I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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La ferita del giglio
Da rododendri d'esili acqua piovve, corrose l'ossa su foglie secche di malinconie, sepolte in aspri fossati. Un rondò le ombre nel segreto traffico dei sensi in rivolta, sotto un cielo di fiamma feroce e strade sterrate tramutate in torrenti ghiacciati. Nei mattini di chiarore infermo, lidi di pietre sepolte lasciavano scoperta del giglio, la ferita inesorabile, nonostante; fulgido e vivo nelle affamate valli, di notti, rafferme.
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Spingendo l’abisso lassù
Nel sapore consunto di pigolanti istanti, tra la pioggia corrodente il feltro nero del cuore, m'arriva il richiamo di questa vita... Sale tra le dita, estasi febbricitante tra lenzuola macchiate di monologhi interrotti, nudi, come i bambinelli nei presepi a Natale... Salire, scansando pattumi di false appartenenze solo per mettere un piede più in là; spingendo l'abisso lassù...
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Hai lasciato
Hai lasciato fiori, da qualche parte, dove è più confuso lo scoglio E con essi, una musica insoluta, come la nebbia, come l'amore che non perdesti, col tuo sangue perchè, dai tuoi nodi potessi germogliarti; dentro.
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Fiori
Ho visto un ciuffo d'erba crescere dai tuoi capelli, intrecciarsi alle mie mani, fin dove non sapeva l'amore e anche se ho morso lo stelo coi miei denti di bambina, da lì sono germogliati altri mille ciuffi d'erba; sembravano edera, ma erano fiori.
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Compagni di scuola
E ci dissero: "V'insegniamo qualcosa, a tenere la penna, a tenere la riga, ma intanto state fermi, vi prego, sono confusa! A casa c'ho un gatto che parla con gli spiriti e nel pomeriggio c'ho da portare mia figlia all'ACR, quella che se non si dà una regolata mi toglierà pure la pace della pensione!" E i nostri occhi erano puri, smarriti come le biglie rotolate per strada e non ci credevamo che avremmo imparato qualcosa, perciò ci tenevamo stretti come i cuccioli nelle gabbie dei negozi d'animali; mordendoci appena, perdendoci appena, pensando che il tempo nessuno lo avesse inventato mai.
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Sere
Ci sono sere che gocciolano come rubinetti rotti e per quanto tu finga di tenere insieme un'immagine di te come i vestiti sui manichini, qualcosa cola nel lavello della grande illusione del mondo; un occhio, un lobo, un gomito... Talvolta, il cuore.
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Tiranni
Non sanno, coloro che ergono silenzi a servizio della tirannide che quei silenzi sono sassi sputati dal vetro o profezie appuntite, anche quando celano un ragno abbarbicato alla sua bavosa tela di acidi biliari in fermento, protetto in calcolate distanze dall'umido delle cantine. Nutrono Barbablù, il pappone, tali silenzi e tornano - tornano, prima o poi - con le loro punte, cariche di veleni.
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Eterna corrida
E' là, dove infiammano le correnti, che il tuo respiro non ha tregua, entra nelle ossa, scarnifica pungola il tendine, assedia il midollo e forse è questa l'Origine dove non c'è buio nè luce e lo splendore ha il sapore - il terribile splendore!_ di un'eterna corrida che lenta dissangua e quell'arena siamo noi.
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Ci ritroveremo là
A volte piove anche se è estate, sopra mattoni di parole che non rendono le cose perse ma stanno, come albatri fermi in volo sopra spoglie scogliere. Eppure, tra i boschi umidi e nudi dove svaporano umori, un canto s'insinua, fermo ad una inarrestabile gioventù. Ci ritroveremo là, nel ritmo lento degli effluvi di selva, dove le ombre offrono ai raggi l'appuntamento segreto tra la nostalgia e la felicità.
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Tronchi
eretti in una veglia antica, o nella notte della civetta del mondo sparso degli invisibili Li rallegra il fringuello, tra gli incensi delle cortecce.
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la libertà del funambolo
C'è un vuoto dove arretrano le stelle, stanche di aspettare e il vuoto di un letto vuoto di promesse mai mantenute che spargono un sangue acre tra i nudi sassi del cuore, insonni nelle albe livide di risvegli mancati. E poi c'è un vuoto che serra la gola e tu marcisci nel silenzio, tra gli spacci di morali tagliate di borghese buon senso e campane cigolanti tra rovine di un mondo che non ti ha conosciuto mai. E ancora c'è il vuoto annichilito di torrenti arrestati, dirottati sull'asse e quello lasciato dai canti delle sirene delle affinità temporanee e poi il vuoto della vendetta contro la gioia, sempre affittata a caro prezzo e quello della stanchezza lacerata, sanguinante di grazie mancate, di pani ammuffiti che lasciano vuoti più immensi delle cattedrali o dei cimiteri e ancora, il vuoto di un taglio di vuoti, che raschia, dentro te, come un coltello, fino alla polpa, fino a perderti per ritrovarti, ora e mai, su quella corda sul vuoto che è la libertà del funambolo, pieno ormai di tutti i vuoti che ha incontrato, celebrato, e amato.
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Poi venne il mostro nella città di Taranto
Un tempo c'era l'acqua chiara, dicono e giochi di delfini d'argento nel turchese; poi venne il mostro e sbuffò fumo nero dalle ciminiere, erette come falli in delirio di onnipotenza. Stuprarono il cielo, le barriere coralline, appassirono fiori e case e gente ridotta a oltraggi viventi su strade ammorbate mentre la Madre, invano, agitava le sue acque, intorbidate dagli omicidi di tutti i suoi figli ammazzati. E l'omertà strisciò tra paludose vite strette al serraglio, deragliate in un terno presente assai peggiore dell'ingresso infero narrato dal poeta, perchè lì la speranza non è da lasciare; morì già quando soffocarono il grido della Grande Madre dell'acque, della terra e dei venti
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Sono stata sola
Sono stata sola mille anni o forse diecimila o cento, sospesa su una barca, vuota di parole mai pronunciate. Ho visto stazioni, motel, percorso muri a secco con una valigia di cartone, asfissiata dal grido di dinamite che mi bruciava il cuore. Sono stata sola mentre mia nonna raccontava favole ai gatti e le vetrate di una pasticceria dicevano il dolce che mancava, anidato in patine bluastre di repressioni e di orgogli ostinati. E scendeva la neve sui reati mai commessi e allora inventai una colpa, per fuggire dai tanti vuoti deragliati tra i greti asfissianti di insoluti perchè. E sono stata sola perchè così volle la luce ostinata che invoca, acerba, sul monte degli angeli indenni perchè mi narrassero una nuova solitudine, nata dai fiori di nuovi transiti stellari.
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La congrega
Stamattina i corvi stavano innanzi alla congrega. Uno s'allisciava il panciotto, l'altro stava dentro a tener cassa: "Per l'esumazione fanno 400 euro se è bell'e cotto, 300 se ci sono ancora, intere, l'ossa", così disse al poveretto che era lì per le resta di suo padre. E intanto i corvi non s'accorgevano che avevano le penne già tutte lise e pure la coda già puzzava di fumo. Così, almeno, ai figli o agli eredi non avrebbero dato problemi e questi, al cassiere della congrega, avrebbero detto, in un solo colpo: "Ti do 400 euro e arrivederci".
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Il calabrone
L'uomo che pareva tutt'un pezzo ma che, in fondo, era un pupazzo, c'aveva la 'cintola' infuocata e tra un metti e un togli incappò, un giorno, nella bella addormentata che credeva di esser stata svegliata niente meno che da un principe innamorato. Ma siccome il principe nel sonno ci stava bene, perchè, tutto sommato, una moglie, una casa e il posto fisso di impiegato statale ce l'aveva, giocò con lei come fa il gatto col topo, senza alcuna pietà. Ma, una sera, mentre si stava a riparare dentro le fredde lenzuola (attentissimo a non toccare i piedi di sua moglie) dalla finestra entrò un grosso calabrone: era il diavolo e al crapulone portò via in saccoccia anche l'ultimo pezzo di cuore.
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I poveri di Spirito
Beati i poveri di Spirito sentì dire un giorno al catechismo o in chiesa, non lo ricordo. Siccome ero bambina e non capivo bene, allora domandai al prete; quello mi diede una lunga spiegazione, ma io continuai a non capire... Allora mi tenni il sospetto blasfemo che i poveri di spirito sono beati solo per chi comanda.
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Lor’altri
Li vedi, gambe accavallate, infradito, all'angolo dei marciapiedi, le spalle chine come a voler benedire l'asfalto o forse è l'asfalto che ha bisogno d'esser benedetto da quel fiume di tristezze ingroppate sulle spalle di cammello, che gli hano portato via tutto; forse pure il dolore.
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Amarti
Amarti fu un lungo travisamento, l'ennesimo, uno staccare reti e alghe dalla chiglia, inesorabile. Amarti fu inventarmi ancora nel fragore della pioggia, nella sete clandestina di un giorno assoluto ripetere il gioco della morte d'una odissea senza approdo solo per bere il verbo dalla tua bocca
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Amo pure
Non ho ancora messo le mani e parte di me imputridisce nella decomposizione del tuo costato, amo pure questa morte sospesa, testarda come un oltraggio, che sbriciola le mie ossa
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Marchi nudi sull’eternità
Sulla lettiga del sogno sei giunto, o mio sovrano, ad affondare l'algida spada della tua scintillante regalità nell'intricata polpa del mio cuore, lacera di dimenticanze e di assedi di ruggine. E quanto ti ho cercato lo sa il sangue, il diluvio dei sensi a stento governato dalle redini delle arterie. E questo bacio che ora c'infiamma, col sale, è l'amrita della stella che ci impresse, come nudi marchi, sul canovaccio dell'eternità.
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Il fuoco e la neve
Il diavolo era un sì, l'angelo un 'sii prudente'. Il diavolo abitava il fuoco, tenendo il mio corpo nella neve che, dell'angelo, era il vestito. Poi vennero i fiocchi, copiosi, e la neve si sciolse nutrendo un nome che il mio corpo già conosceva, perchè, già prima, l'aveva inciso il fuoco.
