I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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L’amore di una madre
L’amore è duro. L’amore di una madre è amore che spacca le rocce, che dona pelle, viscere, nervi e cuore. L’amore che resta nel deserto. L’amore che parte nonostante tutti i venti contrari. L’amore. Più forte di una mastice. Più forte del tempo. Più forte di tutto il dolore del mondo… L’amore. L’amore di una madre.
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Spingi il dolore
Spingi il dolore, anche se fa male, anche se sembra una catena; spingilo alle soglie più estreme del tuo sentire, accoglilo; è un bimbo che piange e ha le labbra larghe per il troppo urlare… In fondo alla notte muta, la stella, che non giunge mai. Spingilo nei tuoi ricordi rottamati, tra i legni sparsi dei sogni spezzati, le rotte conchiglie d’occasioni mancate, le lacere radici disseccate… Tu stringi, stringi forte il dolore; ti prego no, non scappare! E’ il tuo maestro, la caverna segreta in cui ti puoi inginocchiare, pregare, risvegliare e libero, ricominciare…
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Solo un’altra roccia
Ti rompesti l'armatura sulla tua stessa sabbia; denti e memorie in frantumo come conchiglie spezzate. Stupido come un soldato, indietreggiando sul ghiaccio che ti lambiva come un sepolcro d'oro. Ero io. E per un attimo sospettai che i tuoi occhi sentissero, ma era preghiera gocciolata coi pipistrelli della mia carne strappata e tu solo un'altra roccia; uno spuntone nel costato.
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Un figlio
Un figlio è una parola, forse un gancio o un nodo. Forse niente. Ed io su quel niente, dentellato come sega, mi spaccai. Più e più volte. Schizzi di carne sulla lama; sul gancio. Perchè figlio è una parola o forse nodo, o forse niente. O forse il niente in cui annegarono i padri.
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I fiori bianchi
Questo tu temevi che, densa come olio, ti entrassi nell’osso. Per questo tossisti. “Scusa” dicesti, e avevi una falce sulla lingua. Poi venne il giorno dei fiori bianchi come i vestiti dei bambini. Il tuo silenzio si fece denso, più dell’olio. Scolorò la pietra; Quella a cui rimanevi attaccato solo per codardia, pur non sapendola tua. “Scusa” va’ a dirlo a lei, dicesti alla libellula. E quella venne da me, dicendomi che i fiori bianchi erano la tua neve.
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Camminando per le strade di Roma
Tra queste mura, queste chiese, questi acquedotti e tesori nascosti tra rifiuti sparsi, cerco… E forse sono nel ticket di un bus che rotola, non visto, tra stranieri occhi con l’agrodolce dei mari attraversati nelle pupille. La malinconia morde randagia i calcagni, il chiarore dei tuoi cieli è irreale; la luce pigmenti di carta stracciata come coriandoli di un carnevale infinito tra spazi vuoti come anestesie. Cammino per le tue strade, vestita di deserto, con la paura incisa nel nervo della fierezza, tra i tuoi ruderi urlanti parole perdute tra tutta questa gente che t’assale, senza riuscire a vederti mai.
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Arianna e il Minotauro
Venni per ucciderti, per farti uccidere da lui, di cui ora non ricordo più il nome; lui che era principe, lui col sole negli occhi, lui che era biondo e aveva le unghie pulite. L’incendio di te mi espropriava, feroce, ma io non sapevo verso quale mare stavo precipitando. Prevedibile era il viaggio di Teseo -ah, ora ricordo!- Quasi certo. Salda, così mi sembrava, la nave. La notte prima del misfatto mi tappai le orecchie per non sentire i tuoi ruggiti. E non osai chiamarti fratello o amato non osai confessare di quali inenarrabili incendi si ustionava il mio corpo sull’effige nelle carni scolpita dal tuo odore. Bestia, ti chiamavano, ingorda e assassina. Ed io stessa vidi il sangue sulla tua insaziata bocca. E colma di spavento, mi unì a chi ti urlava contro. Immondo, cosi ti dicevano, sputando sul tuo nome. Ed io selsi Teseo, il delitto maggiore. Ma non potei mai cancellare l’arena. Il labirinto era la nostra arena, mio amato ed io acqua che danza, ininterrotta, colma di segreti. Colma di te.
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Varcando la soglia della Porta Magica
A Roma è possibile visitare, quasi nascosta in Piazza Veneto, nel quartiere Esquilino, la Porta Magica di villa Palombara, in origine appartenuta al marchese Massimiliano Savelli Palombara, noto alchimista. La porta è l'unica sopravvissuta perchè la villa è stata 'rasa al suolo' dopo l'unità d'Italia, con altri edifici della zona, per costruire palazzi e isolati borghesi 'in perfetto stile piemontese'. L'unica a salvarsi fu la porta magica, sulla quale è possibile reperire, attraverso la simbologia espressa sulla porta e sull'architrave, alcuni principi dell'Arte Regia, cioè dell'Alchimia. Essa parte come tecnica chimica che ha come scopo la formazione della pietra filosofale, detta anche Oro Potabile. Ma l'alchimia è soprattutto una disciplina spirituale che mira al perfezionamento dell'essere spirituale, affinchè attraverso di esso non solo si raggiunga l'androginia, ma si possa mettere anche il proprio sapere a servizio dell'umanità. Il dio egiziano Bes, guardiano della soglia, sorveglia la porta. Il suo scopo è tenere lontani i semplici curiosi. E permettere al devoto, a colui che è disposto a passare dalla 'porta stretta' di compiere il suo viaggio. Visitare la porta magica è, di per sè, un percorso iniziatico, che apre le porte verso l'approfondimento dell'Arte Regia. E spinge il visitatore, a patto che non sia un turista distratto, a porsi delle domande cruciali: Chi sono? Che senso sto dando alla mia esistenza? Buona visita! Varcando la soglia della Porta Magica attraversando la tua piazza, densa di nuvole e di mistero. Per farlo divenni essenziale, lapis tortuoso, ma ardente. morendo ancora nell'athanor; fuori ancora strepito di sinedrio. Ma i veli si squarciarono. Spianata, ormai, era la via e il dio Bes era un angelo guardiano di altri illimitati mondi.
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Feroce eternità
Foglia mortale cade dall’acero immortale, gira e rigira, mozzicona sul marciapiede. Gela di febbri, il monte, cicalando tra le vene una feroce eternità.
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Ci sono guerre
Ci sono guerre senza bombe, senza sangue, senza morti apparenti. Ci sono guerre dove le bombe sono il silenzio, le mitragliatrici l’ignoranza, le armi biologiche la cecità. Ci sono guerre dove il vessillo è una ragione anomala, ipertrofica, che ammazza la pietà. E sono guerre senza esclusioni di colpi dove le vittime sono anche carnefici, perché hanno scelto di esserlo.
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La storia di Ermanno
La storia di Ermanno: liberarsi dagli obblighi d’amore inconsci per realizzare il proprio destino C’era una volta un giovane appartenente ad un’antica dinastia di guaritori. Sfortunatamente, il governo aveva perseguitato la sua gente e sua madre era stata costretta ad affidare il bambino ad una famiglia della città vicina. Lo aveva lasciato innanzi alla porta di quella casa ed era fuggita per tornare al suo villaggio, temendo l’arresto e la prigionia. Nella famiglia, composta di tre fratelli, erano tutti molto alti, con teste gigantesche che urtavano il soffitto e toraci strettissimi. Il padre faceva il fabbro nella bottega al pian terreno, mentre sua madre si occupava delle faccende domestiche. Era una ‘famiglia’ davvero singolare. Viveva, infatti, isolata dal mondo. Anche perché un loro parente, vittima dell’abuso di alcool e violento, era morto di cirrosi epatica. E da allora, tutti scansavano quella famiglia di beoni. L’isolamento li aveva resi ancora più rudi. Non c’era affetto, in famiglia, nè ideali, né bellezza, né nulla per cui valesse la pena vivere. Suo padre adottivo era, inoltre, avaro e teneva il denaro chiuso in una cassetta. Sua madre era pingue, querula, insoddisfatta. Odiava i fiori, perché, come i figli, richiedevano delle cure. L’unico motivo per cui li aveva messi al mondo era riempire il suo vuoto. E visto che non ci era riuscita, li odiava ancor più. Odiava, in realtà, tutto ciò che richiedesse cura. Preferiva lamentarsi o spettegolare. Quando si pranzava e si cenava il cane, vedendo suo padre, si nascondeva. Ed egli metteva sul tavolo un bastone di legno, con cui colpiva chiunque disturbasse il pasto con parole o altro. “Sta’ zitto, non vedi che tuo padre è stanco?” diceva sua madre se voleva comunicargli qualcosa. Così Ermanno imparò a tacere, a ‘farsi gli affari suoi’, ad essere silenzioso come un gatto. Ma nel tempo, tenne un diario, a cui diede un nome, per liberarsi del suo dolore e trovare un po' di senso alla sua vita. In quel tempo frequentava la scuola, ma senza una particolare gioia. Tutto gli sembrava stantio e falso. Tuttavia un giorno venne una nuova insegnante di disegno, la quale permise ai ragazzi di disegnare liberamente. Mostrò loro degli album di alcuni animali e disse loro di ispirarsi a quei disegni. Ermanno, che quel giorno era molto triste, perché voleva scappare di casa, disegnò un leopardo delle nevi. Quando lo mise sul foglio, il leopardo era così fatto bene, che Ermanno lo contemplò, fino ad udirlo parlare: “Ciao Ermanno, non scoraggiarti. Io e te percorriamo, soli, il sentiero. Questo serve per la resistenza. E’ questa virtù che ci aiuta a scalare le cime”. Ermanno era stupefatto. Voleva raccontare all’insegnante l’accaduto, ma anche continuare il suo dialogo. “Sei bellissimo, Leopardo, ma ti prego, dimmi come posso arrivare lassù, con te”. Ma prima di lasciare al leopardo la risposta, disegnò delle splendide cime innevate e una, altissima. “Ti prego, leopardo delle nevi, non lasciarmi qui, portami con te, perché dove vivo io non c’è bellezza e neve, ma solo bruttezza e fango. Ti prego, portami con te… “ disse, con forza, uscendo di soppiatto dalla classe col foglio in mano. E quando ritornò a fissare il disegno per ricevere la risposta, vide se stesso, bambino, portato dal leopardo. Rivide la sua vera madre, il villaggio assediato. Il leopardo gli spiegò ogni cosa, poi gli disse: “Non vedi? Io ti ho salvato e ti ho portato nel fango e nella bruttezza, affinchè tu potessi sentire più forte il richiamo delle tue origini e dirigerti verso casa”. “Ma come, come farò?” disse Ermanno. “Nello stesso modo in cui sei arrivato qui: devi immaginare. E credere fermamente che, un giorno, sarai proprio lì dove hai immaginato di essere”. “Sarà il tuo amore a darti la forza per creare. Ma tu non dimenticarlo mai… Mai…”. Quando l’insegnante di disegno raggiunse Ermanno in corridoio, allarmata, questi tacque sull’accaduto. L’insegnante era una donna in gamba, ma quello era il suo segreto di sciamano. Quel giorno Ermanno tornò a casa con la segreta gioia nel cuore, ma vide che tutti erano riuniti attorno al tavolo. “Abbiamo deciso che lascerai lo studio. Mangi pane a tradimento e devi imparare a guadagnartelo” bofonchiò suo padre. Uno dei suoi fratelli lo guadò con un sorriso nel quale c’era qualcosa di diabolico. “Ma io vorrei disegnare, diventare un artista”. A quella parola ‘artista’ tutti risero, non conoscendone nemmeno il significato. “Tu non sei nostro figlio” irruppe suo padre “E nemmeno nostro fratello” dissero i fratelli in coro. “Però il motivo per cui ti abbiamo preso non è mantenerti, ma esserci utile. Sei legato alle sorti della famiglia e questo è il tuo destino”. “Mai” urlò Edoardo. Con la sensibilità di uno sciamano, sentì che quelle parole entravano nel suo corpo come una specie di maledizione. Di corsa, andò in camera sua e prese il quaderno col leopardo, in lacrime. Chiuse la porta. Il leopardo, come se fosse stato presente all’accaduto, gli disse di stare calmo. La fede lo avrebbe aiutato. “Ricorda che tutto volge al bene” disse. Ermanno era spaventato per le parole di suo padre e il leopardo, per tranquillizzarlo, gli svelò la formula magica “Nell’amore, sciolgo ogni catena”. Ermanno ripetè la formula più e più volte, ma sentiva sempre una sensazione di pericolo. “Ricorda quello che ti dissi: il tuo amore e la tua capacità di immaginare ti salveranno. E usa la formula magica: è potentissima”. Ermanno non lo sapeva, ma tutti quegli ostacoli stavano rafforzando la sua fede. Così, quando suo padre venne a bussare alla sua porta, per condurlo in bottega, Ermanno riuscì a vincere la disperazione. Lavorava con suo padre e i suoi fratelli. E riusciva a resistere alle loro prepotenze, immaginando il momento in cui sarebbe salito nella sua camera a fare nuovi disegni del leopardo delle nevi e a parlare con lui. Così, nel tempo, accumulò tantissimi disegni, custodendoli in un album che nascondeva sotto l’armadio. Ma, un giorno, sua madre si accorse dei disegni e lo disse agli altri fratelli. Il più malvagio li bruciò in giardino in sua presenza, mentre un altro fratello lo teneva imprigionato. Il dolore di Ermanno fu così grande che divenne egli stesso un leopardo delle nevi. E liberandosi dalla stretta, assalì il fratello, penetrando i denti nel suo collo. Poi fuggì. Corse senza guardarsi indietro, fino a quando, guidato dall’istinto, raggiunse il villaggio. Lì tornò nel corpo umano mentre, in fondo al cuore, ricordò la casa innanzi alla quale si trovava e il sorriso di sua madre. Anche sua madre era una sciamana. E come se conoscesse la sua storia, lo abbracciò e gli disse: “Non devi sentirti in colpa. Hai fatto ciò che andava compiuto per essere uno sciamano: ritrovare il potere dell’immaginazione e della fede, sciogliere gli obblighi d’amore, ribellarti alle ingiustizie. Il tuo fratellastro andrà nel mondo di Ade e forse da lì si redimerà dalla sua malvagità, dovuta alla repressione della natura selvaggia. Tu hai superato tutte le prove e ora sei pronto per essere uno sciamano, tra la tua vera gente. Questa è la tua ricompensa. Ermanno sorrise e lanciando lo sguardo oltre il villaggio, vide il leopardo delle nevi che si voltò un’ultima volta, per poi scomparire oltre l’orizzonte.
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Viaggia leggera
Viaggia leggera, come se non avessi nessuno da attendere, nessuno ad attenderti. Metti nel tuo zaino una scatola di sorrisi, la voglia di stupirti e di scoprirti, un po' di santa follia e viaggia… Leggera sulle ali della fede, certa che questo mondo sta mutando e tu stai andando verso il tuo vero villaggio. Lascia nel paese dei mattoni d’argilla gli schiavi ciechi alle loro fatiche, lascia i tuoi dubbi, i rimorsi, il senso del dovere, il senso del peccato, i legami che ti strozzano, il fango che ti blocca e và, leggera, segui le libellule, la fragranza delle cime addita il sentiero, il villaggio che cerchi dista poco d lì, perché è già qui, nel tuo cuore, lo senti? E’ già qui…
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In fondo alla notte
Quando scrivi una poesia e la lasci andare, come foglia d'autunno, muori un pò anche tu. Per questo scrivere è una delle più grandi esperienze che si possano fare. Ti fai canna vuota, raccogli umori, spiriti, emozioni... E impari a morire, per non morire più... Cammino per queste strade, che ormai non m’appartengono più. in un ricordo, in un amore; la notte raccoglie briciole affondano i piedi nel ghiaccio. preparando il suo splendore; nascoste là, in fondo a questa notte
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Il pettirosso
Stamane, seduta su un dolore, stentava a aprirsi al sole con tutto il suo clangore. è scomparso nel cielo lontano. E quando il fiore piegato nel suo brillante rosso acceso.
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La storia di Elio
La storia di Elio: trasformare la frustrazione e ritrovare l’amore perduto. C’era una volta un atleta di nome Elio, che aveva corso in gare importanti e vinto numerose gare. Il suo corpo era forte, muscoloso, elastico e il suo temperamento impulsivo, franco. Per questo suo modo di essere e per l’invidia della sua bellezza era spesso osteggiato, oltre che invidiato. Allora, per mostrare che dei cicalecci di paese non gli importava nulla, Elio prese a correre in paese a torso nudo e con pantaloncini cortissimi, anche in inverno. Inoltre dipinse la sua macchina con colori sgargianti e la decorò con perline colorate. Come sempre accade in simili circostanze, prima ci furono i pettegolezzi, poi fu ignorato. Nonostante tutto Elio vinceva ogni gara ed era la sua bravura a scatenare l’odio dei rivali, più che la sua eccentricità. Così, in una gara dei 5000 metri, un gruppo di atleti riempì la sua borraccia con dosi massicce di tranquillanti.Elio non solo perse la gara, ma inciampò, fratturandosi la caviglia. La frattura lo costrinse a stare in casa. Ma, poiché egli era un atleta e soprattutto, un corridore, decise almeno di inseguire le sue emozioni. Fu la prima volta che sperimentò intensamente la frustrazione. La sentì come un fuoco nel cuore. Entrò più profondamente in essa. Il fuoco scoppiettava con pezzi di legna morbida. Elio immaginò di infilarsi le scarpe per la corsa e andò verso quel fuoco. C’era erba fresca e un ruscello vi scorreva accanto. Più in fondo vide un bosco con due cipressi al suo ingresso e desiderò di entrarvi. Ma, prima che potesse giungere lì, una donna gli si avvicinò. Era grassa e dal muso grinzoso. “Chi sei” gli chiese Elio. “Sono lo spirito della rassegnazione. Cosa speri di trovare là, in fondo al bosco? Forse la bella dai seni d’oro?” Elio divenne freddo come un morto a quella vista. La donna aveva una gonna rossa che gocciolava come sangue. “Va’ indietro, per te sarebbe molto più semplice. Hai la corsa, per vivere la tua energia. Non ti basta?”. Elio avvertì una grande pesantezza, dopo aver guardato la donna negli occhi. Essi erano grandi, eppure spenti, come occhi di un morto. Quella donna lo rese infinitamente triste. E provò nel suo cuore una grandissima compassione per essa “Cosa posso fare per te?” le domandò. Per un attimo gli occhi della donna brillarono di stupore. Elio sentì che aveva toccato il suo dolore e una lacrima scese sul suo viso. Dal bosco sopraggiunse una creatura alata, dorata, simile a una libellula. Si posò sul suo torace e bevve la lacrima. “Ho sempre desiderato di ballare e di essere guardata” disse. “Se qualcuno mi guardasse sarei felice, perché potrei ritornare al mio sogno di bambina: danzare ed essere ammirata”. “Danza allora cara, danza. Io ti guarderò” La donna, piena di entusiasmo, danzò, dapprima goffamente, poi sempre più scatenata. Mente danzava, perse le sue vesti, che si trasformarono in un velo bianco. Ora il suo corpo era snello e al posto della vecchia donna, spuntò una fanciulla bellissima, di una bellezza inafferrabile. Il suo volto, magicamente, assumeva una diversa bellezza ogni volta che incontrava lo sguardo ammirato del giovane. Poi, finita la danza, la donna si trasformò in libellula e si posò accanto al suo orecchio. Grazie Elio di aver operato la magia. Il tuo amore mi ha trasformato e rotto l’incantesimo di uno stregone malvagio. Ora voglio farti un regalo, che è il mio segreto: “Nulla è reale. Per questo ogni cosa può essere trasformata” E dopo aver svolazzato un po' attorno al tuo sguardo, aggiunse: “La tua compassione ti ha portato, naturalmente, a conoscere questo segreto. Infatti è la compassione che apre ogni porta. Ma ora conosci ciò che è alla base della magia: nulla è reale e tutto può essere trasformato. Il segreto è amare ogni immagine”. Ma Elio era triste, perché la sua amata stava volando via sotto forma di libellula. E così, infatti, accadde e lei scomparve nel bosco. Rimase lì, sconsolato. E pianse, mentre le sue lacrime si trasformarono in pioggia. E piovve sugli alberi, sull’erba, sui fiori, sul ruscello… “Non hai ancora compreso” udì ad un tratto. Quando sollevò lo sguardo, vide un tizio vestito da monaco, con una barba bianca. “Chi sei” chiese l’inconsolabile giovane. “Hai avuto un dono speciale, oggi”. Elio smise di piangere e immediatamente, la pioggia cessò. “Sì, rispose. Nulla è reale e tutto può essere trasformato. E tuttavia oggi ho ritrovato e perso il mio amore. Per cui questo dono non ha grande importanza”. L’uomo, che sembrava un monaco, rise. Elio si irritò. “Cosa c’è di divertente” chiese. “Hai visto la bellezza e l’amore e hai voluto afferrare l’uno e l’altra. Se avessi riconosciuto l’uno e l’altro come parte di te, la bellezza e l’amore, spontaneamente, sarebbero venuti a te”. Elio rimase deluso e provò amarezza. Sentì che le parole del mago erano vere e che non sapeva ancora amare. “Quando emergerai da questo viaggio, avrai un compito: sviluppare in te tutte le qualità che hai veduto e apprezzato nella visione della tua amata. Quando lo avrai fatto, lei tornerà a te. Elio fu felicissimo: quel viaggio dentro sé non solo aveva acceso il desiderio dell’amore, ma gli aveva anche indicato la strada per realizzarlo. Ora la sua vita aveva uno scopo più alto del semplice gareggiare e vincere. Così ringraziò il mago, al quale offrì la sua tristezza. Benedisse la radura, il ruscello, i fiori e il cielo e ritornò nella sua stanza. La frattura guarì in poco tempo e fatto inspiegabile per molti, tornò presto a correre. Ma, questa volta, il suo fine non era più la vittoria in sé. Egli desiderò esprimere, attraverso la corsa, la bellezza del suo corpo che amò e nutrì e curò sempre più con amore. E trasformò la corsa in una danza sempre più perfetta. A volte, per questo, perdeva, ma la gente lo amava perché aveva qualcosa di unico da offrire. Tante ragazze del paese venivano ad assistere alle sue gare e ben presto, fu il giovane più ambito. Ma Elio aveva fatto una promessa a se stesso: solo quando avrebbe espresso il massimo della bellezza e dell’armonia, avrebbe scelto la sua donna. Così, in una delle corse, mentre attorno a sé la luce sfavillava come ali di colomba, capì che quello era il segno che la perfezione della bellezza era stata raggiunta. E dal suo cuore uscì un grido potentissimo, che era di liberazione. E fu in quell’estasi che vide libellule attorno a sé. Nel cuore sentì così tanta gioia che temette di morire. Le libellule si spostarono sul suo lato sinistro. E quando lui si voltò, vide lei. Era l’unica in piedi che applaudiva, mentre tutti gli altri erano delusi del fatto che avesse arrestato la corsa. Lei era l’unica ad aver compreso la sua devozione e la sua ricerca e l’unica che meritasse il suo amore. E ora era lì. Ed Elio sentì che lei non era fuggita, ma aveva aspettato che lui diventasse leggero come una libellula affinchè, insieme, riuscissero a volare.
