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Raccolta di poesie di Emanuele Di Marco
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

ennesimo inganno

maledetta, sì, maledetta

quest'ansia di vivere che

mi morde, m'irride, mi tradisce

sempre mi tradisce infine

*

prigioniero

l'ultima lacrima
che ho asciugato
dalla tua ruga
m'imprigiona oggi
m'imprigiona per sempre

*

Soliloquio #controviolenzadonne

Il labbro è rotto, guarda, ed il rossetto?

Oggi non lo metto. Maledetto il giorno

che ti vidi. Perché gridi? quanto dolore

finora mi hai portato? Rinnegato

per nulla hai l'amor nostro, mostro, ecco, mostro!

Mamma dove sei? Ti chiamo.

Mi senti mamma? chiamo...

T'amo mamma che ora sei lì in Cielo.

Me lo dicevi sempre - è un disgraziato! -

ed io sciocca non t'ho mai ascoltato.

Piango in silenzio sullo specchio. 

Gonfio è anchè l'occhio. Io t'imploro, mammetta,

di lontano dammela tu una mano. Come ci vado

io così al lavoro? Che diranno le colleghe?

che risponderò loro? Le scale, anche stavolta?

oppur, sbadata, il comodino,

il solito pensile, il lavabo o il camino?

Ho sentito un rumore, mammina, ti saluto.

Un bacio sul labbro dammi di velluto e scappa.

La tua figliola, sfatta, trema. Ebbro è tornato

adesso l'orco delle nostre fiabe

- te le ricordi, mamma? di’ ricordi? -

il mostro che mi raccontavi

in favole ormai tanto lontane.

 

*

Mi ricordo, sì, io mi ricordo...

Quando ero piccolo sembrava che ogni giorno fosse buono...

Poi non se ne è fatto più nulla.

*

Poeta #poesiapoeti

Inutile, inattuale
verga versi
per un mondo
che ha smesso di
chiederne da un
pezzo.
Osceno saltimbanco,
continua a riempire
cassetti, virtuali e non,
di fogli, appunti,
pensieri che nessuno,
nessuno vuole leggere.
Forse, sfortunato egoista,
semplicemente nutre
del fiero pasto
dell’anima sua
il proprio odiosamato
carnefice, l’anima sua
stessa, cane che mangia
cane.
Che tristo, che misero
figuro, il preclaro,
l’altisonante, il sedicente,
il nascosto, lo sconosciuto,
l’oscuro poeta,
pronto, magari, al suicidio
per un doppio genitivo…
Da mezz’ora
è primavera.

*

Un uomo

Un uomo sugli altri
sa prevalere, essere il
più forte e il più violento,
sempre.
Un uomo non si fa
mettere i piedi in testa,
da nessuno, deve
essere feroce e glaciale,
sa incutere il giusto
timore di se stesso.
Un uomo non ha
sentimenti o, almeno,
mai li deve mostrare
ché son debolezze che qualcuno
potrebbe utilizzare.
Un uomo non sbaglia,
non lo ammette, un uomo
è pura roccia, non piange,
non si corregge.
Per fortuna tu, vero uomo,
sconosciuto sapiente,
non mi hai mai insegnato
tutto questo e oggi, spero,
sono uomo vero anch’io
grazie alla tua silenziosa,
alla tua vivente lezione.
Non che non abbiamo combattuto,
ma lealmente; il tempo, è testimone
galante di un amore che
nella nostra non facile vita
su tutto sempre cresce.
Ti abbraccio mio Giuseppe
addolorato dagli anni,
mio esempio fra mille
dolori e sofferenze,
mio piagato, mio amatissimo
padre.

*

Santo Stefano

Stesa bocconi,

caduta nella grande navata

semivuota,

povera crista

alla ricerca di un po'

di tardivo Natale

(niente, non è successo

niente - dici);

e poi,

davanti al più bel

panorama del mondo

(che fai ti commuovi? 

attenta alle pozzanghere);

e ancora,

stretta al petto l'immagine

della Madonna delle grazie

da donare al marito, che

di grazie abbondanti abbisogna,

all'uomo da sempre, virginalmente,

amato;

e, infine, i tuoi regalini,

i dolciumi di bimba

(ah, il diabete...)

da portare a casa.

Dolce, prepotente

saluti come sempre

con lo sguardo un po' basso

la voce inaspettatamente

venata di timidezza.

Sì, ci sentiamo presto.

La spalla fa male?

No, per fortuna non tanto,

vai, ciao.

Che Santo Stefano!