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Ricordi di scuola
L'odore acre dei cassini, graffi, sulla lavagna che non disseppellivano tombe, non resuscitavano i piccoli Lazzari in grembiule.
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Retorica radicale
radici, impilate tra colonnati di sante intenzioni, tenute come ostaggi nei marmi. I vecchi che, sempre, hanno da insegnare ai bambini certezze condite di acidi biliari. Sardine in scatola tra latte di carni esiccate e carrelli di inefficati clisteri da confessionale. Radici o solchi tombali, nella terra invasata di rettili aggrovigliati. Tale, spesso, è l'aura di melma della retorica radicale.
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Lì, tra i molti regni
dove becca, la tortora, l'ulivo,
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La musicista di strada
Suono per chi ha voglia di danzare e per chi no. Suono per il vento, il cielo, le stelle; per tutte le foglie cadute e per quelle rimaste attaccate al ramo. Suono perchè questo mi resta di una vita spogliata di inutili allori. Nella notte e nel giorno, nel riposo e nella quiete, suono... E m'accompagna il canto dei danzatori alati, s'espande, tra le cortecce, a risvegliare gli elfi dal lungo sonno del cuore. Suono e dolce è il pianto che s'eleva, trasmuta in preghiera, disgela... Oh sovrani del suono, musici della parola, venite a me, fate che vivere sia solo questo: suono, folle o leggero, piovuto dal nettare di un dio.
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La donna color cielo
Una donna cammina per strada, ha il cappello color cielo, -chissà dove va, chissà!- poi sosta a prendere un caffè.
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Tutta colpa di una mela
In un tempo non molto lontano gli uomini giocavano tutti la stessa partita -non aveva molta importanza-. perchè dio era in un fiore e le brame le raccoglieva come si fa con i bambini, sia stato tutta colpa di una mela
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Senza te
Senza te è un continuo inverno; inutili, le stagioni, vano il canto del ciliegio. Senza te la vita è la corsia di un pallido ospedale dove trascino la mia invalidità, tra davanzali di rose di cenere. E’ notte, senza te e non quella che commuove i poeti, ma una sfilata di vecchie, inutili ombre attorno al carillon scordato dei giorni. Perché non c’è luce senza te, non c’è pace, oltre questa feroce agonia che d’insaziata sete mi consuma l’ossa, con le ore. E ripenso ai baci traditi dall’incapacità di vedere l’oro in quel fiume che un angelo benedisse, che tu non capisti; ed eravamo noi.
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I bambini non c’entrano niente
Che colpa ha un bambino? Me lo son chiesta, stasera, davanti al pubblico spettacolo di un bambino che piangeva attaccato a un palo. "No, a casa non voglio tornare" diceva, singhiozzando a un grosso ragazzo che era suo fratello. Un signore molto distinto ha chiesto al bambino perchè a casa non ci voleva tornare. "Mi picchiano" ha risposto il bambino. Allora il signore distinto ha insultato gli stranieri che portano in Italia (la Nostra Italia!!!) le loro regole barbare, ha minacciato il fratello senza capire niente (poi è uscita la madre). il signore distinto ha chiamato la polizia ed è scappato via. Che colpa aveva quel bambino? La madre ha detto che piangeva perchè gli aveva impedito di uscire; era in punizione, perchè a scuola non ci voleva andare. Ha detto che aveva sei figli da gestire e poco tempo per capire e poi è arrivata la polizia a servizio dei 'capi' a cui della gente non importa un fico secco, sono loro che hanno fatto piangere e scappare quel bambino e nutrito disperazioni negli occhi di quella gente. Sono loro che alimentano violenza, ignoranza loro che dicono di proteggere e di salvare questo mondo, ma poi la colpa è sempre della gente. Spetta noi doverci risvegliare. illuminare, smettere di servire, obbedire e consumare e liberarci da queste inutili comparse e liberare i bambini, i bambini che non c'entrano niente che pagano intero il prezzo delle loro criminose omissioni. Perchè i bambini non c'entrano niente.
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L’abbraccio
Scorreva la linfa nel tronco del nostro abbraccio, che secoli, ti attesi, dietro alle cortine forate di ricami di languida tristezza; lettere, di sangue scritte, come di preghiera. E venisti, un giorno e non era carne, forse, la tua immagine, che sangue blu non t’infiorava le vene di guerriero e tuttavia un dio m’abbracciò, in te, infiorando promesse tra le rose e i fiordalisi pendenti dalla mia bocca, dicendomi arriverà quella benedetta linfa che te risorgerà, dalla stella.
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Illuminati inferni
La giovinezza mi passò addosso come se tutte le folgori e i venti si fossero accatastati in una nebbia nascosta nel fondo dell'anima. Uragani silenziosi palpitavano tra i vetri ghiacci delle fabbriche dove morivano le primavere del mondo. coi rami del bosco e i loro segreti, portati dal canto di farfalle in volo nulla conoscendo, tra quelle morte stanze, se non il sapore dell'erba in rivolta che accende d'incubi beati i miei sonni sempre a un passo dal precipizio vivo con tutti i suoi illuminati inferni.
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Supposizioni
Sei stato qua, certamente, da qualche parte, stregato anche tu. Ti mancavano congetture o forse troppe su quella taciuta rosa che stava là, al centro, senz'acqua
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Al largo
M'assale, presaga, una celeste misantropia. Quel che dicesti, poco fa, è già misura del fuoco. Brucia la mente, brucia... Sposta il confine al limitar della soglia. La morte è tra gli astanti; una virile malinconia palpita tra robuste chiome di quercia, che graffiano il vento. S'ode un ululato di caverne; al largo punta la nave, al largo punta e si slarga... Annalisa Scialpi
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Auschwit
Auschwitz è nel nostro cuore. Non dite 'non è così'. Lo è. E' neve ghiaccia di sangue rappreso, che attira al freddo fondo. Auschwitz è il Padre Onnipotente, la Ragion di Stato garante di tutti i Padri Onnipotenti. Auschwitz è togliere ai bambini la magia. Auschwitz è il binario a senso unico dell'abitudine. Auschwitz è il dovere di far soldi che sorpassa ogni legge, anche lo stato naturale della felicità. Auschwitz è l'ignoranza sovrana. Auschwitz sono i deboli al governo. Auschwitz è fondare un mondo sulla malattia e tararlo a misura di chi è stato reso perdente. Auschwitz è 'Freud ha capito tutto'. Auschwitz è la madre e il padre della morale. Auschwitz sono i giornali al servizio del potere. Auschwitz è una società di randagi umani che marciscono nelle retrovie o sotto i cupoloni. Auschwitz è una società fondata sui ruoli, con gli ordini professionali per salvaguardare le caste. Auschwitz è la morte il più lontano possibile. Auschwitz è credere che la luna esista solo per luce riflessa. Auschwitz è bollare come pazzi gli sciamani, i visionari, i profeti. Auschwitz è una società senza il senso del sacro, dove io vinco se tu perdi e dove abbattere un albero è come fare uno starnuto. Auschwitz è una società costruita sull'illusione dell'io e del tempo. Auschwitz è 'la conoscenza è proibita' e 'se conosci sei fuori'. Auschwitz è tutti gli ismi: razzismo, campanilismo, consumismo, familismo. Auschwitz siamo noi diretti dall'ipnosi della società. Per cui, spetta noi, ora, aprire quelle porte. Risarcire. Ora tocca a noi imparare a celebrare, a ridere, a lottare: spezzare le catene e camminare con le nostre ali.
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Nessuna colpa
guardavamo dalla soffitta, mettendo nella botola dei baci di prendere con gli occhi. Non eravamo nati abbastanza. Io germogliavo, dinoccolata, il mondo m'era già passato addosso e tu... Eri solo un fragile ramo che mi s'avviticchiava, ignaro nell'alba di una graffiata euforia. Incauta attraversai la fiamma di un limpido sole ruggente, da credere di esser nato ieri,
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Paesaggio d’inverno
Le calendule hanno preso il vestito al sole, brillando sui loro ombrellini freddi come girandole dolenti, mentre un gatto se ne sta, acquattato d’ombra come un ladro nei suoi occhi di smeraldo tagliente. Nell’aria, sui tetti o i corpi gialli delle case inutili e accasciate il tempo mostra il suo scherno con un sorriso di ghiaccio. Gli gnomi sono partiti, lassù… Nell’aria greve recitano sermoni amari che s’abbattono sui tronchi già segnati da dissonanti mantra a intervalli. Insostenibile, lo spazio giace sui fianchi a gambe larghe come una stanca puttana e nel silenzio, impiomba prati porta lì tutte le nenie del mondo. Per dispetto.
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Da soli turgidi
Sentire, nudo, il giorno. Sulla pelle. Il sole falcia le strade tra gli occhi degli annegati accasciati nelle retrovie. Occhi iniettati di sangue. Follia. Sputare il marcio mille volte, senza espellerlo mai. Il ferro della metro sferraglia nel midollo di una pesantezza che uccide. Lenta. Si mescola ai fiati. Eppure c’è colore, nel giorno. Da soli turgidi colano colombe sullo sfacelo di un mondo dannato di potere, dicono la pace è dentro te.