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Donna
A tutte le donne e alle donne che vivono nell'uomo... Donna, asciuga le tue lacrime, Questo è il giorno in cui fiorisci in cui le illusioni del nostro tempo cadono come castelli di sabbia. ma come divina fenice risorgi. di acque limpide e chete, dei tuoi figli dimenticati. dalla foresta che ti accolse, e non schiavi di schiavi.... è tempo ora di risplendere, perchè il rosso di terrestri stelle la terra ancor berrà stelle dai tuoi capezzoli pieni di grazia. Immacolato Splendore d'Ombra Divina generatrice del mondo
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Trastevere violata
Sono rimasta nei tuoi vicoli come un segugio d’antichi umori, in bilico tra tavolini invasori che ingombrano le tue vie. Una rassegnata stanchezza abitava i tuoi portoni, incastrati in mura sfiorite sui sampietrini divelti, da passi adombrati. La folla accalcata dietro trattorie o negozietti di souvenirs, presto si mescolò a una pioggia strana; la fanfara pronta al saccheggio svuotò le tue vie, lasciando di te, Trastevere, tra abusi e rifiuti, scampoli di una magia che, da tempo, non t’appartiene più.
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A volte
A volte sono stanca, ipocrita, confusa a volte A volte sono febbre che sale dalle ceneri a volte sono vuota o affamata come lupa nel deserto e mangio dai cassonetti delle idee in avaria o dei sorrisi filtrati prima di accorgermi del delitto, a volte. Però sempre mi spendo come l’onda e la fede porta sulla mia barca tonnellate e tonnellate di pesci d’oro.
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Roma di notte
Quando dai tuoi nudi cieli cade il velo della pietosa notte tu mostri il tuo vero volto, piangente sotto le luci degli hotel e le ombre arrese tra immortali vestigia in una spirale di bellezza e di spavento. Allora il battito si fa veloce, quasi furtivo e tutte le lacrime del mondo bagnano le tue stanche strade di templi, segreti e porticati, glissando dalla carità della luna. Ed io così ti vidi, una notte, zingara nella tua armatura oscura a scuotere le ali appesantite dal giorno, a penzoloni dai magnifici palazzi arresi; e piovere da lì il nettare scarlatto di tutte le solitudini del mondo.
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Sutura d’argento
La ferita sul cuore sembra una bocca. Vi respira Assenza. Sutura d'argento, sul suo dolore, è il canto di madre nel canneto del cuore.
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Al museo delle anime purganti
Nota: l'ironia della poesia è stata dettata dall'atmosfera di quel giorno in cui andai a visitare la chiesa del Sacro Cuore del Suffragio, a Roma. C'era un prete straniero, che era stato spostato da poco lì. Io mi ero dilungata in una conversazione sullo sciamanesimo e sulle 'anime in transito', concetto che mi sembrava molto affine a quello del 'purgatorio', ma il prete non era molto informato, per cui procedetti, un pò delusa, nella mia visita in sacrestia. Per chi ama la Roma esoterica, questo è un altro posto 'inedito' da visitare... Al museo delle anime purganti Nella chiesa delle anime purganti c’è un prete pio dalle mani di carta, il volto stanco, il corpo curvo, tra i marmi ingombranti e gli ori pesanti. Con aria un po' mesta mi porta in sagrestia a contemplar le resta delle anime supplicati, conservate in teche come impronte. E quando il passo ho fermato quelle mi han spifferato che, nell’intervallo delle messe il prete si spoglia del suo talare e con loro, si mette a ballare.
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La fontana del Tritone
Nota: il Tritone, uno dei simboli più belli di Roma, magistralmente 'portato in essere' dal Bernini. Sono rimasta tanto tempo, incantata, sotto la fontana, accanto a un simpatico venditore di rose. Dalla buccina dello splendente e bellissimo dio marino, le acque esondano. E rappresentano l'abbondanza, la forza generativa dell'eros che, quando più scorre, dona, tanto più straripa, accrescendo il vigore...
La fontana del Tritone Un tempo le tue carni mi parvero oro e sangue, le tue acque come i tramonti fiammeggianti sul fiume, sazio di vita. Allora i freddi delle mie pallide malinconie erano ignoti ai tuoi nervi, tesi in uno spasmo d’assoluto. Roma era una vergine fremente e la sua luce di velluto sposava il tuo vigore in un orgasmo infinito così che il traffico in piazza Barberini sembrava una giostra e noi danzatori del sacro, in bilico sulla ruggente eternità. Oh! Avessi potuto estrarti dalla fontana come una gemma lucente! Avrei medicato la crepa del cuore, di chiarore furente, la stessa che ancora m’incendia e fa roteare gabbiani e gente attorno alle tue acque e a questa città che non muore mai.
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La Cripta dei Cappuccini
A Roma, in via Veneto, a pochi passi dalla fontana del Tritone e Piazza Barberini, c'è la Cripta dei Cappuccini, un luogo che ha impressionato persino il marchese De Sade e che ha ispirato romanzieri. Si tratta di una costruzione risalente al 600 e annessa al Convento dei Cappuccini e alla sovrastante chiesa di Santa Maria della Concezione. All'ingresso, vengo accolta da una zingara che siede sui gradini della chiesa. Poi, mi trovo 'catapultata' o meglio 'risucchiata' negli inferi, come Proserpina. Non c'è tempo per capire: le ossa sono ovunque: ossa del bacino, teschi, femori, scheletri in altrettante nicchie di ossa formano un macabro arredo di porticati, lampadari, oggetti tutti realizzati con ossa. Mi sento come Peseo che deve affrontare Mudusa senza lo scudo di Atena e improvvisamente, sento che ho cambiato mito. "C'è un senso a tutto questo" penso. "E non è certo suscitare il pensiero della morte in vista delle indulgenze, come vorrebbe certa retorica religiosa", continuo a pensare. Cerco di fare qualche foto, ma una voce in fondo al macabro corridoio mi ammonisce: le foto sono vietate. Questa, viva. Sono in un film? mi chiedo, sentendo di aver perso la sensibilità. Quando esco è già ora di pranzo, ma mi è rimasta un'angoscia addosso che, dentro, non avvertivo. Tutti i morti conosciuti sfilano nella mia memoria. E non si tratta solo di gente che ha lasciato questo piano d'esistenza. Finalmente avverto con assoluta chiarezza quanto, dimenticando la morte, si diventi necrofili. Quella cripta non serviva come monito per acquistare la vita eterna, ma per acquistare QUESTA VITA. e il passaggio dalla 'morte in vita' alla vita senza morte è la CONTEMPLAZIONE STESSA, quotidiana, della morte. Un conto è saperlo. Un altro farne esperienza. Consiglio vivamente di visitare questo luogo misterioso. tra sogni alla penicillina di rigurgito nel macabro mitreo Ma sfilano ossa, a dispetto, in questa ferma danza macabra dove i frati, col cilicio, ancor fanno sberleffi alla vita o ogni osso ha il suo nome.
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L’uomo di strada
Con me ho un piccolo zaino, che porto sempre addosso per non farmelo fregare dentro c'è una coperta e più in fondo, la mia testa con la faccia dipinta che indosso quando devo attraversare.
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Ci rivedremo
Ci rivedremo, dopo, quando saranno fiorite le ombre e leggero sarà il passo della farfalla. Ci rivedremo quando la spiga fiorirà tramonti e il pianto sarà divenuto torrente. Ci rivedremo, oltre i graffi delle rotaie che sfilano preghiere al cielo quando divelte saranno le fondamenta del regno di Moloch e ci muoveremo come graziosi uccelli nell’aria, sì, nell’aria; senza più paura.
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Girovaga
Girovago tra queste strade, tra questa polvere eccelsa. Ho lasciato mani, labbra, volti nel calore freddo dell’occhio del paese. Ho lasciato me, per ardere di pura vacuità.
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L’amore rimase nudo
La purezza si ruppe nel lago, in mille loti; ogni petalo tagliente, ogni petalo un graffio. L’amore rimase nudo come un’ostia sospesa, dopo che gli angeli scoccarono le ultime frecce di vanità. Ed io mi decomposi, con loro; braccia, testa, ali e come falena andai a dirlo ai venti; là, sui campanili.
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Un giorno a Roma
La città era bella; sulle cupole fiorivano zagare portate dal vento di un suono di pianoforte vibrante in una villa eccelsa… Turisti. Sparpagliati come foto di famiglia nelle mani di un bambino e la pietra, dura di memoria, morbida di evanescenze come le statue nelle fontane. Le Naiadi nella sfuggente notte dei misteri; odori di spezie e kebabberie dietro le svolte dei vicoli ignari. Così glissa la vertigine, appena incastrandosi nell’apparente nudità del basolato.
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Guerra
Cristi sospesi sull’orlo dell’abisso e studiati congegni per far esplodere cervelli. Orfani vagano come fantasmi mentre il grigionero dei carri armati vomita amnesie. Dietro ogni sparo i nostri spari delle coscienze otturate dagli amen e dai sissignore. E dicono, i morti, le ombre; quelle che furono quelle che fummo, tacendo.
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A volte, la luce
La luce è quasi triste. Ora, per esempio, disegna le tue ciglia all’insù; una vecchia assuefazione. Ha il volto sporco di cioccolato di un bambino ridente di stupida innocenza; a volte, a volte, a volte… Oppure s’allunga sulle mani, le mani che diventano lunghe, infinite, che vorrebbero portarsi il mondo alla bocca.
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Innocenza
Fu passo di danza la tua purezza. Fuori, le carte accartociate del pane, il mare a battere su scale grigie dove i sogni vestivano l'evanescenza del fuoco, nel crogiuolo dei cieli. E poi dentro tu coi tuoi occhi scuri da cerbiatta smarrita, in attesa della scatola delle caramelle. Non dicevi niente ma fluttuavi sull'accordo, aperta come i fiori surreali. Dicono che ti chiamavi Innocenza, poi nessuno seppe più di te.
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Sei stata
Sei stata focaccia di farro per Giove Capitolino, o liscivia sotto cenere cava.
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Restò un fiore
Mi scacciarono dal tempio, mi misero a tacere, legandomi con catene. Spirò poi l’alba sulle mie carni uccise - ed erano le carni degli alberi, le vene dei fiumi, il respiro dei venti sulle vette, il cuore dei villaggi. Ma restò un fiore e fu da quel seme del mio amore, che germinò il nuovo sole.
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I cieli di Roma
I cieli di Roma s’impregnano di sogni di Naiadi volanti tra dei e spiriti erranti su balconi fioriti e nei caffè. Parlano tutte le lingue, tramutano il pianto in storie, leggere come i gabbiani a picco dai palazzi, scaldati dalle ere. Sì, perché i cieli di Roma hanno promesse scritte tra nuvole che cullano nel loro latino Parnaso, tutti i Parnaso a venire…
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Il Nuovo Giorno
I fili spinati sembra non finiscano mai. Ancora duri gli inverni, tra nevi sporcate dal sangue. Il sole si sveglia con brividi; uomo contro uomo, ancora, ancora l’età del ferro schianta le coscienze. Sotto cieli a brandelli di memorie ancor fumanti di uomini ammazzati già si prepara l’ennesimo eccidio, in giaccacravatta vestito e ragion di stato! E tuttavia da albe illuminate sorgono sorgenti che lavano il passo; su divergenti davanzali nuove ossa cantano, fiorendo il nuovo Giorno dell’Uomo Nuovo.
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Al mare
Quando sto con te cosa può servirmi ancora? Azzurro canto di gioia, musica dolce e trasparenza d'estati riflesse! Quale desiderio non puoi esaudire, madre azzurra e prospera di pesci e dell'immensa vita che il cielo celebra affacciato al tuo splendore? Perchè quando sto con te sono azzurra e immensa, remota e divina come una conchiglia infinita.
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Torna la rondine a primavera.
Un tratto non taglia il cerchio. Nessuna mano può sradicare un fiore o oltraggiare il filo d'erba. E anche se la carne macellata geme su un filo di dimenticanze, nessun silenzio può bucarti. Si torna, come le rondini a primavera e che passino dieci o mille primavere è indifferente. Incessante il fabbro tornisce e soffia, di Efesto, la fucina; torna, torna, prima o poi, la rondine a primavera.
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Questa sera
Questa sera il cielo avvolgeva le strade come una petola nera. Sentore di passi radi cadeva come moneta arrugginita. Stanche case se ne stavano ammucchiate come girasoli sfioriti. Pure lo stanco sorriso dell’oste era una musica triste, appena spolverata dai setacci, appesi agli spiriti della pietra. Mai, come in questa sera, ho desiderato di essere un immenso giardino per rapire dalle spire avvolgenti della notte una fragranza di eternità o forse solo di felicità.
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Dal fuoco
Pazza, avanzai lungo le eretiche sponde della viva fiamma. Tra l’aria di piatto azzurro gravida di pianto imminente, non ascoltai il ramo appena smosso da un refolo di vento. Inscenai la danza a due passi dall’arena bruciando, lenta, la mia vecchia canzone; nel crepitio dolente, odore di ferraglia e di segatura. Ma improvviso tornò il pianto; il cielo di pialla più duro del tuo cuore di piombo. Tornarono i corvi, le croci, la tomba. Ma pure io tornai; da varchi inaspettati risorsi dal fuoco vestita di nuovo fulgore.
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A null’altro anelai
Fu questa strana euforia, questo avvertire, trasparente, il tragitto dell’acqua entro la foglia di velluto a proteggermi dal piombo delle idee sensate, dalle valvole delle abitudini, dalle scorciatoie dei santi pensieri, aperti su un baratro di nulla. Fu Prometeo in persona, travestito da folletto, a donarmi il fuoco. E da allora, rifiutai di capire e spingendomi in alto più in alto, più su, a null’altro anelai che a fiorire.
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A un passo
Luce, da una finestra. Un uomo passeggia nella sua casa. Ha in mano chiavi di sole. L'inverno ha traghettato bastioni, smosso opache caligini. Ora, nel lago, s'aggirano pesci inquieti d'ombre diseredate. L'uomo è a un passo dal suo ultimo inverno. Dall'ultima gelatura.
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Cade il dio denaro
sembrava la fine del mondo. Incassare e in fretta, virare incassare e in fretta virare... imprevisto, abbandona chi, gli ha consacrato l'anima.
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Sammasati
E' tempo, scrolliamoci il sapere, vuotiamo le bisacce. E' tempo di renderci puri come oboi. Sammasati, ricorda chi sei. Ricorda che sei il grido la freccia l'arciere Sammasati, ricorda il patto che ti legò a Shiva e tu sciogliti, danzando, diventa nettare per la terra che prega con le sue radici riverse sui fiumi inquinati, le cime saccheggiate, i cieli scheggiati... Sammasati, non servono corazze, solo il riverbero scntillante che brilla sul tuo capo. Sammasati, tu puoi risvegliare illuminare risvegliarti illuminarti tu già sei; Sammasati, ricordati che sei un risvegliato.
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Stamattina
Stamattina ero tutta uno scrichiolio di dolore; i passi piccoli, come quelli dei vecchi; lamine di ferro nelle scapole, nel cuore. Il soldatino di piombo rigido nelle mie carni a sfregare sull’osso, il paesaggio inutile come una cartolina sbiadita. Ma ho camminato, stretta nell’abbraccio di gennaio coi suoi contorti rami secchi. “Uccidimi” ho detto al dolore, prendendolo su me, sentendo che era me. Ma lui, inaspattatamente, dopo tanti passi, ha fatto fiorire il sole,sulle resilienti rose, affacciate al mio dolore.
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Fuori la luce è mite
Fuori la luce è mite, come un anelito accarezza l'ultima ora del sole. Si spande clemente sulle cime spogliate da refoli d'inverno, Avanza, lieve come preghiera e accarezza la terra turbata. E nell'ultimo tempo, donando colore si concede a monti di nuvole indaco e cenere inspiaggiandosi, lenta, su altre dune lunari
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Il nuovo mondo
Stai finendo, vecchio mondo, coi tuoi turiboli e le vecchie insegne dorate sui portoni. Sei finito con le tu carrozze di velleità, i tuoi stemmi, quei fottuti rostri benedetti dalla ragion di stato. Mani nere, screpolate di gelo, gridano al vento litanie gitane, occhi a mandorla, pelli di curcuma e zafferano spodestano divani di velluto di vecchie nobildonne scorreggione. Nel cielo roteano sciami di polvere sopra rotti registri di albi professionali e titoli decaduti, disciolti come neve al sole. Si organizza un sabba tra l'ulivo la quercia e il fico, anche se non c'è alcun diavolo e son finiti anche quelli che lo hanno inventato, coi loro personali inferni. Perciò venite, venite gente nuova illuminata come l'acqua e il sole come l'allodola il pesco la marmotta, Venite, venite il mondo che attendevate è già qui sulle macerie del vecchio, che già non è più.
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Preghiera al fiume, contemplando il Tevere
Fiume, dove conduci? Specchio d'argenteo chiarore e d'acque illuminate
Fiume che sei canto con la poesia che sorge dalla musica del tuo andare A te affido i cigni dei miei pensieri più puri i detriti dei sogni spezzati, la musica incastrata nella pietra... Tu, ti prego, che sei puro nel tuo scorrere, portali con te alla tua foce, sì, là fino al mare...
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Giovannino
Giovannino era un bel bambino; portava a spasso i suoi etti di carne secca con la severità di un chierichetto. Ma nessuno sapeva delle pentole di latte cagliato scaraventate da sua madre dalla finestra del terzo piano. E così Giovannino 'lu figghiu de la pazza' teneva la scena come un soldatino di piombo, con un cespuglio di fiamme nel cuore. E nessuno seppe niente, quando scoppiò, forse perchè si confuse coi fuochi d'artificio per il santo del paese.
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Questa sete
Ti morderei sul collo, assaltandoti nella notte, mio semplice amante, analfabeta come l’erba e la luce, con la tua verga eretta a ostensorio. Perchè fu un impatto di purezza assuefarmi al tuo mare con la sete che intossica, irredenta, di te… Questa sete che non mi lascia, che porta l’oro coi pesci, verso le mie sabbie lunari… Oh! Chi sei? Idolo o fantasma? Dimmi, perchè ho ancora sete di te, che non finisci mai.
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Questa sete
Ti morderei sul collo, assaltandoti nella notte, mio semplice amante, analfabeta come l’erba e la luce, con la tua verga eretta a ostensorio. Perchè fu un impatto di purezza assuefarmi al tuo mare con la sete che intossica, irredenta, di te… Questa sete che non mi lascia, che porta l’oro coi pesci, verso le mie sabbie lunari… Oh! Chi sei? Idolo o fantasma? Dimmi, perchè ho ancora sete di te, che non finisci mai.
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Il ruggito (ispirato a un recente fatto di cronaca)
Non sono fatta per stare in gabbia, per divertire in pista un pubblico coi popcorn. Ho assalito, morso, sono una tigre, e allora?!!! Il ruggito della Madre delle Tigri e delle Foreste era in me; ed è solo l'inizio della fine di questo morto tempo, nemico della selvatichezza. Per cui, anche se soccomberò, dall'altra parte della Grande Soglia ancora vivrò. E mi riprenderò il posto, gli sconfinati spazi sottratti tra questa fila di superflui che, ormai, Natura rigurgita. L'uomo potrebbe essere un accidente, ci avete mai pensato? Guardate coi miei occhi gialli e ardenti, credete ancora che l'uomo sia il centro dell'Universo? Quest'uomo minimo ripiegato nella sua stessa palude di consumi? Per questo tornerò, lo giuro, l'ho promesso alla Grande Madre a tutte le tigri, tornerò e il ruggito della Foresta libererò!
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Grazie
Questa non è una poesia, ma una preghiera. La dedico a tutti voi, coi quali ho camminato in questo tempo del mio percorso artistico e di crescita personale. A voi che mi avete dimostrato che esiste una piccola fetta di mondo che ancora sa donare il suo tempo e la sua creatività, senza calcolare se il tempo speso gli 'frutterà' o no. Grazie ai gestori del sito, a tutti i poeti di La recherche e in particolare, grazie a Silvia, Vincenzo, Salvatore, Caterina, Elisa, Angelo. Vi auguro un nuovo anno di fioritura, col cuore. Grazie, per il suolo che tocco ogni mattina, per gli occhi del mio cane che mi guarda con amore. Grazie per il freddo, le notti tetre; grazie a chi bussò e alla mia mano, che aprì. Grazie a chi mi diede amore e a chi, rifiutandomelo mi liberò. Grazie a chi volle, per me, questo sogno chiamato esistenza. Grazie al dolore, ombra della gioia e mistero della profondità. Grazie agli spiriti degli animali, degli alberi, di ogni specie vegetale, agli spiriti elementali e dei Maestri e a dei, avi, abitanti dell’invisibile, che mi tengono per mano nel cammino dell’Anima. Grazie agli arconti, perchè la resistenza all’evoluzione è radice della mia forza e spinta verso la Bellezza. Grazie, perchè immensamente posso amare tutto ciò e così procedere verso la liberazione a vantaggio di tutte le creature senzienti.
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Lazzaro
La luna, tra le nubi, fuma una febbre clandestina. Lazzaro torna dalla caverna murata; addosso ancora odore di segatura.
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Emozioni
Guaine, le emozioni, finchè resisti all'ombra. Non scorre una sedia a rotelle crepata.
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Fuori la notte
Un locale in pietra fuma una vaga aria natalizia. Fuori la notte s'attacca sul muro. Come una macchia. O un vuoto.
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Notte di Natale
Lunga, la notte; poi fui il legno a glissare Dalla stella.
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Il vecchio abete
Fuori c'è una donna, sul balcone di una casa popolare, smarrita in un Natale strano. Da tempo tiene le parole in un lido di cenere e le mani in grembo, come quando la luna bussò e la corolla era rosso sangue... Ma lei conosce i nomi dei rami dell'abete di fronte alla sua casa, con le luci, ora, sospese. E le tiene accese per lui, per quel vecchio testardo che non vuole morire.
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Tu non moristi
Tu non moristi; fermo era già il vagone. Là, piangevo i miei morti; l'erba già alta attorno ai sepolcri. Inutile, l'unguento profumato.
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Io ti cercavo
Io ti cercavo nel chiaro abbaglio della luna o nella notte, china sul mio arco. Ti cercavo nell’oro d’una fotografia d’argento o nel nastro che chiudeva il mio chignon, prima dell’ultimo arabesque. Ora sei l’urlo del vento nella foresta nera ove ti lasciai, un tempo, senza scampo ora sei questa pioggia antica e metropolitana che scende, scende, scende; senza un perché.
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Il fungo velenoso
Sono cresciuta su un fungo velenoso, umido, scivoloso; sotto, il fango coi mastini. La tristezza aveva morso di tenebra; implacabile, Ade mi teneva al laccio -il calderone sempre più nero di indicibili misfatti che, invano mio padre bruciò nella Geenna in fondo alla casa-. Lindi, i bicchieri; linda la lama della morale. Ma un peso m’inseguiva; ed io correvo, correvo, correvo col mio inguine sporco.
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Fino a lasciar cadere...
Spogliami, fino a lasciar cadere i sigilli alle rose
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Dall’alto, un falco
L’aria torbida ha ingoiato tutto; delle foreste non resta, quasi che una nenia bruciata. Dall’alto, un falco osserva lo stanco acquario e se la ride. I guerrieri fanno ormai le capriole sulle parole morte dei preti, mentre la morte corrode l’ultimo scoglio.