 

(Il giorno di Santo Stefano è, ormai, lontano e la poesia giaceva fra mille nel cassetto. Ma il compleanno di mia madre è da poco passato e chissà che questi versi non le facciano piacere)

*

Elsa

… e, forse,
solo per un attimo,
hai riaperto gli occhi
febbricitanti, quando
hai sentito che stavi per
partire.
E ti sei stupita anche tu,
come noi tutti dopo,
che stesse accadendo
così, tutto tanto
inaspettatamente.
Ma, immediato, un calore
dolcissimo ti ha invasa,
il caro tepore di Colui
che ti è, che ti è sempre
stato padre e madre.
E, subito rasserenata,
hai reso l’estremo fiato,
quell'ultimo respiro
di docile rassegnazione.
Hai consegnato al Cielo,
a Lui, nelle Sue mani,
la tua bella, la tua gentile,
la tua anima immortale.

*

Angela, ovvero dell’angelo

Angela è volata
in cielo,
il suo corpo
abbandonato
sulla scrivania
davanti al monitor
del pc.
Angela è volata in cielo
in silenzio
(e forse me ne vorrebbe
per questa frase,
ché nel cielo lei non credeva
e per questo preferisco
la minuscola).
Gli amici lo hanno saputo
giorni dopo,
la sua casa di Milano
non è divenuta meta di
affranti pellegrinaggi,
i giornali e i tg,
che pure, in passato, l'avevano
più volte cercata,
hanno, sepolcri!, taciuto.
Io stesso, che da tanto la conosco,
ne ho avuto notizia
solo sette giorni fa.
Angela è volata via,
è volata in Cielo
(perdonami, cara)
e adesso sorride, timida,
mentre parla
a quel Pier Paolo
che ha sempre,
fino all'ultimo istante
della povera vita terrena,
amato
e che ora,
finalmente,
è suo
per sempre.


Angela Molteni è morta l'11 ottobre scorso. Fine studiosa dell'opera di Pier Paolo Pasolini, dal 1997 era curatrice di Pagine Corsare (www.pasolini.net) il più importante, accreditato e cospicuo sito del mondo dedicato all'artista friulano. Ora Pagine Corsare diventa un enorme archivio di notizie, studi, articoli su Pasolini, ma non potrà più essere seguito da Angela, il cui prezioso lavoro si è interrotto proprio quando la morte l'ha colta davanti al computer, ove era capace di passare intere giornate senza riposo, fedele alla sua missione, intenta agli ultimi aggiornamenti. Fino al 2015, grazie al contributo dei visitatori, il dominio web è pagato ed il sito continuerà ad esistere e ad essere punto di riferimento per studiosi e amanti di PPP. Il futuro ulteriore è, al momento, sconosciuto. La speranza, che Pagine Corsare non scompaia.

 

*

Al poeta

Taci.
Poi scrivi.
Poi, ti prego,
taci ancora.


p.s.: questo piccolo testo era già stato pubblicato tempo addietro fra gli 'aforismi' de "La Recherche". Ritenendolo, comunque, adatto e sufficientemente 'poetico' per quest'altra sezione del sito, qui, "un po' per celia, un po' per non morir" lo ripropongo ai lettori.

*

Amelia e Olga

(Tramite il ricordo delle mie dolci nonne, dedico questa, nel giorno della festa della mamma, a mia madre)



Amelia ed Olga,
così diverse in terra,
così simili in Cielo,
dolcemente guardano
i loro figli dall’alto.
Scambiandosi
uno sguardo
di complice intesa,
accarezzano la testa di quelli,
tornati per un momento,
per un piccolo attimo,
i loro bambini,
con invisibile mano.
Ed essi,
nel sonno,
domattina nulla ricorderanno,
sentono premere
i loro capelli
ormai bianchi,
e come da bimbi,
abbandonati
fra le coltri profumate
del materno tepore,
fremono
di un ineffabile brivido
di serenità.

*

Semplice constatazione

Non so più scrivere
nulla.
La mia mano
trasmette alla mia
penna
il grafico piatto
del mio cuore.

*

Nel cuore

Oggi
mi hai baciato
nel cuore.
Un bacio
rapido e
inaspettato.
Una dolce pallottola
di passione.
Tutto il mio spirito
ora vibra,
ebbro
di misterioso
liquore.
Non potrò mai,
mai
dimenticare
quel lungo attimo.
Il tepore
delle tue labbra
calde
sulla mia
anima.