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Un uomo qualunque
la tua rosa azzurra, la tua rosa rosa. L’hai chiusa sotto la saracinesca a imputridire coi tuoi domati vizi, oh santo uomo di santo timore e buono a pulir code dei padroni! Anche satana ha addomesticato i suoi mastini, e sorveglia come una pantera il magazzino dove ponesti, ben imballate, le tue scatole delle ragioni, là, nella regione dell’eterno sonno dei sensi per timide porzioni di minestre avare a misurar respiri sui calendari e camuffare l’odore di vita vera, protetto tra le pareti delle tue rabbie Oh, povero uomo qualunque di cui un prete nero dirà, “Lo ricorderanno come buon cristiano, marito e padre di famiglia!”. fremere il ruggito di zoccoli scalpitanti, ma… Amen! Il diavolo dirà e non dirà a nessuno di aver visto tremare e si arriccerà i baffi, pensando a quando gli hai venduto anche il dolore che ti chiamava con l’odore della rosa,
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La vecchia alla finestra
Sulla strada addormata di stanchi passi, vecchi manichini si muovono nell’ombra pigiando pulsanti nei palazzi di potere, ombre di passioni spente polverizzate in lidi bruciati, sepolti, dove carnivore conchiglie di frustrazioni, di avidità e di ignoranze sovrane eleggono i silenzi a custodi di vili delitti. Pur tra queste ombre arrischiate su torri di cocci taglienti - prossime al crollo - una vecchia, allegra, tesse dietro una finestra gialla. Ha fiori di loto, alle pareti che irradiano l’acacia, cosparsa sulla sua sedia a dondolo. Un gatto le sfila in grembo e pensa – lei che ha davvero vissuto e comprende il linguaggio degli alberi e delle cose mute-, che sarà color di cielo, ora e sempre, il suo mantello all’uncinetto.
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Sei tu
Sei tu che ti spegni e rinvieni sulla prua di un cielo graffiato e sotto ogni sole, sei tu; ghiaccio e cenere sulla vernice d’istanti, scrostati a unghie e sangue dalla mia stiva assetata. E sei ancora tu l’anatomia su cui crocifissi i sensi e con le api salpando, di miele, ti feci gli occhi, la bocca… …Appesa al ponte dei tuoi lombi, - mio sacrario!- naufragando d’assoluta eutanasia.
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L’albero di mandarini
La notte è una grigia presenza che avvolge l’albero di mandarini. Dalle dita sale un fuoco sottile che arrossa i frutti e rode il tronco del pensiero, in muto soliloquio d’istanti. Si dilegua il viaggiatore oscuro del fiume malinconia, addita strade, oltre i rami. Cade la pioggia ed è mattino.
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Senza te
Ho molto freddo senza te, ma le mie febbri scavano lo scarlatto, fino all’osso di una scrostata fotografia che crocifissi coi tuoi stessi silenzi nel legno della mia pianura di nettari ardenti - mio Calvario!_ dove ancora ti attendo. Dove sempre ti amo.
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Ancor prima
Come notte nuova nasco dal respiro fulgente del monte, sempre vivo, sempiterno, con te che sgusci dalla vetta di un pensiero e mordi questo istante tra le stelle. Sulla strada il segnale è a unico senso e sempre è l’infinito desiderio di te che muori e risorgi nel varco sottile che separa l’odio dall’amore. E senza meta è la mia strada, perché quel che conta è il viaggio e il viaggio sei tu. Una felicità inspiegabile tramuta in stelle le luci della strada, promette nuove albe e notti chiare e quella pace che trovo solo quando m’addormento nel respiro di quel sogno che facemmo ancor prima di incontrarci. Ancor prima di sognarci. Ancor prima di noi.
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Pioggia
Ho visto la pioggia non passare mai, cadere, anche col sole, sul rivo di una foglia spezzata in un letto di dimenticanze e fracassarsi stelle su un cuscino di azzurre malinconie. Ho sentito la pioggia tingermi le mani e l’umida pietra trasudare il turchese nel ticchettio di un’astratta melodia ripetuta a oltranza e ombre danzare, nel taglio di vetri smerigliati d’usura. Come una vecchia stanza d’hotel ho visto ripetersi e caracollare istanti, uno dietro l’altro, su quadri dipinti di foreste di ruggine. E poi ho sentito la pioggia sanguinare su zolle di pane raffermo, aggrumito di soli traditi, mentre il vecchio giradischi ripeteva canzoni scordate a un cielo senza pietà, calato come una tenda su nuvole di tovaglioli umidi. E così siamo divenute una, io e la pioggia, così sfacciate da danzare nude sotto il nudo cielo, ombre, intessendo e ricami d’istanti… … là, dove muoiono i papaveri rossi, per troppo amore.
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Quando ami veramente
Quando ami veramente la luce squarcia le tenebre e la tua vita diventa Sacra. Quando ami veramente smetti di correre nel mercato dell’inutile, perché l’amore denuda l’essenziale, che è la tua verità, come fa il vento con i rami, in autunno. Quando ami veramente trovi il coraggio di guarire le ferite del cuore, perché null’altro desideri che essere all’altezza della Dea dell’amore. E scendi nelle tue cantine, le stanze proibite, solo per il sogno di riprenderti la tua Euridice. Quando ami veramente sei integro e il mondo non t’inganna più con le sue lusinghe, perché sai che nessun tesoro potrà essere più prezioso di quello che stringi tra le mani e tieni nel castello del tuo pensiero più puro o nella gemma di un’emozione scarlatta che scalda i tuoi giorni col fuoco più vivo. E potresti aver voglia di morire quando ami così, quando ami veramente, perché l’amore è troppo e straripa e pensi che scoppierai… Potrebbe succedere, perché quando ami veramente tu sei solo un ponte della Dea che ama in te e vuole trasformarti nel ruscello, nella luna, nella valle, nel passero che un giorno venne alla tua finestra per dirti che l’Amore ti ha trovato degno di sé.
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Uomini di cera
Uomini minimi, di cera colano sui giorni già segnati dai buoni dei supermercati. A testa bassa affondano In uno scialbo clangore, di vizi assetati appena oltre il deraglio di vite volutamente strette nell’ordinato serraglio. Piombano con essi notti piombe che lasciano sentori sepolcrali di disfatta nel caotico fango che, certo, malgrado essi, sta già seminando la nuova aurora del mondo.
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L’unico giorno
L’unico giorno Lo so che stai da qualche parte, su qualche terra, su qualche nuvola, su qualche cielo dove le aquile volano libere, dove non c’è mai stata paura. E’ un regno strano, che sta oltre le ombre del nostro mondo di fumo, è un regno dove c’è il mare e l’aria raccoglie tutti i segreti del cuore. So che sei lì e so che un giorno ci incontreremo e sarà l’unico giorno che avrò mai desiderato vivere davvero, in cui berrò il sole dalla tua mano e piangerò le lacrime che non piansi mai, fino alla gioia o piangeremo insieme, io e te… Con quelle lacrime faremo il mare e sarà infinito, come il nostro amore.
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Bagliore d’abisso
La tua carne benedetta e dannata giace nel letto di rose del mio cuore; rose turgide, screziate, a volte vecchie, ingiallite dall’afrore dei tuoi vizi. Ma in ogni posa, in ogni rosa la luce mi colpisce al centro, colando da un’acquasantiera di limpide note che trafiggono i miei istanti come raggi splendenti e il fondo del vuoto onnivoro che ne consegue non è che la prigione che Zeus inondò d’oro solo per la sua Danae esultante nel roseoporpora di un bagliore d’abisso infinito.
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Il gabbiano
Un gabbiano plana sulle acque, con bianca levità si staglia, quasi incorporeo, sul riflesso di liquido cristallo. Regna sovrano del cielo, affonda, funambolo, in limpide linee d’aria, e dalla militante altezza come danzatore esperto plana giù, nell’acque trasparenti in picchiata sui pesci in superficie o sull’onda, resta rilassando il volo egli si specchia fino a quando sorge dal mare la sua antica corona d’imperatore.
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Ifigenia
Comportati bene chiudi le gambe chiudi le cosce del tuo sentire le cosce nella tua pancia. Vieni qui, sul rogo! E muffe case a dirocco assi aguzze demoni verdi nell’aria. “Ora ti bruciamo, comprendi, questione di ragion di stato, ti rubiamo la gonna ti rubiamo la gioia ti rubiamo la vita. Matrone colossali con lo sguardo di orche innocenti vecchie smilze, il tantra dei condonati dei passati-a-setaccio e dietro niente e dietro niente e dietro niente.
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Il vuoto dentro me
Quando ho trovato il coraggio di guardare il vuoto dentro me, ho scoperto che non era il vuoto che pensavo e che temevo, ma Puro Splendore del nulla divino. E ho scoperto che non c'era perchè ero già piena del Tutto. Così ho smesso di mangiare solo per ansia o abitudine, di circondarmi di cose e di persone inutili per la mia evoluzione. Quando ho trovato il coraggio di guardare il vuoto dentro me ho imparato dai gatti ad amare il silenzio, a godere delle piccole cose, che è ciò che fa bene al cuore. Quando ho trovato il coraggio di guardare il vuoto dentro me ho smesso di combattere i conflitti, accogliendoli come una madre che abbraccia i suoi sassi nei suoi generosi fondali, sapendo che non sono pietre, ma spiriti che vengono per aiutarmi. E ho smesso di cercare soluzioni e ho iniziato a porre domande senza aspettare risposte, certa che la quercia, la gazza o l'onda accarezzata dal vento risponderanno a loro tempo. Quando ho trovato il coraggio di guardare il vuoto dentro me ho smesso di sentirmi sola e anche se a volte ho freddo non cesso di aprire il cuore alla vita, accettando l'imprevedibile, l'inatteso che mi spingono verso nuovi orizzonti, nuove amicizie, nuovi stimoli. E ho capito che non esiste il caso, perchè l'universo ci sostiene sempre a patto che abbiamo occhi per vedere Questa l'ho chiamata fede. Quando ho trovato il coraggio di guardare il vuoto dentro me ho capito che tra il tendere l'arco e il desiderio di non mancare il bersaglio e che stare col fiato sospeso sull'abisso toglie energia all'arciere. Questa l'ho chiamata strategia. Perchè, quando ho trovato il coraggio di guardare il vuoto dentro me, mi sono accolta, interamente,
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Si può essere felici
Si può esser felici senza far niente, senza dover, per forza, fare qualcosa, standosene seduti nel lembo della sera, nel nero velluto che abbraccia come una madre. Si può essere felici semplicemente respirando, lasciando entrare e morire vita e poi ancora... Entrando nel ritmo che incide e dilegua istanti, incessante, sulla trama del nostro stare. Si può essere felici osservando le luci gialle di una finestra, poveri dell'infinita ricchezza dell'immagine che colora, sfuma, dissolve, ricrea. Si può essere felici anche per il dolore, se si è forti, perchè il dolore è il travestimento della luce. Si può essere felici quando comprendi di non sapere niente e guardi il mondo con gli occhi di un bambino dove tutto è magico, presente, qui e ora, solo qui e ora. Si può essere felici per le risate dei ragazzi o semplicemente per l'immobile silenzio che cura e accarezza le cime degli abeti. Si può essere felici per niente o per il tutto che c'è nel poco o niente, a patto che tu abbia occhi per guardarci dentro.