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Oro
Misi una corona sulla tua sabbia, ma tu mancasti l’atto di fede. Dissanguasti polvere, non bevesti, alla mia sorgente bianca. Ma è oro, ora, questa brillante malinconia, nato dalla polvere, tornato alla sua purezza.
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La bambina di neve
Oh bambina, nella neve ti eri perduta, sola coi tuoi mancati accordi, china in una lunga amnesia. Bambina, guance rosse ed occhi ardenti, presi in prestito Pegaso, baciai i serpenti di Medusa, per venirti a cercare… Ti ho ritrovata là, nella città d’oro azzurro, nella città che sognai per ritrovare te, mia dolce bambina di neve.
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La scatola di caramelle
Ora che le pareti sono dipinte ad affresco, percorro nuda, a grandi bracciate, la foresta… C’è ancora un nero gingillo che mi spia e sopravvive, duro come pietra; un’icona bruciata che lascia un soffio al cuore. Ma, poco fa, ho dato una scatola di caramelle giallo-arancio alla mia bambina triste e un fiore bianco che splende come uno scherno sulla sua veste a lutto, sulle più feroci piaghe dell’amore.
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Si ricuce il mare
Si ricuce il mare, segno per segno, oro su oro. Eppure la penna incide segni, nel cielo, con la coda di nuvole erranti; cola un pianto rosso sul cappello di un bambino, che va, lungo la riva, mentre cade dentro al sole.
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Il vuoto.
Non sono lo straniante, umiliante vuoto delle cattedrali, ma vuoto divino che imprime nel silenzio la sua canzone d'amore.
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Psiche e l’unguento di Persefone
Freddo era l’abisso, ma laggiù dovevo andare, se Amore volevo ritrovare. Disperai e mi dissi arresa, ma un lupo venne al mio fianco e mi accompagnò laggiù, dov’era rotto il pianto. Ma, giunta là, che orrore! Villaggio dei perduti, così si spezzò il cuore, tra vecchie streghe a cuocer budella e una macabra processione. E poi l’oro, pestato, ignorato tra panni rosso sangue. E ancora bimbi, speduti tra gelide grotte e fuochi vani che non scaldano il cuore… Così di fuggire desiderai dalle infere caverne, ‘che tanto era il dolore, ma poi un carillon sentii suonare e levato il volto, un passero vidi e il volto di Amore splendente in un alto sole. Così, benedicendo andai, oltre la fredda folla delle ombre; lasciando un seme di carità, tenendo stretta l’ampolla senza voltarmi mai.
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Ti meriti
Ti meriti un amore che può guardarti tutto il giorno, senza mai dire che è stanco, che riesca a tenerti con ogni vento, con ogni luna, senza mollarti mai; che ti dica ‘sei perfetta’ con le tue calze bucate e le unghie morsicate. Ti meriti mattine intere seduta ad un caffè, mentre il mondo ti sfila innanzi e tu lo guardi con innocente stupore o lo dipingi col tuo colore. Ti meriti di danzare nella pioggia nuda, se ti va, di ridere per niente, a crepapelle… Ti meriti di lasciar andare chi non ti vuole ascoltare, chi ti fa stare male, ti meriti compagni liberi che sappiano volare e non ti lascino cadere… Ti meriti di contraddirti, di essere fragile, confusa, di andare in tuta nel ristorante migliore perché quel giorno hai deciso che così ti va e con nessuno ti devi giustificare… Ti meriti i vestiti migliori, le cose più sacre, le idee più vere… Ti meriti di guadagnare, gioire, creare, ringraziare, di plasmare con le tue mani il tuo più alto valore, riflesso nella luce che sei, che splende nelle tenebre di chi odia il mondo ma non non ha mai fatto niente per poterlo cambiare…
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Il tuo corpo
Il tuo corpo è puro come neve d’agosto ed io lo bevo d’un fiato come vuotassi il calice della mia agonia. Il tuo corpo è fiume di frecce e ogni freccia una spada che mi trafigge, nel cuore del silenzio. Perché questo corpo sei tu, eucarestia senza omelia, che basta.
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La mosca
Ti scaccio, ma resisti; plani sul palmo, dove prima c’era un chiodo e poi sui libri e i loro tarli, in fila nei funerali delle idee… Riparti in picchiata, non ti arrendi e sei sulla stampante sui biglietti ancora intatti di un viaggio che non feci, di neve, nell’affondo in una cioccolata blu Danubio… Mi alzo e mi sembri assai più reale dell’irreale; con le zampette tergi gli acari da quel ritratto interrotto, con le conchiglie rosa carne appena abbozzate, incollate su un collage bucato… Ormai sei mia, ferma sul nodo di legno della mia scrivania e mangi le lettere della tastiera con torva avidità. Ecco, ti ho catturato, cara mosca inopportuna e roditrice! E tuttavia poi ci ripenso, apro la mano; Ti lascio stare. In fondo c’è una coppa vuota ed io, ora, devo andare…
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Il canto di Estia
Nel tuo ventre stetti male, padre Crono; nera palude di spavento, abitata da belve immonde! Ogni tocco un’offesa ogni tocco una ferita. Cercai di uccidere le belve, per te; soffocando i pianti d’abbandono. Disperata, uccisi i serpenti acquattati nel fango dei tuoi visceri, ribollenti di disprezzo. Non mi amavi. Tardi sciolsi l’illusione, accecata nella tua stessa tenebra. Mi vomitasti, coi miei fratelli e le mie sorelle, assieme al tuo veleno. Solo il dolore infinito fu la tua eredità; la tristezza senza redenzione, come una macchia sul mio candore. E ora che son fuori, dal tuo ventre avaro che fu la mia prigione, porto con me il fuoco con cui illuminai la tua oscurità cadente. Non scapperò. Non chiuderò le porte con nessuna chiave, come hai fatto tu. Starò al centro, per sempre fedele custode di quel fuoco che non conosci, che unisce ogni mondo, ogni cuore, chiamato Amore.
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L’elfo
Cade, la goccia su un lamento di plastica, che veste questo sabato stanco. L’abete s’inverna sullo stanco cielo; è un esule, il faro smarrito nel vasto, inutile azzurro. Ma c’è una bimba dipinta sulla tazza del caffè; e mi sorride col suo berretto da elfo.
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Mi sono persa
Mi sono persa, in qualche giorno, in qualche strada, in qualche nome fragile come i ponti crollati, senza progetto. Mi sono persa in un silenzio di gomma, sorvegliato da una stella opaca, in un ritornello ripetuto al vento, senza emozione. E poi in un muro di specchi, senza sapere il tassello mancante di una storia troppo stupida o forse solo troppo vera. E infine, mi sono persa perché era lì che volevo arrivare; a imparare a perdermi in due occhi, fino a naufragare…
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A casa non c’eri
A casa non c’eri; nel barattolo della frutta secca, nella posta lasciata sul tavolo, non c’eri. I calici a testa in giù, sul lavandino, le briciole già raccolte, la bottiglia di vino, inerme come un soldato in congedo. Il silenzio venne in ciabatte e assalì; senza rumore tranne quello del vuoto assordante. Dalle finestre chiuse. Perché tu non c’eri, ed io sono una zingara che ti cerca nel vento.
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Andromeda
Sono diventata una schiava, io, Andromeda, figlia di sovrani! Sono verde come l’alga che mi tiene, nuda, spaccata dall’arsura… Dove sono gli eserciti? Dove sono gli avi? Dove sono gli eroi? Sanguino come l’alba violata e rosso è anche il mare! Ma il corallo sa, che feci coi miei capelli, sì, il corallo sa! Moriranno gli dei, ma io no! Anche se qui crocifissa io resterò, non perirò… Sangue che graffia e incide lo scoglio, pane del mare, che volle bere di me, senza fine…
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Assalto
Non essere gentile; raggiungi, se puoi, questa leonessa, tra i monti fino ad affondare i denti nella fiamma feroce che dalla mia criniera, sale. E lì, nella presa, lascia esplodere l’urlo, fino a far rivoltare, come un verme, questa grande inversione chiamata civiltà. E’ tempo del ritorno delle terribili fiere; guarda la tigre che spia dall’altura avanzando, affamata, dal deserto! Già affonda gli artigli nella foresta nera che rimase, intatta, nel seme delle nostre inconcepite e divine voluttà! Oh no, amore, nessun diavolo ti prenderà l’anima, semmai si tramuterà in angelo nella tormenta fusiosa dei sensi tesi fino allo spasmo! Perciò, vieni, ruggendo nell’assalto, finchè suonerà l’ultimo amen e salterà l’arrugginita campana finchè scriverai coi fiori, scoppiati dal ventre di questa follia, il nostro nome nell’acqua.
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Tu non mi fai perdere tempo
Tu non mi fai perdere tempo; vieni, siedi accanto a me, accanto al mio focolare… C’è ancora tanta legna, castagne e del buon vino oh no! Tu non mi fai perdere tempo… Guarda il cielo dalla finestra: blu notte, blu cielo… Ascolta la pioggia sottile che sentivi da bambino, con quella magia che solo tu avevi, in cui il mondo non credeva…. Ascolta… Mentre ricordi le tue canzoni, o il suono delle tue risate sulla strada; quella musica è qui, per noi, e la teniamo in pugno, in una mano… Perciò tu, tu non mi fai perdere tempo, perché non esiste il tempo, esistiamo solo noi, che ci guardiamo, che ricordiamo… Quello che eravamo, prima che inventassero il tempo, prima che ci rubassero le fiabe.
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Un uomo giusto
Pensavi tutto sarebbe arrivato, uomo giusto del nostro tempo; il salumiere metteva arsenico nel prosciutto locale mentre tu gli dicevi: “tre euro in fette sottili, così vuole la signora”. Oh uomo delle ferie d’agosto decise a tavolino da uomini dalle dita pulite, credevi fosse cosa buona e giusta un giaciglio, una razione i soldi della pensione con la santa benedizione! Così, dicevi, fanno gli uomini giusti così fanno i figli dei padri. Ma poi satana venne per un pezzo di cuore, il televisore smise di trasmettere omelie in differita e il prete scappò, così dicono, con la cassetta delle offerte in cui aveva chiuso il dio lontano. Così a te, uomo giusto, non restò niente, tranne che l’ingombro delle tue troppe virtù.
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Una musica triste tra le stelle
Si era già fatta sera e tu portavi a casa il tuo sacchetto di ossa morte, senza memoria né gloria. Il cielo si fece cupo dalle tre di pomeriggio, il tuo sepolcro si chiamava famiglia o casa o moglie e lei non era nemmeno la gallina dalle uova d’oro. Mi lasciasti con la luna scucita a mettere insieme le toppe… Ehi, lo so, stavi soltanto proteggendoti! Ed io ti odiai, ti odiai a tal punto che dissi a Medea di riportarmi, dall’Ade, i miei figli: Ma uno non c’era; era là, sulla luna, a suonare una canzone; una musica triste tra le stelle, sì, una musica triste tra le stelle.
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Danae
Mio padre mi chiuse in una torre e a guardia, vi pose leoni ruggenti, come il suo cuore, avido di potere. Piansi mille notti e mille giorni, piansi tutto il mio pianto… Ma fu lì, nella luce cupa che s’addensò l’orma di un dio, come pioggia d’oro nata dal grido. E già vidi Medusa e Andromeda e me; nell’acqua chiara vidi il giglio chiamato Perseo, fiore bianco del mio dolore nato nella prigione della mia frustrazione.
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Sanguino
Sanguino sui muri di pietra, nel silenzio dei relitti; là una vecchia chiama, sussurrandomi segreti… Sanguino questo sangue rosso ciliegio rosso scarlatto in memoria del sangue dei vinti, delle foreste abbattute degli animali squartati e venduti, dei figli ammazzati. Sanguino questa melodia che nessuno sente; che è la mia nostalgia, la mia poesia e la mia oscura alchimia. Sanguino per un mondo rapace, che non sa sanguinare, restituire, ma solo usare, sporcare, violare. E sanguinando anche per chi non sa sanguinare redimo il mondo in un bagno rosso, d’amore.
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Nudo da Fino a quando, dal marmo, fiorimmo
Nudo, sei bianco come polpa di mela che addento fino alla ferita del cuore. Nudo sei liscio come pietra levigata che non cede alle mie mani frementi e tuttavia lascia un sapore aspro di salsedine sulla mia lingua che ti percorre. Nudo sei una valle incantata ed io l'antico fachiro che sveglia, col serpente, i guardiani dei tuoi sensi che vanno verso le mie acque. Nudo sei la mia pesca miracolosa che agita, nelle mie acque magma e cenere e acqua e fuoco, mentre esplodono i sensi, tra luce e terrore. Ma, nudo sei il mio stesso corpo, vuoto e pieno e sei il canto dell'anima che, da questo abisso, vagisce... Questo abisso che devo attraversare; senza sapere niente.
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Non so
Se mi capita di pensarti subito dico: è uno stupido vecchio, un mercenario della più squallida vacuità. Eppure, com’è che tu aprivi i pori nella pelle, sovvertendo i visceri, in anarchia fino al puro, denso fuoco che, dalla schiena, risaliva fino all’affondo nella più esaltante follia? Non so. Come non so com’è che la bellezza mi opprimeva riflessa nell’ombra torbida dei tuoi occhi di cristallo tagliente e verginale il mio cuore fremeva tra le tue dighe scassate, i pesci morti tra i rottami di una stupida vita. Non so. E’ che qualcuna, l’altra me, è rimasta lì ad aspettarti. Come una sposa.
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Io mi contraddico
Io mi contraddico: dico A e faccio B (spesso fa lo stesso). Mischio i fogli. Piango sopra le righe. Non so niente e lo so. Prendo lezioni dal banco dell’attimo. Bevo la morte nel vino della vita. Imprendibile come il vento, l’onda, che vola come la vita.
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Ritornerà il fiume
(Ho conosciuto eccezioni, anime sensibili e sincere tra costoro di cui parlo. Tra queste eccezioni qualcuno voleva 'tornare indietro'. Non so se l'ha fatto. Ma erano solo 'eccezioni') Avete il ventre gonfio, menti astute come i vecchi scorpioni che vi divorano, nelle straziate notti, a respirare il vuoto e lo stantio nelle vostre anguste stanze. Sotto strati di paramenti incensati nascondete la peste e grottesca è la parola carità sulla vostra bocca spalancata come una fossa di serpenti. Strappate le anime a brandelli, le scucite, confondete, per darle in olocausto al potere, retto dai vostri bassi appetiti e dalle sete di potere. Voi, anime codarde e basse, che temete il vento fresco il ronzio dell’ape, la danza delle foglie nell’aria più pura! La pestilenza che voi dite venire dal dio lontano in cui voi stessi non credete è nella durezza opaca dei vostri stessi cuori, chiusi come sagrestie. Ma ora è il tempo in cui il dolore del mondo spezza le ruggini delle nostre catene e le false fondamenta costruire sugli acquitrini delle vostre parole perverse. Verrà la nuvola a aprire cieli nuovi, pulirà la pietra imbrattata e da essa fiorirà l’albero. Tornerà il fiume.
*
La rosa tradita
Non c’è solo il dolore, mia piccola rosa tradita che sfiori la ringhiera nella tristezza di ruggine di inizio novembre. Non c’è solo dolore in questo vento sazio di malinconie, tra queste foglie cadute, dimenticate; fu la pietà dell’acqua che chiuse i tuoi petali, per proteggerti dal livore. Perché non c’era solo dolore nei giorni vuoti di sole, rotti come inutili mattoni; da lì, una stella sbucava per te, solo per te, per la mia piccola rosa tradita.
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Sono stata in silenzio
Sono stata in silenzio quando troppo c’era da dire e l’anima si spegneva, come una candela, nella polvere della saggezza e della morale. Sono stata in silenzio col sogno sospeso di un grande amore, mentre non osavo dire alle strade il mio nome. Sono stata in silenzio in conventi, orfana in un giardino ghiaccio che sanguinava i bocci a primavera. E ancora, tra i venditori di rumore i banditori del sapere con le loro ciotole di caos, le ostie marcite, ammuffite nottetempo nell’interminata notte della civiltà. Sono stata in silenzio, non so dire dove, come, quando… Forse ero il vetro rigato di pioggia che ripeteva al vento la sua inutile melodia.
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Promessa
Vestimi di te, delle tue ciglia, tra i bagliori del giorno, le farfalle di seta dei tuoi pensieri più puri, Vestimi dei tuoi baci come un altare e lava con la tua lingua il cuore che ringhia il tuo nome, senza temere gli occhi ciechi di menti marce. Perché fu Promessa, quest’amore che incarnò sostanza nel portico del mio stare e il vento la portò all’acqua, alla fonte insaziata di questa sete, che non può morire mai.
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Ecate
Il mio cuore è una grande piazza, in cui la notte scava una tomba; s’odono, rade, voci lontane e invano i lampioni confortano la pietra. Qui il mio cuore perde il canto tra marce stanche di passanti e di mercanti e la mia solitudine ha il passo breve dell’estate che lascia le vesti leggere. Però, a volte, crepita un fuoco strano che fa turbinare le foglie sparse: è Ecate, mia eletta madre! Lontana dalle luci, m’addita nuovi varchi…
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Eredità di gioia
Gli alberi, oggi, lasciano una strana scia; accanto ai portici gocciola una bouganville in pieno splendore, ancora, in questo testardo autunno, lavato dalla pioggia. Mi sopravvissi in quest’assenza millenaria, dura come la pietra che rompe, col sangue, gli specchi e tuttavia è vita questa trasparenza d’acqua, questa sottile impermanenza che scioglie i tuoi occhi sul vestito e non resta che danzare, su quello che resta e non resta di te, di me… In questa domenica di pioggia raccogliere con le dita l’eredità di gioia che mi lasciasti e morire di nuovo, ancora, e poi ancora….
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Uno scorrere lento, equanime
In questa stanca sera, la solitudine stringe come uno stretto vestito, mentre un’estranea finestra getta una luce d’alluminio sulle strade. Si può morire così, in un’opaca sera, nella musica della fontana di piazza o nelle parole, sottili sparpagliate come i lego nel sonno della pietra. E’ penso che la morte sia così; uno scorrere, lento, equanime oltre l’abbaglio della vita.
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Volevo essere
Volevo essere ordinaria come un tronco o l’aria azzurra, con te che siedi su una corolla d’alba, portando la mia cesta, colma d’amore. O stando su spiagge deserte, seppellire la mente che invano spegne i venti delle malinconie, perché tu non ci sei e hai il filo rosso che ti diedi. Volevo essere nuvola, per planare nei silenzi assoluti, priva di ogni congettura di ogni ‘come’, di ogni ‘perché’.
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Follia
Io ero matta, matta da morire, matta d’amore. Per questo, puntandomi dicesti: scelgo te. Fu un tiro al poligono, poi t’avventasti come un corvo avido, senza nemmono accorgerti dei lividi. Io planai verso te, naufragando in orbita; la mia carne rabberciata scendeva dalla tela di una luna bucata. Amami, amami, amami, ti dicevo Amami, amami, amami, mi pregavi e intanto colpivi a morte, succhiando dai rattoppi anima in agrodolce. Nessuna avrebbe amato te, poco più di un avanzo di galera e tuttavia certe volte scendeva un seme buono dal nero della tua codardia, un rimasuglio di pianto nascosto in un presepe impolverato. Ed io ti amai per questo, perchè scambiai l’amore con la croce; ma qualcuno era già morto e la croce solo follia.
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Solo il chiodo
Tu non eri giovane, nè vecchio; tu eri il fuoco, il suo ramo, il tronco e la resina ambigua. Ed io esplosi in te come cratere aperto dalla bocca della luna, ebbra di felicità, ebbra della follia dai mille specchi. Tu eri ogni luna ogni astro ogni sole ed io l'intervallo... Solo il chiodo ti teneva crocefisso, a esalare la ruggine dei tuoi morti mentre io andavo via.
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Lasciatemi qui
Lasciatemi qui, tra gli alberi, tra questi fiori così fragili così belli e l’aquila che solca il cielo e non è mai stanca… Lasciatemi qui, fuori dai commerci delle vostre sante intenzioni; lasciatemi rotolare sulla soffice terra che m’impregna del suo sacro stare o nelle vie infinite, tra i tronchi vegliardi e la preghiera liquida dell’onda turchese che mi cura e mi culla, nel profondo, là con la tenerezza che voi non conoscete. Lasciatemi dondolare nel sole, penetrando il suo oro con un’ardente preghiera nel cuore e un grido di giubilo mentre una campana risuona, tra gli ulivi , le case bianche e le pergole un po' tristi… Lasciatemi, perché è qui che morirò e rinascerò, nuova, rifatta dalla carità del vento, che sa quando soffiare e riportarmi tutta quella vita che non ho mai vissuto perché era la vostra vita, ingabbiata, prudente e non la mia e non la mia. Per questo, ora lasciatemi; lasciatemi lasciatemi qui…
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Ti amai oltre ogni misura
Ti amai oltre ogni misura - esiste, in amore, misura?- e versai boccali di vino sulla mensa imbandita di me e di te, pensavo… Il tuo corpo era un carillon disperato ma lo stesso il mio giradischi isuonava, dalle ruggini delle mie sere, sospese su terribili profondità… Tu eri l’accordo, inaccettabile e segreto E se ti amai oltre ogni misura fu per quel vincolo tremendo che unì la luna scarlatta alla sua foce antica e fu il mio tabernacolo e la mia croce.
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L’orchidea dimenticata
Stamattina, al mercato ho acquistato un’orchidea mezza secca, giaceva lì, dimenticata tra le belle sgargianti screziate e color luna. Ma vividi i pochi petali rimasti hanno emanato un canto color ciclamino e l’osso non ha resistito. Nessuno conosce la sua storia, soffocata dalle brame e dalla mercanzia, per questo l’orchidea era bella, vergine come le cose inutili e dimenticate; la sua tristezza era il suo canto e la sua segreta magia.
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La bambola
Mi sono presa il tuo ghiaccio, la tua immobilità, vivendo, per amore, nell'ombra del tuo stesso incantesimo. Mi sono vergognata di te, della tua stessa vergogna, ma tu non facevi niente. Hai lasciato la mia bambola al freddo, senza nemmeno intuire che quella bambola aveva un'anima. Perchè quella bambola ero io. Ed eri tu.
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Il desiderio di Parsifae
Oh Parsifae, sorella di una maga e figlia di un dio e dea a tua volta, cosa ti attrasse dell’armento? Minosse era un eunuco assetato di potere, sua madre cagliò il suo latte col suo stesso veleno. Ma tu eri già magia e la magia, in te, era sangue la magia era carne e tu la conservasti per la splendente fiera! E quando il toro bianco sfondò della giovenca il bel varco di legno, Minosse era un villaggio di carte già cadute… E cadde pure il trono e l’occhio quando vide del figlio dell’amore la furia della carne la sete, già, di sangue. (E florida esultò la messe pasciuta in tale, soddisfatto ventre…)
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Il mio amante è un dio
Il mio amante è un dio; febbri pure, i suoi orgasmi, che penetrano fino all’osso. I suoi orgasmi sono deliri, perché il mio dio mi vuole sempre e non mi lascia andare mai. Che sieda nei fiori o nel vento, alle soglie dell’alba o nella tenebra più fitta, su rive chete o scosse da tempeste, nel gelo o nelle torride estati egli è e mi vuole sempre e mi prende sempre perché siamo Uno io e il mio dio tutto e il niente più splendente che partorisce tutte le stelle.
