacro,
dove io vinco se tu perdi
e dove abbattere un albero
è come fare uno starnuto.
 
Auschwitz è una società costruita sull'illusione dell'io
e del tempo.
 
Auschwitz è 'la conoscenza è proibita'
e 'se conosci sei fuori'.
 
Auschwitz è tutti gli ismi: razzismo, campanilismo, consumismo, familismo.
Auschwitz siamo noi diretti dall'ipnosi della società.
 
Per cui, spetta noi, ora, aprire quelle porte.
Risarcire.
Ora tocca a noi
imparare a celebrare,
a ridere, a lottare:
spezzare le catene
e camminare con le nostre ali.
 

*

Nessuna colpa

 
Nessuna colpa
e che io e te
guardavamo dalla soffitta,
mettendo nella botola dei baci
le stelle che credevamo
di prendere con gli occhi.
 
Non eravamo nati abbastanza.
 
Io germogliavo, dinoccolata,
dalla sabbia;
il mondo m'era già passato addosso
come un rullo
e tu... Eri solo un fragile ramo
che mi s'avviticchiava, ignaro
delle spine,
nell'alba di una graffiata euforia.
 
Incauta attraversai la fiamma
di un limpido sole ruggente,
così pazzo
da credere di esser nato ieri,
così vero da bruciarci,
prima che l'amore
divenisse scontato.
 

*

Paesaggio d’inverno

 

Le calendule hanno preso il vestito al sole,

brillando sui loro ombrellini freddi come girandole

                                                                    dolenti,

mentre un gatto se ne sta,

acquattato d’ombra come un ladro

nei suoi occhi di smeraldo tagliente.

 

Nell’aria, sui tetti o i corpi gialli

delle case inutili e accasciate

il tempo mostra il suo scherno

con un sorriso di ghiaccio.

 

Gli gnomi sono partiti, lassù…

Nell’aria greve recitano sermoni amari

che s’abbattono sui tronchi già segnati

da dissonanti mantra a intervalli.

 

Insostenibile, lo spazio

giace sui fianchi a gambe larghe

come una stanca puttana

e nel silenzio, impiomba prati

porta lì

tutte le nenie del mondo.

 

Per dispetto.   

*

Da soli turgidi

Sentire, nudo, il giorno.

Sulla pelle.

Il sole falcia le strade

tra gli occhi degli annegati

accasciati nelle retrovie.

 

Occhi iniettati di sangue.

Follia.

Sputare il marcio mille volte,

senza espellerlo mai.

Il ferro della metro

sferraglia nel midollo

di una pesantezza che uccide.

Lenta.

Si mescola ai fiati.

 

Eppure c’è colore,

nel giorno.

Da soli turgidi

colano colombe sullo sfacelo

di un mondo

dannato di potere,

 

dicono

 

la pace è dentro te.

*

Un uomo qualunque

 
Hai tradito la rosa,
la tua rosa azzurra, la tua rosa rosa.
L’hai chiusa sotto la saracinesca
a imputridire coi tuoi domati vizi,
oh santo uomo di santo timore e
di buona morale,
buono a pulir code dei padroni!
Non te ne sei accorto?
Anche satana ha addomesticato i suoi mastini,
così dicono
e sorveglia come una pantera
il magazzino dove ponesti, ben imballate,
le tue scatole delle ragioni,
là, nella regione dell’eterno sonno dei sensi
e del cuore.
 
Hai sepolto il tuo fiore
sotto pensieri di sabbia
per timide porzioni di minestre avare
e giorni in controluce
a misurar respiri sui calendari
e camuffare l’odore di vita vera,
protetto tra le pareti delle tue rabbie
incalcinate!
 
Oh, povero uomo qualunque
di cui un prete nero dirà,
al termine delle ore,
“Lo ricorderanno come buon cristiano,
marito e padre di famiglia!”.
E allora, forse udrai
fremere il ruggito di zoccoli scalpitanti,
ma… Amen! Il diavolo dirà
e non dirà a nessuno di aver visto tremare
la bara
e si arriccerà i baffi, pensando
a quando gli hai venduto anche il dolore
che ti chiamava con l’odore della rosa,
la tua rosa
che mai più ti chiamò.
 
 

*

La vecchia alla finestra

Sulla strada addormata di stanchi passi,

vecchi manichini si muovono nell’ombra

pigiando pulsanti nei palazzi di potere,

ombre di passioni spente

polverizzate in lidi bruciati, sepolti,

dove carnivore conchiglie di frustrazioni,

di avidità e di ignoranze sovrane

eleggono i silenzi a custodi di vili delitti.

 

Pur tra queste ombre arrischiate

su torri di cocci taglienti

-          prossime al crollo -

una vecchia, allegra, tesse

dietro una finestra gialla.

Ha fiori di loto, alle pareti

che irradiano l’acacia, cosparsa

sulla sua sedia a dondolo.

Un gatto le sfila in grembo

e pensa – lei che ha davvero vissuto

e comprende il linguaggio degli alberi

e delle cose mute-,

che sarà color di cielo,

ora e sempre,

il suo mantello all’uncinetto.

*

Sei tu

Sei tu che ti spegni e rinvieni

sulla prua di un cielo graffiato

e sotto ogni sole, sei tu;

 

ghiaccio e cenere sulla vernice

                                        d’istanti,

scrostati a unghie e sangue

dalla mia stiva assetata.

 

E sei ancora tu

l’anatomia su cui crocifissi i sensi

e con le api salpando, di miele,

ti feci gli occhi, la bocca…

 

…Appesa al ponte dei tuoi lombi,

- mio sacrario!-

naufragando

d’assoluta eutanasia.

*

L’albero di mandarini

La notte è una grigia presenza
che avvolge l’albero di mandarini.
Dalle dita sale un fuoco sottile
che arrossa i frutti
e rode il tronco del pensiero,
in muto soliloquio d’istanti.
Si dilegua il viaggiatore oscuro
del fiume malinconia,
addita strade, oltre i rami.
 
Cade la pioggia
 
ed è mattino.

*

Senza te

Ho molto freddo senza te,

ma le mie febbri scavano lo scarlatto,

fino all’osso di una scrostata fotografia

che crocifissi coi tuoi stessi silenzi

nel legno della mia pianura di nettari

                                                    ardenti

-          mio Calvario!_

dove ancora ti attendo.

 

Dove sempre ti amo.

 

 

 

 

 

*

Ancor prima

Come notte nuova nasco

dal respiro fulgente del monte,

sempre vivo, sempiterno,

con te che sgusci dalla vetta di un pensiero

e mordi questo istante tra le stelle.

 

Sulla strada il segnale è a unico senso

e sempre è l’infinito desiderio di te

che muori e risorgi nel varco sottile

che separa l’odio dall’amore.

 

E senza meta è la mia strada,

perché quel che conta è il viaggio

e il viaggio sei tu.

 

Una felicità inspiegabile tramuta

in stelle le luci della strada,

promette nuove albe e notti chiare

e quella pace che trovo

solo quando

m’addormento nel respiro

di quel sogno che facemmo

ancor prima di incontrarci.

Ancor prima di sognarci.

 

Ancor prima di noi.

*

Pioggia

 

Ho visto la pioggia non passare mai,

cadere, anche col sole,

sul rivo di una foglia spezzata

in un letto di dimenticanze

e fracassarsi stelle su un cuscino

di azzurre malinconie.

 

Ho sentito la pioggia tingermi le mani

e l’umida pietra trasudare il turchese

nel ticchettio di un’astratta melodia

ripetuta a oltranza

e ombre danzare, nel taglio

di vetri smerigliati d’usura.

 

Come una vecchia stanza d’hotel

ho visto ripetersi e caracollare istanti,

uno dietro l’altro,

su quadri dipinti di foreste di ruggine.

 

E poi ho sentito la pioggia

sanguinare su zolle di pane raffermo,

aggrumito di soli traditi,

mentre il vecchio giradischi ripeteva

canzoni scordate

a un cielo senza pietà,

calato come una tenda

su nuvole di tovaglioli umidi.

 

E così siamo divenute una,

io e la pioggia,

così sfacciate da danzare nude

sotto il nudo cielo,

ombre, intessendo e ricami d’istanti…

… là,

dove muoiono i papaveri rossi,

per troppo amore.

*

Quando ami veramente

Quando ami veramente

la luce squarcia le tenebre
e la tua vita diventa Sacra.
 
Quando ami veramente
smetti di correre nel mercato dell’inutile,
perché l’amore denuda l’essenziale,
che è la tua verità,
come fa il vento con i rami, in autunno.
 
Quando ami veramente
trovi il coraggio di guarire le ferite
del cuore,
perché null’altro desideri
che essere all’altezza
della Dea dell’amore.
 
E scendi nelle tue cantine,
le stanze proibite,
solo per il sogno di riprenderti
la tua Euridice.
 
Quando ami veramente
sei integro
e il mondo non t’inganna più
con le sue lusinghe,
perché sai che nessun tesoro
potrà essere più prezioso
di quello che stringi tra le mani
e tieni nel castello del tuo pensiero
più puro
o nella gemma di un’emozione scarlatta
che scalda i tuoi giorni
col fuoco più vivo.
 