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L’assalto
Mi appari nel grigio di un ricordo, come petalo di geranio gualcito, slabbrato l’azzurro, nel pianto di una farfalla affissa a una calendula sfiorita o forse falena smarrita nel giardino dell’ombra, ingiallita tra inconcludenti mieli sfiniti. Posso celebrare solo ciò che è vivo e in mezzo a questi spenti crisantemi e auree cornici mangiate dal tarlo, in danza sublime elevarmi, a dirotto dai passi degli amori perduti, tra quei verbi così poco usati che screzian l’ali alle farfalle e repentino prevale l’assalto o è il morire, non so.
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Perchè hai paura?
Perché hai paura? Non c’è nessuno la fuori, nemmeno qua dentro… Non c’è nessun fuori e nessun dentro. Non ci sei nemmeno tu. Questo cipresso e la tua ombra: osserva l’austero che sfronda catene e miete illusioni! Osserva… S’offre, larga, la nuvola ruggente d’ambra e di rosa… Sta nel suo darsi; Lei sa, che non esiste.
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L’oro della sera
Con gli occhi cerco il suono delle stelle e mi compari tu, oltre la pelle, perduto già nel vento di un ricordo, confitto nelle carni come un cardo. Perfetta geometria fu il tuo passare, all’ombra di un ricordo naufragare. Ma ogni mio respiro era preghiera, che illuminava il regno della sera. Nell’aria respiravo sogni strani, portandoti nel grembo, coi gabbiani e non sapevo che eri tu a chiamare dall’onda più brillante in fondo al mare. Poi noi vidi fiorire a primavera ed era alba l’oro della sera.
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Poi un dio mi baciò lì, sulla fronte
Tra stanze stanche d'epopee negate strane storie respiravo, a secchiate; fissavo rotaie di viaggi altrui, passavo in fretta corridoi bui. Gravi silenzi asfaltavano istanti, tra facce annoiate di stanchi astanti. Velieri sostavano in teche ristrette, nell’ore affossate di rese imperfette. Ricordi appassiti di trascorse estati, memorie segrete di amori traditi… Poi un dio mi baciò lì, sulla fronte e poesia soffiò pietà, dalla fonte.
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il borghese
Tu dimmi, cosa cerchi, mio tenero borghese? Nei campi forse il filo delle perdute estati? Ma il tempo già s'arretra tra le tue spalle strette; tu cerchi il tuo destino nel sole vespertino? Fuggita la stagione dell'invocato pianto, tu volgi già a ponente che porta altrove il canto.
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Nel ventre di montagna
Dell'onda il canto suona già preghiera, schiarendo il dolce azzurro fino a sera. E bacia ancora il sole la montagna, seduta sulle rive che acqua bagna... Le nuvole, sul ciel, paiono colombe che portano il respiro giù alle sponde ed un pensier riposa in questo stare, portato dal villaggio in fondo al mare, nel ventre, custodito, di montagna che a stella eleva l'onda, finchè sogna.
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Il mare sta nascosto lì, oltre il ponte
Il vento soffia forte sulla pelle, portando qua il profumo delle stelle, da un tavolino a squame di serpente vedo sfilare tutta questa gente. (Il mare sta nascosto lì, oltre il ponte) Palazzi stanno freddi ad osservare le luci arancio splendere sul mare poi calvo, un uomo, gli occhi azzurro mare mi siede accanto e finge di aspettare. E mi raggiunge odor di sigaretta e blu oltremare è pure la maglietta. E nella mente s'agita un pensiero che sopra quel frastuon s'eleva, fiero. (Ma il mare sta nascosto lì, oltre il ponte)
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Mattino di fine estate
Nel cielo di un mattin sereno e cheto colombi in alto van, oltre le mura. Ritornano pensieri abbandonati, emergon dall'azzurro delle onde. Bagnanti scarsi abitan le sponde, le case stanno chete in fondo a estate. Sulla scogliera siede il passo fermo di autunno che respira in nuovi approdi.
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Lontano
Il mare dopo pioggia vangava lento il canto, la nuvola soffusa riaprendo nuovi cieli 'che lui vide lontano e s'aggrumò già in frolla la sabbia tra le dita... (Ed era già mattino).
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Il funambolo
Tendesti al caracollo, nessuno ti trattenne! La maschera sgraziata fioccava di sudori... Da facce ancora illese salivano gli sputi. Ma tu tenevi fisso lo sguardo a nera stella.
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Così, andai
Dimenticai presto il beato mordente di Chimera ruggente, in strani fiumi d'oblio scivolando tra remi insabbiati di estati perdute. S'addensarono nebbie, nei cortili, le lacrime tracimando in biglie incastrate in intricati nodi di rabbia; ammutinati i miei vegliardi ardenti. Così, come mallo inerme andai negli anni, perdendo pastelli dallo zaino, lasciando il genio ululare in freddi fossati di neve.
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Ragazzi
A due passi dal mare stelle danzanti in colori brillanti parlano parole d'argento, guizzano con l'onda, come libellule tra vuote stanze di desideri privati, in bilico, sopra i rotti ponti di una cieca civiltà. Così, zingari, vanno protetti da un angelo che gli terge l'ali, estorcendo un impero all'assoluta precarietà.
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Crollo d’epoca
E la giovane a lei disse, in mite confidenza, 'osserva le zolle ardenti e dell'ulivo, odi il conturbato canto o le dolci nenie dei rododendri...'. Ma lei già volse lo sguardo, in gonfiori, ormai, caracollando l'eterno volto di pallida bambina, quel livido, conservando, languente dietro sorrisi di cartapesta. E allora lei additò le agavi in esulto di linfa e di spine, cortecce affustate in pose terrigne e zolle ruggenti tra clangori di cardi o del noce l'imperioso velluto e ancora, osò, 'perchè non vieni?'. Ma lei chiuse la finestra 'ormai' dicendo e maledicendo, crollando un'epoca sotto un sorriso di frolla.
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Mi contaminai
Mi contaminai, di te, dietro la gabbia dei cieli, sopra di noi la coppa di una luna ruggente e tramonti strascichi di sanguigne opalescenze. E il copione lacerai sui bordi degli istanti così, schietta come a morirne. E non seppi dire altro, il tuo teschio, reggendo tra le mani, ancora; divorandomi un sapore di illuminati inferni.
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Così addivieni, addentro
Mi coli dalle mani, da questa carta, da questo inchiostro che traluce il beato regno delle tue ombre; così, addivieni addentro alla corolla d'immagini suadenti come farfalle in languenti agonie o come note, sussurrate nell'amplesso d'istanti che resina, trasuda tenendoci incollati nella vuota cavità delle cortecce.
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Ineluttabile amore
Lava, la madre dell'acque i suoi bimbi di roccia; la sua musica è chiara e leggera, porta memorie di spiriti corsari, in cui l'anima riposa il suo sonno bambino. Troppo alto è il suo linguaggio, eppure sereno di effluvi che ammansiscono gli scogli; amanti di pietra per sempre sedotti dalla tracotante tenerezza della musica dell'onda; Segreti, inabissa, tra i silenzi dell'ancore, recando codici di lettere trascorse, vide segrete custodite nel suo immenso verde-azzurro costato. Per questo trafigge, nelle solitarie notti di stelle, il canto dei fondali; come lamento risuona e sembra dire l'insondabile ineluttabile amore, che spinge a morire.
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Dimenticammo i fiori. Dedicata a mia nonna Angela.
E così dimenticammo i fiori, lasciandoli appassire sulle finestre, gola a megafoni, proclamammo, in accordo di propaganda, le atterrite verità di sussistenza. E afflitti da macigni, marciammo nei giorni sbiancati dai detersivi, esiliati nelle pasciute cantine di vizi ammansiti da ignoranze sovrane. E proseguimmo, intanto, indenni in orchestre calibrate, incapaci di eleggere danze a destini, con cuori a batteria, ossidati in pantomime di copioni sfatti. Accadde, perchè dimenticammo i fiori e fu il crimine della poesia, il nostro stesso.
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Lo specchio
A te che hai bisogno di umiliare altri, per dimostrare chi sei, orgasmico di onnipotenza, guarda... Lo specchio liso... Sentore di calce e di cadavere... Tu, leggiadra impermanenza, vuoto frainteso, inascoltato, non irrigato dall'acqua della fede Osserva l'agonia del petalo scarnificato non è dolore, ma bellezza aperta a divarico sui cieli, istantanea a scadenza, che più non sarà, perchè altra luce permei e irrighi la soava unicità dell'attimo che fulge, cade, muore... Come te, che uscito dalla scena delle tue commedie, roboanti di vanagloria, il grigio troverai ad ammiccarti delle pareti e più in fondo, lo specchio, a dirti: "Guarda... guarda... Finalmente, ora, guarda!". E già non sarai.
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Promesse
Ella si levò all'alba, sullo spento tizzone della notte già caduta. Lasciò il corpo nudo di colore, quando lavò il piombo di fantasmi antiche; li lasciò sbiadire, semplicemente, tra le pareti magenta. Roma infiorò promesse con l'oro del giorno, come il dio che nasceva dalle sue immacolate carni.
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Il Sacro Fiore
Dove s'arrresta il finto effluvio delle chiare notti senza stelle, lì, nella vagina della terra, inciderò, con un legno il tuo nome, dirò: da qui è passato un fiume, s'è incrinato il tragitto della quieta valle e le stelle, spodestate dagli agi del trono celeste hanno tremato come lucciole acerbe, con me, china sui tuoi occhi, scheletro sull'abisso, gemmando il Sacro Fiore di questo nostro amore.