*

Memento Pasolini

Sei morto
esattamente
trentacinque
anni fa.
In televisione
oggi
un tuo film
alle due e mezza.
Stanotte
con bollino rosso
in onda
su Retequattro.

*

La pioggia (incauto omaggio a D’Annunzio)

Taci.

*

Niente canzoni d’amore

Sono talmente abituato
a fingere,
che non so
se ciò che ricordo
è successo davvero.
Te ne sei andato.
L’ultimo sospiro
al mio,
intempestivo,
arrivo.
Hai sorriso,
forse,
hai sorriso.
Ti ho preso
per mano
e ti ho consegnato
a lei e
a Lei.
Sento il peso
di un’inutilità
invincibile,
il gravame
della mia poca
vita.
Ci rivedremo
e di sicuro,
nessun forse:
niente più lavoro,
né fatica,
né malattia;
nessuna bugia
o scusa,
finito il dolore.
Puri, nuovi
ci ritroveremo
in un futuro aprile,
e allora capirò,
alla fine,
l’odiosa gioia
di quel bacio,
freddo,
che ti ho dato.

*

Anima della mia anima

I tuoi occhi
profondissimi,
se mi guardi
spaurisco
di gioia.
La tua pelle
bianca,
le labbra
pronunciate
in un continuo,
delizioso,
broncio.
Le tue smorfie,
non le ho mai
viste fare
a nessun altra,
anch’esse
hanno un che,
diresti,
di nobile.
La tua naturale,
timida,
risolutezza
di minuta
dama.
Ti osservo mentre,
completamente
abbandonata,
dormi
i tuoi piccoli
sogni
nel piccolo
letto.
Me lo dice
il tuo stesso
corpo:
sei tutta
anima.

*

L’inaspettato dono

Massaggiavo,
ieri,
le tue carni
malate e
doloranti
e vedevo
un sorriso
affiorare
sul tuo
volto
di stanco,
di vecchio
bambino.
Ho cantato,
per te,
la mia gioia
di esserti,
comunque,
vicino
con una
sgangherata
canzone napoletana,
ricordata
solo a metà
e a metà
inventata.
Ti sei addormentato
sereno,
entro quel mio pudico
abbraccio.
E,
con la bella semplicità
dei miracoli più grandi,
è stato,
per un attimo,
qui
in terra,
Paradiso.

*

Piccolo cielo

Sono passati
anni,
stagioni nere
e buie,
giorni strazianti
da quando,
bambini,
fratello e sorella,
combattevamo
una guerra
senza speranza
contro il destino
bastardo.
Oggi,
rivedendoti donna,
quasi fosse
la prima volta,
mi percorre
un brivido
dolceamaro,
perché solo adesso
mi accorgo
che, come me,
sei ancora
quella di allora,
dentro la polpa
molle,
sotto la scorza
dura.
Leggo nuove sofferenze,
dietro il tuo sorriso
affabile,
quasi di circostanza:
sorella mia,
il tuo cielo,
ed il mio,
del resto,
è, come allora,
terribilmente angusto.
Ma, credimi,
di un azzurro
meraviglioso.

*

Lettera a mia madre

Lettera aperta,
leggibile da ognuno,
ad una madre,
la mia,
da incorniciare,
da lodare pubblicamente
per la sua
debole forza,
per la sua
forte debolezza.
Madre,
ti ammiro,
(e scrivo ciò
che non oso dire)
tanto più adesso,
che hai saputo
metter da parte,
nascondere,
il tuo scontroso dolore,
per abbracciarne uno
più grande:
quello del mite,
dell'ammalato
padre.
Dolce, ora ti vedo,
e so, per te,
non esser facile,
non banale.
Ti amo.
Amo la tua goffa,
tenera,
forza vitale.
Ricorda che ogni carezza
che avrai per lui,
sarà,
dolcissima,
anche per me.

*

l’urlo

mio padre
non può
più camminare,
né vedere
e non è giusto
perché
è stato sempre
un brav’uomo,
perché è stato
sempre
un uomo
e tanti altri,
vecchi maledetti
e tronfi
son dritti come fusi
e violenti
come ventenni
e non è giusto,
in macchina
parlo da solo
e sbatto le mani
sul volante
perché non è giusto,
davvero,
e vorrei urlare
che il mondo fa schifo,
fa schifo,
fa schifo,
gridare
a pieni polmoni
che la vita
è un orrore
insensato
e cane,
una maledizione,
poi vedo
uno squarcio
di azzurro
fra i palazzi.
e taccio.