E potresti aver voglia di morire
quando ami così,
quando ami veramente,
perché l’amore è troppo
e straripa
e pensi che scoppierai…
 
Potrebbe succedere,
perché quando ami veramente
tu sei solo un ponte
della Dea che ama in te
e vuole trasformarti nel ruscello,
nella luna, nella valle,
nel passero
che un giorno venne alla tua finestra
per dirti che l’Amore
ti ha trovato degno di sé.
 

*

Uomini di cera

Uomini minimi, di cera

colano sui giorni già segnati

dai buoni dei supermercati.

 

A testa bassa affondano

In uno scialbo clangore,

di vizi assetati appena oltre

il deraglio di vite volutamente

strette nell’ordinato serraglio.

 

Piombano con essi notti piombe

che lasciano

sentori sepolcrali di disfatta

nel caotico fango che, certo,

malgrado essi, sta già seminando

la nuova aurora del mondo.

 

*

L’unico giorno

L’unico giorno

Lo so che stai da qualche parte,

su qualche terra, su qualche nuvola,

su qualche cielo

dove le aquile volano libere,

dove non c’è mai stata paura.

 

E’ un regno strano,

che sta oltre le ombre del nostro mondo

                                                           di fumo,

è un regno dove c’è il mare

e l’aria raccoglie tutti i segreti del cuore.

 

So che sei lì

e so che un giorno ci incontreremo

e sarà l’unico giorno

che avrò mai desiderato vivere davvero,

in cui berrò il sole dalla tua mano

e piangerò le lacrime che non piansi mai,

fino alla gioia

o piangeremo insieme, io e te…

Con quelle lacrime faremo il mare

e sarà infinito, come il nostro amore.

*

Bagliore d’abisso

La tua carne benedetta e dannata

giace nel letto di rose del mio cuore;

rose turgide, screziate, a volte vecchie,

ingiallite dall’afrore dei tuoi vizi.

 

Ma in ogni posa, in ogni rosa

la luce mi colpisce al centro, colando

da un’acquasantiera di limpide

note che trafiggono i miei istanti

come raggi splendenti

 

e il fondo del vuoto onnivoro

                      che ne consegue

non è che la prigione che Zeus

                              inondò d’oro

solo

per la sua Danae esultante

              nel roseoporpora 

di un bagliore d’abisso infinito.  

*

Il gabbiano

 

Un gabbiano plana sulle acque,

con bianca levità si staglia,

quasi incorporeo,

sul riflesso di liquido cristallo.

 

Regna sovrano del cielo,

affonda, funambolo,

in limpide linee d’aria,

 

e dalla militante altezza

come danzatore esperto

plana giù, nell’acque trasparenti

in picchiata sui pesci in superficie

 

o sull’onda, resta

rilassando il volo egli si specchia

fino a quando sorge dal mare

la sua antica corona d’imperatore.

 

 

*

Ifigenia

Comportati bene

chiudi le gambe

chiudi le cosce

del tuo sentire

le cosce

nella tua pancia.

Vieni qui,

sul rogo!

 

E muffe

case a dirocco

assi aguzze

demoni verdi nell’aria.

 

“Ora ti bruciamo,

comprendi,

questione di ragion di stato,

ti rubiamo la gonna

ti rubiamo la gioia

ti rubiamo la vita.

 

Matrone colossali

con lo sguardo di orche innocenti

vecchie smilze,

il tantra dei condonati

dei passati-a-setaccio

 

e dietro niente

e dietro niente

e dietro niente.

*

Il vuoto dentro me

Quando ho trovato il coraggio
di guardare il vuoto dentro me,
ho scoperto che non era il vuoto
che pensavo e che temevo,
ma Puro Splendore del nulla divino.
 
E ho scoperto che non c'era
alcun vuoto da colmare,
perchè ero già piena del Tutto.
Così ho smesso di mangiare
solo per ansia o abitudine,
di circondarmi di cose e di persone
inutili per la mia evoluzione.
 
Quando ho trovato il coraggio
di guardare il vuoto dentro me
ho imparato dai gatti ad amare il silenzio,
a godere delle piccole cose,
a cercare l'Essenziale,
che è ciò che fa bene al cuore.
 
Quando ho trovato il coraggio
di guardare il vuoto dentro me
ho smesso di combattere i conflitti,
accogliendoli come una madre
che abbraccia i suoi sassi
nei suoi generosi fondali,
sapendo che non sono pietre,
ma spiriti che vengono per aiutarmi.
 
E ho smesso di cercare soluzioni
e ho iniziato a porre domande
senza aspettare risposte,
certa che la quercia, la gazza
o l'onda accarezzata dal vento
risponderanno a loro tempo.
 
Quando ho trovato il coraggio
di guardare il vuoto dentro me
ho smesso di sentirmi sola
e anche se a volte ho freddo
non cesso di aprire il cuore alla vita,
accettando l'imprevedibile, l'inatteso
che mi spingono verso nuovi orizzonti,
nuove amicizie, nuovi stimoli.
 
E ho capito che non esiste il caso,
perchè l'universo ci sostiene sempre
a patto che abbiamo occhi per vedere
e cuore per comprendere.
Questa l'ho chiamata fede.
 
Quando ho trovato il coraggio
di guardare il vuoto dentro me
ho capito che tra il tendere l'arco
e il desiderio di non mancare il bersaglio
vi è un abisso,
e che stare col fiato sospeso sull'abisso
toglie energia all'arciere.
Questa l'ho chiamata strategia.
 
Perchè, quando ho trovato il coraggio
di guardare il vuoto dentro me,
mi sono accolta, interamente,
e questo, solo questo,
ha sancito la vittoria.

 

 

*

Si può essere felici

 
Si può esser felici
senza far niente,
senza dover, per forza,
fare qualcosa,
standosene seduti
nel lembo della sera,
nel nero velluto
che abbraccia come una madre.
 
Si può essere felici
semplicemente respirando,
lasciando entrare
e morire vita
e poi ancora...
Entrando nel ritmo
che incide e dilegua istanti,
incessante,
sulla trama del nostro stare.
 
Si può essere felici
osservando le luci gialle
di una finestra,
poveri dell'infinita ricchezza
dell'immagine che colora,
sfuma, dissolve, ricrea.
 
Si può essere felici
anche per il dolore,
se si è forti,
perchè il dolore
è il travestimento della luce.
 
Si può essere felici
quando comprendi
di non sapere niente
e guardi il mondo
con gli occhi di un bambino
dove tutto è magico, presente,
qui e ora,
solo qui e ora.
 
Si può essere felici
per le risate dei ragazzi
o semplicemente
per l'immobile silenzio
che cura e accarezza
le cime degli abeti.
 
Si può essere felici
per niente
o per il tutto
che c'è nel poco o niente,
a patto che tu abbia occhi
per guardarci dentro.

*

L’assalto

 

Mi appari nel grigio di un ricordo,

come petalo di geranio gualcito,

slabbrato l’azzurro, nel pianto

di una farfalla affissa

a una calendula sfiorita

o forse falena smarrita

nel giardino dell’ombra, ingiallita

tra inconcludenti mieli sfiniti.

 

Posso celebrare solo ciò che è vivo

e in mezzo a questi spenti crisantemi

e auree cornici mangiate dal tarlo,

in danza sublime elevarmi, a dirotto

dai passi degli amori perduti,

 

tra quei verbi così poco usati

che screzian l’ali alle farfalle

e repentino prevale l’assalto

o è il morire,

non so.

*

Perchè hai paura?

Perché hai paura? 

 

Non c’è nessuno la fuori,

nemmeno qua dentro…

 

Non c’è nessun fuori

e nessun dentro.

 

Non ci sei nemmeno tu.

 

Questo cipresso

e la tua ombra:

osserva l’austero

che sfronda catene

e miete illusioni!

 

Osserva…

S’offre, larga, la nuvola

ruggente d’ambra

e di rosa…

 

Sta nel suo darsi;

 

Lei sa,

che non esiste.

*

L’oro della sera

 

Con gli occhi cerco il suono delle stelle

e mi compari tu, oltre la pelle,

perduto già nel vento di un ricordo,

confitto nelle carni come un cardo.

 

Perfetta geometria fu il tuo passare,

all’ombra di un ricordo naufragare.

Ma ogni mio respiro era preghiera,

che illuminava il regno della sera.

 

Nell’aria respiravo sogni strani,

portandoti nel grembo, coi gabbiani

e non sapevo che eri tu a chiamare

dall’onda più brillante in fondo al mare.

 

Poi noi vidi fiorire a primavera

ed era alba l’oro della sera.

*

Poi un dio mi baciò lì, sulla fronte

Tra stanze stanche d'epopee negate

strane storie respiravo, a secchiate;

fissavo rotaie di viaggi altrui,

passavo in fretta corridoi bui.

 

Gravi silenzi asfaltavano istanti,

tra facce annoiate di stanchi astanti.

Velieri sostavano in teche ristrette,

nell’ore affossate di rese imperfette.

 

Ricordi appassiti di trascorse estati,

memorie segrete di amori traditi…

Poi un dio mi baciò lì, sulla fronte

e poesia soffiò pietà, dalla fonte.