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Il torrente
L'acqua fluisce, gorgoglia in sinusoidi festose sopra un cielo di lacca, che la mente incolla a antichi incantesimi. Il rivo s'arresta sul delta; si dimena, il calabrone sulla verde sponda. Risorge l'urlo antico.
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Sola
Son sola nel brusio dell'inconcludenza quando pezzi d'anima spaccano il fondo oscuro d'una abissale convivialità, vuota di solitudini, riempite come scatole di cartone, scricchiolanti di pensieri di plastica. Son sola nelle finte allegrie spavalde o quando viene giorno, ma son sola nella notte dei ricordi e le ragnatele offuscano la vista. Son sola quando chiudo l'infinito sulle dita in cambio di barili di pensieri, convenzioni - il trito e ritrito della parabola del buon gregge- o quando raccolgo briciole di sorrisi e mendico farfalle dagli sterili paesaggi dell'abitudine. Lì, tra quelle chiazze di distanze, son sola, saccheggiata dall'Infinito che esplode, dalla mia corolla quando sono veramente sola.
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Oro
Quando ti sembra di precipitare, in basso, così in basso, non temere; non c'è nulla che non possa essere trasmutato. Osserva le pietre scure sedimentate in te; sono la pesantezza dei millenni, che il dolore copre come una crosta di piombo. Tu, osserva... Non c'è nulla che non possa essere trasmutato. Versa allora l'oro dell'amore dall'occhio aperto sui tuoi sbagli, capirai che il tuo unico sbaglio è esserti scordato di te. E saprai che l'oro che illumina il cuore è una moneta senza inflazione e tu ama, ama il Sentiero, ama anche i tuoi sbagli. Di pietra in pietra, l'oro risorgerà l'antico tuo tempio; e dalle dissodate zolle del cuore nascerà un fiore e avrà il tuo nome.
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Per arrivare fin lì
Ci vuole molta luce per arrivare fin lì, dove il cuore s'arena su una giostra d'istanti perduti, memorie offuscate nella periferia dei ricordi, macinati con le ere e i loro fasti di sabbia e di nebbia. Ci vuole molta luce per congedare gli altari, abbattere i templi; occorre sentire il sangue che gela lo scheletro. Occorre l'impietosa luce fredda che fa trasalire il ragno. Morire con la foglia bucata, già caduta, di ogni perchè.
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Nel fiore dell’Ade
Nel fiore dell'Ade Sul tavolo il pane è raffermo, ma le mie mani raccolgono briciole. Il freddo s'accende come un deserto; ci sono corvi e odore di decomposizione. Le parole rotolano come biglie sull'inutile tavolo che conobbi, già crepato. Frammenti d'immagini muoiono nel vento inutile che nel fiore dell'Ade, mi sprofondò ancora a cantare sulle mie ossa.
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La casa dei tulipani rossi
E' lontana la casa dei tulipani rossi, quella in cui cercavo il pane, l'odore di buono. La tristezza ha scavato nel midollo, lasciando molta carne alle iene; i loro artigli hanno graffiato persino la tela malinconia che aveva tenuto in serbo gli oli turchesi, per dipingere la mia poesia. Rimane un pensiero: i becchi arancio dei passeri nel nido. "Vedi, aspettano la mamma" sentivo. Ed io li dicevo fortunati.
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Liceali
Allora non sapevamo che fare non sapevamo chi essere, solo segnali, qualche stella caduta per caso. Col marchio del peccato originale annusavamo l'aria dietro i vetri sfregandoci addosso solitudini, scandite dal suono della campanella. Nascondevamo la vergogna nei maglioni troppo lunghi, che coprivano le mani. Palle da biliardo per partite da segnare sui registri (alcune cadute, altre no) eravamo e non Destini, potenti come il tuono - che quelli erano le noiose gesta di eserciti assassini da imparare a memoria-. Nei nostri zaini c'erano i pianti delle nostre madri crocifisse dietro le telenovelas o la disgustosa fiducia dei padri in un mondo già perfetto. Nessuna sovversione. Nessuna rivoluzione. Il senso di colpa ci dissanguava dai tempi del fonte battesimale. Orfani e prigionieri noi non sapevamo dove andare...
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Lanima respira, indenne
Se fosse musica, semplice musica di piano, questo andare a ritroso tra la radura del tempo direi della ragione della foglia caduta e già bucata nella superba resistenza porpora e ocra. Direi che è dolce il rivo quando ghiaccia, la sterile terra spaccata dalle feroci estati, come le madri sull'uscio coi loro orfani di guerra. ma la verità è che è musica, questo vivere, il rivo mai ghiacciato, la foglia mai caduta... Solo l'anima respira... Indenne, senza un divenire...
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Ti vidi sempre bella
Ti vidi sempre bella coi tuoi capelli color luna e la figura snella che scivola, come un'ombra, dalla tua casa al tuo giardino, quello che dicevi 'è solo mio'. Lì sognavano le rose, i ciclamini, le dalie e le margherite mentre con mani nodose di grazia sfornavi il tuo pane immacolato. Fiorivano anche gli angeli quando sorridevi e tu, che forse non sapevi nè leggere nè scrivere, nel silenzio parlavi con dio. Una piuma bianca cadeva su me, dai tuoi gesti densi d'aroma di semplicità. E quando passo accanto alla tua casa accanto al tuo giardino, nel cielo sboccia un tramonto di dalia, semplice come le tue margherite e i ciclamini che, sempre, dicono di te, di te, che vidi sempre bella.
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Maschere
Maschere, incollate di fango secolare.... Maschere di buoni valori che celano perfetti assassinii. Maschere d'io sotto polveri di visi asfissiati dalla sete di vita vera, occupatissime maschere orchestrate dalla tirannia della salvaguardia della specie. Maschere come mura di tufo su scantinati di terrore, dove sacrosante vestigia del passato, ornate di muffa eterna, vengono onorate e riposte nel reliquiaio di ferro arrugginito, che la serpe sorveglia. Maschere sempre a un passo dal grande evento trasformatore, ammansite dai domatori di greggi, venditori di lota dorata, presa dai cortili dei loro porcilai. Maschere che danzano al passo - la mannaia sempre sulle teste-. Maschere che insieme è bello, la critica è peccato, orrore, la solitudine. Maschere otturate per il profumo del vento per il respiro dell'alba. Riparate negli odori di plastica di pensieri di plastica, ridono a tono. maschere stritolate d'ansie, di voglie feroci ammansite e sgozzate sull'altare della virtù. Maschere di confortevole mediocrità, non oscillano, non si spezzano, purgate d'ovvietà. E tutto procede E tutto procede E il trucco procede e così sia.
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Il Nuovo Impero.
Una musica t'avvolge, stridente e luminosa come gemme sui muri azzurri di pensieri di giacinto. Passaggi e passaggi scrivono le tue antiche mure; umori nuovi e antichi trasudano, col colore. Le acque del tuo fiume formano un'ansa con le acque del mio grembo e riportano in vita una musica sepolta, la tua musica selvaggia, armonia di popoli e pioppi e pini e spighe e allegre compagnie nei tuoi caffè... Con te danzerò, Roma antica, selvaggia e altera, nobile e popolana, madre di tutti i figli che, in te, cercano nido. E lo dicono le tue stazioni tra sfregamenti e piedi pestati e trolley e kebabbari e venditori di souvenir in vecchi locali scrostati tra odori di spezie e arance e frutti tropicali e zingari e ambulanti e mendicanti e business man e artisti e uomini assoldati al dio della vacuità che cade, col tuo vecchio impero, in salamoia nei palazzi di potere tra reliquie di vuote assemblee nei vuoti cupoloni. Tra queste rovine, con te germoglierò. "Sì, lo voglio", dico, mentre sposo con te la nascita del Nuovo Impero dell'uomo nuovo, senza più catene.
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Fantasmi
Freddi fantasmi entrano di soppiatto nella tenda della notte; o sono, forse, vampiri che succhiamo la placenta del Sogno, lasciando ancora strappi sulla tela. Anemici, zigzaganti vagano nell'obitorio delle passioni mai estinte, dei gesti incompresi, delle verità spezzate, lasciate a illanguidire nella nera notte della Gorgone. Come coltre polverosa sui delitti del tempo, stanno sul precipizio della meccanica che tiene prigioniero il cuore su un abisso di tenebra. Piangono, essi nella notte anemica, cercando carità dalla veste dell'alba bambina che tinga, ancora, sorrisi col colore dei fiori.
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Annunciazione
Sentii la musica fremere sulle sue carni nude. La pietà la diseredò per più di una notte. E lei gettò sui cieli l'ancora: la lacrima schizzò sulla voluta, disegnando ali. Pura come un enigma, densa di ardente resa, seppe farsi trasmutazione. L'angelo venne, a vestirsi delle sue ali. E lei sentì il Cristo giallo balzarle nel ventre.
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Un caffè per Signora-vestita-a-fiori
Sono venuta da te, a prendere un caffè, signora-vestita-a-fiori, ma tu sai dove hai nascosto l'abito più bello? La tua casa è una grande vetrina di cristalliere lucido noce e antiche porcellane e immobili tenenti ad appassire accanto a velieri consegnati, ormai, a un mare di polvere ferma. E il vecchio cavallo al galoppo è sempre lì, instancabile nella sigillata teca tra bicchierini per improbabili rosoli e flute per inaccessibili ricorrenze. Mi hai detto: "Va' pure, in cucina, a preparare il caffè" e c'era anche lì odore di sedimenti, cespi di lattuga lasciati a impietrire tra vuote dispense e nell'aria di chiuso, solo la pietà del sibilo del vecchio frigo. Ho preso da sola il mio caffè, mentre il parrucchiere finiva la tua permanente, nel fondo l'amaro di un dolore antico come il vecchio pendolo tra ore di gesso. Ho messo, allora, grani di cioccolato nel caffè che ho lasciato per te, signora-vestita-a-fiori, un grano per ogni amore non consumato, un grano per ogni sole filtrato, un grano per ogni ballo abbandonato prima che fosse mezzanotte, un grano per ogni amore mai nemmeno sognato. E ora sì che sei bella con la tua permanente, mentre bevi il mio caffè con grani di cioccolato, signora-vestita-a-fiori, oggi che puoi finalmente regalare una lacrima al tuo amore.
