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Raccolta di poesie di Maurizio Paganelli
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

L’uomo di pietra

Vecchi conversano appesi alle reti

di orti minuti. Cespugli di more

anneriscono e pungono le dita.

Restano a guardia pochi fichi d'India

di uva che pare bagnarsi in mare.

Gli altoparlanti delle spiagge filtrano

nel fitto argento verde delle olive.

Volendo giungere in cima si deve

resistere a un'angoscia di cicale.

La teleferica in disuso cigola

e il vento che la dondola non è

che un fruscio di cinghiale fra ginepri

per metà rosi dal fuoco. Benché

d'agosto, il sole è tardo e poco. Eppure,

gramo e rosso, il sentiero è quello giusto.

Su terre alte ho deposto per te un sasso,

quel figlio al quale non daremo un nome.

Da qualche tempo vivo all'aria aperta,

senza contare i passi né parlare.

Nemmeno do calci a vuoti barattoli:

l'occhio mi rotola in nascondigli

o sale oltre la chioma delle nuvole

e la mente si stende bianca al sole.

*

Aurelia

C'è un rettifilo fra Borgio e Finale

sguarnito d'impianto balneare,

ma adorno d'una cava, un cimitero,

e fra gli scogli euforbie e cinerarie,

di euforici abbagli di buriana,

quando onde enormi invadono la strada.

Sembrava, andando a scuola la mattina,

che il pullman tremasse correndo

ad intanarsi nella galleria

e a bordo si sfatava lo spavento

chi coi baci chi con la goliardia.

Prima a mare e poi a levante e ponente,

l'Aurelia è stata nostra via maestra,

che anche adesso, distanti, ci raduna.

Nel lampo in cui fissiamo l'orizzonte

da una qualsiasi duna di fortuna,

assomma in noi resse e deserti,

estati e autunni, nostrani e foresti.

Quando all'ora che il sole più non sale

ci narcotizza un coro di cicale,

riappare in sogno il luccichio del sale:

l'oro sul rettilineo per Finale.

*

Quarantore

Davanti al Cristo Morto del Mantegna,

vittima di vertigine prospettica,

credetti di cadere nella tela,

sul petto muto e tra le braccia spente.

 

Nel sepolcro dorato, dai dolenti

disteso sulla pietra dell'unzione,

accanto a Lui, presente e assente,

seppi, al termine d'attimi perfetti,

 

come saremo fuori dai travagli

al colmo della nostra evoluzione,

senza più strappi e appigli sul dirupo,

di fronte al Padre, prodigamente figli.

*

I ciclopi

Vorrei prendermi in mano

e studiarmi, conoscermi davvero

e poi lanciarmi daccapo lontano

ogni volta più libero e sincero,

ma i ciclopi non sanno navigare,

non aran campi né piantano alberi

e scagliano macigni contro il mare.

 

Invece addomestico ciottoli.

Li impugno e imprimo loro un'emozione

che spruzzo fra le onde, affinché

rendano al mondo il nido

di gazza che é il mio cuore.

Così, senza apparire,

vorrei comunicare.

*

Cura dei rami recisi

Era una valle illuminata l'orto

mentre il vento gonfiava la mimosa.

In groppa a un muro a secco

riempivo un sacco di rami recisi

da regalare a scuola.

Ricordo le diverse sfumature di rossore

di chi donava e riceveva il fiore

e il mio non saper bene cosa fare

in bilico tra infanzia e adolescenza,

quando il sorriso della maestra

smette di somigliare

a quello di tua madre

e la bellezza cambia effetto.

Ripenso a tutto questo con affetto,

mentre cola nel vaso

una goccia di limone.

*

Fare il morto

Piuttosto che nuotare preferisco

fare il morto: lasciarmi derivare

dalla corrente dove vuole

e nel mentre non avere pensieri

d’uomo eretto o sapiente ma di mare.

Se a volte uno sconforto immortale

mi scova, grido sott’acqua parole,

sino a smuovere il male che mi grava.

Allora aggallo da abissi nerissimi

bolle, che mi sollevano più lieve

tra il bagnasciuga e l’onda sciampagnina

e ritorno d’incanto, sulla riva,

il sasso che è l’incastro tra due massi

 

e diventa contorno di marina.

*

L’isola

L’isola

 

Mi chiedo con che sguardo

ci osservino gli abitanti dell’isola,

dacché mai ne vidi uno.

 

Crederanno io sia un cieco,

che fissa suoni e odori,

provando tenerezza e compassione.

Ma, forse, ciechi a loro volta,

hanno eletto l’interno a loro grembo

e ritengono l’acqua, che li cinge

e annega, un vincolo malevolo.

 

Forse la mia gente deriva

dalla loro e ciò che mi aspetto

è solo di strappare a mani tese

l’appiglio effimero di un volto

che somigli.

                  

                    Quando imbrunisce,

l’isola pare un bruco

da cui salgano sciami.

Sciolta nel buio ricorda

il fiore preferito.

Le mani che ci posero

su lati opposti applaudono.

Saluto l’altra sponda

e forse, tra le foglie in movimento,

uno nascosto imita il mio gesto.