*

il borghese

Tu dimmi, cosa cerchi,

mio tenero borghese?

Nei campi forse il filo

delle perdute estati?

 

Ma il tempo già s'arretra

tra le tue spalle strette;

tu cerchi il tuo destino

nel sole vespertino?

 

Fuggita la stagione

dell'invocato pianto,

tu volgi già a ponente

che porta altrove il canto.

*

Nel ventre di montagna

Dell'onda il canto suona già preghiera,

schiarendo il dolce azzurro fino a sera.

 

E bacia ancora il sole la montagna,

seduta sulle rive che acqua bagna...

 

Le nuvole, sul ciel, paiono colombe

che portano il respiro giù alle sponde

 

ed un pensier riposa in questo stare,

portato dal villaggio in fondo al mare,

 

nel ventre, custodito, di montagna

che a stella eleva l'onda, finchè sogna. 

*

Il mare sta nascosto lì, oltre il ponte

Il vento soffia forte sulla pelle,

portando qua il profumo delle stelle,

 

da un tavolino a squame di serpente

vedo sfilare tutta questa gente.

 

(Il mare sta nascosto lì, oltre il ponte)

 

Palazzi stanno freddi ad osservare

le luci arancio splendere sul mare

 

poi calvo, un uomo, gli occhi azzurro mare

mi siede accanto e finge di aspettare.

 

E mi raggiunge odor di sigaretta

e blu oltremare è pure la maglietta.

 

E nella mente s'agita un pensiero

che sopra quel frastuon s'eleva, fiero.

 

(Ma il mare sta nascosto lì, oltre il ponte) 

*

Mattino di fine estate

Nel cielo di un mattin sereno e cheto

colombi in alto van, oltre le mura.

Ritornano pensieri abbandonati,

emergon dall'azzurro delle onde.

 

Bagnanti scarsi abitan le sponde,

le case stanno chete in fondo a estate.

Sulla scogliera siede il passo fermo

di autunno che respira in nuovi approdi. 

*

Lontano

Il mare dopo pioggia

vangava lento il canto,

la nuvola soffusa

riaprendo nuovi cieli

 

'che lui vide lontano

e s'aggrumò già in frolla

la sabbia tra le dita...

(Ed era già mattino).

 

*

Il funambolo

Tendesti al caracollo,

nessuno ti trattenne!

La maschera sgraziata

fioccava di sudori...

 

Da facce ancora illese

salivano gli sputi.

Ma tu tenevi fisso

lo sguardo a nera stella. 

*

Così, andai

Dimenticai presto il beato mordente

                       di Chimera ruggente,

in strani fiumi d'oblio scivolando

tra remi insabbiati di estati perdute.

 

S'addensarono nebbie, nei cortili,

le lacrime tracimando in biglie

incastrate in intricati nodi di rabbia;

ammutinati i miei vegliardi ardenti.

 

Così,

come mallo inerme andai negli anni,

perdendo pastelli dallo zaino,

lasciando il genio ululare

in freddi fossati di neve.

*

Ragazzi

A due passi dal mare

stelle danzanti

in colori brillanti

parlano parole d'argento,

 

guizzano con l'onda,

come libellule

tra vuote stanze

di desideri privati,

in bilico,

sopra i rotti ponti

di una cieca civiltà.

 

Così, zingari, vanno

protetti da un angelo

che gli terge l'ali,

 

estorcendo un impero

all'assoluta precarietà.

*

Crollo d’epoca

E la giovane a lei disse, 

in mite confidenza,

'osserva le zolle ardenti e

dell'ulivo, odi il conturbato canto

o le dolci nenie dei rododendri...'.

 

Ma lei già volse lo sguardo,

in gonfiori, ormai, caracollando

l'eterno volto di pallida bambina,

quel livido, conservando, languente

dietro sorrisi di cartapesta.

 

E allora lei additò le agavi in esulto

                           di linfa e di spine,

cortecce affustate in pose terrigne

e zolle ruggenti tra clangori di cardi

o del noce l'imperioso velluto

e ancora, osò, 'perchè non vieni?'.

 

Ma lei chiuse la finestra

'ormai' dicendo e maledicendo,

crollando un'epoca

sotto un sorriso di frolla. 

*

Mi contaminai

Mi contaminai,

di te,

dietro la gabbia dei cieli,

sopra di noi la coppa

di una luna ruggente

e tramonti strascichi

di sanguigne opalescenze.

 

E il copione lacerai

sui bordi degli istanti

così, schietta

come a morirne.

 

E non seppi dire altro,

il tuo teschio, reggendo

tra le mani, ancora;

 

divorandomi un sapore

di illuminati inferni. 

*

Così addivieni, addentro

Mi coli dalle mani,

da questa carta, 

da questo inchiostro

che traluce il beato regno

              delle tue ombre;

 

così, addivieni addentro

alla corolla d'immagini

suadenti come farfalle

in languenti agonie

 

o come note, sussurrate

nell'amplesso d'istanti

che resina, trasuda

tenendoci incollati

nella vuota cavità

delle cortecce.

*

Ineluttabile amore

Lava, la madre dell'acque

i suoi bimbi di roccia;

la sua musica è chiara

                   e leggera,

porta memorie di spiriti corsari,

in cui l'anima riposa

il suo sonno bambino.

 

Troppo alto è il suo linguaggio,

eppure sereno di effluvi

che ammansiscono gli scogli;

amanti di pietra per sempre sedotti

dalla tracotante tenerezza della musica

                                             dell'onda;

 

Segreti, inabissa, tra i silenzi dell'ancore,

recando codici di lettere trascorse,

vide segrete custodite nel suo immenso

                           verde-azzurro costato.

 

Per questo trafigge,

nelle solitarie notti di stelle,

il canto dei fondali;

come lamento risuona

e sembra dire l'insondabile

ineluttabile amore,

che spinge a morire. 

 

*

Dimenticammo i fiori. Dedicata a mia nonna Angela.

E così dimenticammo i fiori,

lasciandoli appassire sulle finestre,

gola a megafoni, proclamammo,

in accordo di propaganda,

le atterrite verità di sussistenza.

E afflitti da macigni, marciammo

nei giorni sbiancati dai detersivi,

esiliati nelle pasciute cantine

di vizi ammansiti da ignoranze sovrane.

 

E proseguimmo, intanto, 

indenni in orchestre calibrate,

incapaci di eleggere danze a destini,

con cuori a batteria, ossidati

in pantomime di copioni sfatti.

 

Accadde, perchè

dimenticammo i fiori

e fu il crimine

della poesia,

il nostro stesso.

  

*

Lo specchio

A te che hai bisogno

di umiliare altri,

per dimostrare chi sei,

orgasmico di onnipotenza,

guarda... Lo specchio liso...

Sentore di calce e di cadavere...

 

Tu,

leggiadra impermanenza,

vuoto frainteso, inascoltato,

non irrigato dall'acqua della fede

 

Osserva

l'agonia del petalo scarnificato

non è dolore,

ma bellezza aperta a divarico sui cieli,

istantanea a scadenza,

che più non sarà,

 

perchè altra luce permei e irrighi

la soava unicità dell'attimo che fulge,

cade,

muore...

 

Come te,

che uscito dalla scena 

delle tue commedie, roboanti

                          di vanagloria,

il grigio troverai ad ammiccarti

delle pareti

 

e più in fondo,

lo specchio, a dirti:

"Guarda... guarda...

Finalmente, ora, guarda!".

 

E già non sarai. 

*

Promesse

Ella si levò all'alba,

sullo spento tizzone

della notte già caduta.

 

Lasciò il corpo

nudo di colore,

quando lavò il piombo

di fantasmi antiche;

 

li lasciò sbiadire,

semplicemente,

tra le pareti magenta.

 

Roma infiorò promesse

con l'oro del giorno,

come il dio che nasceva

dalle sue immacolate carni.

*

Il Sacro Fiore

Dove s'arrresta

il finto effluvio

delle chiare notti senza stelle,

 

lì, nella vagina della terra,

inciderò, con un legno

il tuo nome,

 

dirò: da qui è passato un fiume,

s'è incrinato il tragitto

della quieta valle

e le stelle, spodestate dagli agi

del trono celeste

hanno tremato come lucciole acerbe,

 

con me, 

china sui tuoi occhi,

scheletro sull'abisso,

gemmando il Sacro Fiore

di questo nostro amore.

 

*

Il torrente

L'acqua fluisce,

gorgoglia in sinusoidi 

                      festose

sopra un cielo di lacca,

che la mente incolla

a antichi incantesimi.

 

Il rivo s'arresta

sul delta;

si dimena, il calabrone

sulla verde sponda.

 

Risorge

l'urlo antico. 

 

*

Sola

Son sola nel brusio dell'inconcludenza

quando pezzi d'anima spaccano

il fondo oscuro

d'una abissale convivialità,

vuota di solitudini, riempite

come scatole di cartone,

scricchiolanti di pensieri di plastica.

 

Son sola

nelle finte allegrie spavalde

o quando viene giorno,

ma son sola nella notte dei ricordi

e le ragnatele offuscano la vista.