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Nella stanza di Barbablu
Incontrarmi, in questo spazio, tra croste di luce di lampadari spenti, arrugginiti come stanche rotaie, mentre il serpente dell'impaurito dolore lacera la gola. C'è puzzo di carogne, onnipresenti spettri ebbri inumidiscono di bile i pavimenti, scuri come mosaici scollati. Il calore è un forno elettrico. Sagome di gesso e tufo, stanno appollaiate sulla cassetta dei risparmi. Sulle assi portanti del dolore, onnipresente come un ragno attaccato al mio sesso di bambino-nato-femmina, memorie fatte a pezzi, scollate come vecchie fotografie, trasudano inquietanti requiem. Il vuoto mi mangia da dentro come un feto maledetto, ripetendo voci scollegate da un telefono rotto. Solo una libellula, blu salta nel buio.
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Da qualche parte
Mi sono fermata in questa nera isola di suono; niente da dire, ricordi filtrano dai cocci di una bottiglia. Ci sono cose dimenticate tra filospinati azzurro-ruggine, spremute di dolore lasciate a irrancidire. La luce, minima, è uno scherzo. Sulla tavola nera chiodi imprimono un segno, alle pareti c'è un Cristo tanto folle da essere muto. Ma i tuoi solchi rosso clandestino lasciano una musica di fiordaliso sulla macchinetta del caffè. dicono che il sole è da qualche parte, dov'eravamo prima che ci spezzassero le ali.
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Laquilone
Sul cielo azzurro uno squarcio, muto divarica le arterie - cola sangue sulle pareti incalcinate- ma un aquilone dalla ferita tela, tesse il suo mosaico di luce.
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La stagione dei gelsomini
Lanciò guanti, borsetta, giarrettiera, tacchi a spillo tra le nuvole. Non ancora sfiorita era la stagione dei gelsmoni. In cielo accese una sigaretta di pietà: cenere rossa, rotolò fino all'acqua. Nel suo specchio si vide, illesa, scarlatta di pallore, come grappolo maturo dall'oscura luce del baco. Nata, lei era e non lo sapeva. Non ancora sfiorita, era la stagione dei gelsomini.
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Nonostante
Nonostante tutto, sei stato scia nel fuoco, pelle nella pelle. Nonostante. Nonostante la tenerezza che spacca le ossa e la morte ti spacca Nonostante i morsi al nervo del cuore, la tumefazione sbriciolata sulla tua stessa tumefazione.. Nonostante. Nonostante il fiore bianco caduto per caso nel grido di una musica spezzata da esili di piombo nelle fottute notti - notti dopo notti -, ci sei stato A violarmi col suono d'una illusione, a spezzare le mie infangate corde, appese a una luna storta. Nonostante tutto, tue, sono queste mani di fango attaccate al mio fango; la luce potrebbe essere una svista.
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Tu, nella mia più profonda luna
Tu stai nelle grotte della mia più profonda luna, re della mia isola beata, nascosto nel dolce suono delle mie insospettate acque. E niente ti turba, niente ti gualcisce il respiro mentre così, silenzioso, stai, sospeso nella mia luce argento come in un canto.
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Tu sei
Tu sei il fossato e sangue sulla rupe. L'alleluiah improvviso che esplode come uno squarcio quando d'improvviso appari e mi resti dentro. Sei il ferro nudo che, nella livida notte, mi lacera la caviglia ma resta, tuttavia attaccato all'abisso dell' Infinito.
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Sul limite dellAssoluto
M'accecò, il tuo nome suonò in sigilli fondi, oltre le pianure. Il fiume divaricò le cosce per contenere il brivido e intanto, schiumò la resa la brina che si accavallava sull'erba, in festoni. Chiamai il tuo nome e tracimai angoscia come una partoriente ebbra, quando la tua carne nella mia carne si fece e carne spezzò ed io restai, scalza, sul limite dell'Assoluto.
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Solo spazi
Un sole d'alabastro spettina le rive, ed io rinasco, Venere, nel vento. Ho dipinto col sangue il mio ritratto, sulle tremanti dita la brezza del fuoco, attinta alla tenerezza che scompone le sponde. Sono giglio, fiore rosso, pozza ebbra di sole, sono terra che nasce da una prateria di stelle. Ho asciugato il pianto dei fiordalisi dai miei giardini visto il mare freddo dai pascoli da cui fuggivi, cavallo indomito ma pur sempre preda, dimentico del fiore che affondò nel ventre umido di un Sogno. E vado, ora, con la sfera intatta di sogni mutanti nella giostra dei giorni e ho ancora sulle gambe i calzini da bambina, la treccia che mia madre raccolse nella scatola dei ricordi per il tempo ebbro, quello delle onde indaco che lavano le orme oscure. Spazi, solo spazi, ora, in questo mio andare...
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Da qui
Ora che m'aleggia dentro l'aroma di fragranza antica stanato nei ciottoli grigi, come oro, resuscito dall'ombra, dall'isola diseredata che lasciai ai suoi carnevali alle sue inopinate effervescenze artificiali, cariate di tradizioni sdentate. Nessun tremore. Il canto della tenerezza sta sulle mie dita che attraversano l'oro dal pianto del mare. Sono io l'isola nuova che cercai dai colli di bottiglie acuminate, col sangue sulle dita, stanando inesorabile, messaggi nascosti scavando dalle trinceee degli occhi nelle insenature fulgide di sotterrati soli. E da qui, ora, so, finalmente so che non finirà mai.
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Incontrarti
Incontrarti, dove la neve cigola sul carillon delle estati perse. Incontrarti ad una giostra, tra stanche rotaie, chissà... Incontrarti dove una cicca, per terra, ha ingoiato troppe parole mute o sull'erba secca, spina a spina, esangui... O dove il vento tracima le parole accartocciate nel tempo come fogli di giornale, appallottolati all'angolo di una strada. Incontrarti là, dove ti sei perso. Per incontrarmi.
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Corpo a corpo
Corpo a corpo, muore il corpo della storia; cadono statue e momumenti, lettere e sillogismi; il fuoco buca Aristotele nello stomaco. Corpo a corpo il tuo odore sventra il mondo, svela il giglio che rinasce folle di foreste.
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Portami via
Vieni a prendermi dove fioriscono le zagare e la morte non sta, secca, all'angolo del fiume, perchè la vincemmo coi baci. Portami via dai vincenti, dalle idee chiare e inoppugnabili. Dai giorni senza memoria, dall'assordante tamburellare della siccità, dai vagoni abbandonati, frenati anzitempo sulle stanche rotaie della vita tu, portami via. Portami via da chi sa tutto, dai tribunali dell'ovvio, dai ministeri della scienza coi loro monumenti al cinismo adorati dagli idolatri del buon senso. Portami nelle tue mani come la bimba che hai sempre cercato, che sa perdersi in un fiore, senza chiedersi perchè.
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Nessuno mi chiese
Mi misero un grembiule giallo tisi, una sottoveste color verde supplica, stretta con una cintura d'anemia mi dissero di non oltrepassare i chiusi cancelli di fare un respiro per volta; chiusero il mio pianto nell'armadietto della carta igienica, mi dissero non fiatare che viene il direttore. Nessuno però mi chiese perchè disegnassi annegati.
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Vicino
Vicino sei il sale delle albe assonnate, il primogenito del grano che sorge dal mio fecondo ventre Vicino sei la fiamma furente delle api assetate sulla fragranza della mia deità sei il pane e il vino incenso e benzoino che affonda nelle sere, umide di naufragi. Quando vicino mi stai, la pioggia cade nel vento con suono di stella e dice che non moriremo, mai.
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Mi prendo di te
Mi prendo di te questa stanchezza antica, i pensieri corsari ammutinati nei tuoi bastimenti assediati Mi prendo di te questa febbre esule di esilii, il passo grave dei diseredati giorni le gambe gonfie di interrotti passi mi prendo questo tuo invisibile tormento che gocciola nelle sere dimentiche di soli prendo la tua morte tra le mani in questa vittoriosa sconfitta che arde come fiamma nelle vene e non vuole altra luce.
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Antica geometria
La mia musica è stridente, come i legni abbuffati di pioggia delle sedie dei giardini, in inverno e tuttavia posso rendertela in germogli dalle mie mani di madonna rossa, gravida d’un sogno bianco. Ma sento che ti spaventa questa donna scheletro che reca, negli occhi, la vertigine d’una atroce apocalisse. Ma non sono le tue lacrime, le mie? Non è tua la terra che trema, consunta, sotto il mio passo consunto? Pure il corvo del dolore s’allontana in questa nuda distanza che trasuda l’anemia d’antichi incantesimi. Resto. Sui miei fossati di neve, salvando il petalo sanguigno tendendo al frangersi dei flutti neri e alle bonacce dei sensi, mentre aspetto la vela della mia antica geometria.
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Fatima
Immensa, tu partecipi al movimento delle acque: discendi, ondeggi, giochi flusso e riflusso tu inventi il mare. La tua voce è dolce come fiaba antica di antiche curandere, non tracci tracciati ma scrivi parole nuove con un tocco sulla sabbia; Alchimista sensuale e suadente tu governi senza decreti e battaglie, offrendo al mondo un sorriso di cioccolata. Entrerò ancora tra le tue larghe vesti, Fatima e dalla stessa conchiglia rinascerò con te per riportare al mondo ferito il tuo stesso sorriso di mare.