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Estati interrotte
Fiammeggiano sulla rupe, ancora, resilienti papaveri - li scuote un forte vento-. Là vaga una vanessa solitaria, tra i pini a strapiombo. Fondo è il ghiaccio nel desolato monastero; tante lingue parlano voci d’estati interrotte. Oh se, con tutto questo freddo, potessi almeno coprirmi i piedi!
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Questa febbre
La parete rosa è un’utero di fronte a me; quasi una culla. Forse, prima, c’era uno specchio; prima che frantumasse e mi frantumasse. L’orologio gracida come una stanca rana sul mio corpo fermo, da manichino. Gli arti sembrano moschetti, il ventre è un urlo di dolore che sanguina, sanguina, sanguina… E tuttavia dalla finestra entrano memorie che appartengono al mondo; romantiche rotaie, Roma di notte, un vecchio film del dottor Zivago, la Russia e la neve… …è la febbre, lo so, la febbre… Questa febbre che mi brucia chiamata nostalgia.
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Il canto di Ginevra
Oh Lancillotto, io ero una foresta vergine, io ero una tavolozza di stelle. Artù era il mio pilastro, il mio sgabello dai cinque piedi. Io ero già altare, sacrificio e sacerdotessa, trina come la rondine quando, con l’ala, taglia il cielo. E tu che venivi a cercare? Cercavi il taglio sul monte di ghiaccio? Oh valoroso Lancillotto, tu, solo tu, sapevi… Proprio lì, sulla lacerata cruna stava appesa la scintillante luna!
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Ombre
Ombre m’assalgono, dal tubo del lavello; alcune sono streghe che suonano il tam-tam, le loro risa spaccano le orecchie! Altre volte le ombre cadono sul sofà come tele sdrucite; l’impatto è lacerante, veloce, il cuore pompa sangue rosso. Ma, quando le ombre sono buchi tu, come Alice, ci cadi dentro… E rotoli, rotoli, rotoli, rotoli………….. Senza mai arrivare.
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Stamattina c’era la pioggia
Stamattina c’era la pioggia, la pioggia, la pioggia, la pioggia! La pioggia mite, benedetta, la pioggia che entra nell’osso, giù, giù, giù… Le ho dato in pasto un po' di memoria come alle belve del Colosseo e lei scendeva, scendeva, scendeva… Fino a quando il mondo è diventato una tela bianca, con tutti i paesaggi e nessuno e qui ho visto zampettare una bambina nera, furente di malinconie. Ho detto: “Minosse, avanti! Fatti sotto, fratello!” e la mia spada era una spiga, era un papavero d’oro che non uccideva, non uccideva nessuno. Nemmeno te.
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Un giorno a Roma
Nello stupendo fragore di un teatro biancheggiante, le strade traboccano farneticanti inedie tra le cupole i palazzi che stringono Roma in una morsa di bellezza brutale e impietrita. Solitudini astrali boccheggiano, feroci, nei camerieri rapaci all’angolo dei ristoranti, o tra botteghe scoloranti in epiche memorie di fasti andati; La morte serpeggia in filigrane d’occhi nuotanti su derelitti volti e sembra che la somma dei cieli abissali porti una musica grave sulle baracche, tra i rifiuti. E che un altro cielo, oscuro, impiombato se la rida della grazia, della bellezza e degli eccessi di una città bella e invereconda che, come un Cristo mai morto e mai risorto sembra prendere, su sé, tutte le piaghe del mondo.
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Ritorno all’età dell’oro
Un solo istante e tutto crollerà; non senti la smania tra fondamenta divelte? Nessun fragore smuoverà le tombe - ‘che quelle son già passate’, solo una lanterna illuminerà la notte. Tremerà la rosa degli esodi, il ferro sarà colata d’oro rosso. Non vedi? Resterà il papavero. A cantare le odi. A divellere il tempo.
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Quel pensiero
Porto la mia spina con inclemenza, trafitta dal ricordo della rugiada che non conobbi. Già, prima del mio tempo, i soli falciavano la terra coi sudari dei braccianti. L’eccelso e l’imo mi braccavano, di luce riflessa tra mille, splendenti fuochi, e fu il pensiero, quel pensiero, che mi salvò dalla macina dei giorni a macerare destini stanchi all’ombra di invalidi santi.
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Penelope
Il mattino, questa mattina, era così bello, roseo come le carni di un bambino quando, dalla notte, sale aurora con le sue gambe di cigno. Ho detto: “Andiamo, andiamo!”. L’ho detto ai venti, al falco, alla rondine, al gabbiano e avevo le reti piene, piene di pesci guizzanti... Ogni pesce intessuto nella tela della notte ed io, Penelope, lasciai l’altra Penelope, lasciai Itaca, felice, senza nessuno da aspettare.
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La ferita
Tu eri una ferita avara che invano tentai di smacchiare col candeggio della poesia. Appena nata mi avvoltolai nel giorno strano come triste astro nella sabbia. Poi mi feci un carapace perché l’alba non dissanguasse. E ogni primavera deposi uova amare là, sulla sabbia rossa, senza saperne la sorte. Ma fu da quell’alveare decomposto, senza regina, che trassero il mio nome, a arpioni; come da un pozzo artesiano dove, di notte, arde una stella.
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Piena di grazia
Nacqui già piena di grazia, già sacramento; sulla fronte il segno. Poi da una gonna rude come un’uniforme cadde uno scheletro. Uno scheletro di donna portato in processione. Donna-tutta-luce Donna-tutta-bianca Donna-tutta-panna. Mio padre, san Giuseppe, pose un sigillo sulla mia gonna (aveva già perso molti pezzi nel calderone delle magiare, figlie dei Padri). Nella vasca per pesci del paese vedevo teste e interiora di donna, accanto a onischi vestiti da prete. Ancora l’Inquisizione. Io, scalza, spettinata, mezzo svestita. Rotta e ricomposta. Dannato germoglio d’Eva, sporca puttana. E tuttavia il segno non morì, con me, sul rogo. Rinacqui piena di grazia, benedetta da una rabbia benedetta la stessa che mi fa volare coi cigni là, sul lago, fino alla vetta… Sorella e figlia benedetta dagli dei.
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Notte nuova
La notte è nuova come un tuorlo. Tu sei il mio albume nero. La palpebra sul guanciale. La fame. La sete. Le marionette sono rotte; il sangue schizza... Fili recisi pendono, come liane Dal ventre della balena, disegnano una nuova notte su noi, beduini braccati, fuorilegge d’eternità.
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Saturno
Mi lasciasti con un nodo di febbre sul cuore, un buco di pellicola ustionata. A cesellare vuoti. A scolpire assenze. Il tempo si allungava come filo arrugginito sul lume pacchiano della mia vita. Tu, Saturno, che ancora ruoti con la tua anima gelida e minerale nel vuoto siderale fatto di pezzi di me.
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Lucia di Lammermoor
Oh cara colomba, eri disposta a tutto, a tradire la farsa, a svelare la tresca… Per LUI, si racconta… Lucia dal ventre bianco, Lucia occhi-di-neve. Sotto il velo d’inganno ti mangiasti le unghie, per noia. Sotto il velo ti s’ingroppò la voce. Edgardo era un uccello nero. Edgardo era il tuo pugnale. Sposasti i tuoi serpenti, al posto di Arturo; neri, crudeli, magnifici e divini! Dal cappio della famiglia a quello del matrimonio, il passo era breve. Tu chiudesti i serpenti nella tua vongola inanimata fino a che il dolore ti mutò in branda esangue. Edgardo capì; fino alla morte ti amò. Edgardo era il tuo pugnale.
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Fino all’alba
Ti uccisi per troppa carità; limai la punta del coltello e entrai dove ormai non scorreva più sangue. Fu un innesto necessario, che aprì la tua tomba di eternità. E lì portai il mio fegato scuro, il cuore rosso, i nervi ardenti, i villi palpitanti. Ma tu dubitasti; versasti l’olio della lampada e oltraggiasti il dio nel suo sonno da demiurgo. E gridando il nome della tua prima madre che era anche quello della morte, lasciasti le orbite alla cecità totale. Tua moglie ti leccò le piaghe con la sua lingua secca. Pensavi che ciò bastasse ma, quando esalasti il dolore dal tuo congegno dalla bocca ti uscirono cortei di vespe vestite a lutto. E in un istante, sentisti il vento trafiggerti coi miei occhi, rompere il velo della tua notte abietta. Accadde là, appena sotto al mio santuario, dove mio figlio reggeva il pugnale col sangue che seppi darti; fino all’alba.
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Palazzi di potere
Che c’avete da dire miei bei palazzi ben vestiti come i signori mani di cera che vi frequentano ogni giorno? I vostri segreti ve li tenete stretti, non trapelano dal rosa salmone, né dall’avorio fascista dei marmi. Ma siete sicuri che questi segreti non escono per strada? Ci vanno, ci vanno, eccome… E per pietà, li beccano i piccioni.
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L’errore di Ulisse
Avevi denti troppo larghi; ogni tirata d’aria uno sbuffo di menzogne. Ora dimmi, caro, tutto questo dove ti ha portato? Ho visto un’ambulanza sotto la tua casa; il buio mordeva il cemento, Penelope fradicia e sfatta come cartone bagnato. Era questo che cercavi? Oh Ulisse, calpestasti i fiori nella mia isola segreta, i fiori tanto amati, ogni corolla un nodo d’amore… Non sapevi che ero una maga? Io vedevo… Itaca era una palude, Itaca era un pugnale, una spina secca schiantata nel fianco. Itaca non c’era già più, forse non era mai esistita e Argo era la morte da cui eri in fuga.
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Curcuma nera
Raffiche di vento, cosa c’è nelle mie catacombe? Sono Teseo, tu Arianna; Teseo meno stronzo di Teseo - per un attimo abbiamo ruoli invertiti-. Tu sei il mio gomitolo rosso sangue. Tu sei il mio sudario. Oh! Oh! Oh! Il fuoco brucia dal ghiaccio. Il fuoco brucia dall’acqua. Brucia dai tuoi capelli. La miccia sale fino al cuore, spacca gli angoli retti, spacca la mela con la dolce violenza della tua anima di curcuma nera.
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Danzatori del fuoco
Sguscio sulla sedia, un nero mi spia, danzatore del fuoco - occhi tanto grandi da incendiare il mondo-. “Voglio portarti nell’isola caramello, voglio spettinarti l’anima, affidarti le ossa, perché sopravvissi ai conquistadores, agli inglesi, ai francesi, persino ai missionari”. “E allora vieni, mon cher, danziamo sulle balle del mondo, danziamo sugli specchi, sui girasoli dei cinesi, sulle nicchie vuote come crani, sulla ruggine dei palazzi di potere, sui proiettili in bocca ai macellai. Danziamo, io e te, fuoco nel fuoco, anca nell’anca, perché così, così siamo fatti io e te, metà animali, metà uccelli… La danza è il nostro regno!”
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L’attesa della rosa
O dolce Maestro chi ti tolse le spine? Fu forse il corvo, fantasma redivivo del tizio dell'intingolo? Parlasti a ratti con la lingua degli angeli e la serpe non perdonò; la tua innocenza fu la tua vera croce. O dolce Bob Marley o caro Jim Morrison appassionato Guierrillero Heroico, stenditi, stenditi, stenditi sul tuo letto di spine! Tua madre, un pò serva un pò tonta ha ancora da fare il bucato (e tu sai che, un giorno, la porteranno in processione). Domani, ancora, dopo le 15:00 i paparazzi prepareranno una storia, costruiranno un nuovo tempio di parole ma senza abbattere il vecchio e tu, ancora, negli inferi camminerai, palestra della qualunquità. Era la nozione rimasta interdetta (l'unica importante, che tralasciasti, ancora in fondo giovinetto) e tu che sai manipolare il tempo la vedrai, riguardando il Calvario, ripensando all'errore. Correggerai la bozza. E sarà senza discorsi e vaticini nè clamori di folla che verrai. Starai lì, in silenzio, ad attendere la rosa fiorire dalle spine.
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Scivolando nella notte
Mi han tolto l’anima in fil di ferro e braccia, gambe, testa son cascati penzoloni… Povero Pinocchio cresciuto troppo in fretta o troppo tardi! Dio padre è andato in un bar a fumarsi una sigaretta e non sa se aprirà più lo studio di regia nella celeste Cinecittà. Il dolore è un infiltrato; un gatto nero su un muro di calce che agguanta falene… Non ho più alibi. Scivolano via i libri le estati gli articoli di giornale i sogni imperfetti gli occhi sui binari le carezze mancate… Scivolo… E sono il gatto o la falena o la notte corazzata sulla mia anima in fil di ferro che scivola… sci vola sci vo la ..
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Al bar
Oh bar, tu mi rendi felice! Felice, felice, felice! Col tuo blues, i divanetti ad affondo, i liquori in fila sullo scaffale come i soldati a Bukingam palace (pace alla regina). Un approdo, le tue barchette di paste con zucchero a velo, le torte son pupazzi di neve nelle sfere di cristallo… Qui può nascere l’amore, in un giorno di pioggia…. Qui ci si può versare glassa sulle piaghe - niente da obiettare-. E che musica i cucchiaini nei piattini, meglio del blues, meglio della marcia funebre, appesa al cordone verde rame che ancora mi tiene, legata come un’assassina a una stazione di polizia. “Elì, Elì, lemà sabactàni?”
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La voyeure
Al n.35 di via del mare calmo, poco distante dal molo, una donna spia dalla canna fumaria… Sigla di un film di Fellini, con tanto di lacrimoni, si spande dai tavolini del bar di fronte… Nessuno si muova. La donna spia coi suoi occhi di rubino ignifugo (la sigla di Fellini ora è un valzer). Spia la signora-gambe-oliate, che sorride al cameriere con denti d’avorio, spia la donna giovani tettine di latte tutto a venire, spia il bacio di due al miele salato… (Torna Fellini, Roma, più bella che mai). La spiona è ora un lampione antisisma e il suo bottino, lanciato da lì, dal 35 di via del mare calmo spacca il molo come un martello pneumatico.
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Pioggia
... Pioggia. Pioggia benedetta. L’aria è azzurra e tu sei fonte battesimale. Non contraffatta. Sei fiume per la tortora assetata, madre leggera sulle viti sfiancate. Benedetta, così Leggera, leggera… Sui tronchi rossi, sulle rose color carne, sulle croci crepate nelle edicole su queste foglie color sangue, sui tappi di plastica e le lattine, sui laterizi abbandonati nei fossati delle ferrovie sui cani alla catena, sui pacchetti di sigarette IL FUMO UCCIDE, su di me che mi bagno sul mio grido pioggia rossa, azzurro sangue saliva di dio, medicamento del figlio per la tarantola che mi divora il cuore.
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L’obolo a Caronte
Un obolo può stare in un sacchetto, in tasca, è il tributo prima che Caronte mangi la chiave tra le stelle spezzate e i lumi disciolti. L’obolo era una promessa, prima che il tarlo divorasse l’azzurro e spezzasse le primavere come cadaveri in pensieri di ghiaccio. E ora che i fiori sono morti sul fossato, l’obolo è ancora il pedaggio dei fiori mai recapitati, delle membra consumate d’attese, coi pezzi rossi del mio cuore che, tuttavia, non molla, mai… Caronte è pronto e apre il fiume come un rubinetto dai miei occhi neri, nascosti dietro un foulard da signora.
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Una notte sognai il paradiso
Una notte sognai il paradiso; una notte senza tombe da scrostare sul mio corpo forato d’assenze come vecchio vasellame. I ferrovieri erano già tornati, quella notte e dalle anche esalava un odore strano, assai diverso dal bianco e nero dei giorni, assai diverso dal solito latte versato. Feci così, quella notte, quel sogno strano dove la nostalgia vibrava su laghi mai nemmeno immaginati e i tuoi occhi erano farfalle pazze che volteggiavano su me, libere, in delirio… Fu un attimo, perdersi in quei colori lasciare al tempo, matto per davvero, le pagine di vita che non scrissi. Un attimo… La scimmia del dolore lontana dall’assedio mi salutava con la sua zampa d’osso, dicendomi che, in fondo, mi aveva amata e condotta lì, tenendomi al caldo sotto la sua pelliccia di vergine oscena.
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Perdendomi, una mattina
Una mattina mi persi nei passi di una bianca città. Il treno che fischiava, zaini dell’uomo ragno a una vetrina, i fiori di plastica nei vasi dei cinesi… Tutto era irreale come la realtà, fermo e mobile come il traffico, i tubi di scappamento, i poveracci in fila al centro delle suore… Il cielo basso con nuvole come divani. Anche la strega era più mite, allegata alle fiabe della grande libreria salotto coi suoi perdigiorno… Fu lì, che mi persi. E per un attimo, mi confusi coi piccioni, con le tende nuove di una casa bassa per novelli sposi, per un attimo dimenticai la tomba premuta sul cuore.
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Una mattina
Una mattina, ancora; l’anima persa in un boato di ruggine. Gazze strane, i segni sui tronchi, nudi, nudi, nudi…. L’anima chiama a raccolta le sue croci, ancora odore di caccia e d’ossa decomposte… Spazzola, spazzola via padri non disposti a cercarti! Annego in strane stoviglie; mattanza di cose e lettere marcite, mai spedite, bruciate… Ma c’è un sole rosso, questa mattina, trainato da una carovana fastosa di zingari pensieri… Affonda, nel sangue più buio dei luoghi più rotti e profondi dove un vento, stregato di pietà, ancora m’accarezza…
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Nel paese tranquillo
Nel paese tranquillo, assediato solo dalle mosche, una giovane donna un po' tocca scrive la sua poesia nera in una tazza del caffè Retrò. “Il colpo è stato forte” dice un vecchio color dentifricio; qualche tempo fa cercò di pulirsi la testa con la candeggina e poi… Fumava due sigarette insieme. La barista è gentile; le offre sempre il caffè, ma poi sopraggiunge un uomo -forse suo padre, forse no – le dice ‘Sali in macchina’ e lei va via. Il vecchio tace. La barista ripulisce il caffè versato; domani i cittadini andranno a votare.
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La città di pietra
Ci sono mura che non vogliono cadere, laterizi immortali incollati col sangue e fiumi di gesso dove l’acqua non lava la pietra… Gli alberi se ne stanno nei viali infestati di noia, impeccabili tribuni della plebe… E’ sangue pure il tronco e i rami rugginosi, contorti in uno spasmo. In questi posti non ci sono fiabe, né bambini a cui poterle raccontare; la vecchia fontana, mangiata nella pietra è il solo mangianastri cadenzato… Letargici, i passi, si appendono agli scavi; ognuno lascia a un’anfora a un elmo o antica fibula una voluttuosa litania di dolore. Il fiume è altrove…
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Ancora guerra
Strida di gabbiani tagliano il cielo, ne strappano l’azzurro che cola, come vetro frantumato. Il sangue schizza a fiotti, senza nemmeno odore di redenzione; astanti in cravatta dalle dita illibate divorano carni ai banchetti. Fantasmi s’elevano dall’anfora biancastra di una donna spettinata, scomposta dal dolore. I pezzi di vetro hanno agonie d’animali morenti, galleggiano, sconnessi, portati dalla marea… Chissà dove…
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Il colonnello
Il colonnello era tutto d'un pezzo; mangiava ad orario e sempre a misura e quando usciva, prendeva l'ombrello che non si sa mai degli scherzi del tempo. Il colonnello guardava diritto, perchè conosceva i suoi doveri; ma ora che si è fatto vecchio e dritto non cammina più, volentieri si scorda l'ombrello. Guarda le donne e con rabbia s'aggancia al bastone perchè, nel frattempo, si è accorto che si è fatto fregare l'amore.
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La nobildonna
La signora tutta balze sta tra bambole ed arazzi; sui divani dormon tarme fino a dentro i bei cuscini, che ha cucito una sartina per il suo gusto di regina. La signora tutto onore c'ha un rossetto caramello sulla carne mezza guasta; dona l'anima ai suoi santi, fa l'offerte ai poverelli che le portino lo spirito ben lontano dalle tarme, che la elevino dal peso delle forme sue sgraziate. Non si sa se c'ha una vita la signora tutte grazie; cade a pezzi il suo castello in affondo tra le balze.
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Il segreto
Stamane ho visto un lombrico marciare su foglie marce; nemmeno la consolazione di una sigla da telenovelas… Marciava coi miei occhi penzoloni sul suo sudario di peli e di zampette, tra gli abissi dischiusi da ogni foglia. Talvolta l’ho visto perdere una zampa e il sangue schizzare sui tronchi inerti come i parenti alle cene di Natale. Allora gli ho dato un bastone ricavato dalla mia corona di spine. Il lombrico ha sorriso, perché finalmente aveva un segreto. (Il bosco l’ha saputo e ci ha lasciati passare).
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Bagni di fango
Il mercante di lombi, emissario di Barbablu’, venne alla mia porta, scricchiolando su nodi di foglie morte. Aveva una ciotola di fango in cui limava coltelli e sulla coda scodinzolona una fiamma di fuoco fatuo al sapore di rosa marcita. Baratto noia con etti di lombi, ma tu chiamali come vuoi, disse e mosse le zampe di ragno, come a ghermirmi. Io non feci in tempo a dire di no che già danzavamo la tarantolata sul teatrino cartone, corrotto dai tarli. Accadde. Non so perché. Forse era una reminiscenza, una crudele nostalgia dei bagni di fango di mio padre.
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Roma
Roma è una stanca signora; la notte riposa sui lampioni lucenti tra palazzi addormentati e cupole adagiate in sbuffi di gloria andata. Roma è un'isola rapita; il vento le riporta i fasti antichi come in un racconto scritto dalla regia del Mistero. Roma è tutte le luci e tutte le voci e come ladra di cuori gozzoviglia nei cuori zingari e nei tanti randagi di strada; l'anima gliela prende la notte e la porta lassù, oltre le cattedrali, le pietre rotte e le statue distratte. Perchè Roma è una bella sottana bucata di bellezza e se piange, è solo per farti innamorare.
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Non cercai l’estintore
Tu eri un amore al colostro e quando venne la prima pioggia, - la prima pioggia color vena – tu virasti con le tue zampe retrattili da vitellino triste. Presentii già l’umido da presepe e mi vennero i reumatismi alle gambe. Allora per te divenni una statua d’oro nella teca dell’amore! Che amore da museo! Che amore da eutanasia! Così, prima del matrimonio, ruppi la teca e non cercai l’estintore; e passando con lo stop, fuggi con l’ultima mia estate col mio passo di fiamma.
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Mi manchi
Mi manca l’herpes all’angolo della tua bocca, il filo rosso che ti lasciai, fuori al tuo studio, appeso al mio ombelico. Mi manca la tua barba a pungermi la faccia, i lutti esagerati dei tuoi “a presto” e le resurrezioni dei ritorni. Mi manca la tua testa pesante sul mio petto, quando ti nascondevi dal mondo tra i miei capelli con quei silenzi goffi, da bambino. Tu mi manchi. E segreta, la tua voce, torna all’aria come un richiamo. E addento la voliera di passi arrugginiti solo per lasciarti una scia del sangue che mi resta, perché tu possa ritrovarmi; ancora.