 

Son sola

quando chiudo l'infinito sulle dita

in cambio di barili di pensieri,

convenzioni

- il trito e ritrito

della parabola del buon gregge-

o quando raccolgo

briciole di sorrisi

e mendico farfalle

dagli sterili paesaggi dell'abitudine.

 

Lì,

tra quelle chiazze di distanze,

son sola,

saccheggiata dall'Infinito

che esplode, dalla mia corolla

quando sono

veramente 

sola. 

*

Oro

Quando ti sembra di precipitare,

in basso,

così in basso,

non temere;

non c'è nulla 

che non possa essere

                trasmutato.

 

Osserva le pietre scure

sedimentate in te;

sono la pesantezza dei millenni,

che il dolore copre

come una crosta di piombo.

 

Tu, osserva...

Non c'è nulla

che non possa essere

                trasmutato.

 

Versa allora l'oro dell'amore

dall'occhio aperto sui tuoi sbagli,

capirai

che il tuo unico sbaglio

è esserti scordato di te.

 

E saprai

che l'oro che illumina il cuore

è una moneta senza inflazione

 

e tu ama,

ama il Sentiero,

ama anche i tuoi sbagli.

 

Di pietra in pietra,

l'oro risorgerà

l'antico tuo tempio;

e dalle dissodate zolle del cuore

nascerà un fiore

e avrà il tuo nome.

*

Per arrivare fin lì

Ci vuole molta luce

per arrivare fin lì,

dove il cuore s'arena su una giostra

d'istanti perduti, memorie offuscate

nella periferia dei ricordi,

macinati con le ere

e i loro fasti di sabbia

                e di nebbia.

 

Ci vuole molta luce

per congedare gli altari,

abbattere i templi;

occorre sentire il sangue

che gela lo scheletro. 

 

Occorre

l'impietosa luce fredda

che fa trasalire il ragno.

 

Morire con la foglia bucata,

già caduta,

di ogni perchè. 

*

Nel fiore dell’Ade

Nel fiore dell'Ade

Sul tavolo il pane è raffermo,

ma le mie mani raccolgono briciole.

Il freddo s'accende

come un deserto;

ci sono corvi

e odore di decomposizione.

 

Le parole rotolano come biglie

sull'inutile tavolo che conobbi,

già crepato.

 

Frammenti d'immagini muoiono

nel vento inutile

che nel fiore dell'Ade,

mi sprofondò

ancora

a cantare

sulle mie ossa.

*

La casa dei tulipani rossi

 

E' lontana la casa

dei tulipani rossi,

quella in cui cercavo il pane,

l'odore di buono.

 

La tristezza ha scavato

nel midollo,

lasciando molta carne alle iene;

i loro artigli hanno graffiato

persino la tela malinconia

che aveva tenuto in serbo

gli oli turchesi,

per dipingere la mia poesia.

 

Rimane un pensiero:

i becchi arancio dei passeri nel nido.

 

"Vedi, aspettano la mamma" sentivo.

 

Ed io li dicevo fortunati.

*

Liceali

Allora non sapevamo che fare

non sapevamo chi essere,

solo segnali,

qualche stella caduta per caso.

 

Col marchio del peccato originale

annusavamo l'aria dietro i vetri

sfregandoci addosso solitudini,

scandite dal suono della campanella.

 

Nascondevamo la vergogna

nei maglioni troppo lunghi,

che coprivano le mani.

 

Palle da biliardo per partite

da segnare sui registri

(alcune cadute, altre no)

eravamo

e non Destini, potenti come il tuono

- che quelli erano le noiose gesta

di eserciti assassini da imparare a memoria-.

 

Nei nostri zaini

c'erano i pianti delle nostre madri

crocifisse dietro le telenovelas

o la disgustosa fiducia dei padri

in un mondo già perfetto.

 

Nessuna sovversione.

Nessuna rivoluzione. 

 

Il senso di colpa ci dissanguava

dai tempi del fonte battesimale.

 

Orfani e prigionieri

noi

non sapevamo

dove andare...

 

*

L’anima respira, indenne

Se fosse musica,

semplice musica di piano,

questo andare a ritroso

tra la radura del tempo

 

direi

della ragione della foglia caduta

e già bucata

nella superba resistenza

             porpora e ocra.

 

Direi che è dolce

il rivo quando ghiaccia,

la sterile terra spaccata

dalle feroci estati,

come le madri sull'uscio

coi loro orfani di guerra.

 

ma la verità

è che è musica, questo vivere,

il rivo mai ghiacciato,

la foglia mai caduta...

 

Solo l'anima respira...

Indenne, 

senza un divenire...

*

Ti vidi sempre bella

Ti vidi sempre bella

coi tuoi capelli color luna

e la figura snella che scivola,

come un'ombra,

dalla tua casa al tuo giardino,

quello che dicevi 'è solo mio'.

 

Lì sognavano le rose,

i ciclamini, le dalie e le margherite

mentre con mani nodose di grazia

sfornavi il tuo pane immacolato.

 

Fiorivano anche gli angeli

quando sorridevi

e tu, che forse non sapevi

nè leggere nè scrivere,

nel silenzio parlavi con dio.

 

Una piuma bianca cadeva su me,

dai tuoi gesti densi d'aroma di semplicità.

 

E quando passo

accanto alla tua casa

accanto al tuo giardino,

nel cielo sboccia un tramonto di dalia,

semplice come le tue margherite

e i ciclamini

che, sempre, dicono di te,

di te,

che vidi sempre bella.

*

Maschere

Maschere,

incollate di fango

secolare....

Maschere di buoni valori

che celano perfetti assassinii.

 

Maschere d'io

sotto polveri di visi asfissiati

dalla sete di vita vera,

occupatissime maschere

orchestrate dalla tirannia

della salvaguardia della specie.

 

Maschere come mura di tufo

su scantinati di terrore,

dove sacrosante vestigia

del passato, ornate di muffa eterna,

vengono onorate e riposte

nel reliquiaio di ferro arrugginito,

che la serpe sorveglia.

 

Maschere sempre a un passo

dal grande evento trasformatore,

ammansite dai domatori di greggi,

venditori di lota dorata,

presa dai cortili dei loro porcilai.

 

Maschere che danzano al passo

- la mannaia sempre sulle teste-.

 

Maschere che insieme è bello,

la critica è peccato,

orrore, la solitudine.

 

Maschere otturate

per il profumo del vento

per il respiro dell'alba.

Riparate negli odori di plastica

di pensieri di plastica,

ridono a tono.

 

maschere stritolate d'ansie,

di voglie feroci 

ammansite e sgozzate

sull'altare della virtù.

 

Maschere di confortevole

mediocrità,

non oscillano,

non si spezzano, 

purgate d'ovvietà.

 

E tutto procede

E tutto procede

E il trucco procede

 

e così sia.

 

 

 

*

Il Nuovo Impero.

Una musica t'avvolge,

stridente e luminosa

come gemme sui muri azzurri

di pensieri di giacinto.

 

Passaggi e passaggi 

scrivono

le tue antiche mure;

umori nuovi e antichi

trasudano, col colore.

 

Le acque del tuo fiume

formano un'ansa

con le acque del mio grembo

e riportano in vita una musica sepolta,

la tua musica selvaggia,

armonia di popoli e pioppi e pini

e spighe e allegre compagnie

nei tuoi caffè...

 

Con te danzerò,

Roma antica,

selvaggia e altera,

nobile e popolana,

madre di tutti i figli

che, in te, cercano nido.

 

E lo dicono le tue stazioni

tra sfregamenti e piedi pestati

e trolley e kebabbari

e venditori di souvenir 

in vecchi locali scrostati

tra odori di spezie e arance

e frutti tropicali e zingari

e ambulanti e mendicanti

e business man e artisti

e uomini assoldati

al dio della vacuità

che cade,

col tuo vecchio impero,

in salamoia nei palazzi di potere

tra reliquie di vuote assemblee

nei vuoti cupoloni.

 

Tra queste rovine,

con te germoglierò.

"Sì, lo voglio", dico,

mentre sposo con te

la nascita del Nuovo Impero

dell'uomo nuovo,

senza più catene. 

*

Fantasmi

Freddi fantasmi

entrano di soppiatto

nella tenda della notte;

o sono, forse, vampiri

che succhiamo la placenta del Sogno,

lasciando ancora strappi sulla tela.

 

Anemici, zigzaganti

vagano nell'obitorio

delle passioni mai estinte,

dei gesti incompresi,

delle verità spezzate,

lasciate a illanguidire

nella nera notte della Gorgone.

 

Come coltre polverosa

sui delitti del tempo, stanno

sul precipizio della meccanica

che tiene prigioniero il cuore

su un abisso di tenebra.

 

Piangono, essi

nella notte anemica,

cercando carità

dalla veste dell'alba bambina

che tinga, ancora, sorrisi

col colore dei fiori.

 

*

Annunciazione

Sentii la musica fremere

sulle sue carni nude.

 

La pietà la diseredò

per più di una notte.

 

E lei gettò sui cieli l'ancora:

la lacrima schizzò sulla voluta,

disegnando ali.