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Emma (Ispirata al personaggio di Emma Bovary)
Era una sete, assidua di giorni di giostre di fiori la tua sete, che faceva cigolare le nocche, spettinava i capelli inquieti come falde d’un deserto arso dal sole. Tessevi sogni scomposti con le filigrane francesi. Ti attraversava l’incubo della certezza, spegnevi le candele e vedevi oltre le mensole scarne, quell’urlo che accoglievi nel grembo palpitante; Non mentivi. Osavi esigere dal destino come un mercante verso i creditori, bussando con mani bianche, volto bianco occhi di colomba ardente. Chiedevi amore. Chiedevi l’inspiegabile che traboccasse, lenisse la carcassa dei giorni macerati nell’immobile ordine del contadino ligio al suo padrone. Bevesti quel vino. Tutta la cantina grondò nel pozzo del tuo desiderio come fiumi che confluiscono nel letto del grande mare nato dal fiore del deserto. Emma, fu il tuo nome. Emma. E porti ancora, nel tuo insaziato cuore, il fiore di ogni donna in cerca d’amore.
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Signora Pernice
Signora Pernice aveva un padre una madre una vecchia zia con denti d’avorio a centocinquant’anni suonati e gestiva pavimenti di marmo tirati a lucido, lasciando che la luce dell’alba solleticasse appena l’arredo di mobili in noce con fiori finti e tiretti sigillati da blocchi di ricevute e concessioni edilizie e testamentarie. Signora Pernice soppesava ogni parola e non sapeva quello che diceva e tuttavia lo diceva con eleganza inoppugnabile quando le mareee si agitavano oltre le nere cime delle case svettanti e un vento tetro presagiva i capricci dell’ostro; Signora Pernice andava a messa tutte le domeniche e leggeva il libricino delle orazioni sempre dallo stesso verso e strappava con acredine spazio alla vicina che sorseggiava appena parole, avvolta nel calice rovesciato del suo cappotto di feltro marrone. Nessun lamento. O inflessione Quando il marmo della casa si aprì, e l’inghiottì.
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Il mio gatto
Microcosmo di nera voluttà, curve morbide e lascive artigli pronti a prendere e a strappare; gioco e morte siedi sulle mie cosce come su un trono, e sei un bambino che gioca con la mia giacca o un capriccioso amante imperfetto che non conosce tregua e mi rivolge i suoi attentati, accecandomi coi suoi occhi di duro smeraldo.
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Il corpo nudo delle stelle
Sono arrivata al punto di non dover più firmare alcun registro, il mio nome l'hanno cancellato con una squadraccia, credendo di impiccare le mie stelle; Ora vado errando tra terre, boschi e laghi immaginari, Ora anche di giorno, vedo il corpo nudo delle stelle.
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A sera le formiche tornano sempre al formichiere
Termodinamica Tecnoidraulica Tecno…tettonica Campeggio nell’universo tecnico/tellurico L’occhio tagliente Arrovesciati paradigmi Violenza ed odio violenza ed odio Cigni feriti Bambini dimenticati Passano fanfare alla modernità: Donne con musi termici Occhi meccanici A sera, le formiche Tornano sempre Al formichiere.
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Distanza infinitesimale.
Dove sei stato, in quale lido o discarica di cose mai dette hai sepolto la tua rabbia? La strada é impervia. Stretto il sentiero. I glicini han ceduto il candore, arenati su grate di filo metallico fatte per sedare ogni voglia vera di respirare, correre, andare. Dove sei stato? Non hai saputo capire -eppure il passo era breve – quanta distanza passa dall’Essere al divenire. Hai replicato, come una pellicola incantata, sogni corrotti di un padre stanco; te li sei presi senza fiatare senza cercare – delitto! – di capire la distanza infinitesimale tra te e il mare.
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Il canto di Eos e di Titone
Il Canto di Eos e Titone I L’Incontro Eos Vieni, vieni, vieni, prima che sia troppo tardi; percorri con braccia piene, come grandi remi questo mare di cielo che ci divide; Vedi… Brilla nella notte e le sue onde sono lampade d’argento che illuminano i sogni come piccole, scintillanti lune marine. Titone Non sai… No, tu non sai la fatica di percorrere gli anni… Eos Oh no! Non dirlo… Ma vieni, vieni, vieni, lascia che sia io a divenire mare per percorrerti le vene come unguento… Vieni, vieni, vieni, voglio vestirti d’ocra e d’arancio, ungerti nel Fuoco del mio Amore. Titone La vedi anche tu la notte senza argento? Le colline sono cupe, severo, il monte, immobile come la Legge che ci sovrasta Eos La legge, la legge, la legge… Ma che legge è mai questa? La legge che ci volle muti? Perduti nello scambio di cose mute? Titone Non dirlo, ti prego… Eos Sei tu che lo dici. Lo dici nelle sere solo nel tuo letto; Lo dici accanto a un lume sempre più spento… Eos e Titone Lo dico in Te, che ho cercato, in Te che sono. ≈ Eos Hai sentito? Lo scoppio di Luce, le nostre Anime… Titone Sono ai tuoi piedi, mia amata, ma ancora resisto avvolto alla cavezza. Sono vecchio e solo. Eos Le mie notti non furono men cupe; Assetati, spesso, i miei giorni. Il tuo dolore m’appartiene… Titone E allora avanza, libellula d’aurora, avanza, sogno, lascia dietro te strascichi di luce per asciugare il sangue e spargiti sui miei giorni, inventami, inventami, inventami… Oh, quanto ti attesi! Quanto le mie membra stanche reclamarono acqua e luce! Eos L’emozione mi prende, mi libera la stretta in gola… Piango, piango, piango; non è dolore ma gioia, gioia, gioia. Ecco, amore, l’acqua Ecco, amore, il sole… Titone Vieni, aggrappati alle mie dita: vedi quanta neve d’estate! Eos No, non è neve, è luce… Luce e lacrime, lacrime, lacrime, tutte quelle che non versai. Quanto a lungo ti ho atteso! Quanto a lungo il mio dolore ha gridato alle soglie della follia! E ora, che farai? Ancora mi lascerai? Titone Il dolore che grida alle soglie della follia; ecco il fiele più amaro! Eos Tu puoi guarirmi, tu puoi entrare in quel vuoto, solo l’Amore può vincere i demoni, anche quelli del silenzio! Titone Tu eri già mia. Mia come l’estate sul pero; mia come terra delle mie stesse radici; Ed ora vieni, non temere il buio della notte, liberati sulle mie mani, dalle mie mani d’Ostia viva. Vieni, mia regina, farfalla di sogno sospesa nell’aria delle mie primavere perenni. Vieni, cerbiatta graziosa, sui prati verdi delle mie esistenze andate, vieni, raggio d’aria che scavalchi il tempo, gemma, cigno bianco, acquamarina, vieni, vieni, vieni… Eos Vengo sulle ostie delle tue mani sono acquamarina, gemma, cigno bianco. Come sono delicate le tue mani e forti e come brilla l’anello della tua Fede! Sono petalo, amore, sulle tue mani che ora sono acquamarina mossa dalle mie emozioni… La Grazia ti pervade, ti rende sposo e la tua bellezza rifulge come diamante. Sii il mio sposo, sposo del mio dolore redento, delle mie lacrime trasformate in pane… Vieni, vieni, vieni, saziamoci del nostro amore, Grande Ostia per tutti i giorni senza pane! Titone La felicità mi rende leggero, sono un ragazzo e tu la mia giovane sposa. Ci siamo forse incontrati In altre vite? Eos Altre vite, altri soli, altre lune… Ma non è forse Uno il giorno? Non è forse Uno il sole? Tremo, tremo, tremo come canna nell’immenso campo della tua anima, feconda, di spiga… Come sono pieni i tuoi occhi; Sono topazio bagnato di luce sfumato all’ombra della luna. Titone Non sono i miei occhi, ma i tuoi… Eos, Titone Nessuno può capire il Mistero, Siamo Luce della stessa Ombra Siamo Ombra della stessa Luce. ≈ Eos Oh, sciagurato presagio! Quel dolore... Vedere che la scia scompare! Titone Tu sei mia Eos Ancora, dillo… Titone Mia, mia, mia… Eos M’ami tu così? Titone Un tempo, al mio capezzale, pregasti il Destino prendesse altra strada, quel destino che tu conoscevi! Titone parla con gli occhi abbagliati rivolti verso l’alto. Titone Tu fosti eletta a tessere il mio sudario con le trame del tuo cuore Eos Io, allora, fui già Santa? Titone acquista la lucidità. Titone Santa, oh sì! Santa e con la tua santità stregasti il mio cuore che trascinò detriti d’ansie, angosce, paure verso il rivo delle tue vene che intrecciarono reti e m’accolsero, intero. Oh! Sii Benedetta, Benedetta tra le donne… Eos Ed io ti benedico, amore, ti benedico col mio sangue, ti benedico con gli occhi, con queste mani che tesserono sudari nuziali per il tuo corpo di spiga matura, Ti benedico preghiera che colasti sulla mia vita e tergesti l’impuro con la Sacra Fiamma e avverasti la promessa di Dio alla mia Consacrazione. Titone Oh, mia Santa! Mia Sposa, mia Diletta! Mai l’Immenso fu più prossimo! Entrambi cadono in ginocchio, gli occhi colmi di una luce abbagliante che irradia da essi. Dopo qualche tempo, Eos si rialza. Eos Tu, amore, sei tutti i miei amori! Eos Tu m’apri le porte del Paradiso! Titone Sempre ti è appartenuto Sempre ci è appartenuto Noi… Pura Luce… Titone è vestito con un mantello sacerdotale color oro. Le si avvicina e l’avvolge. Lui diviene sole, lei luna. Dalla loro danza nasce la Terra. Titone Io sono l’Alfa Eos Ed io l’Omega Eos Io sono l’Alfa Titone Ed io l’Omega II