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L’occasione
Ti morderei ancora, come un’arancia; fino all’osso. Perché mi lasciasti, regina delle nevi nel mio regno di ghiaccio. Perciò spara, sulla crepa! Rovesciando il Graal dalle cosce, fino a spaccare questa neve dura! L’appendiabiti verde scuola che ci esplorò nelle notti dei tirocini dell’amore è lì; pulito come un tovagliolo, come la camicia bianca che ti avvolse il ferro. Il nostro amore claustrofobico è ora grano tostato per il tiro al poligono. Perciò, spara! Questa è l’occasione.
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Palazzi di Roma
Immortali stanno i palazzi di Roma affacciati a una gloria solitaria, eterni nella pietra. L’aria più lieve bacia loro le bocche agli angoli delle vetrate, colombi dormono sui frontoni, carpendo i segreti più antichi del mondo, portandoli al fiume che scorre con l’oro tra sponde senza domani, laggiù….
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Gialla mummia
Fa freddo, anche se è estate; perciò accendo un cero innanzi alle mie spoglie che passano tra i tanti passi. Conto il nero delle cicche sulle chianche. Me lo infilo addosso, come un cappotto sulla mia gialla mummia che va, trainando un inno incoerente.
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Stelle
Le stelle ruotan come farfalle pazze e sembran piccole streghe con torce splendenti. Sfavillan nella calda notte, s’aggrumano in sillabe d’oro, danzando l’Aum dell’eterna gloria. Qualcuna scende, s’accomiata al mio letto e poi torna su, dal tetto… …fumando già l’alba dal narghilè.
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Lavori in corso
Il tempo è una gola d’oro, sazia di sassi. La sistole dura al rilascio, la mia bambola asmatica talvolta soffre ancora d’apnee; fame d’aria. Il dolore è un catarinfrangente nella c4, c5. E tuttavia i tir depositano sabbia. Il movimento sembra non finire. L’urlo incastrato, lì, nella mia anatomia decomposta ad artificio; sposta gli assi, ristruttura, arreda, per la vendita. Freddo, il ferro, muove i denti alle sedie impagliate, impigliate in ragnatele d’assenze. Il libro dei conti, i salmi dei soldi. Istanti macellati, colati nel lavandino. Ingorghi. Nessuno a darmi una pastiglia. Nessuno a farla finita. Acido pure il miele, come il sangue sulla tagliola. Solo, il sibilo del vecchio frigo….
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Il topo in cantina
Ti chiusi nella scatola del tonno e ti portai in cantina; “per costruire nuovi musei all’amore bisogna omettere le tombe: insidiano le fondamenta”, così mi consigliò l’architetto che conosceva i cervelli. Niente da ridire; i morti ai loro morti. Ma, una sera, udii un rosicchiamento in cantina; Scesi. L’umido forava le ossa. Un topo, travestito da falena, attentava la latta. Cercai allora il mio domatore di scimmie, pazza, gli dissi: “presto tutto l’olio sarà versato e dovrò tumulare la fiamma!”. Ma il mio help man, che aveva idee secche e concentrate come sardine in scatola, ineccepibili come il peccato originale mi disse, asciugandomi il sudore dalla fronte: “Stai calma e ricorda la parabola dei musei”. Sembrava così credibile coi suoi nervi diluiti nel sorriso rosa bambino, che volentieri ci avrei dato una tirata. Invece mi misi a letto, buona buona. Ma, poco prima del sonno, udii ancora lo stesso fragore in cantina. Mi buttai per le scale, a rompicollo; nella scatola c’ero io e il topo mi divorava coi suoi denti bianco confetto.
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La mia casa
Dalla mia vecchia casa presero il frumento, di notte; Il latte UHT munto a miglia di distanza da vacche computerizzate; la confezione in plastica di merende all’ogm. La fame e la siccità han fatto il resto; mi hanno deprogrammata, mutandomi in un congegno rotto; una bambola rattoppata con rosari verde bile. Nemmeno un sibilo dai ritratti dei morti sul comò; la trisavola se ne stava intontita nel suo silenzio nero catrame. Dal televisore spuntavano nani dalle dita rosso assedio e nessuno a urlare. Al ladro! Al ladro! I vicini tenevano il televisore a tutto volume. Dio nella mia mano era un pappagallo pazzo; in quel pane, in quel vino non ci voleva stare. (Sempre più nero feccia, infatti, era il vino di mio padre). E allora, un giorno, presi con me il mio pappagallo pazzo, lo appesi al lobo come un orecchino e fuggì, lontano, là dove il niente non ci poteva stare, verso una casa tanto grande da poterci mettere il mare.
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La luna verde pistacchio
Un tempo c’era la luna verde pistacchio; si calava come una befana sui palazzi grigi, issati sulle strade rotte e deserte. Il falegname aveva già l’investitura per livellare i sogni inquieti; nell’atrio cicaleggiavano televisori in bianco e nero. Mi sporgevo dalla finestra con la mia bambola nuda e per consolarla le dicevo: “quando avrai le tette sarai più fortunata!”. Poi richiudevo la finestra, temendo la notte mi strappasse il cuore - da dentro -. Rotolavo nel letto con la mia ciotola di azzimi. Ma, una mattina, non trovai più la mia bambola dagli occhi azzurro/gatto. Forse era volata via sul veliero di una luna verde pistacchio.
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La vecchia sbirciona
Certe volte barcollo nelle sere; come una vecchia in sottoveste porto le zattere incerte dei piedi su vetrine rosa/pesco arancio/tristezza. Temo che tutti vedano la mia croce di carne crepata. Allora penso a un tempo senza porte murate, mi do un tono di charme rosso gladiolo di fronte alla gentilezza del droghiere, con le sue battute d’oppio marcio. Però sono anche una vecchiaccia testarda e m’infilo come una cimice in ogni fessura, persino nei tubi di scarico e porto lo scherno come trofeo del mio essere viva di nudità.
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Un chilo d’amore
Nel bel paese tutti son santi cristiani, così avevano detto a mia madre e lei, a sua madre, eresse una tomba nera sopra lo stipite in cucina, e accese un cero al lingam con svogliata sottomissione. Avevo gambe come anguille e il salumaio, che affettava carne esiccata con puritana purezza da orafo non udiva mai, intera, la mia richiesta: “… e un chilo d’amore, grazie”. Poi lo spauracchio della guerra in Iraq. A cosa serve il petrolio? Le uova rotolavano dai gradini della scuola, dove avevano incastrato la mia testa. Io rimanevo fedele alla comanda, evaporando come un incensiere. Sedevo sulla panchina accanto alla fontana dove i piccioni si facevano il bidet a pochi passi dal monumento dei caduti per la patria e intanto dicevo: “Un chilo d’amore, grazie!”. E per non scordarlo, lo scrivevo col dito sulla polvere delle finestre di scuola che nessuno ripuliva, che nessuno leggeva tranne quel vecchio birbone del piccione che, poi, tornava alla fontana per la solita toeletta giornaliera.
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Un pomeriggio, in un posto qualunqu
Un pomeriggio mi fermai in un posto qualunque, sandalo ristrutturato, gonna lunga dalle grosse camelie, pois… La macelleria aveva un’aria familiare, le persiane se ne stavano, diroccate come i denti dei vecchi. Mozziconi nel catrame, che si dicono sotto la sottana di quel bar all’aperto? Le sacrestie esalavano sui vichi doccioni di noir di polvere e tufo. Perché sono ancora tutti vivi? Il caldo gonfia le tette di cupole, urla, la pietra, da bifore incatenate. “Appartenevo alla terra” dice. Risponde l’oleandro incastrato nell’aiuola, glabra come i sepolcri. “Prima stavo sul mare” e piange lacrime rosa floreale.
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Azzurro temporaneo
Fu solo azzurro temporaneo, una cornice senza specchio, un fuoco d’artificio senza zolfo averti incontrato. In un attimo infilasti i tuoi artigli da rapace nel mio braccio. Il cuore già sanguinava. Io mettevo il naso nel profumo dei panni stesi, respirando odore di bucato… Ma i tuoi panni erano sporchi; sporcasti la mia casa con le tue zampe di fango, come in un nero avvento. E tuttavia sapevo che il cacciatore sarebbe tornato e quando scoccò lo sparo da te non uscì fuori niente. Nemmeno sangue. Fu solo azzurro temporaneo, averti in incontrato.
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La volpe argentata
Godemmo già le stagioni dell’amore, ma poi lasciammo le penne sulle spine, dissanguati come aironi feriti. Costruimmo muri di neve sulla nostra poesia spezzata. Restammo misere creature alate e la tristezza soffiò l’uggia nelle sere, calando una palpebra grigia sui cieli. Mi spezzai come un sasso. La mia fiaccola ruggì, nei crocicchi. Ma, non sapevo… Stavo entrando nel castello del sole nero costruendo un nuovo nido, per noi col sangue di una nuova poesia colato dalla mia coda di volpe argentata.
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Io ti venivo a cercare
Io ti venivo a cercare perché tu eri il mare e la tua spuma spezzava i miei sassi. E anche ora che il tempo ha lasciato una scia di farfalla in agonia, ergo un tempio all’amore che veniva, prima dello sparo. E ti venivo a cercare come una bimba sull’orlo dell’oceano, sola nella felicità dell’orma, persa nei tuoi passi perduti. E ti venivo a cercare perché tu eri il mio mare.
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Solo la tua maschera
Ti vedevo irraggiungibile, come un dio delle fontane, ma ci respiravamo nel midollo dalla rotta di collisione delle ere. Non sapemmo ritrovarci che per perderci, ancora ed io bagnai i miei piedi da bambina nella risacca che riportava il sudario lontano da me. Fu un giorno senza destino, quello; sentirti fin dove scompariva il confine. Solo la tua maschera rimase, a terra; dissanguando.
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Accendi questo fuoco
Accendi questo fuoco, nel solco di questa assenza, perché volammo tra i millenni sul filo d’oro di questa follia. Saltami addosso, dall’aria, perché questo amore incise il nervo del fuoco, ferendoci nell’osso. Poi l’orgoglio arrestò il flusso … Cademmo, come uccelli febbrili nell’abisso assoluto di una furente malinconia. Fu il nostro peccato originale. Restare vuoti di parole, passandoci il mondo di dosso. Ma resta lì, il fuoco, canta le estati già mietute, per noi, che non possono finire. Mai.
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La casa azzurra
Laggiù c’è una casa con le finestre azzurre sta là, immota, nel sonno delle formiche. Dicono che hai perso i tuoi tramonti, rovesciando il latte che tua madre non ti ha mai versato. Io sono ora un grande uccello, un’aquila reale e disegno un sentiero a picco sul monte, a picco sul mare dove lasciasti il mio gomitolo d’amore. E quando LORO marceranno dallo spazio e l’oracolo avrà ancora il sigillo che ti impressero le mie labbra col fuoco tu che farai? Chi invocherai? Ho ancora la conchiglia, tra le dita. Sta nella casa azzurra, là, dove ci siamo conosciuti.
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Promessa
Il tuo osso è rimasto impigliato nel mio canto. Sarà per l’oro delle verbene o la prodigalità delle cicale… E… che ti sto ancora cercando, ramo dentro ramo, radice delle mie sponde, lacrima rossa. Ed io che penso quando verrai ti farò una tenda di yuta e con le palme, un letto; ogni raggio brillerà da un’assenza, ogni lacrima sarà viola sulla terrazza di un cielo che non finisce; mai.
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Memorie
Vango memorie con l’aratro, contadina acerba di fuochi. Ecco laggiù una pallida stella, un presepe a forma di nuvola… Ogni bacio impresso (o solo immaginato) s’appende alla carne come uno sbuffo. Le solite cantilene. Il mare è triste come un cucchiaio, nei brodi dei vuoti galleggia Medusa, nella mia gola ci ha messo serpenti. Un tablet spento, l’albero. oh Ifigenia! oh Andromeda! oh Danae! oh Medusa! Quanto ancora dovrete aspettare, la spiga schiantata resuscitare?!
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La felicità
E’ scesa, la felicità, con le sue scarpe rotte. Nessun intervallo di linee. Il sole s’è messo una sottana azzurra, per ripararsi dal miele. Mio padre era un fabbro irreprensibile; la mia eredità l’ha incastrata nel ferro. Cantano solo i nomi; la notte, come aedi. “Verrà la fata buona” dicono. “Disgelerà la follia col suo midollo rosso ed essa canterà all’aurora”. Dicono sia questa, la felicità; togliersi il cappello mentre, nella stanza, piove.
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La donna nera
La donna sta, sospesa. Ai due lati un teschio. Sorride la testuggine; sul carapace è dipinta la morte. Allora mi giro e rigiro nel letto, la rabbia è la donna nera che esce dalla spina. Non la riconosco. Non è un'eroina e neppure un'antieroe e il lenzuolo è una disesa irta scoscesa attraversata da palle di neve nera. Perchè si asciugarono gli impuri sulla mia veste? La mia veste era presa dal lago e aveva pesci bianchi, verdi e color argento e ogni pesce era una porta. Ma, forse tutti i fonti battesimali hanno un fondo di mattanza. La donna nera ride con un solo dente. La donna nera sa.
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Il critico
o mio agrodolce critico illuminato, chi hai bisogno di correggere, redarguire, illuminare? la tua vita è fronzoli e tu non vuoi lasciarli andare! Sei rimasto un ciucciatetta e il latte s'è aggrumato sulla scorza del tuo ego! o dolceamaro critico illuminato, hai mai provato ad aprire le finestre? a respirare coi tuoi polmoni con il tuo cuore? vedrai, vedrai, vedrai che ce la fai!
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Il geco
Appiattato sulla mia porta tu, geco, offri il tuo canto intermittente, tra l'occhio dolce della luna che splende l'erba di fulgori. E il tuo canto lenisce i nodi dei miei vuoti, che la tua cadenza schiude come primule bianche nel refrigerio della sera.
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Una donna
Una donna siede l'azzurro nel suo vestito aquilino; cercando un ramo bianco.
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Il leone
Fiero della dura solitudine, avvolto nel raggio dell'irto fuoco, avanzi, nella tua nobile possanza, dall'arida steppa dell'ieri, fino all'afondo dell'oggi; sovrano, già, del domani.
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La ferita del giglio
Da rododendri d'esili acqua piovve, corrose l'ossa su foglie secche di malinconie, sepolte in aspri fossati. Un rondò le ombre nel segreto traffico dei sensi in rivolta, sotto un cielo di fiamma feroce e strade sterrate tramutate in torrenti ghiacciati. Nei mattini di chiarore infermo, lidi di pietre sepolte lasciavano scoperta del giglio, la ferita inesorabile, nonostante; fulgido e vivo nelle affamate valli, di notti, rafferme.
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Spingendo l’abisso lassù
Nel sapore consunto di pigolanti istanti, tra la pioggia corrodente il feltro nero del cuore, m'arriva il richiamo di questa vita... Sale tra le dita, estasi febbricitante tra lenzuola macchiate di monologhi interrotti, nudi, come i bambinelli nei presepi a Natale... Salire, scansando pattumi di false appartenenze solo per mettere un piede più in là; spingendo l'abisso lassù...
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Hai lasciato
Hai lasciato fiori, da qualche parte, dove è più confuso lo scoglio E con essi, una musica insoluta, come la nebbia, come l'amore che non perdesti, col tuo sangue perchè, dai tuoi nodi potessi germogliarti; dentro.
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Fiori
Ho visto un ciuffo d'erba crescere dai tuoi capelli, intrecciarsi alle mie mani, fin dove non sapeva l'amore e anche se ho morso lo stelo coi miei denti di bambina, da lì sono germogliati altri mille ciuffi d'erba; sembravano edera, ma erano fiori.
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Compagni di scuola
E ci dissero: "V'insegniamo qualcosa, a tenere la penna, a tenere la riga, ma intanto state fermi, vi prego, sono confusa! A casa c'ho un gatto che parla con gli spiriti e nel pomeriggio c'ho da portare mia figlia all'ACR, quella che se non si dà una regolata mi toglierà pure la pace della pensione!" E i nostri occhi erano puri, smarriti come le biglie rotolate per strada e non ci credevamo che avremmo imparato qualcosa, perciò ci tenevamo stretti come i cuccioli nelle gabbie dei negozi d'animali; mordendoci appena, perdendoci appena, pensando che il tempo nessuno lo avesse inventato mai.
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Sere
Ci sono sere che gocciolano come rubinetti rotti e per quanto tu finga di tenere insieme un'immagine di te come i vestiti sui manichini, qualcosa cola nel lavello della grande illusione del mondo; un occhio, un lobo, un gomito... Talvolta, il cuore.
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Tiranni
Non sanno, coloro che ergono silenzi a servizio della tirannide che quei silenzi sono sassi sputati dal vetro o profezie appuntite, anche quando celano un ragno abbarbicato alla sua bavosa tela di acidi biliari in fermento, protetto in calcolate distanze dall'umido delle cantine. Nutrono Barbablù, il pappone, tali silenzi e tornano - tornano, prima o poi - con le loro punte, cariche di veleni.
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Eterna corrida
E' là, dove infiammano le correnti, che il tuo respiro non ha tregua, entra nelle ossa, scarnifica pungola il tendine, assedia il midollo e forse è questa l'Origine dove non c'è buio nè luce e lo splendore ha il sapore - il terribile splendore!_ di un'eterna corrida che lenta dissangua e quell'arena siamo noi.
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Ci ritroveremo là
A volte piove anche se è estate, sopra mattoni di parole che non rendono le cose perse ma stanno, come albatri fermi in volo sopra spoglie scogliere. Eppure, tra i boschi umidi e nudi dove svaporano umori, un canto s'insinua, fermo ad una inarrestabile gioventù. Ci ritroveremo là, nel ritmo lento degli effluvi di selva, dove le ombre offrono ai raggi l'appuntamento segreto tra la nostalgia e la felicità.
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Tronchi
eretti in una veglia antica, o nella notte della civetta del mondo sparso degli invisibili Li rallegra il fringuello, tra gli incensi delle cortecce.
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la libertà del funambolo
C'è un vuoto dove arretrano le stelle, stanche di aspettare e il vuoto di un letto vuoto di promesse mai mantenute che spargono un sangue acre tra i nudi sassi del cuore, insonni nelle albe livide di risvegli mancati. E poi c'è un vuoto che serra la gola e tu marcisci nel silenzio, tra gli spacci di morali tagliate di borghese buon senso e campane cigolanti tra rovine di un mondo che non ti ha conosciuto mai. E ancora c'è il vuoto annichilito di torrenti arrestati, dirottati sull'asse e quello lasciato dai canti delle sirene delle affinità temporanee e poi il vuoto della vendetta contro la gioia, sempre affittata a caro prezzo e quello della stanchezza lacerata, sanguinante di grazie mancate, di pani ammuffiti che lasciano vuoti più immensi delle cattedrali o dei cimiteri e ancora, il vuoto di un taglio di vuoti, che raschia, dentro te, come un coltello, fino alla polpa, fino a perderti per ritrovarti, ora e mai, su quella corda sul vuoto che è la libertà del funambolo, pieno ormai di tutti i vuoti che ha incontrato, celebrato, e amato.
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Poi venne il mostro nella città di Taranto
Un tempo c'era l'acqua chiara, dicono e giochi di delfini d'argento nel turchese; poi venne il mostro e sbuffò fumo nero dalle ciminiere, erette come falli in delirio di onnipotenza. Stuprarono il cielo, le barriere coralline, appassirono fiori e case e gente ridotta a oltraggi viventi su strade ammorbate mentre la Madre, invano, agitava le sue acque, intorbidate dagli omicidi di tutti i suoi figli ammazzati. E l'omertà strisciò tra paludose vite strette al serraglio, deragliate in un terno presente assai peggiore dell'ingresso infero narrato dal poeta, perchè lì la speranza non è da lasciare; morì già quando soffocarono il grido della Grande Madre dell'acque, della terra e dei venti
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Sono stata sola
Sono stata sola mille anni o forse diecimila o cento, sospesa su una barca, vuota di parole mai pronunciate. Ho visto stazioni, motel, percorso muri a secco con una valigia di cartone, asfissiata dal grido di dinamite che mi bruciava il cuore. Sono stata sola mentre mia nonna raccontava favole ai gatti e le vetrate di una pasticceria dicevano il dolce che mancava, anidato in patine bluastre di repressioni e di orgogli ostinati. E scendeva la neve sui reati mai commessi e allora inventai una colpa, per fuggire dai tanti vuoti deragliati tra i greti asfissianti di insoluti perchè. E sono stata sola perchè così volle la luce ostinata che invoca, acerba, sul monte degli angeli indenni perchè mi narrassero una nuova solitudine, nata dai fiori di nuovi transiti stellari.
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La congrega
Stamattina i corvi stavano innanzi alla congrega. Uno s'allisciava il panciotto, l'altro stava dentro a tener cassa: "Per l'esumazione fanno 400 euro se è bell'e cotto, 300 se ci sono ancora, intere, l'ossa", così disse al poveretto che era lì per le resta di suo padre. E intanto i corvi non s'accorgevano che avevano le penne già tutte lise e pure la coda già puzzava di fumo. Così, almeno, ai figli o agli eredi non avrebbero dato problemi e questi, al cassiere della congrega, avrebbero detto, in un solo colpo: "Ti do 400 euro e arrivederci".
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Il calabrone
L'uomo che pareva tutt'un pezzo ma che, in fondo, era un pupazzo, c'aveva la 'cintola' infuocata e tra un metti e un togli incappò, un giorno, nella bella addormentata che credeva di esser stata svegliata niente meno che da un principe innamorato. Ma siccome il principe nel sonno ci stava bene, perchè, tutto sommato, una moglie, una casa e il posto fisso di impiegato statale ce l'aveva, giocò con lei come fa il gatto col topo, senza alcuna pietà. Ma, una sera, mentre si stava a riparare dentro le fredde lenzuola (attentissimo a non toccare i piedi di sua moglie) dalla finestra entrò un grosso calabrone: era il diavolo e al crapulone portò via in saccoccia anche l'ultimo pezzo di cuore.
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I poveri di Spirito
Beati i poveri di Spirito sentì dire un giorno al catechismo o in chiesa, non lo ricordo. Siccome ero bambina e non capivo bene, allora domandai al prete; quello mi diede una lunga spiegazione, ma io continuai a non capire... Allora mi tenni il sospetto blasfemo che i poveri di spirito sono beati solo per chi comanda.
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Lor’altri
Li vedi, gambe accavallate, infradito, all'angolo dei marciapiedi, le spalle chine come a voler benedire l'asfalto o forse è l'asfalto che ha bisogno d'esser benedetto da quel fiume di tristezze ingroppate sulle spalle di cammello, che gli hano portato via tutto; forse pure il dolore.