 

Pura come un enigma,

densa di ardente resa,

seppe farsi trasmutazione.

 

L'angelo venne,

a vestirsi delle sue ali.

 

E lei sentì il Cristo giallo

balzarle nel ventre. 

*

Un caffè per Signora-vestita-a-fiori

Sono venuta da te,

a prendere un caffè,

signora-vestita-a-fiori,

ma tu sai

dove hai nascosto

l'abito più bello?

 

La tua casa è una grande vetrina

di cristalliere lucido noce

e antiche porcellane e immobili tenenti

ad appassire accanto a velieri consegnati,

ormai, 

a un mare di polvere ferma.

 

E il vecchio cavallo al galoppo

è sempre lì,

instancabile nella sigillata teca

tra bicchierini per improbabili rosoli

e flute per inaccessibili ricorrenze.

 

Mi hai detto: "Va' pure, in cucina,

a preparare il caffè"

e c'era anche lì

odore di sedimenti,

cespi di lattuga lasciati a impietrire

tra vuote dispense e

nell'aria di chiuso, solo la pietà

del sibilo del vecchio frigo.

 

Ho preso da sola il mio caffè,

mentre il parrucchiere finiva la tua permanente,

nel fondo l'amaro di un dolore antico

come il vecchio pendolo tra ore di gesso.

 

Ho messo, allora,

grani di cioccolato

nel caffè che ho lasciato per te,

signora-vestita-a-fiori,

un grano per ogni amore non consumato,

un grano per ogni sole filtrato,

un grano per ogni ballo abbandonato

prima che fosse mezzanotte,

un grano

per ogni amore

mai nemmeno sognato.

 

E ora sì che sei bella

con la tua permanente, 

mentre bevi il mio caffè

con grani di cioccolato,

signora-vestita-a-fiori,

oggi 

che puoi finalmente regalare

una lacrima

al tuo amore.

 

 

*

Nella stanza di Barbablu’

Incontrarmi, in questo spazio,

tra croste di luce di lampadari spenti,

arrugginiti come stanche rotaie,

mentre il serpente dell'impaurito dolore

lacera la gola.

 

C'è puzzo di carogne,

onnipresenti spettri ebbri

inumidiscono di bile

i pavimenti, scuri

come mosaici scollati.

 

Il calore è un forno elettrico.

 

Sagome di gesso e tufo, stanno

appollaiate sulla cassetta dei risparmi.

 

Sulle assi portanti del dolore,

onnipresente come un ragno

attaccato al mio sesso di bambino-nato-femmina,

memorie fatte a pezzi,

scollate come vecchie fotografie,

trasudano inquietanti requiem.

 

Il vuoto mi mangia da dentro

come un feto maledetto,

ripetendo voci scollegate

da un telefono rotto.

 

Solo una libellula, blu

salta nel buio.

*

Da qualche parte

Mi sono fermata

in questa nera isola di suono;

 

niente da dire,

ricordi filtrano dai cocci

di una bottiglia.

 

Ci sono cose dimenticate

tra filospinati azzurro-ruggine,

spremute di dolore

lasciate a irrancidire.

 

La luce, minima, è uno scherzo.

 

Sulla tavola nera chiodi

imprimono un segno,

alle pareti c'è un Cristo tanto folle

da essere muto.

 

Ma i tuoi solchi

rosso clandestino

lasciano una musica di fiordaliso

sulla macchinetta del caffè.

 

dicono che il sole è

da qualche parte,

dov'eravamo prima

che ci spezzassero le ali. 

 

*

L’aquilone

Sul cielo azzurro

uno squarcio, muto

divarica le arterie

 

- cola sangue

sulle pareti incalcinate- 

 

ma un aquilone

dalla ferita tela, tesse

il suo mosaico di luce.

*

La stagione dei gelsomini

Lanciò guanti, borsetta,

giarrettiera, tacchi a spillo

tra le nuvole.

 

Non ancora sfiorita era

la stagione dei gelsmoni.

 

In cielo accese

una sigaretta di pietà:

cenere rossa, rotolò

 

fino all'acqua.

 

Nel suo specchio si vide,

illesa,

scarlatta di pallore,

 

come grappolo maturo

dall'oscura luce del baco.

 

Nata, lei era

e non lo sapeva.

 

Non ancora sfiorita, era

la stagione dei gelsomini.

*

Nonostante

Nonostante tutto,

sei stato

scia nel fuoco,

pelle nella pelle.

 

Nonostante.

 

Nonostante la tenerezza

che spacca le ossa

e la morte ti spacca

 

Nonostante i morsi

al nervo del cuore,

 

la tumefazione sbriciolata

sulla tua stessa tumefazione..

 

Nonostante.

 

Nonostante il fiore bianco

caduto per caso

nel grido di una musica spezzata

da esili di piombo

nelle fottute notti

- notti dopo notti -,

 

ci sei stato

 

A violarmi col suono d'una illusione,

a spezzare

le mie infangate corde, appese

a una luna storta.

 

Nonostante tutto,

tue, sono 

queste mani di fango

attaccate al mio fango;

 

la luce

potrebbe essere una svista.

*

Tu, nella mia più profonda luna

Tu stai nelle grotte

della mia più profonda luna,

 

re

della mia isola beata,

nascosto nel dolce suono

delle mie insospettate acque.

 

E niente ti turba,

niente

ti gualcisce il respiro

mentre così, silenzioso,

stai,

sospeso nella mia luce argento

come in un canto. 

*

Tu sei

Tu sei il fossato

e sangue sulla rupe.

 

L'alleluiah improvviso

che esplode come uno squarcio

quando

d'improvviso appari

e mi resti dentro.

 

Sei il ferro nudo

che, nella livida notte,

mi lacera la caviglia

 

ma resta, tuttavia

attaccato

all'abisso

dell' Infinito.

*

Sul limite dell’Assoluto

M'accecò, il tuo nome

 

suonò in sigilli fondi,

oltre le pianure.

 

Il fiume divaricò le cosce

per contenere il brivido

e intanto, schiumò la resa

la brina che si accavallava 

sull'erba, in festoni.

 

Chiamai il tuo nome

e tracimai angoscia

come una partoriente ebbra,

quando

la tua carne

nella mia

 

carne si fece

 

e carne spezzò

 

ed io restai,

scalza,

sul limite dell'Assoluto.

*

Solo spazi

Un sole d'alabastro spettina le rive,

ed io rinasco, Venere, nel vento.

Ho dipinto col sangue il mio ritratto,

sulle tremanti dita la brezza del fuoco,

attinta alla tenerezza che scompone le sponde.

 

Sono giglio, fiore rosso, pozza ebbra di sole,

sono terra che nasce da una prateria di stelle.

 

Ho asciugato il pianto dei fiordalisi

dai miei giardini

visto

il mare freddo dai pascoli da cui fuggivi,

cavallo indomito ma pur sempre preda,

dimentico del fiore che affondò

nel ventre umido di un Sogno.

 

E vado, ora, 

con la sfera intatta di sogni mutanti

nella giostra dei giorni

e ho ancora sulle gambe i calzini da bambina,

la treccia che mia madre raccolse

nella scatola dei ricordi

per il tempo ebbro,

quello delle onde indaco

che lavano le orme oscure.

 

Spazi, solo spazi,

ora, 

in questo mio andare...

*

Da qui

Ora che m'aleggia dentro

l'aroma di fragranza antica

stanato nei ciottoli grigi,

come oro,

resuscito dall'ombra,

dall'isola diseredata che lasciai

ai suoi carnevali alle sue inopinate effervescenze

                                                             artificiali,

cariate di tradizioni sdentate.

 

Nessun tremore.

Il canto della tenerezza sta sulle mie dita

che attraversano l'oro dal pianto del mare.

 

Sono io

l'isola nuova che cercai dai colli

di bottiglie acuminate,

col sangue sulle dita, stanando

inesorabile, messaggi nascosti

scavando dalle trinceee degli occhi

nelle insenature fulgide di sotterrati soli.

 

E da qui, ora, 

so,

finalmente so

che non finirà mai.

 

 

*

Incontrarti

Incontrarti,

dove la neve cigola

sul carillon delle estati perse.

 

Incontrarti ad una giostra,

tra stanche rotaie,

chissà...

 

Incontrarti

dove una cicca, per terra,

ha ingoiato troppe parole mute

o sull'erba secca, spina a spina,

esangui...

 

O dove il vento tracima

le parole accartocciate nel tempo

come fogli di giornale, appallottolati

all'angolo di una strada.

 

Incontrarti là,

dove ti sei perso.

 

Per incontrarmi.

*

Corpo a corpo

Corpo a corpo,

muore il corpo della storia;

 

cadono statue e momumenti,

lettere e sillogismi;

il fuoco buca Aristotele

nello stomaco.

 

Corpo a corpo

il tuo odore sventra il mondo,

svela il giglio che rinasce

folle di foreste.  

*

Portami via

Vieni a prendermi

dove fioriscono le zagare

e la morte non sta, secca,

all'angolo del fiume,

perchè la vincemmo coi baci.

 

Portami via dai vincenti,

dalle idee chiare e inoppugnabili.