Distacco Eos E’ notte, vedi, è già notte! Titone La notte non è assenza di luce e tu lo sai… Eos Non so più niente. Sono nuda. Nuda come acino disperso; vino versato dall’otre della storia. Titone Eppure sei diversa, un bagliore nuovo rifulge nei tuoi occhi di cerva. Eos Voglio danzare. E’ la voglia che mi nasce dagli occhi e rifulge. Titone E allora danza, mia sposa senti il Ritmo della Terra e salta con la polvere in faccia, negli occhi, nel naso, e scalcia, puledra, al ritmo tribale del mondo, impazzita, liberata! Danza, danza, danza… Eos danza una danza tribale e sensuale che accende il cielo di colori scintillanti. I capelli e le ciocche, furiose, dipingono strascichi di porpora e rosso. Eos Cosa è accaduto? Titone Hai conosciuto la Felicità; sei entrata nel Ritmo della Terra! I due amanti si guardano, gli sguardi insondabili persi in profondità inaccessibili. Eos Dunque è questa la Felicità? Danza e Follia? Titone le accarezza la fronte. La bacia e, poi, cingendola, la invita a dormire. ≈ Eos Sei vicino, eppure lontano, più lontano di quanto possa immaginare… Ma, dimmi, perché attendesti tanto questo raggio di sole? Hai forse, in passato, temuto l’amore? Titone si scosta da lei, china la testa. Eos Oh! So, so che il fondo dell’Amore è amaro più del fiele e che tu sei un uomo col cervello. Nessun uomo col cervello può e vuol cadere nel torrente imprevedibile e amaro dell’Amore, eppure… Conosco le trappole della ragion pura, la follia di pazzi intelligenti al potere: bambini trucidati, venduti, assoldati, donne stuprate, umiliate, uomini venduti, usati, prostrati… Eos si copre gli occhi. Eos Tutta questa ragione è omicidio e follia! Titone E’ il tuo Amore che ha vinto! Eos Ma l’inverno è duro nel tuo cuore… Non basta la danza di Primavera per scioglierne i ghiacciai! Titone Guarda il ciliegio: guarda i suoi fiori, pronti a tramutarsi in frutti… Tu sei fiore di ciliegio, tu sei primavera. Conoscerai raggi ancor leggiadri sulla tua pelle di petalo, tu stessa sarai ciliegio e protenderai i tuoi rami verso il mare, ancora ammaliata dalla Grazia che volle la tua danza… Tu, nell’eterno fluire del mondo finito: fiore, frutto, ramo, primavera. Oh! Come sei bella! Tu sei la primavera… Eos Tu stai per lasciarmi. Il mare non sarà più lo stesso; Vedi, tende alla linea dell’orizzonte e il tuo orizzonte brilla per me di mille orizzonti e mille orizzonti baciano le mie onde, le increspano, direzionano il loro finito, eterno movimento… Titone Guarda lassù, il monte che s’eleva sul mare, lì mi troverai ogni volta che mi cercherai. A che giova il salto dell’onda che non ascende e s’eleva? Titone e Eos A che giova il mare senza la vetta che annuncia l’Oltre? Titone Questo noi siamo, amante, sorella, madre… Acqua, aria, terra… Titone si incammina verso il monte con un mantello dorato di stelle. Eos solleva le braccia al cielo, la veste azzurra come il mare e grida dietro lui: Eos E Fuoco! Acqua, aria, terra… E Fuoco! Titone si volta un attimo. Titone Così sia! E scompare. Celebrazione Eos Ti lodo, mio amore, ti lodo perché tu m’hai svelato la natura eterna dell’anima mia che Eternità riluce. Tu, mio soave canto più soave di ogni canto, volo dolcissimo di gabbiano, spartito della risacca argentina, Tu, Mistero che giaci nelle carni del mio Spirito, Tu che ridi nell’onde, giochi nell’onde, tu che ti travesti d’onde… Sola, innanzi al Grande Mare Ti sento Tu che stormisci con l’uccel di mare, muori e mi divieni, tu che mi parli il linguaggio sepolto del tempo, tu sempre esistito, tu che non passi, resti, tramonti, resti; Tu, farfalla fiorita sul pelo dell’acqua! Ti lodino le mie braccia, la mia musica, il mio canto, Ti lodino le mie ali, la mia carne, la mia luce… Ti lodi il mio grembo di donna, il muschio delle infinite pareti; Ti lodi l’infinito scorrere della mia preghiera, infinita. Ti lodino le mie mani che inventano le tue, Ti lodi l’argilla della mia essenza, il mio passo che ti cammina accanto, l’arco del desiderio che fa breccia nella tua essenza; ti lodi la mia fede che spinse il tuo veliero verso il porto dimenticato, il Fuoco che distrusse argini di ghiaccio, ti lodi la mia veggenza di donna che innalzò altari sotto la tua Croce e riempì di lacrime e sangue la coppa che ti alimenta. Ti lodi il mio Spirito, finché Luce sposi Tenebre, ti lodi il vagito dei visceri contratti in preghiera. Che io ti lodi, sangue del mio sangue, linfa della mia essenza rosso vino delle mie segrete cantine, Amore del mio Amore! III Assenza Eos, dopo essere caduta in orazione, si risveglia. Eos Il desiderio grida nella notte! Strazia le mie carni ed io le sento sbuffare come sacchi d’aria, doloranti sacchi d’aria e sangue, che strilla in questa notte oscura con parole di grandine e fuoco! Dimmi, tu che ora sei monte, quale mare amaro dischiudi? Non senti come fremo sotto al tuo monte? Il gelo m’attraversa; correnti d’aria e di vuoto… Nella torre, inquieti, s’aggirano i fantasmi dei miei pensieri! Miserere! Io sono divisa, appesa alla tromba assordante dei giorni! Eos Tu non udrai più la mia musica notturna proferire al gelsomino, al ginepro i suoi segreti! No, non udrai più la musica dei miei sensi furiosi! Chi sei tu? Straniero, ladro della mia anima! Eos chiude la finestra, va a dormire. Titone le appare in sogno. Titone La senti, mia amata, questa musica? E’puro canto di luna… Sono io che ti parlo e la mia musica, lenta, scende dalla nuvole sazie del tuo pianto. Io sono la tua armonia, il tuo corallo, Amore nel tuo Amore. Tieni, cara, sgrana questo rosario di parole mai dette e qui, tu ed io, in questa notte eterna sentiamo, sentiamo, sentiamo il tuo, il mio, il nostro Amore. Eos Tu mi hai preso l’anima Titone Era già mia. Ricordi? Andavamo per campi di fiori, pazzi, le mani, i piedi nell’erba, tu eri nocciolo d’aurora io t’amavo già allora… Eos E poi, cosa accadde? Titone Che importa, mia cara? Vorrei che m’amassi così ora con tutto il tuo sangue di donna Eos Vorrei sciogliere nei tuoi baci tutte le mie catene, sentire la musica del tuo corpo asciugare il mio tremore, impregnata al tuo sudore. Vorrei bagnarti gli occhi, tergerti nel mio stesso sangue come rondine marchiata, per sempre persa nel mio mare. Vorrei esplodere nella tua vita come ostrica furiosa, entrarti dentro come naufraga che annaspa, vinta. Persa, senza più alibi. Ancora, vorrei, solidificarmi nella tua essenza come pietra lavica e tornare, di tanto, ancora Fuoco per essere sempre più parte di te. Vorrei essere i tuoi stessi respiri, fino all’ultimo, fino a che morte non ci sorprenda. Vorrei, vorrei, vorrei Dio solo sa Quanto ti vorrei! Eos si ranicchia, dopo essersi espansa al sole. Si risveglia poi col cuore lacerato da dolore e felicità insieme. IV Morte Eos è nella stanza, con lo sguardo rivolto alla finestra. Eos Tu non sei. Vedi: l’aria è chiara e tu non sei. Sei morto all’improvviso, nelle mie lunghe notti insonni. Ho vegliato al tuo funerale: tu eri effige sulla tua stessa tomba. Eos si avvicina ancor più alla finestra. La spalanca. Eos Guardo il rivo. E’ ghiaccio. Fredda tumefazione. Si stringe in se stessa. Rabbrividisce. Eos Davvero è così atroce l’inverno, dopo la follia dell’estate, l’attesa lusinghiera della primavera? Oh! Mai conobbi inverni più tetri! Eos si tappa le orecchie, come per non sentire delle voci. Poi, rivolta al cielo, grida: Eos No, no, non parlarmi più… Oh tu che sei ombra! Oh tu che moristi! Oh tu che fuggisti! Il giorno è greve, senza luce, lento, il passo. Lascia piuttosto che segua il tuo corteo dietro il corteo dei giorni! Ti ho seppellito con queste mani e con le stesse mani ho seppellito me. Nel marmo ho sepolto, sbeffeggiato la febbre mistica dei nostri sensi. Tu non hai più voce non hai più occhi non hai più mani. Ed io tentenno nei giorni vestita del tuo sudario. Non griderà più il sangue, tornerà serrata la mia gola, finché le squame della mia non-essenza cadranno senza rumore dall’abisso dei miei giorni. Allora le mie ceneri si fonderanno alla polvere dell’aria, saranno pulviscolo come ogni cosa è polvere e vento e aria e nulla ci oltrepassa e nulla ci precede. Siamo questo: non più grandi di pulviscolo d’autunno, non più eterni di una goccia di rugiada, non più forti di sagome di corteccia rose dal vento e nello stesso tempo, infiniti, come pulviscolo che aleggia sulla goccia d’una rugiada che scende dalle carni di una corteccia rosa dal tempo. Perché è nel finito l’Eterno e l’Infinito Soffia un vento di tempesta, Eos diviene pulviscolo rosso e ocra e, poi, luce dorata. Dal cielo scende un’altra farfalla, il suo chiarore è argenteo, come la luna. Le farfalle disegnano scie di luce che, ricongiunte, reinventano la geometria dell’universo. E’ l’inizio della Nuova Creazione.
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Eredità (da Una poesia nel cassetto, Flanerì, Roma, 2011)
Mitili aperti affollano le rive condensate dalla bruma; i pescherecci gettano vuote reti sulla rena, Io cammino sulla sabbia, scansando i gusci, dallo stesso sapore di cose vuote come il vuoto che tu hai lasciato in me.
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