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Amarti
Amarti fu un lungo travisamento, l'ennesimo, uno staccare reti e alghe dalla chiglia, inesorabile. Amarti fu inventarmi ancora nel fragore della pioggia, nella sete clandestina di un giorno assoluto ripetere il gioco della morte d'una odissea senza approdo solo per bere il verbo dalla tua bocca
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Amo pure
Non ho ancora messo le mani e parte di me imputridisce nella decomposizione del tuo costato, amo pure questa morte sospesa, testarda come un oltraggio, che sbriciola le mie ossa
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Marchi nudi sull’eternità
Sulla lettiga del sogno sei giunto, o mio sovrano, ad affondare l'algida spada della tua scintillante regalità nell'intricata polpa del mio cuore, lacera di dimenticanze e di assedi di ruggine. E quanto ti ho cercato lo sa il sangue, il diluvio dei sensi a stento governato dalle redini delle arterie. E questo bacio che ora c'infiamma, col sale, è l'amrita della stella che ci impresse, come nudi marchi, sul canovaccio dell'eternità.
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Il fuoco e la neve
Il diavolo era un sì, l'angelo un 'sii prudente'. Il diavolo abitava il fuoco, tenendo il mio corpo nella neve che, dell'angelo, era il vestito. Poi vennero i fiocchi, copiosi, e la neve si sciolse nutrendo un nome che il mio corpo già conosceva, perchè, già prima, l'aveva inciso il fuoco.
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Ricordi di scuola
L'odore acre dei cassini, graffi, sulla lavagna che non disseppellivano tombe, non resuscitavano i piccoli Lazzari in grembiule.
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Retorica radicale
radici, impilate tra colonnati di sante intenzioni, tenute come ostaggi nei marmi. I vecchi che, sempre, hanno da insegnare ai bambini certezze condite di acidi biliari. Sardine in scatola tra latte di carni esiccate e carrelli di inefficati clisteri da confessionale. Radici o solchi tombali, nella terra invasata di rettili aggrovigliati. Tale, spesso, è l'aura di melma della retorica radicale.
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Lì, tra i molti regni
dove becca, la tortora, l'ulivo,
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La musicista di strada
Suono per chi ha voglia di danzare e per chi no. Suono per il vento, il cielo, le stelle; per tutte le foglie cadute e per quelle rimaste attaccate al ramo. Suono perchè questo mi resta di una vita spogliata di inutili allori. Nella notte e nel giorno, nel riposo e nella quiete, suono... E m'accompagna il canto dei danzatori alati, s'espande, tra le cortecce, a risvegliare gli elfi dal lungo sonno del cuore. Suono e dolce è il pianto che s'eleva, trasmuta in preghiera, disgela... Oh sovrani del suono, musici della parola, venite a me, fate che vivere sia solo questo: suono, folle o leggero, piovuto dal nettare di un dio.
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La donna color cielo
Una donna cammina per strada, ha il cappello color cielo, -chissà dove va, chissà!- poi sosta a prendere un caffè.
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Tutta colpa di una mela
In un tempo non molto lontano gli uomini giocavano tutti la stessa partita -non aveva molta importanza-. perchè dio era in un fiore e le brame le raccoglieva come si fa con i bambini, sia stato tutta colpa di una mela
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Senza te
Senza te è un continuo inverno; inutili, le stagioni, vano il canto del ciliegio. Senza te la vita è la corsia di un pallido ospedale dove trascino la mia invalidità, tra davanzali di rose di cenere. E’ notte, senza te e non quella che commuove i poeti, ma una sfilata di vecchie, inutili ombre attorno al carillon scordato dei giorni. Perché non c’è luce senza te, non c’è pace, oltre questa feroce agonia che d’insaziata sete mi consuma l’ossa, con le ore. E ripenso ai baci traditi dall’incapacità di vedere l’oro in quel fiume che un angelo benedisse, che tu non capisti; ed eravamo noi.
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I bambini non c’entrano niente
Che colpa ha un bambino? Me lo son chiesta, stasera, davanti al pubblico spettacolo di un bambino che piangeva attaccato a un palo. "No, a casa non voglio tornare" diceva, singhiozzando a un grosso ragazzo che era suo fratello. Un signore molto distinto ha chiesto al bambino perchè a casa non ci voleva tornare. "Mi picchiano" ha risposto il bambino. Allora il signore distinto ha insultato gli stranieri che portano in Italia (la Nostra Italia!!!) le loro regole barbare, ha minacciato il fratello senza capire niente (poi è uscita la madre). il signore distinto ha chiamato la polizia ed è scappato via. Che colpa aveva quel bambino? La madre ha detto che piangeva perchè gli aveva impedito di uscire; era in punizione, perchè a scuola non ci voleva andare. Ha detto che aveva sei figli da gestire e poco tempo per capire e poi è arrivata la polizia a servizio dei 'capi' a cui della gente non importa un fico secco, sono loro che hanno fatto piangere e scappare quel bambino e nutrito disperazioni negli occhi di quella gente. Sono loro che alimentano violenza, ignoranza loro che dicono di proteggere e di salvare questo mondo, ma poi la colpa è sempre della gente. Spetta noi doverci risvegliare. illuminare, smettere di servire, obbedire e consumare e liberarci da queste inutili comparse e liberare i bambini, i bambini che non c'entrano niente che pagano intero il prezzo delle loro criminose omissioni. Perchè i bambini non c'entrano niente.
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L’abbraccio
Scorreva la linfa nel tronco del nostro abbraccio, che secoli, ti attesi, dietro alle cortine forate di ricami di languida tristezza; lettere, di sangue scritte, come di preghiera. E venisti, un giorno e non era carne, forse, la tua immagine, che sangue blu non t’infiorava le vene di guerriero e tuttavia un dio m’abbracciò, in te, infiorando promesse tra le rose e i fiordalisi pendenti dalla mia bocca, dicendomi arriverà quella benedetta linfa che te risorgerà, dalla stella.
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Illuminati inferni
La giovinezza mi passò addosso come se tutte le folgori e i venti si fossero accatastati in una nebbia nascosta nel fondo dell'anima. Uragani silenziosi palpitavano tra i vetri ghiacci delle fabbriche dove morivano le primavere del mondo. coi rami del bosco e i loro segreti, portati dal canto di farfalle in volo nulla conoscendo, tra quelle morte stanze, se non il sapore dell'erba in rivolta che accende d'incubi beati i miei sonni sempre a un passo dal precipizio vivo con tutti i suoi illuminati inferni.
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Supposizioni
Sei stato qua, certamente, da qualche parte, stregato anche tu. Ti mancavano congetture o forse troppe su quella taciuta rosa che stava là, al centro, senz'acqua
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Al largo
M'assale, presaga, una celeste misantropia. Quel che dicesti, poco fa, è già misura del fuoco. Brucia la mente, brucia... Sposta il confine al limitar della soglia. La morte è tra gli astanti; una virile malinconia palpita tra robuste chiome di quercia, che graffiano il vento. S'ode un ululato di caverne; al largo punta la nave, al largo punta e si slarga... Annalisa Scialpi
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Auschwit
Auschwitz è nel nostro cuore. Non dite 'non è così'. Lo è. E' neve ghiaccia di sangue rappreso, che attira al freddo fondo. Auschwitz è il Padre Onnipotente, la Ragion di Stato garante di tutti i Padri Onnipotenti. Auschwitz è togliere ai bambini la magia. Auschwitz è il binario a senso unico dell'abitudine. Auschwitz è il dovere di far soldi che sorpassa ogni legge, anche lo stato naturale della felicità. Auschwitz è l'ignoranza sovrana. Auschwitz sono i deboli al governo. Auschwitz è fondare un mondo sulla malattia e tararlo a misura di chi è stato reso perdente. Auschwitz è 'Freud ha capito tutto'. Auschwitz è la madre e il padre della morale. Auschwitz sono i giornali al servizio del potere. Auschwitz è una società di randagi umani che marciscono nelle retrovie o sotto i cupoloni. Auschwitz è una società fondata sui ruoli, con gli ordini professionali per salvaguardare le caste. Auschwitz è la morte il più lontano possibile. Auschwitz è credere che la luna esista solo per luce riflessa. Auschwitz è bollare come pazzi gli sciamani, i visionari, i profeti. Auschwitz è una società senza il senso del sacro, dove io vinco se tu perdi e dove abbattere un albero è come fare uno starnuto. Auschwitz è una società costruita sull'illusione dell'io e del tempo. Auschwitz è 'la conoscenza è proibita' e 'se conosci sei fuori'. Auschwitz è tutti gli ismi: razzismo, campanilismo, consumismo, familismo. Auschwitz siamo noi diretti dall'ipnosi della società. Per cui, spetta noi, ora, aprire quelle porte. Risarcire. Ora tocca a noi imparare a celebrare, a ridere, a lottare: spezzare le catene e camminare con le nostre ali.
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Nessuna colpa
guardavamo dalla soffitta, mettendo nella botola dei baci di prendere con gli occhi. Non eravamo nati abbastanza. Io germogliavo, dinoccolata, il mondo m'era già passato addosso e tu... Eri solo un fragile ramo che mi s'avviticchiava, ignaro nell'alba di una graffiata euforia. Incauta attraversai la fiamma di un limpido sole ruggente, da credere di esser nato ieri,
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Paesaggio d’inverno
Le calendule hanno preso il vestito al sole, brillando sui loro ombrellini freddi come girandole dolenti, mentre un gatto se ne sta, acquattato d’ombra come un ladro nei suoi occhi di smeraldo tagliente. Nell’aria, sui tetti o i corpi gialli delle case inutili e accasciate il tempo mostra il suo scherno con un sorriso di ghiaccio. Gli gnomi sono partiti, lassù… Nell’aria greve recitano sermoni amari che s’abbattono sui tronchi già segnati da dissonanti mantra a intervalli. Insostenibile, lo spazio giace sui fianchi a gambe larghe come una stanca puttana e nel silenzio, impiomba prati porta lì tutte le nenie del mondo. Per dispetto.
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Da soli turgidi
Sentire, nudo, il giorno. Sulla pelle. Il sole falcia le strade tra gli occhi degli annegati accasciati nelle retrovie. Occhi iniettati di sangue. Follia. Sputare il marcio mille volte, senza espellerlo mai. Il ferro della metro sferraglia nel midollo di una pesantezza che uccide. Lenta. Si mescola ai fiati. Eppure c’è colore, nel giorno. Da soli turgidi colano colombe sullo sfacelo di un mondo dannato di potere, dicono la pace è dentro te.
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Un uomo qualunque
la tua rosa azzurra, la tua rosa rosa. L’hai chiusa sotto la saracinesca a imputridire coi tuoi domati vizi, oh santo uomo di santo timore e buono a pulir code dei padroni! Anche satana ha addomesticato i suoi mastini, e sorveglia come una pantera il magazzino dove ponesti, ben imballate, le tue scatole delle ragioni, là, nella regione dell’eterno sonno dei sensi per timide porzioni di minestre avare a misurar respiri sui calendari e camuffare l’odore di vita vera, protetto tra le pareti delle tue rabbie Oh, povero uomo qualunque di cui un prete nero dirà, “Lo ricorderanno come buon cristiano, marito e padre di famiglia!”. fremere il ruggito di zoccoli scalpitanti, ma… Amen! Il diavolo dirà e non dirà a nessuno di aver visto tremare e si arriccerà i baffi, pensando a quando gli hai venduto anche il dolore che ti chiamava con l’odore della rosa,
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La vecchia alla finestra
Sulla strada addormata di stanchi passi, vecchi manichini si muovono nell’ombra pigiando pulsanti nei palazzi di potere, ombre di passioni spente polverizzate in lidi bruciati, sepolti, dove carnivore conchiglie di frustrazioni, di avidità e di ignoranze sovrane eleggono i silenzi a custodi di vili delitti. Pur tra queste ombre arrischiate su torri di cocci taglienti - prossime al crollo - una vecchia, allegra, tesse dietro una finestra gialla. Ha fiori di loto, alle pareti che irradiano l’acacia, cosparsa sulla sua sedia a dondolo. Un gatto le sfila in grembo e pensa – lei che ha davvero vissuto e comprende il linguaggio degli alberi e delle cose mute-, che sarà color di cielo, ora e sempre, il suo mantello all’uncinetto.
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Sei tu
Sei tu che ti spegni e rinvieni sulla prua di un cielo graffiato e sotto ogni sole, sei tu; ghiaccio e cenere sulla vernice d’istanti, scrostati a unghie e sangue dalla mia stiva assetata. E sei ancora tu l’anatomia su cui crocifissi i sensi e con le api salpando, di miele, ti feci gli occhi, la bocca… …Appesa al ponte dei tuoi lombi, - mio sacrario!- naufragando d’assoluta eutanasia.
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L’albero di mandarini
La notte è una grigia presenza che avvolge l’albero di mandarini. Dalle dita sale un fuoco sottile che arrossa i frutti e rode il tronco del pensiero, in muto soliloquio d’istanti. Si dilegua il viaggiatore oscuro del fiume malinconia, addita strade, oltre i rami. Cade la pioggia ed è mattino.
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Senza te
Ho molto freddo senza te, ma le mie febbri scavano lo scarlatto, fino all’osso di una scrostata fotografia che crocifissi coi tuoi stessi silenzi nel legno della mia pianura di nettari ardenti - mio Calvario!_ dove ancora ti attendo. Dove sempre ti amo.
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Ancor prima
Come notte nuova nasco dal respiro fulgente del monte, sempre vivo, sempiterno, con te che sgusci dalla vetta di un pensiero e mordi questo istante tra le stelle. Sulla strada il segnale è a unico senso e sempre è l’infinito desiderio di te che muori e risorgi nel varco sottile che separa l’odio dall’amore. E senza meta è la mia strada, perché quel che conta è il viaggio e il viaggio sei tu. Una felicità inspiegabile tramuta in stelle le luci della strada, promette nuove albe e notti chiare e quella pace che trovo solo quando m’addormento nel respiro di quel sogno che facemmo ancor prima di incontrarci. Ancor prima di sognarci. Ancor prima di noi.
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Pioggia
Ho visto la pioggia non passare mai, cadere, anche col sole, sul rivo di una foglia spezzata in un letto di dimenticanze e fracassarsi stelle su un cuscino di azzurre malinconie. Ho sentito la pioggia tingermi le mani e l’umida pietra trasudare il turchese nel ticchettio di un’astratta melodia ripetuta a oltranza e ombre danzare, nel taglio di vetri smerigliati d’usura. Come una vecchia stanza d’hotel ho visto ripetersi e caracollare istanti, uno dietro l’altro, su quadri dipinti di foreste di ruggine. E poi ho sentito la pioggia sanguinare su zolle di pane raffermo, aggrumito di soli traditi, mentre il vecchio giradischi ripeteva canzoni scordate a un cielo senza pietà, calato come una tenda su nuvole di tovaglioli umidi. E così siamo divenute una, io e la pioggia, così sfacciate da danzare nude sotto il nudo cielo, ombre, intessendo e ricami d’istanti… … là, dove muoiono i papaveri rossi, per troppo amore.
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Quando ami veramente
Quando ami veramente la luce squarcia le tenebre e la tua vita diventa Sacra. Quando ami veramente smetti di correre nel mercato dell’inutile, perché l’amore denuda l’essenziale, che è la tua verità, come fa il vento con i rami, in autunno. Quando ami veramente trovi il coraggio di guarire le ferite del cuore, perché null’altro desideri che essere all’altezza della Dea dell’amore. E scendi nelle tue cantine, le stanze proibite, solo per il sogno di riprenderti la tua Euridice. Quando ami veramente sei integro e il mondo non t’inganna più con le sue lusinghe, perché sai che nessun tesoro potrà essere più prezioso di quello che stringi tra le mani e tieni nel castello del tuo pensiero più puro o nella gemma di un’emozione scarlatta che scalda i tuoi giorni col fuoco più vivo. E potresti aver voglia di morire quando ami così, quando ami veramente, perché l’amore è troppo e straripa e pensi che scoppierai… Potrebbe succedere, perché quando ami veramente tu sei solo un ponte della Dea che ama in te e vuole trasformarti nel ruscello, nella luna, nella valle, nel passero che un giorno venne alla tua finestra per dirti che l’Amore ti ha trovato degno di sé.
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Uomini di cera
Uomini minimi, di cera colano sui giorni già segnati dai buoni dei supermercati. A testa bassa affondano In uno scialbo clangore, di vizi assetati appena oltre il deraglio di vite volutamente strette nell’ordinato serraglio. Piombano con essi notti piombe che lasciano sentori sepolcrali di disfatta nel caotico fango che, certo, malgrado essi, sta già seminando la nuova aurora del mondo.
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L’unico giorno
L’unico giorno Lo so che stai da qualche parte, su qualche terra, su qualche nuvola, su qualche cielo dove le aquile volano libere, dove non c’è mai stata paura. E’ un regno strano, che sta oltre le ombre del nostro mondo di fumo, è un regno dove c’è il mare e l’aria raccoglie tutti i segreti del cuore. So che sei lì e so che un giorno ci incontreremo e sarà l’unico giorno che avrò mai desiderato vivere davvero, in cui berrò il sole dalla tua mano e piangerò le lacrime che non piansi mai, fino alla gioia o piangeremo insieme, io e te… Con quelle lacrime faremo il mare e sarà infinito, come il nostro amore.
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Bagliore d’abisso
La tua carne benedetta e dannata giace nel letto di rose del mio cuore; rose turgide, screziate, a volte vecchie, ingiallite dall’afrore dei tuoi vizi. Ma in ogni posa, in ogni rosa la luce mi colpisce al centro, colando da un’acquasantiera di limpide note che trafiggono i miei istanti come raggi splendenti e il fondo del vuoto onnivoro che ne consegue non è che la prigione che Zeus inondò d’oro solo per la sua Danae esultante nel roseoporpora di un bagliore d’abisso infinito.
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Il gabbiano
Un gabbiano plana sulle acque, con bianca levità si staglia, quasi incorporeo, sul riflesso di liquido cristallo. Regna sovrano del cielo, affonda, funambolo, in limpide linee d’aria, e dalla militante altezza come danzatore esperto plana giù, nell’acque trasparenti in picchiata sui pesci in superficie o sull’onda, resta rilassando il volo egli si specchia fino a quando sorge dal mare la sua antica corona d’imperatore.
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Ifigenia
Comportati bene chiudi le gambe chiudi le cosce del tuo sentire le cosce nella tua pancia. Vieni qui, sul rogo! E muffe case a dirocco assi aguzze demoni verdi nell’aria. “Ora ti bruciamo, comprendi, questione di ragion di stato, ti rubiamo la gonna ti rubiamo la gioia ti rubiamo la vita. Matrone colossali con lo sguardo di orche innocenti vecchie smilze, il tantra dei condonati dei passati-a-setaccio e dietro niente e dietro niente e dietro niente.
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Il vuoto dentro me
Quando ho trovato il coraggio di guardare il vuoto dentro me, ho scoperto che non era il vuoto che pensavo e che temevo, ma Puro Splendore del nulla divino. E ho scoperto che non c'era perchè ero già piena del Tutto. Così ho smesso di mangiare solo per ansia o abitudine, di circondarmi di cose e di persone inutili per la mia evoluzione. Quando ho trovato il coraggio di guardare il vuoto dentro me ho imparato dai gatti ad amare il silenzio, a godere delle piccole cose, che è ciò che fa bene al cuore. Quando ho trovato il coraggio di guardare il vuoto dentro me ho smesso di combattere i conflitti, accogliendoli come una madre che abbraccia i suoi sassi nei suoi generosi fondali, sapendo che non sono pietre, ma spiriti che vengono per aiutarmi. E ho smesso di cercare soluzioni e ho iniziato a porre domande senza aspettare risposte, certa che la quercia, la gazza o l'onda accarezzata dal vento risponderanno a loro tempo. Quando ho trovato il coraggio di guardare il vuoto dentro me ho smesso di sentirmi sola e anche se a volte ho freddo non cesso di aprire il cuore alla vita, accettando l'imprevedibile, l'inatteso che mi spingono verso nuovi orizzonti, nuove amicizie, nuovi stimoli. E ho capito che non esiste il caso, perchè l'universo ci sostiene sempre a patto che abbiamo occhi per vedere Questa l'ho chiamata fede. Quando ho trovato il coraggio di guardare il vuoto dentro me ho capito che tra il tendere l'arco e il desiderio di non mancare il bersaglio e che stare col fiato sospeso sull'abisso toglie energia all'arciere. Questa l'ho chiamata strategia. Perchè, quando ho trovato il coraggio di guardare il vuoto dentro me, mi sono accolta, interamente,
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Si può essere felici
Si può esser felici senza far niente, senza dover, per forza, fare qualcosa, standosene seduti nel lembo della sera, nel nero velluto che abbraccia come una madre. Si può essere felici semplicemente respirando, lasciando entrare e morire vita e poi ancora... Entrando nel ritmo che incide e dilegua istanti, incessante, sulla trama del nostro stare. Si può essere felici osservando le luci gialle di una finestra, poveri dell'infinita ricchezza dell'immagine che colora, sfuma, dissolve, ricrea. Si può essere felici anche per il dolore, se si è forti, perchè il dolore è il travestimento della luce. Si può essere felici quando comprendi di non sapere niente e guardi il mondo con gli occhi di un bambino dove tutto è magico, presente, qui e ora, solo qui e ora. Si può essere felici per le risate dei ragazzi o semplicemente per l'immobile silenzio che cura e accarezza le cime degli abeti. Si può essere felici per niente o per il tutto che c'è nel poco o niente, a patto che tu abbia occhi per guardarci dentro.
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L’assalto
Mi appari nel grigio di un ricordo, come petalo di geranio gualcito, slabbrato l’azzurro, nel pianto di una farfalla affissa a una calendula sfiorita o forse falena smarrita nel giardino dell’ombra, ingiallita tra inconcludenti mieli sfiniti. Posso celebrare solo ciò che è vivo e in mezzo a questi spenti crisantemi e auree cornici mangiate dal tarlo, in danza sublime elevarmi, a dirotto dai passi degli amori perduti, tra quei verbi così poco usati che screzian l’ali alle farfalle e repentino prevale l’assalto o è il morire, non so.
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Perchè hai paura?
Perché hai paura? Non c’è nessuno la fuori, nemmeno qua dentro… Non c’è nessun fuori e nessun dentro. Non ci sei nemmeno tu. Questo cipresso e la tua ombra: osserva l’austero che sfronda catene e miete illusioni! Osserva… S’offre, larga, la nuvola ruggente d’ambra e di rosa… Sta nel suo darsi; Lei sa, che non esiste.
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L’oro della sera
Con gli occhi cerco il suono delle stelle e mi compari tu, oltre la pelle, perduto già nel vento di un ricordo, confitto nelle carni come un cardo. Perfetta geometria fu il tuo passare, all’ombra di un ricordo naufragare. Ma ogni mio respiro era preghiera, che illuminava il regno della sera. Nell’aria respiravo sogni strani, portandoti nel grembo, coi gabbiani e non sapevo che eri tu a chiamare dall’onda più brillante in fondo al mare. Poi noi vidi fiorire a primavera ed era alba l’oro della sera.
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Poi un dio mi baciò lì, sulla fronte
Tra stanze stanche d'epopee negate strane storie respiravo, a secchiate; fissavo rotaie di viaggi altrui, passavo in fretta corridoi bui. Gravi silenzi asfaltavano istanti, tra facce annoiate di stanchi astanti. Velieri sostavano in teche ristrette, nell’ore affossate di rese imperfette. Ricordi appassiti di trascorse estati, memorie segrete di amori traditi… Poi un dio mi baciò lì, sulla fronte e poesia soffiò pietà, dalla fonte.