 

Dai giorni senza memoria,

dall'assordante tamburellare della siccità,

dai vagoni abbandonati,

frenati anzitempo

sulle stanche rotaie della vita

tu, portami via.

 

Portami via da chi sa tutto,

dai tribunali dell'ovvio,

dai ministeri della scienza

coi loro monumenti al cinismo

adorati dagli idolatri del buon senso.

 

Portami nelle tue mani

come la bimba 

che hai sempre cercato,

che sa perdersi in un fiore,

senza chiedersi perchè.

 

 

*

Nessuno mi chiese

Mi misero un grembiule giallo tisi,

una sottoveste color verde supplica,

stretta con una cintura d'anemia

 

mi dissero

 

di non oltrepassare i chiusi cancelli

 

di fare

un respiro

per volta;

 

chiusero il mio pianto

nell'armadietto della carta igienica,

 

mi dissero

non fiatare

che viene il direttore.

 

Nessuno

però

mi chiese

perchè disegnassi annegati. 

*

Vicino

Vicino

sei il sale delle albe assonnate,

 

il primogenito del grano

che sorge

dal mio fecondo ventre

 

Vicino

sei la fiamma furente

delle api assetate

sulla fragranza della mia deità

 

sei il pane 

e il vino

incenso

e benzoino

che affonda nelle sere,

umide di naufragi.

 

Quando

vicino 

mi stai, 

la pioggia cade nel vento

con suono di stella

e dice

che non moriremo,

mai. 

 

 

*

Mi prendo di te

Mi prendo di te

questa stanchezza antica,

i pensieri corsari ammutinati

nei tuoi bastimenti assediati

 

Mi prendo di te

questa febbre esule di esilii,

il passo grave

dei diseredati giorni

 

le gambe gonfie

di interrotti passi

 

mi prendo

 

questo tuo invisibile tormento

che gocciola nelle sere

dimentiche di soli

 

prendo

 

la tua morte tra le mani

in questa vittoriosa sconfitta

che arde come fiamma nelle vene

e non vuole altra luce.

 

*

Antica geometria

 

La mia musica è stridente,

come i legni abbuffati di pioggia

delle sedie dei giardini, in inverno

 

e tuttavia

 

posso rendertela in germogli

dalle mie mani di madonna rossa,

gravida d’un sogno bianco.

 

Ma sento che ti spaventa

questa donna scheletro

che reca, negli occhi,

la vertigine d’una atroce apocalisse.

 

Ma non sono le tue lacrime, le mie?

Non è tua la terra che trema, consunta,

sotto il mio passo consunto?

 

Pure il corvo del dolore s’allontana

in questa nuda distanza che trasuda

l’anemia d’antichi incantesimi.

 

Resto.

 

Sui miei fossati di neve,

salvando il petalo sanguigno

 

tendendo

 

al frangersi dei flutti neri

e alle bonacce dei sensi,

 

mentre aspetto la vela

della mia antica geometria.

*

Fatima

Immensa, tu partecipi
al movimento delle acque:
discendi, ondeggi, giochi

 

flusso e riflusso

 

tu inventi il mare.

 

La tua voce è dolce come fiaba antica
di antiche curandere,
non tracci tracciati
ma scrivi parole nuove con un tocco
sulla sabbia;

 

Alchimista sensuale e suadente
tu
governi senza decreti e battaglie,
offrendo al mondo un sorriso di cioccolata.

Entrerò ancora tra le tue larghe vesti,
Fatima
e dalla stessa conchiglia
rinascerò con te
per riportare al mondo ferito
il tuo stesso sorriso di mare.

*

Emma (Ispirata al personaggio di Emma Bovary)

 

Era una sete, assidua

di giorni di giostre di fiori

la tua sete,

che faceva cigolare le nocche,

spettinava  i capelli inquieti

come falde d’un deserto arso dal sole.

 

Tessevi sogni scomposti con le filigrane francesi.

 

Ti attraversava l’incubo della certezza,

 spegnevi le candele e vedevi

oltre le mensole scarne,

quell’urlo che accoglievi nel grembo palpitante;

 

Non mentivi.

 

Osavi esigere dal destino

come un mercante verso i creditori,

bussando con mani bianche, volto bianco

occhi di colomba ardente.

 

Chiedevi amore.

 

Chiedevi l’inspiegabile che traboccasse,

lenisse

la carcassa dei giorni macerati nell’immobile

ordine del contadino ligio al suo padrone.

 

Bevesti quel vino.

 

Tutta la cantina grondò nel pozzo del tuo desiderio

come fiumi che confluiscono nel letto

del grande mare nato dal fiore del deserto.

 

Emma,

fu il tuo nome.

 

Emma.

 

E porti ancora,

nel tuo insaziato cuore, il fiore

di ogni donna

in cerca d’amore.

*

Signora Pernice

Signora Pernice aveva un padre una madre una vecchia zia

con denti d’avorio a centocinquant’anni suonati

e gestiva pavimenti di marmo tirati a lucido,

lasciando che la luce dell’alba solleticasse appena

l’arredo di mobili in noce con fiori finti e tiretti sigillati

da blocchi di ricevute e concessioni edilizie e testamentarie.

 

Signora Pernice soppesava ogni parola e non sapeva

quello che diceva e tuttavia lo diceva con eleganza inoppugnabile quando

le mareee si agitavano oltre le nere cime delle case svettanti

e un vento tetro presagiva i capricci dell’ostro;

 

Signora Pernice andava a messa tutte le domeniche e leggeva

il libricino delle orazioni sempre dallo stesso verso

e strappava con acredine spazio alla vicina

che sorseggiava appena parole,

 avvolta nel calice rovesciato

 del suo cappotto di feltro marrone.

 

Nessun lamento.

 

O inflessione

 

Quando il marmo della casa si aprì,

e l’inghiottì.

 

 

*

Il mio gatto

Microcosmo di nera voluttà,

curve morbide e lascive

artigli pronti a prendere e a strappare;

 

gioco e morte

 

siedi sulle mie cosce come su un trono,

e sei un bambino

che gioca con la mia giacca

o un capriccioso amante imperfetto

che non conosce tregua

 

e mi rivolge i suoi attentati,

accecandomi coi suoi occhi di duro smeraldo.

*

Il corpo nudo delle stelle

Sono arrivata al punto

di non dover più firmare

                 alcun registro,

 

il mio nome

l'hanno cancellato con una squadraccia,

credendo

di impiccare le mie stelle;

 

Ora

vado errando tra terre, boschi

e laghi immaginari,

 

Ora

anche di giorno,

vedo

il corpo nudo delle stelle.

*

A sera le formiche tornano sempre al formichiere

Termodinamica

Tecnoidraulica

Tecno…tettonica

Campeggio nell’universo tecnico/tellurico

 

L’occhio tagliente

 

Arrovesciati paradigmi

 

Violenza ed odio

violenza ed odio

 

Cigni feriti

Bambini dimenticati

 

Passano fanfare alla modernità:

Donne con musi termici

Occhi meccanici

 

A sera, le formiche

Tornano sempre

Al formichiere.

*

Distanza infinitesimale.

 

Dove sei stato,

in quale lido o discarica di cose

mai dette hai sepolto

la tua rabbia?

 

La strada é impervia.

Stretto il sentiero.

I glicini han ceduto il candore,

arenati su grate di filo metallico

fatte per sedare ogni voglia vera

di respirare, correre, andare.

 

Dove sei stato?

 

Non hai saputo capire

-eppure il  passo era breve –

quanta distanza passa

dall’Essere al divenire.

 

Hai replicato,

come una pellicola incantata,

sogni corrotti

di un padre stanco;

 

te li sei presi senza fiatare

senza cercare – delitto! –

di capire

la distanza infinitesimale

tra te

e il mare.

*

Il canto di Eos e di Titone

          Il Canto di Eos e Titone

 

I L’Incontro

 

Eos   Vieni, vieni, vieni,

          prima che sia troppo tardi;

          percorri con braccia piene,

                          come grandi remi

          questo mare di cielo che ci divide;

          Vedi… Brilla nella notte

          e le sue onde sono lampade d’argento

          che illuminano i sogni

          come piccole, scintillanti lune marine.

 

Titone   Non sai… No, tu non sai

               la fatica di percorrere gli anni…

 

Eos  Oh no! Non dirlo…

         Ma vieni, vieni, vieni,

         lascia che sia io

         a divenire mare

         per percorrerti le vene

                      come unguento…

         Vieni, vieni, vieni,

          voglio vestirti d’ocra e d’arancio,

          ungerti nel Fuoco del mio Amore.

 

Titone  La vedi anche tu

             la notte senza argento?

             Le colline sono cupe,

             severo, il monte, immobile

             come la Legge

             che ci sovrasta

 

Eos  La legge, la legge, la legge…

         Ma che legge è mai questa?

         La legge che ci volle muti?

         Perduti nello scambio di cose mute?

 

Titone  Non dirlo, ti prego…

 

Eos  Sei tu che lo dici.

        Lo dici nelle sere

        solo nel tuo letto;

        Lo dici accanto a un lume

        sempre più spento…

 

Eos e Titone  Lo dico in Te, che ho cercato,

                        in Te che sono.