*

Ovatta

Mamma, aiuto!
grida la pazza,
mamma, aiuto!
nell’ospedale muto
mamma, aiuto!
nessuno la sente.
Solo un uomo
sulla sedia a rotelle,
piegato, piagato
e reso saggio
dalla vita,
si reca alla sua stanza vuota,
le chiede cosa c’è,
amica mia? cosa t’aggrava?
Ma presto arriva un infermiere,
e dice
questo non si può
davvero fare,
sospingendo la carrozzella indietro,
è contro le regole dell’ospedale.
La donna, ancora sola,
grida ancora
e ancora, ancora
nella notte esala
aiuto, mamma!
aiuto, mamma!
grida, disgraziata;
l’uomo le dedica
una preghiera amara.

*

acqua e Cielo (scritta in auto, l’antivigilia)

Il Tevere scorre,
serpe oleosa,
fra gli argini
scuri.
Porta via
dolci pensieri,
illuse speranze,
brani di vita strappati.
E' spietato
il placido fiume,
spietato:
riluce di mille occhi
cattivi,
che affondano
in gorghi
roventi di gelo.
E' il Natale,
quasi,
freddo e nero:
più che una nascita,
presente guardingo
una silenziosa Apocalisse.

*

L’ulivo

Un vecchio,
un miserabile
spastico,
la bava rappresa
a un angolo
della bocca,
crocefisso
alla lurida
sedia a rotelle,
sta lì,
immobile,
accanto al semaforo,
con un bicchiere,
pochi centesimi
tintinnano,
nella mano
tremante
di povero,
santo,
idiota.
Un torto ulivo
reciso,
sotto il cielo
nerissimo,
nel vento
che spacca
le vene
nei polsi,
incipiente
la fredda pioggia
dell’amaro gennaio.
Chi,
chi mai,
chi è che
ti ha abbandonato
qui
stamattina?
E chi è
quello stesso
che
stasera
avrà il coraggio
di venirti
a riprendere,
semimorto dalla febbre,
per toglierti
i pochi spiccioli distratti
lasciati da stanchi automobilisti?
Maledetto,
perdio!,
sia maledetto.
E maledetto,
stramaledetto,
anch’io
che,
per te,
non posso,
non so,
non ho il coraggio
di fare nulla,
se non scrivere
questi quattro
inutili
versi.

*

Ai miei due vecchi

Trentasei anni,
sempre uno più di me.
Un po’ più stanchi,
entrambi,
un po’ più curvi
dello scorso anno;
eppur belli,
della bellezza
del vostro grande,
strano amore.
Burrascoso,
in gioventù;
dolente e
consapevole poi;
profondo e dolce,
seppur sempre
venato di tempesta,
adesso.
Quasi
vi invidio:
chi l’avrebbe mai detto.
Proprio voi,
così diversi e simili,
così contrastanti
e contrastati,
così testardi e
rumorosi,
sareste diventati
esempio
d’amore.
Lui piegato,
lei appesantita,
li guardo
mentre si accingono
affaticati
all’auto:
e son, negli occhi miei,
confusi forse
dalla lunare sera,
trasfigurati
nel forte,
giovane, uomo
dal profilo volitivo,
nella leggera,
indomabile ragazza
delle foto
di tanti anni fa.
Vi trasforma
proprio
la vostra incredibile,
agrodolce
relazione.
Vi amate davvero.
Vi amo anch’io.

*

Dolcezza

Io
sono uno di quelli,
coglioni,
a cui basterebbe
una goccia
di miele,
ogni tanto.
Solo una,
ogni tanto,
e,
mi conosco,
sarei così
sciocco,
da esser fedele
per sempre;
per sempre
pur pronto
a morire.
Ma tu
non sei
stata capace,
non sei
mai
stata capace,
di stillare
quell’unica
lacrima,
quel dolce
al riarso
palato.
Né mai lo sarai;
né lo spero.
E allora,
in riflesso,
lo sai,
tu mi temi,
divengo,
fin contro
me stesso,
temibil,
terribile
fiele.

*

Natale – sera

Una strana,
inspiegabile,
tenerezza.
I vecchi
diventati,
dolcemente,
più vecchi.
Bimbi
che crescono;
una giovane,
timida donna.
Canzoni
che non cantavo
da una vita.
Delicatamente,
inaspettatamente,
è stata festa.

*

Nel mezzo del cammin...

Da quando
si nasce,
si sa,
non si fa altro
che
morire.
Oggi,
però,
comincio a farlo
ufficialmente.

*

Azzardo

Come un
povero gatto
tremante,
sei delle sue
sette vite
fallite,
finite,
troncate,
trepido
di paura
e orrore,
gioco pavidamente
la mia ultima carta.