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il borghese
Tu dimmi, cosa cerchi, mio tenero borghese? Nei campi forse il filo delle perdute estati? Ma il tempo già s'arretra tra le tue spalle strette; tu cerchi il tuo destino nel sole vespertino? Fuggita la stagione dell'invocato pianto, tu volgi già a ponente che porta altrove il canto.
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Nel ventre di montagna
Dell'onda il canto suona già preghiera, schiarendo il dolce azzurro fino a sera. E bacia ancora il sole la montagna, seduta sulle rive che acqua bagna... Le nuvole, sul ciel, paiono colombe che portano il respiro giù alle sponde ed un pensier riposa in questo stare, portato dal villaggio in fondo al mare, nel ventre, custodito, di montagna che a stella eleva l'onda, finchè sogna.
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Il mare sta nascosto lì, oltre il ponte
Il vento soffia forte sulla pelle, portando qua il profumo delle stelle, da un tavolino a squame di serpente vedo sfilare tutta questa gente. (Il mare sta nascosto lì, oltre il ponte) Palazzi stanno freddi ad osservare le luci arancio splendere sul mare poi calvo, un uomo, gli occhi azzurro mare mi siede accanto e finge di aspettare. E mi raggiunge odor di sigaretta e blu oltremare è pure la maglietta. E nella mente s'agita un pensiero che sopra quel frastuon s'eleva, fiero. (Ma il mare sta nascosto lì, oltre il ponte)
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Mattino di fine estate
Nel cielo di un mattin sereno e cheto colombi in alto van, oltre le mura. Ritornano pensieri abbandonati, emergon dall'azzurro delle onde. Bagnanti scarsi abitan le sponde, le case stanno chete in fondo a estate. Sulla scogliera siede il passo fermo di autunno che respira in nuovi approdi.
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Lontano
Il mare dopo pioggia vangava lento il canto, la nuvola soffusa riaprendo nuovi cieli 'che lui vide lontano e s'aggrumò già in frolla la sabbia tra le dita... (Ed era già mattino).
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Il funambolo
Tendesti al caracollo, nessuno ti trattenne! La maschera sgraziata fioccava di sudori... Da facce ancora illese salivano gli sputi. Ma tu tenevi fisso lo sguardo a nera stella.
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Così, andai
Dimenticai presto il beato mordente di Chimera ruggente, in strani fiumi d'oblio scivolando tra remi insabbiati di estati perdute. S'addensarono nebbie, nei cortili, le lacrime tracimando in biglie incastrate in intricati nodi di rabbia; ammutinati i miei vegliardi ardenti. Così, come mallo inerme andai negli anni, perdendo pastelli dallo zaino, lasciando il genio ululare in freddi fossati di neve.
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Ragazzi
A due passi dal mare stelle danzanti in colori brillanti parlano parole d'argento, guizzano con l'onda, come libellule tra vuote stanze di desideri privati, in bilico, sopra i rotti ponti di una cieca civiltà. Così, zingari, vanno protetti da un angelo che gli terge l'ali, estorcendo un impero all'assoluta precarietà.
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Crollo d’epoca
E la giovane a lei disse, in mite confidenza, 'osserva le zolle ardenti e dell'ulivo, odi il conturbato canto o le dolci nenie dei rododendri...'. Ma lei già volse lo sguardo, in gonfiori, ormai, caracollando l'eterno volto di pallida bambina, quel livido, conservando, languente dietro sorrisi di cartapesta. E allora lei additò le agavi in esulto di linfa e di spine, cortecce affustate in pose terrigne e zolle ruggenti tra clangori di cardi o del noce l'imperioso velluto e ancora, osò, 'perchè non vieni?'. Ma lei chiuse la finestra 'ormai' dicendo e maledicendo, crollando un'epoca sotto un sorriso di frolla.
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Mi contaminai
Mi contaminai, di te, dietro la gabbia dei cieli, sopra di noi la coppa di una luna ruggente e tramonti strascichi di sanguigne opalescenze. E il copione lacerai sui bordi degli istanti così, schietta come a morirne. E non seppi dire altro, il tuo teschio, reggendo tra le mani, ancora; divorandomi un sapore di illuminati inferni.
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Così addivieni, addentro
Mi coli dalle mani, da questa carta, da questo inchiostro che traluce il beato regno delle tue ombre; così, addivieni addentro alla corolla d'immagini suadenti come farfalle in languenti agonie o come note, sussurrate nell'amplesso d'istanti che resina, trasuda tenendoci incollati nella vuota cavità delle cortecce.
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Ineluttabile amore
Lava, la madre dell'acque i suoi bimbi di roccia; la sua musica è chiara e leggera, porta memorie di spiriti corsari, in cui l'anima riposa il suo sonno bambino. Troppo alto è il suo linguaggio, eppure sereno di effluvi che ammansiscono gli scogli; amanti di pietra per sempre sedotti dalla tracotante tenerezza della musica dell'onda; Segreti, inabissa, tra i silenzi dell'ancore, recando codici di lettere trascorse, vide segrete custodite nel suo immenso verde-azzurro costato. Per questo trafigge, nelle solitarie notti di stelle, il canto dei fondali; come lamento risuona e sembra dire l'insondabile ineluttabile amore, che spinge a morire.
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Dimenticammo i fiori. Dedicata a mia nonna Angela.
E così dimenticammo i fiori, lasciandoli appassire sulle finestre, gola a megafoni, proclamammo, in accordo di propaganda, le atterrite verità di sussistenza. E afflitti da macigni, marciammo nei giorni sbiancati dai detersivi, esiliati nelle pasciute cantine di vizi ammansiti da ignoranze sovrane. E proseguimmo, intanto, indenni in orchestre calibrate, incapaci di eleggere danze a destini, con cuori a batteria, ossidati in pantomime di copioni sfatti. Accadde, perchè dimenticammo i fiori e fu il crimine della poesia, il nostro stesso.
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Lo specchio
A te che hai bisogno di umiliare altri, per dimostrare chi sei, orgasmico di onnipotenza, guarda... Lo specchio liso... Sentore di calce e di cadavere... Tu, leggiadra impermanenza, vuoto frainteso, inascoltato, non irrigato dall'acqua della fede Osserva l'agonia del petalo scarnificato non è dolore, ma bellezza aperta a divarico sui cieli, istantanea a scadenza, che più non sarà, perchè altra luce permei e irrighi la soava unicità dell'attimo che fulge, cade, muore... Come te, che uscito dalla scena delle tue commedie, roboanti di vanagloria, il grigio troverai ad ammiccarti delle pareti e più in fondo, lo specchio, a dirti: "Guarda... guarda... Finalmente, ora, guarda!". E già non sarai.
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Promesse
Ella si levò all'alba, sullo spento tizzone della notte già caduta. Lasciò il corpo nudo di colore, quando lavò il piombo di fantasmi antiche; li lasciò sbiadire, semplicemente, tra le pareti magenta. Roma infiorò promesse con l'oro del giorno, come il dio che nasceva dalle sue immacolate carni.
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Il Sacro Fiore
Dove s'arrresta il finto effluvio delle chiare notti senza stelle, lì, nella vagina della terra, inciderò, con un legno il tuo nome, dirò: da qui è passato un fiume, s'è incrinato il tragitto della quieta valle e le stelle, spodestate dagli agi del trono celeste hanno tremato come lucciole acerbe, con me, china sui tuoi occhi, scheletro sull'abisso, gemmando il Sacro Fiore di questo nostro amore.
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Il torrente
L'acqua fluisce, gorgoglia in sinusoidi festose sopra un cielo di lacca, che la mente incolla a antichi incantesimi. Il rivo s'arresta sul delta; si dimena, il calabrone sulla verde sponda. Risorge l'urlo antico.
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Sola
Son sola nel brusio dell'inconcludenza quando pezzi d'anima spaccano il fondo oscuro d'una abissale convivialità, vuota di solitudini, riempite come scatole di cartone, scricchiolanti di pensieri di plastica. Son sola nelle finte allegrie spavalde o quando viene giorno, ma son sola nella notte dei ricordi e le ragnatele offuscano la vista. Son sola quando chiudo l'infinito sulle dita in cambio di barili di pensieri, convenzioni - il trito e ritrito della parabola del buon gregge- o quando raccolgo briciole di sorrisi e mendico farfalle dagli sterili paesaggi dell'abitudine. Lì, tra quelle chiazze di distanze, son sola, saccheggiata dall'Infinito che esplode, dalla mia corolla quando sono veramente sola.
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Oro
Quando ti sembra di precipitare, in basso, così in basso, non temere; non c'è nulla che non possa essere trasmutato. Osserva le pietre scure sedimentate in te; sono la pesantezza dei millenni, che il dolore copre come una crosta di piombo. Tu, osserva... Non c'è nulla che non possa essere trasmutato. Versa allora l'oro dell'amore dall'occhio aperto sui tuoi sbagli, capirai che il tuo unico sbaglio è esserti scordato di te. E saprai che l'oro che illumina il cuore è una moneta senza inflazione e tu ama, ama il Sentiero, ama anche i tuoi sbagli. Di pietra in pietra, l'oro risorgerà l'antico tuo tempio; e dalle dissodate zolle del cuore nascerà un fiore e avrà il tuo nome.
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Per arrivare fin lì
Ci vuole molta luce per arrivare fin lì, dove il cuore s'arena su una giostra d'istanti perduti, memorie offuscate nella periferia dei ricordi, macinati con le ere e i loro fasti di sabbia e di nebbia. Ci vuole molta luce per congedare gli altari, abbattere i templi; occorre sentire il sangue che gela lo scheletro. Occorre l'impietosa luce fredda che fa trasalire il ragno. Morire con la foglia bucata, già caduta, di ogni perchè.
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Nel fiore dell’Ade
Nel fiore dell'Ade Sul tavolo il pane è raffermo, ma le mie mani raccolgono briciole. Il freddo s'accende come un deserto; ci sono corvi e odore di decomposizione. Le parole rotolano come biglie sull'inutile tavolo che conobbi, già crepato. Frammenti d'immagini muoiono nel vento inutile che nel fiore dell'Ade, mi sprofondò ancora a cantare sulle mie ossa.
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La casa dei tulipani rossi
E' lontana la casa dei tulipani rossi, quella in cui cercavo il pane, l'odore di buono. La tristezza ha scavato nel midollo, lasciando molta carne alle iene; i loro artigli hanno graffiato persino la tela malinconia che aveva tenuto in serbo gli oli turchesi, per dipingere la mia poesia. Rimane un pensiero: i becchi arancio dei passeri nel nido. "Vedi, aspettano la mamma" sentivo. Ed io li dicevo fortunati.
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Liceali
Allora non sapevamo che fare non sapevamo chi essere, solo segnali, qualche stella caduta per caso. Col marchio del peccato originale annusavamo l'aria dietro i vetri sfregandoci addosso solitudini, scandite dal suono della campanella. Nascondevamo la vergogna nei maglioni troppo lunghi, che coprivano le mani. Palle da biliardo per partite da segnare sui registri (alcune cadute, altre no) eravamo e non Destini, potenti come il tuono - che quelli erano le noiose gesta di eserciti assassini da imparare a memoria-. Nei nostri zaini c'erano i pianti delle nostre madri crocifisse dietro le telenovelas o la disgustosa fiducia dei padri in un mondo già perfetto. Nessuna sovversione. Nessuna rivoluzione. Il senso di colpa ci dissanguava dai tempi del fonte battesimale. Orfani e prigionieri noi non sapevamo dove andare...
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Lanima respira, indenne
Se fosse musica, semplice musica di piano, questo andare a ritroso tra la radura del tempo direi della ragione della foglia caduta e già bucata nella superba resistenza porpora e ocra. Direi che è dolce il rivo quando ghiaccia, la sterile terra spaccata dalle feroci estati, come le madri sull'uscio coi loro orfani di guerra. ma la verità è che è musica, questo vivere, il rivo mai ghiacciato, la foglia mai caduta... Solo l'anima respira... Indenne, senza un divenire...
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Ti vidi sempre bella
Ti vidi sempre bella coi tuoi capelli color luna e la figura snella che scivola, come un'ombra, dalla tua casa al tuo giardino, quello che dicevi 'è solo mio'. Lì sognavano le rose, i ciclamini, le dalie e le margherite mentre con mani nodose di grazia sfornavi il tuo pane immacolato. Fiorivano anche gli angeli quando sorridevi e tu, che forse non sapevi nè leggere nè scrivere, nel silenzio parlavi con dio. Una piuma bianca cadeva su me, dai tuoi gesti densi d'aroma di semplicità. E quando passo accanto alla tua casa accanto al tuo giardino, nel cielo sboccia un tramonto di dalia, semplice come le tue margherite e i ciclamini che, sempre, dicono di te, di te, che vidi sempre bella.
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Maschere
Maschere, incollate di fango secolare.... Maschere di buoni valori che celano perfetti assassinii. Maschere d'io sotto polveri di visi asfissiati dalla sete di vita vera, occupatissime maschere orchestrate dalla tirannia della salvaguardia della specie. Maschere come mura di tufo su scantinati di terrore, dove sacrosante vestigia del passato, ornate di muffa eterna, vengono onorate e riposte nel reliquiaio di ferro arrugginito, che la serpe sorveglia. Maschere sempre a un passo dal grande evento trasformatore, ammansite dai domatori di greggi, venditori di lota dorata, presa dai cortili dei loro porcilai. Maschere che danzano al passo - la mannaia sempre sulle teste-. Maschere che insieme è bello, la critica è peccato, orrore, la solitudine. Maschere otturate per il profumo del vento per il respiro dell'alba. Riparate negli odori di plastica di pensieri di plastica, ridono a tono. maschere stritolate d'ansie, di voglie feroci ammansite e sgozzate sull'altare della virtù. Maschere di confortevole mediocrità, non oscillano, non si spezzano, purgate d'ovvietà. E tutto procede E tutto procede E il trucco procede e così sia.
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Il Nuovo Impero.
Una musica t'avvolge, stridente e luminosa come gemme sui muri azzurri di pensieri di giacinto. Passaggi e passaggi scrivono le tue antiche mure; umori nuovi e antichi trasudano, col colore. Le acque del tuo fiume formano un'ansa con le acque del mio grembo e riportano in vita una musica sepolta, la tua musica selvaggia, armonia di popoli e pioppi e pini e spighe e allegre compagnie nei tuoi caffè... Con te danzerò, Roma antica, selvaggia e altera, nobile e popolana, madre di tutti i figli che, in te, cercano nido. E lo dicono le tue stazioni tra sfregamenti e piedi pestati e trolley e kebabbari e venditori di souvenir in vecchi locali scrostati tra odori di spezie e arance e frutti tropicali e zingari e ambulanti e mendicanti e business man e artisti e uomini assoldati al dio della vacuità che cade, col tuo vecchio impero, in salamoia nei palazzi di potere tra reliquie di vuote assemblee nei vuoti cupoloni. Tra queste rovine, con te germoglierò. "Sì, lo voglio", dico, mentre sposo con te la nascita del Nuovo Impero dell'uomo nuovo, senza più catene.
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Fantasmi
Freddi fantasmi entrano di soppiatto nella tenda della notte; o sono, forse, vampiri che succhiamo la placenta del Sogno, lasciando ancora strappi sulla tela. Anemici, zigzaganti vagano nell'obitorio delle passioni mai estinte, dei gesti incompresi, delle verità spezzate, lasciate a illanguidire nella nera notte della Gorgone. Come coltre polverosa sui delitti del tempo, stanno sul precipizio della meccanica che tiene prigioniero il cuore su un abisso di tenebra. Piangono, essi nella notte anemica, cercando carità dalla veste dell'alba bambina che tinga, ancora, sorrisi col colore dei fiori.
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Annunciazione
Sentii la musica fremere sulle sue carni nude. La pietà la diseredò per più di una notte. E lei gettò sui cieli l'ancora: la lacrima schizzò sulla voluta, disegnando ali. Pura come un enigma, densa di ardente resa, seppe farsi trasmutazione. L'angelo venne, a vestirsi delle sue ali. E lei sentì il Cristo giallo balzarle nel ventre.
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Un caffè per Signora-vestita-a-fiori
Sono venuta da te, a prendere un caffè, signora-vestita-a-fiori, ma tu sai dove hai nascosto l'abito più bello? La tua casa è una grande vetrina di cristalliere lucido noce e antiche porcellane e immobili tenenti ad appassire accanto a velieri consegnati, ormai, a un mare di polvere ferma. E il vecchio cavallo al galoppo è sempre lì, instancabile nella sigillata teca tra bicchierini per improbabili rosoli e flute per inaccessibili ricorrenze. Mi hai detto: "Va' pure, in cucina, a preparare il caffè" e c'era anche lì odore di sedimenti, cespi di lattuga lasciati a impietrire tra vuote dispense e nell'aria di chiuso, solo la pietà del sibilo del vecchio frigo. Ho preso da sola il mio caffè, mentre il parrucchiere finiva la tua permanente, nel fondo l'amaro di un dolore antico come il vecchio pendolo tra ore di gesso. Ho messo, allora, grani di cioccolato nel caffè che ho lasciato per te, signora-vestita-a-fiori, un grano per ogni amore non consumato, un grano per ogni sole filtrato, un grano per ogni ballo abbandonato prima che fosse mezzanotte, un grano per ogni amore mai nemmeno sognato. E ora sì che sei bella con la tua permanente, mentre bevi il mio caffè con grani di cioccolato, signora-vestita-a-fiori, oggi che puoi finalmente regalare una lacrima al tuo amore.
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Nella stanza di Barbablu
Incontrarmi, in questo spazio, tra croste di luce di lampadari spenti, arrugginiti come stanche rotaie, mentre il serpente dell'impaurito dolore lacera la gola. C'è puzzo di carogne, onnipresenti spettri ebbri inumidiscono di bile i pavimenti, scuri come mosaici scollati. Il calore è un forno elettrico. Sagome di gesso e tufo, stanno appollaiate sulla cassetta dei risparmi. Sulle assi portanti del dolore, onnipresente come un ragno attaccato al mio sesso di bambino-nato-femmina, memorie fatte a pezzi, scollate come vecchie fotografie, trasudano inquietanti requiem. Il vuoto mi mangia da dentro come un feto maledetto, ripetendo voci scollegate da un telefono rotto. Solo una libellula, blu salta nel buio.
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Da qualche parte
Mi sono fermata in questa nera isola di suono; niente da dire, ricordi filtrano dai cocci di una bottiglia. Ci sono cose dimenticate tra filospinati azzurro-ruggine, spremute di dolore lasciate a irrancidire. La luce, minima, è uno scherzo. Sulla tavola nera chiodi imprimono un segno, alle pareti c'è un Cristo tanto folle da essere muto. Ma i tuoi solchi rosso clandestino lasciano una musica di fiordaliso sulla macchinetta del caffè. dicono che il sole è da qualche parte, dov'eravamo prima che ci spezzassero le ali.
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Laquilone
Sul cielo azzurro uno squarcio, muto divarica le arterie - cola sangue sulle pareti incalcinate- ma un aquilone dalla ferita tela, tesse il suo mosaico di luce.
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La stagione dei gelsomini
Lanciò guanti, borsetta, giarrettiera, tacchi a spillo tra le nuvole. Non ancora sfiorita era la stagione dei gelsmoni. In cielo accese una sigaretta di pietà: cenere rossa, rotolò fino all'acqua. Nel suo specchio si vide, illesa, scarlatta di pallore, come grappolo maturo dall'oscura luce del baco. Nata, lei era e non lo sapeva. Non ancora sfiorita, era la stagione dei gelsomini.
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Nonostante
Nonostante tutto, sei stato scia nel fuoco, pelle nella pelle. Nonostante. Nonostante la tenerezza che spacca le ossa e la morte ti spacca Nonostante i morsi al nervo del cuore, la tumefazione sbriciolata sulla tua stessa tumefazione.. Nonostante. Nonostante il fiore bianco caduto per caso nel grido di una musica spezzata da esili di piombo nelle fottute notti - notti dopo notti -, ci sei stato A violarmi col suono d'una illusione, a spezzare le mie infangate corde, appese a una luna storta. Nonostante tutto, tue, sono queste mani di fango attaccate al mio fango; la luce potrebbe essere una svista.
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Tu, nella mia più profonda luna
Tu stai nelle grotte della mia più profonda luna, re della mia isola beata, nascosto nel dolce suono delle mie insospettate acque. E niente ti turba, niente ti gualcisce il respiro mentre così, silenzioso, stai, sospeso nella mia luce argento come in un canto.
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Tu sei
Tu sei il fossato e sangue sulla rupe. L'alleluiah improvviso che esplode come uno squarcio quando d'improvviso appari e mi resti dentro. Sei il ferro nudo che, nella livida notte, mi lacera la caviglia ma resta, tuttavia attaccato all'abisso dell' Infinito.
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Sul limite dellAssoluto
M'accecò, il tuo nome suonò in sigilli fondi, oltre le pianure. Il fiume divaricò le cosce per contenere il brivido e intanto, schiumò la resa la brina che si accavallava sull'erba, in festoni. Chiamai il tuo nome e tracimai angoscia come una partoriente ebbra, quando la tua carne nella mia carne si fece e carne spezzò ed io restai, scalza, sul limite dell'Assoluto.
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Solo spazi
Un sole d'alabastro spettina le rive, ed io rinasco, Venere, nel vento. Ho dipinto col sangue il mio ritratto, sulle tremanti dita la brezza del fuoco, attinta alla tenerezza che scompone le sponde. Sono giglio, fiore rosso, pozza ebbra di sole, sono terra che nasce da una prateria di stelle. Ho asciugato il pianto dei fiordalisi dai miei giardini visto il mare freddo dai pascoli da cui fuggivi, cavallo indomito ma pur sempre preda, dimentico del fiore che affondò nel ventre umido di un Sogno. E vado, ora, con la sfera intatta di sogni mutanti nella giostra dei giorni e ho ancora sulle gambe i calzini da bambina, la treccia che mia madre raccolse nella scatola dei ricordi per il tempo ebbro, quello delle onde indaco che lavano le orme oscure. Spazi, solo spazi, ora, in questo mio andare...
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Da qui
Ora che m'aleggia dentro l'aroma di fragranza antica stanato nei ciottoli grigi, come oro, resuscito dall'ombra, dall'isola diseredata che lasciai ai suoi carnevali alle sue inopinate effervescenze artificiali, cariate di tradizioni sdentate. Nessun tremore. Il canto della tenerezza sta sulle mie dita che attraversano l'oro dal pianto del mare. Sono io l'isola nuova che cercai dai colli di bottiglie acuminate, col sangue sulle dita, stanando inesorabile, messaggi nascosti scavando dalle trinceee degli occhi nelle insenature fulgide di sotterrati soli. E da qui, ora, so, finalmente so che non finirà mai.
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Incontrarti
Incontrarti, dove la neve cigola sul carillon delle estati perse. Incontrarti ad una giostra, tra stanche rotaie, chissà... Incontrarti dove una cicca, per terra, ha ingoiato troppe parole mute o sull'erba secca, spina a spina, esangui... O dove il vento tracima le parole accartocciate nel tempo come fogli di giornale, appallottolati all'angolo di una strada. Incontrarti là, dove ti sei perso. Per incontrarmi.