 

 

        

Eos  Hai sentito?

        Lo scoppio di Luce,

        le nostre Anime…

 

Titone  Sono ai tuoi piedi, mia amata,

              ma ancora resisto

              avvolto alla cavezza.

              Sono vecchio e solo.

 

Eos  Le mie notti non furono men cupe;

        Assetati, spesso, i miei giorni.

        Il tuo dolore m’appartiene…

 

Titone  E allora avanza, libellula d’aurora,

             avanza, sogno,

              lascia dietro te strascichi di luce

              per asciugare il sangue

              e spargiti sui miei giorni,

              inventami, inventami, inventami…

              Oh, quanto ti attesi!

              Quanto le mie membra stanche

              reclamarono acqua e luce!

 

Eos  L’emozione mi prende,

         mi libera la stretta in gola…

         Piango, piango, piango;

         non è dolore

         ma gioia, gioia, gioia.

         Ecco, amore, l’acqua

         Ecco, amore, il sole…

 

Titone  Vieni, aggrappati alle mie dita:

              vedi quanta neve d’estate!

 

Eos  No, non è neve, è luce…

         Luce e lacrime, lacrime, lacrime,

         tutte quelle che non versai.

         Quanto a lungo ti ho atteso!

         Quanto a lungo il mio dolore

                                            ha gridato

          alle soglie della follia!

          E ora, che farai?

          Ancora mi lascerai?

 

Titone  Il dolore che grida

              alle soglie della follia;

              ecco il fiele più amaro!

 

Eos  Tu puoi guarirmi,

         tu puoi entrare in quel vuoto,

         solo l’Amore può vincere i demoni,

         anche quelli del silenzio!

 

Titone  Tu eri già mia.

             Mia come l’estate sul pero;

              mia come terra delle mie stesse radici;

              Ed ora vieni, non temere

              il buio della notte,

              liberati sulle mie mani,

              dalle mie mani d’Ostia viva.

              Vieni, mia regina,

              farfalla di sogno sospesa nell’aria

              delle mie primavere perenni.

               Vieni, cerbiatta graziosa,

               sui prati verdi delle mie esistenze

                                                              andate,

               vieni, raggio d’aria che scavalchi

                                                          il tempo,

               gemma, cigno bianco, acquamarina,

               vieni, vieni, vieni…

 

 

Eos Vengo sulle ostie delle tue mani

         sono acquamarina, gemma, cigno bianco.

         Come sono delicate le tue mani e forti

         e come brilla l’anello della tua Fede!

         Sono petalo, amore, sulle tue mani

         che ora sono acquamarina mossa

         dalle mie emozioni…

         La Grazia ti pervade, ti rende sposo

         e la tua bellezza rifulge come diamante.

         Sii il mio sposo,

         sposo del mio dolore redento,

         delle mie lacrime trasformate in pane…

         Vieni, vieni, vieni,

         saziamoci del nostro amore,

         Grande Ostia per tutti i giorni senza pane!

 

Titone  La felicità mi rende leggero,

              sono un ragazzo

              e tu la mia giovane sposa.

              Ci siamo forse incontrati

                                    In altre vite?

 

Eos  Altre vite, altri soli, altre lune…

         Ma non è forse Uno il giorno?

         Non è forse Uno il sole?

         Tremo, tremo, tremo

         come canna nell’immenso campo

         della tua anima, feconda, di spiga…

         Come sono pieni i tuoi occhi;

         Sono topazio bagnato di luce

          sfumato all’ombra della luna.

 

Titone  Non sono i miei occhi,

              ma i tuoi…

 

Eos, Titone Nessuno può capire il Mistero,

                     Siamo Luce della stessa Ombra

                     Siamo Ombra della stessa Luce.

 

 

Eos  Oh, sciagurato presagio!

        Quel dolore...

        Vedere che la scia scompare!

 

Titone  Tu sei mia

 

Eos  Ancora, dillo…

 

Titone  Mia, mia, mia…

 

Eos  M’ami tu così?

 

Titone  Un tempo, al mio capezzale,

                                                 pregasti

              il Destino prendesse altra strada,

               quel destino che tu conoscevi!

 

Titone parla con gli occhi abbagliati rivolti verso l’alto.

 

Titone  Tu fosti eletta

             a tessere il mio sudario

             con le trame del tuo cuore

 

Eos  Io, allora, fui già Santa?

 

Titone acquista la lucidità.

 

Titone  Santa, oh sì! Santa

             e con la tua santità stregasti

                                        il mio cuore

            che trascinò detriti d’ansie, angosce,

                                                          paure      

            verso il rivo delle tue vene

            che intrecciarono reti

            e m’accolsero, intero.

            Oh! Sii Benedetta,

            Benedetta tra le donne…

 

Eos  Ed io ti benedico, amore,

        ti benedico col mio sangue,

        ti benedico con gli occhi,

        con queste mani che tesserono

        sudari nuziali

        per il tuo corpo di spiga matura,

        Ti benedico

        preghiera che colasti sulla mia vita

        e tergesti l’impuro con la Sacra Fiamma

        e avverasti la promessa di Dio

        alla mia Consacrazione.

 

Titone  Oh, mia Santa! Mia Sposa, mia Diletta!

             Mai l’Immenso fu più prossimo!

            

Entrambi cadono in ginocchio, gli occhi colmi di una luce abbagliante che irradia da essi.

Dopo qualche tempo, Eos si rialza.

 

Eos Tu, amore, sei tutti i miei amori!

 

Eos  Tu m’apri le porte del Paradiso!

 

 

Titone  Sempre ti è appartenuto

             Sempre ci è appartenuto

             Noi… Pura Luce…

 

 

Titone è vestito con un mantello sacerdotale color oro.

Le si avvicina e l’avvolge.

Lui diviene sole, lei luna.

Dalla loro danza nasce la Terra.

 

Titone  Io sono l’Alfa

 

Eos  Ed io l’Omega

 

Eos  Io sono l’Alfa

 

Titone  Ed io l’Omega

 

 

 

II Distacco

 

Eos  E’ notte, vedi, è già notte!

 

Titone  La notte non è assenza di luce

              e tu lo sai…

 

Eos  Non so più niente.

         Sono nuda.

         Nuda come acino disperso;

         vino versato dall’otre della storia.

 

Titone  Eppure sei diversa,

             un bagliore nuovo rifulge

              nei tuoi occhi di cerva.

 

Eos  Voglio danzare.

        E’ la voglia che mi nasce

                                 dagli occhi

                                     e rifulge.

 

Titone  E allora danza, mia sposa

             senti il Ritmo della Terra

             e salta con la polvere in faccia,

                                negli occhi, nel naso,

              e scalcia, puledra,

              al ritmo tribale del mondo,

              impazzita, liberata!

              Danza, danza, danza…

 

Eos danza una danza tribale e sensuale che accende il cielo di colori scintillanti. I capelli e le ciocche, furiose, dipingono strascichi di porpora e rosso.

 

Eos  Cosa è accaduto?

 

Titone  Hai conosciuto la Felicità;

              sei entrata nel Ritmo della Terra!

 

I due amanti si guardano, gli sguardi insondabili persi in profondità inaccessibili.

 

Eos  Dunque è questa la Felicità? Danza e Follia?

 

Titone le accarezza la fronte. La bacia e, poi, cingendola, la invita a dormire.

 

 

Eos  Sei vicino, eppure lontano,

        più lontano di quanto possa

        immaginare… 

        Ma, dimmi, perché attendesti tanto

        questo raggio di sole?

         Hai forse, in passato,

         temuto l’amore?

 

Titone si scosta da lei, china la testa.

 

Eos  Oh! So, so che il fondo dell’Amore

         è amaro più del fiele

         e che tu sei un uomo col cervello.

         Nessun uomo col cervello

         può e vuol cadere

         nel torrente imprevedibile e amaro

         dell’Amore, eppure…

         Conosco le trappole della ragion pura,

         la follia di pazzi intelligenti al potere:

         bambini trucidati, venduti, assoldati,

         donne stuprate, umiliate,

         uomini venduti, usati, prostrati…

 

Eos si copre gli occhi.

 

Eos  Tutta questa ragione

         è omicidio e follia!

 

Titone  E’ il tuo Amore che ha vinto!

 

Eos  Ma l’inverno è duro nel tuo cuore…

         Non basta la danza di Primavera

         per scioglierne i ghiacciai!

 

Titone  Guarda il ciliegio: guarda i suoi fiori,

              pronti a tramutarsi in frutti…

              Tu sei fiore di ciliegio,

              tu sei primavera.

              Conoscerai raggi ancor leggiadri

              sulla tua pelle di petalo,

              tu stessa sarai ciliegio

              e protenderai i tuoi rami

              verso il mare,

              ancora ammaliata dalla Grazia

              che volle la tua danza…

              Tu, nell’eterno fluire

               del mondo finito:

               fiore, frutto, ramo, primavera.

               Oh! Come sei bella!

               Tu sei la primavera…

 

Eos  Tu stai per lasciarmi.

         Il mare non sarà più lo stesso;

         Vedi, tende alla linea dell’orizzonte

         e il tuo orizzonte brilla per me

         di mille orizzonti

         e mille orizzonti baciano le mie onde,

         le increspano,

         direzionano il loro finito, eterno movimento…

 

 

Titone   Guarda lassù,

              il monte che s’eleva sul mare,

              lì mi troverai

              ogni volta che mi cercherai.

              A che giova il salto dell’onda

              che non ascende e s’eleva?

 

Titone e Eos  A che giova il mare

                       senza la vetta che annuncia

                       l’Oltre?

 

Titone Questo noi siamo, amante, sorella,

             madre…

              Acqua, aria, terra…

 

Titone si incammina verso il monte

con un mantello dorato di stelle.

Eos solleva le braccia al cielo,

la veste azzurra come il mare

e grida dietro lui:

 

 

Eos  E Fuoco!

         Acqua, aria, terra… E Fuoco!

 

Titone  si volta un attimo.

Titone  Così sia! E scompare.

 

 

Celebrazione

 

Eos  Ti lodo, mio amore, ti lodo

        perché tu m’hai svelato

        la natura eterna dell’anima mia

        che Eternità riluce.

        Tu, mio soave canto

        più soave di ogni canto,

        volo dolcissimo di gabbiano,

        spartito della risacca argentina,

        Tu, Mistero che giaci

        nelle carni del mio Spirito,

        Tu che ridi nell’onde, giochi

        nell’onde, tu che ti travesti d’onde…

        Sola, innanzi al Grande Mare

        Ti sento

        Tu che stormisci con l’uccel di mare,

         muori e mi divieni,

         tu che mi parli il linguaggio

         sepolto del tempo,

         tu sempre esistito,

         tu che non passi,

         resti, tramonti, resti;

         Tu, farfalla fiorita sul pelo dell’acqua!

        

         Ti lodino le mie braccia,

          la mia musica, il mio canto,

          Ti lodino le mie ali,

          la mia carne, la mia luce…

          Ti lodi il mio grembo di donna,

          il muschio delle infinite pareti;

          Ti lodi l’infinito scorrere

          della mia preghiera, infinita.

          Ti lodino le mie mani

          che inventano le tue,

          Ti lodi l’argilla della mia essenza,

          il mio passo che ti cammina accanto,

          l’arco del desiderio che fa breccia

                                         nella tua essenza;

          ti lodi la mia fede

          che spinse il tuo veliero

          verso il porto dimenticato,

          il Fuoco che distrusse argini

                                         di ghiaccio,

          ti lodi la mia veggenza di donna

          che innalzò altari

          sotto la tua Croce

          e riempì di lacrime e sangue

          la coppa che ti alimenta.

          Ti lodi il mio Spirito,

          finché Luce sposi Tenebre,

          ti lodi il vagito dei visceri

          contratti in preghiera.

          Che io ti lodi,

         sangue del mio sangue,

         linfa della mia essenza

         rosso vino delle mie segrete

                                              cantine,

         Amore del mio Amore!

 

 

III Assenza

 

Eos, dopo essere caduta in orazione, si risveglia.

 

Eos  Il desiderio grida nella notte!

        Strazia le mie carni

        ed io le sento sbuffare

        come sacchi d’aria, doloranti

        sacchi d’aria

        e sangue, che strilla

        in questa notte oscura

        con parole di grandine e fuoco!

        Dimmi, tu che ora sei monte,

        quale mare amaro dischiudi?

        Non senti come fremo

        sotto al tuo monte?

        Il gelo m’attraversa;

        correnti d’aria e di vuoto…

        Nella torre, inquieti,

        s’aggirano i fantasmi

        dei miei pensieri!

        Miserere!

        Io sono divisa,

        appesa alla tromba assordante

                                              dei giorni!

 

 

   Eos         Tu non udrai più

               la mia musica notturna

               proferire al gelsomino, al ginepro

               i suoi segreti!

               No, non udrai più

               la musica dei miei sensi furiosi!

               Chi sei tu? Straniero, ladro

              della mia anima!

 

Eos chiude la finestra, va a dormire.

Titone le appare in sogno.

 

 

  Titone    La senti, mia amata,

                questa musica?

                E’puro canto di luna…

                Sono io che ti parlo

                e la mia musica, lenta,

                scende dalla nuvole sazie

                                    del tuo pianto.

                Io sono la tua armonia,

                 il tuo corallo, Amore

                nel tuo Amore.

                Tieni, cara,

                sgrana questo rosario

                di parole mai dette

                e qui, tu ed io,

                in questa notte eterna

                sentiamo, sentiamo, sentiamo

                il tuo, il mio, il nostro Amore.        

 

Eos  Tu mi hai preso l’anima

 

Titone  Era già mia. Ricordi?

              Andavamo per campi di fiori,

              pazzi,

              le mani, i piedi nell’erba,

              tu eri nocciolo d’aurora

              io t’amavo già allora…

 

Eos  E poi, cosa accadde?

 

Titone  Che importa, mia cara?

              Vorrei che m’amassi così

              ora

              con tutto il tuo sangue di donna

 

Eos  Vorrei sciogliere nei tuoi baci

         tutte le mie catene,

         sentire la musica del tuo corpo

         asciugare il mio tremore,

         impregnata al tuo sudore.

         Vorrei bagnarti gli occhi,

         tergerti nel mio stesso sangue

         come rondine marchiata,

         per sempre persa nel mio mare.

         Vorrei esplodere nella tua vita

         come ostrica furiosa,

         entrarti dentro come naufraga

         che annaspa, vinta.

         Persa, senza più alibi.

         Ancora, vorrei,

         solidificarmi nella tua essenza

         come pietra lavica

         e tornare, di tanto,

         ancora Fuoco per essere

         sempre più

         parte di te.

         Vorrei essere i tuoi stessi respiri,

         fino all’ultimo,

         fino a che morte

         non ci sorprenda.

         Vorrei, vorrei, vorrei

         Dio solo sa

         Quanto ti vorrei!

 

Eos si ranicchia, dopo essersi espansa al sole.

Si risveglia poi col cuore lacerato da dolore

e felicità insieme.

 

 

 

IV Morte

 

Eos è nella stanza, con lo sguardo rivolto alla finestra.

 

Eos  Tu non sei. Vedi:

         l’aria è chiara e tu non sei.

         Sei morto all’improvviso,

         nelle mie lunghe notti insonni.

         Ho vegliato al tuo funerale:

         tu eri effige

         sulla tua stessa tomba.

 

Eos si avvicina ancor più alla finestra. La spalanca.

 

Eos  Guardo il rivo. E’ ghiaccio.

         Fredda tumefazione.

 

Si stringe in se stessa. Rabbrividisce.

 

Eos  Davvero è così atroce l’inverno,

         dopo la follia dell’estate,

         l’attesa lusinghiera della primavera?

         Oh! Mai conobbi inverni più tetri!

 

Eos si tappa le orecchie, come per non sentire delle voci.

Poi, rivolta al cielo, grida:

 

Eos  No, no, non parlarmi più…

         Oh tu che sei ombra!

         Oh tu che moristi!

         Oh tu che fuggisti!

         Il giorno è greve, senza luce,

         lento, il passo.

         Lascia piuttosto

         che segua il tuo corteo

         dietro il corteo dei giorni!

         Ti ho seppellito con queste mani

         e con le stesse mani

         ho seppellito me.

         Nel marmo ho sepolto,

         sbeffeggiato

         la febbre mistica dei nostri sensi.

         Tu non hai più voce

         non hai più occhi

         non hai più mani.

         Ed io tentenno nei giorni

         vestita del tuo sudario.

         Non griderà più il sangue,

         tornerà serrata la mia gola,

         finché le squame della mia non-essenza

         cadranno senza rumore

         dall’abisso dei miei giorni.

         Allora le mie ceneri si fonderanno

         alla polvere dell’aria,

         saranno pulviscolo come ogni cosa

         è polvere e vento e aria

         e nulla ci oltrepassa

         e nulla ci precede.

         Siamo questo: non più grandi

         di pulviscolo d’autunno,

         non più eterni

         di una goccia di rugiada,

        non più forti

        di sagome di corteccia

                       rose dal vento

        e nello stesso tempo, infiniti,

        come pulviscolo che aleggia

        sulla goccia d’una rugiada

        che scende dalle carni

        di una corteccia rosa dal tempo.

        Perché è nel finito

        l’Eterno e l’Infinito 

 

Soffia un vento di tempesta, Eos diviene pulviscolo rosso e ocra e, poi, luce dorata.

Dal cielo scende un’altra farfalla, il suo chiarore è argenteo, come la luna. Le farfalle disegnano scie di luce che, ricongiunte, reinventano la geometria dell’universo. E’ l’inizio della

Nuova Creazione.

  

*

Eredità (da ’Una poesia nel cassetto’, Flanerì, Roma, 2011)

Mitili aperti

affollano le rive condensate

dalla bruma;

i pescherecci gettano

vuote reti sulla rena,

Io

cammino sulla sabbia,

scansando i gusci,

dallo stesso sapore di cose vuote

come il vuoto

che tu hai lasciato in me.