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Corpo a corpo
Corpo a corpo, muore il corpo della storia; cadono statue e momumenti, lettere e sillogismi; il fuoco buca Aristotele nello stomaco. Corpo a corpo il tuo odore sventra il mondo, svela il giglio che rinasce folle di foreste.
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Portami via
Vieni a prendermi dove fioriscono le zagare e la morte non sta, secca, all'angolo del fiume, perchè la vincemmo coi baci. Portami via dai vincenti, dalle idee chiare e inoppugnabili. Dai giorni senza memoria, dall'assordante tamburellare della siccità, dai vagoni abbandonati, frenati anzitempo sulle stanche rotaie della vita tu, portami via. Portami via da chi sa tutto, dai tribunali dell'ovvio, dai ministeri della scienza coi loro monumenti al cinismo adorati dagli idolatri del buon senso. Portami nelle tue mani come la bimba che hai sempre cercato, che sa perdersi in un fiore, senza chiedersi perchè.
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Nessuno mi chiese
Mi misero un grembiule giallo tisi, una sottoveste color verde supplica, stretta con una cintura d'anemia mi dissero di non oltrepassare i chiusi cancelli di fare un respiro per volta; chiusero il mio pianto nell'armadietto della carta igienica, mi dissero non fiatare che viene il direttore. Nessuno però mi chiese perchè disegnassi annegati.
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Vicino
Vicino sei il sale delle albe assonnate, il primogenito del grano che sorge dal mio fecondo ventre Vicino sei la fiamma furente delle api assetate sulla fragranza della mia deità sei il pane e il vino incenso e benzoino che affonda nelle sere, umide di naufragi. Quando vicino mi stai, la pioggia cade nel vento con suono di stella e dice che non moriremo, mai.
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Mi prendo di te
Mi prendo di te questa stanchezza antica, i pensieri corsari ammutinati nei tuoi bastimenti assediati Mi prendo di te questa febbre esule di esilii, il passo grave dei diseredati giorni le gambe gonfie di interrotti passi mi prendo questo tuo invisibile tormento che gocciola nelle sere dimentiche di soli prendo la tua morte tra le mani in questa vittoriosa sconfitta che arde come fiamma nelle vene e non vuole altra luce.
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Antica geometria
La mia musica è stridente, come i legni abbuffati di pioggia delle sedie dei giardini, in inverno e tuttavia posso rendertela in germogli dalle mie mani di madonna rossa, gravida d’un sogno bianco. Ma sento che ti spaventa questa donna scheletro che reca, negli occhi, la vertigine d’una atroce apocalisse. Ma non sono le tue lacrime, le mie? Non è tua la terra che trema, consunta, sotto il mio passo consunto? Pure il corvo del dolore s’allontana in questa nuda distanza che trasuda l’anemia d’antichi incantesimi. Resto. Sui miei fossati di neve, salvando il petalo sanguigno tendendo al frangersi dei flutti neri e alle bonacce dei sensi, mentre aspetto la vela della mia antica geometria.
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Fatima
Immensa, tu partecipi al movimento delle acque: discendi, ondeggi, giochi flusso e riflusso tu inventi il mare. La tua voce è dolce come fiaba antica di antiche curandere, non tracci tracciati ma scrivi parole nuove con un tocco sulla sabbia; Alchimista sensuale e suadente tu governi senza decreti e battaglie, offrendo al mondo un sorriso di cioccolata. Entrerò ancora tra le tue larghe vesti, Fatima e dalla stessa conchiglia rinascerò con te per riportare al mondo ferito il tuo stesso sorriso di mare.
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Emma (Ispirata al personaggio di Emma Bovary)
Era una sete, assidua di giorni di giostre di fiori la tua sete, che faceva cigolare le nocche, spettinava i capelli inquieti come falde d’un deserto arso dal sole. Tessevi sogni scomposti con le filigrane francesi. Ti attraversava l’incubo della certezza, spegnevi le candele e vedevi oltre le mensole scarne, quell’urlo che accoglievi nel grembo palpitante; Non mentivi. Osavi esigere dal destino come un mercante verso i creditori, bussando con mani bianche, volto bianco occhi di colomba ardente. Chiedevi amore. Chiedevi l’inspiegabile che traboccasse, lenisse la carcassa dei giorni macerati nell’immobile ordine del contadino ligio al suo padrone. Bevesti quel vino. Tutta la cantina grondò nel pozzo del tuo desiderio come fiumi che confluiscono nel letto del grande mare nato dal fiore del deserto. Emma, fu il tuo nome. Emma. E porti ancora, nel tuo insaziato cuore, il fiore di ogni donna in cerca d’amore.
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Signora Pernice
Signora Pernice aveva un padre una madre una vecchia zia con denti d’avorio a centocinquant’anni suonati e gestiva pavimenti di marmo tirati a lucido, lasciando che la luce dell’alba solleticasse appena l’arredo di mobili in noce con fiori finti e tiretti sigillati da blocchi di ricevute e concessioni edilizie e testamentarie. Signora Pernice soppesava ogni parola e non sapeva quello che diceva e tuttavia lo diceva con eleganza inoppugnabile quando le mareee si agitavano oltre le nere cime delle case svettanti e un vento tetro presagiva i capricci dell’ostro; Signora Pernice andava a messa tutte le domeniche e leggeva il libricino delle orazioni sempre dallo stesso verso e strappava con acredine spazio alla vicina che sorseggiava appena parole, avvolta nel calice rovesciato del suo cappotto di feltro marrone. Nessun lamento. O inflessione Quando il marmo della casa si aprì, e l’inghiottì.
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Il mio gatto
Microcosmo di nera voluttà, curve morbide e lascive artigli pronti a prendere e a strappare; gioco e morte siedi sulle mie cosce come su un trono, e sei un bambino che gioca con la mia giacca o un capriccioso amante imperfetto che non conosce tregua e mi rivolge i suoi attentati, accecandomi coi suoi occhi di duro smeraldo.
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Il corpo nudo delle stelle
Sono arrivata al punto di non dover più firmare alcun registro, il mio nome l'hanno cancellato con una squadraccia, credendo di impiccare le mie stelle; Ora vado errando tra terre, boschi e laghi immaginari, Ora anche di giorno, vedo il corpo nudo delle stelle.
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A sera le formiche tornano sempre al formichiere
Termodinamica Tecnoidraulica Tecno…tettonica Campeggio nell’universo tecnico/tellurico L’occhio tagliente Arrovesciati paradigmi Violenza ed odio violenza ed odio Cigni feriti Bambini dimenticati Passano fanfare alla modernità: Donne con musi termici Occhi meccanici A sera, le formiche Tornano sempre Al formichiere.
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Distanza infinitesimale.
Dove sei stato, in quale lido o discarica di cose mai dette hai sepolto la tua rabbia? La strada é impervia. Stretto il sentiero. I glicini han ceduto il candore, arenati su grate di filo metallico fatte per sedare ogni voglia vera di respirare, correre, andare. Dove sei stato? Non hai saputo capire -eppure il passo era breve – quanta distanza passa dall’Essere al divenire. Hai replicato, come una pellicola incantata, sogni corrotti di un padre stanco; te li sei presi senza fiatare senza cercare – delitto! – di capire la distanza infinitesimale tra te e il mare.
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Il canto di Eos e di Titone
Il Canto di Eos e Titone I L’Incontro Eos Vieni, vieni, vieni, prima che sia troppo tardi; percorri con braccia piene, come grandi remi questo mare di cielo che ci divide; Vedi… Brilla nella notte e le sue onde sono lampade d’argento che illuminano i sogni come piccole, scintillanti lune marine. Titone Non sai… No, tu non sai la fatica di percorrere gli anni… Eos Oh no! Non dirlo… Ma vieni, vieni, vieni, lascia che sia io a divenire mare per percorrerti le vene come unguento… Vieni, vieni, vieni, voglio vestirti d’ocra e d’arancio, ungerti nel Fuoco del mio Amore. Titone La vedi anche tu la notte senza argento? Le colline sono cupe, severo, il monte, immobile come la Legge che ci sovrasta Eos La legge, la legge, la legge… Ma che legge è mai questa? La legge che ci volle muti? Perduti nello scambio di cose mute? Titone Non dirlo, ti prego… Eos Sei tu che lo dici. Lo dici nelle sere solo nel tuo letto; Lo dici accanto a un lume sempre più spento… Eos e Titone Lo dico in Te, che ho cercato, in Te che sono. ≈ Eos Hai sentito? Lo scoppio di Luce, le nostre Anime… Titone Sono ai tuoi piedi, mia amata, ma ancora resisto avvolto alla cavezza. Sono vecchio e solo. Eos Le mie notti non furono men cupe; Assetati, spesso, i miei giorni. Il tuo dolore m’appartiene… Titone E allora avanza, libellula d’aurora, avanza, sogno, lascia dietro te strascichi di luce per asciugare il sangue e spargiti sui miei giorni, inventami, inventami, inventami… Oh, quanto ti attesi! Quanto le mie membra stanche reclamarono acqua e luce! Eos L’emozione mi prende, mi libera la stretta in gola… Piango, piango, piango; non è dolore ma gioia, gioia, gioia. Ecco, amore, l’acqua Ecco, amore, il sole… Titone Vieni, aggrappati alle mie dita: vedi quanta neve d’estate! Eos No, non è neve, è luce… Luce e lacrime, lacrime, lacrime, tutte quelle che non versai. Quanto a lungo ti ho atteso! Quanto a lungo il mio dolore ha gridato alle soglie della follia! E ora, che farai? Ancora mi lascerai? Titone Il dolore che grida alle soglie della follia; ecco il fiele più amaro! Eos Tu puoi guarirmi, tu puoi entrare in quel vuoto, solo l’Amore può vincere i demoni, anche quelli del silenzio! Titone Tu eri già mia. Mia come l’estate sul pero; mia come terra delle mie stesse radici; Ed ora vieni, non temere il buio della notte, liberati sulle mie mani, dalle mie mani d’Ostia viva. Vieni, mia regina, farfalla di sogno sospesa nell’aria delle mie primavere perenni. Vieni, cerbiatta graziosa, sui prati verdi delle mie esistenze andate, vieni, raggio d’aria che scavalchi il tempo, gemma, cigno bianco, acquamarina, vieni, vieni, vieni… Eos Vengo sulle ostie delle tue mani sono acquamarina, gemma, cigno bianco. Come sono delicate le tue mani e forti e come brilla l’anello della tua Fede! Sono petalo, amore, sulle tue mani che ora sono acquamarina mossa dalle mie emozioni… La Grazia ti pervade, ti rende sposo e la tua bellezza rifulge come diamante. Sii il mio sposo, sposo del mio dolore redento, delle mie lacrime trasformate in pane… Vieni, vieni, vieni, saziamoci del nostro amore, Grande Ostia per tutti i giorni senza pane! Titone La felicità mi rende leggero, sono un ragazzo e tu la mia giovane sposa. Ci siamo forse incontrati In altre vite? Eos Altre vite, altri soli, altre lune… Ma non è forse Uno il giorno? Non è forse Uno il sole? Tremo, tremo, tremo come canna nell’immenso campo della tua anima, feconda, di spiga… Come sono pieni i tuoi occhi; Sono topazio bagnato di luce sfumato all’ombra della luna. Titone Non sono i miei occhi, ma i tuoi… Eos, Titone Nessuno può capire il Mistero, Siamo Luce della stessa Ombra Siamo Ombra della stessa Luce. ≈ Eos Oh, sciagurato presagio! Quel dolore... Vedere che la scia scompare! Titone Tu sei mia Eos Ancora, dillo… Titone Mia, mia, mia… Eos M’ami tu così? Titone Un tempo, al mio capezzale, pregasti il Destino prendesse altra strada, quel destino che tu conoscevi! Titone parla con gli occhi abbagliati rivolti verso l’alto. Titone Tu fosti eletta a tessere il mio sudario con le trame del tuo cuore Eos Io, allora, fui già Santa? Titone acquista la lucidità. Titone Santa, oh sì! Santa e con la tua santità stregasti il mio cuore che trascinò detriti d’ansie, angosce, paure verso il rivo delle tue vene che intrecciarono reti e m’accolsero, intero. Oh! Sii Benedetta, Benedetta tra le donne… Eos Ed io ti benedico, amore, ti benedico col mio sangue, ti benedico con gli occhi, con queste mani che tesserono sudari nuziali per il tuo corpo di spiga matura, Ti benedico preghiera che colasti sulla mia vita e tergesti l’impuro con la Sacra Fiamma e avverasti la promessa di Dio alla mia Consacrazione. Titone Oh, mia Santa! Mia Sposa, mia Diletta! Mai l’Immenso fu più prossimo! Entrambi cadono in ginocchio, gli occhi colmi di una luce abbagliante che irradia da essi. Dopo qualche tempo, Eos si rialza. Eos Tu, amore, sei tutti i miei amori! Eos Tu m’apri le porte del Paradiso! Titone Sempre ti è appartenuto Sempre ci è appartenuto Noi… Pura Luce… Titone è vestito con un mantello sacerdotale color oro. Le si avvicina e l’avvolge. Lui diviene sole, lei luna. Dalla loro danza nasce la Terra. Titone Io sono l’Alfa Eos Ed io l’Omega Eos Io sono l’Alfa Titone Ed io l’Omega II Distacco Eos E’ notte, vedi, è già notte! Titone La notte non è assenza di luce e tu lo sai… Eos Non so più niente. Sono nuda. Nuda come acino disperso; vino versato dall’otre della storia. Titone Eppure sei diversa, un bagliore nuovo rifulge nei tuoi occhi di cerva. Eos Voglio danzare. E’ la voglia che mi nasce dagli occhi e rifulge. Titone E allora danza, mia sposa senti il Ritmo della Terra e salta con la polvere in faccia, negli occhi, nel naso, e scalcia, puledra, al ritmo tribale del mondo, impazzita, liberata! Danza, danza, danza… Eos danza una danza tribale e sensuale che accende il cielo di colori scintillanti. I capelli e le ciocche, furiose, dipingono strascichi di porpora e rosso. Eos Cosa è accaduto? Titone Hai conosciuto la Felicità; sei entrata nel Ritmo della Terra! I due amanti si guardano, gli sguardi insondabili persi in profondità inaccessibili. Eos Dunque è questa la Felicità? Danza e Follia? Titone le accarezza la fronte. La bacia e, poi, cingendola, la invita a dormire. ≈ Eos Sei vicino, eppure lontano, più lontano di quanto possa immaginare… Ma, dimmi, perché attendesti tanto questo raggio di sole? Hai forse, in passato, temuto l’amore? Titone si scosta da lei, china la testa. Eos Oh! So, so che il fondo dell’Amore è amaro più del fiele e che tu sei un uomo col cervello. Nessun uomo col cervello può e vuol cadere nel torrente imprevedibile e amaro dell’Amore, eppure… Conosco le trappole della ragion pura, la follia di pazzi intelligenti al potere: bambini trucidati, venduti, assoldati, donne stuprate, umiliate, uomini venduti, usati, prostrati… Eos si copre gli occhi. Eos Tutta questa ragione è omicidio e follia! Titone E’ il tuo Amore che ha vinto! Eos Ma l’inverno è duro nel tuo cuore… Non basta la danza di Primavera per scioglierne i ghiacciai! Titone Guarda il ciliegio: guarda i suoi fiori, pronti a tramutarsi in frutti… Tu sei fiore di ciliegio, tu sei primavera. Conoscerai raggi ancor leggiadri sulla tua pelle di petalo, tu stessa sarai ciliegio e protenderai i tuoi rami verso il mare, ancora ammaliata dalla Grazia che volle la tua danza… Tu, nell’eterno fluire del mondo finito: fiore, frutto, ramo, primavera. Oh! Come sei bella! Tu sei la primavera… Eos Tu stai per lasciarmi. Il mare non sarà più lo stesso; Vedi, tende alla linea dell’orizzonte e il tuo orizzonte brilla per me di mille orizzonti e mille orizzonti baciano le mie onde, le increspano, direzionano il loro finito, eterno movimento… Titone Guarda lassù, il monte che s’eleva sul mare, lì mi troverai ogni volta che mi cercherai. A che giova il salto dell’onda che non ascende e s’eleva? Titone e Eos A che giova il mare senza la vetta che annuncia l’Oltre? Titone Questo noi siamo, amante, sorella, madre… Acqua, aria, terra… Titone si incammina verso il monte con un mantello dorato di stelle. Eos solleva le braccia al cielo, la veste azzurra come il mare e grida dietro lui: Eos E Fuoco! Acqua, aria, terra… E Fuoco! Titone si volta un attimo. Titone Così sia! E scompare. Celebrazione Eos Ti lodo, mio amore, ti lodo perché tu m’hai svelato la natura eterna dell’anima mia che Eternità riluce. Tu, mio soave canto più soave di ogni canto, volo dolcissimo di gabbiano, spartito della risacca argentina, Tu, Mistero che giaci nelle carni del mio Spirito, Tu che ridi nell’onde, giochi nell’onde, tu che ti travesti d’onde… Sola, innanzi al Grande Mare Ti sento Tu che stormisci con l’uccel di mare, muori e mi divieni, tu che mi parli il linguaggio sepolto del tempo, tu sempre esistito, tu che non passi, resti, tramonti, resti; Tu, farfalla fiorita sul pelo dell’acqua! Ti lodino le mie braccia, la mia musica, il mio canto, Ti lodino le mie ali, la mia carne, la mia luce… Ti lodi il mio grembo di donna, il muschio delle infinite pareti; Ti lodi l’infinito scorrere della mia preghiera, infinita. Ti lodino le mie mani che inventano le tue, Ti lodi l’argilla della mia essenza, il mio passo che ti cammina accanto, l’arco del desiderio che fa breccia nella tua essenza; ti lodi la mia fede che spinse il tuo veliero verso il porto dimenticato, il Fuoco che distrusse argini di ghiaccio, ti lodi la mia veggenza di donna che innalzò altari sotto la tua Croce e riempì di lacrime e sangue la coppa che ti alimenta. Ti lodi il mio Spirito, finché Luce sposi Tenebre, ti lodi il vagito dei visceri contratti in preghiera. Che io ti lodi, sangue del mio sangue, linfa della mia essenza rosso vino delle mie segrete cantine, Amore del mio Amore! III Assenza Eos, dopo essere caduta in orazione, si risveglia. Eos Il desiderio grida nella notte! Strazia le mie carni ed io le sento sbuffare come sacchi d’aria, doloranti sacchi d’aria e sangue, che strilla in questa notte oscura con parole di grandine e fuoco! Dimmi, tu che ora sei monte, quale mare amaro dischiudi? Non senti come fremo sotto al tuo monte? Il gelo m’attraversa; correnti d’aria e di vuoto… Nella torre, inquieti, s’aggirano i fantasmi dei miei pensieri! Miserere! Io sono divisa, appesa alla tromba assordante dei giorni! Eos Tu non udrai più la mia musica notturna proferire al gelsomino, al ginepro i suoi segreti! No, non udrai più la musica dei miei sensi furiosi! Chi sei tu? Straniero, ladro della mia anima! Eos chiude la finestra, va a dormire. Titone le appare in sogno. Titone La senti, mia amata, questa musica? E’puro canto di luna… Sono io che ti parlo e la mia musica, lenta, scende dalla nuvole sazie del tuo pianto. Io sono la tua armonia, il tuo corallo, Amore nel tuo Amore. Tieni, cara, sgrana questo rosario di parole mai dette e qui, tu ed io, in questa notte eterna sentiamo, sentiamo, sentiamo il tuo, il mio, il nostro Amore. Eos Tu mi hai preso l’anima Titone Era già mia. Ricordi? Andavamo per campi di fiori, pazzi, le mani, i piedi nell’erba, tu eri nocciolo d’aurora io t’amavo già allora… Eos E poi, cosa accadde? Titone Che importa, mia cara? Vorrei che m’amassi così ora con tutto il tuo sangue di donna Eos Vorrei sciogliere nei tuoi baci tutte le mie catene, sentire la musica del tuo corpo asciugare il mio tremore, impregnata al tuo sudore. Vorrei bagnarti gli occhi, tergerti nel mio stesso sangue come rondine marchiata, per sempre persa nel mio mare. Vorrei esplodere nella tua vita come ostrica furiosa, entrarti dentro come naufraga che annaspa, vinta. Persa, senza più alibi. Ancora, vorrei, solidificarmi nella tua essenza come pietra lavica e tornare, di tanto, ancora Fuoco per essere sempre più parte di te. Vorrei essere i tuoi stessi respiri, fino all’ultimo, fino a che morte non ci sorprenda. Vorrei, vorrei, vorrei Dio solo sa Quanto ti vorrei! Eos si ranicchia, dopo essersi espansa al sole. Si risveglia poi col cuore lacerato da dolore e felicità insieme. IV Morte Eos è nella stanza, con lo sguardo rivolto alla finestra. Eos Tu non sei. Vedi: l’aria è chiara e tu non sei. Sei morto all’improvviso, nelle mie lunghe notti insonni. Ho vegliato al tuo funerale: tu eri effige sulla tua stessa tomba. Eos si avvicina ancor più alla finestra. La spalanca. Eos Guardo il rivo. E’ ghiaccio. Fredda tumefazione. Si stringe in se stessa. Rabbrividisce. Eos Davvero è così atroce l’inverno, dopo la follia dell’estate, l’attesa lusinghiera della primavera? Oh! Mai conobbi inverni più tetri! Eos si tappa le orecchie, come per non sentire delle voci. Poi, rivolta al cielo, grida: Eos No, no, non parlarmi più… Oh tu che sei ombra! Oh tu che moristi! Oh tu che fuggisti! Il giorno è greve, senza luce, lento, il passo. Lascia piuttosto che segua il tuo corteo dietro il corteo dei giorni! Ti ho seppellito con queste mani e con le stesse mani ho seppellito me. Nel marmo ho sepolto, sbeffeggiato la febbre mistica dei nostri sensi. Tu non hai più voce non hai più occhi non hai più mani. Ed io tentenno nei giorni vestita del tuo sudario. Non griderà più il sangue, tornerà serrata la mia gola, finché le squame della mia non-essenza cadranno senza rumore dall’abisso dei miei giorni. Allora le mie ceneri si fonderanno alla polvere dell’aria, saranno pulviscolo come ogni cosa è polvere e vento e aria e nulla ci oltrepassa e nulla ci precede. Siamo questo: non più grandi di pulviscolo d’autunno, non più eterni di una goccia di rugiada, non più forti di sagome di corteccia rose dal vento e nello stesso tempo, infiniti, come pulviscolo che aleggia sulla goccia d’una rugiada che scende dalle carni di una corteccia rosa dal tempo. Perché è nel finito l’Eterno e l’Infinito Soffia un vento di tempesta, Eos diviene pulviscolo rosso e ocra e, poi, luce dorata. Dal cielo scende un’altra farfalla, il suo chiarore è argenteo, come la luna. Le farfalle disegnano scie di luce che, ricongiunte, reinventano la geometria dell’universo. E’ l’inizio della Nuova Creazione.
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Eredità (da Una poesia nel cassetto, Flanerì, Roma, 2011)
Mitili aperti affollano le rive condensate dalla bruma; i pescherecci gettano vuote reti sulla rena, Io cammino sulla sabbia, scansando i gusci, dallo stesso sapore di cose vuote come il vuoto che tu hai lasciato in me.
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