*

Piccolo padre

Come lampo
passano
due anni.
Come lampo.
Il cuore
ancora batte
un po’ veloce
al ricordo.
Il cuore
ancora batte,
ora,
al tuo sorriso.
Sorridi sempre,
bambina mia;
sorridi.
Illumina ,
col tuo candore,
il cielo.


a Costanza, il suo zio/padrino

*

Tre punti di sospensione

Il cuore secco
come sterpo
bruciato dalla
canicola estiva,
provo a vergare
nel nulla
due versi
di disperazione.
Una ferita
in suppurazione
che non trattiene più
il suo male.
Trema la mano
adusa, un tempo,
a volare veloce
sul foglio.
Trema
l’anima
dentro.
Scrivo nell’acqua
parole illeggibili,
graffio nel cielo
l’animo mio afasico,
ridicolmente
gonfio
di muta
sofferenza.
Un nodo dolente
che solo
la Provvidenza
potrebbe sciogliere,
una paralisi sconcia
che scempia, orrenda,
il mio viso
in un urlo silenzioso
sono tutto quello
che ora
mi appartiene.

*

Creazione

Era buio.
Fu luce.

*

La piccolissima ninfa

Di fronte alla casa
suburbana
si apre il minuscolo
giardino;
meschino, una striscia
di verde,
due alberi,
un limone e niente.
Ma la primavera
ha portato colore,
calore e vita,
foglie ricche
ed erbe.
Un piccolo folletto,
una ninfetta,
neanche un metro,
anzi,
molto meno,
sta vicino al
suo gigante,
al suo guerriero,
a suo padre,
stanco
al sol calante.
E gioca,
la piccola,
col cielo,
con la natura
di cui conosce il vero.
E prende,
dolcemente,
una formica,
ride e garrisce
raccoglie
anche una spiga;
non ha paura
nel suo picciol regno,
segno che il padre
vigila ben sveglio.
Non col corpo,
assai lasso,
ma col cuore:
potrei guardarti
per ore,
il ditino vagolante
nel nitore
dell’aria appena fresca
della sera.
Sorridi al cielo,
giochi con la terra,
ti perdi e trovi
nel misero giardino,
per te reggia,
foresta;
pian pianino,
mi perdo nel tuo riso,
nel garrito,
che lanci al cielo
appena colorito
dalla sera.
Non sembri mai stancarti,
il sole cala,
ma tu non mostri pena;
piccolissima ninfa,
tu, leggera,
apri la mano,
dentro il tuo tesoro.
Me lo mostri,
di nascosto:
una foglia.
Ridono gli occhi
felici.
Che gioia!


*

Giorno dopo giorno (Galileiana)

Eppur
si muore.

*

Domenica delle Palme

Un attimo
di assurda,
ingiustificata,
dolcissima
speranza
di Resurrezione.

*

Solo per te

Sei bianca
e rossa,
vellutata
come una
giovane pesca.
Piccola mia;
anche nel momento
di questa,
per te
e per me,
non facile prova,
la tua risposta
è sempre
il sorriso.
Dolce.
Darei tutto
per evitarti
un dolore:
rinuncerei
al mio cuore
elegiaco;
darei il mio cuore,
sì,
l’anima mia
per conservarti
sempre
il candore,
la gioia,
la vita
di cui sei portatrice.
Tuo padre
è malato,
per volontà
di uno sconosciuto
fato.
“La cosa
più bella,
la più santa,
la più poetica
del mondo
è l’esser sani”,
diceva
Saint-Beuve.
Sarei pronto
a farmi
squartare
e bruciare
vivo,
come un martire
antico,
a farmi
trapassare
da mille frecce
come Sebastiano,
se servisse
a preservare
la tua
poetica santità.
Rileggo le mie
parole;
sono ridicole,
brutte,
incommensurabili
al mio cuore.
Accettale
ugualmente
(chissà
fra quanto leggerai…)
Tuo padre
è pronto
ora e sempre
a dare,
senza il minimo
tentennamento,
senza la più piccola
indecisione,
a dare
la sua vita
per un tuo
sorriso.

*

Ulpio

E’ morto
un vecchio,
giovane,
amico.
Esempio
di semplicità
e di gaiezza:
un uomo buono.
Riposi
non solo
nella pace:
nell’eterna gioia.

*

Agnizione

Anch’io credetti,
per un attimo,
d’aver vissuto.
Fui vissuto,
come tutti
del resto.
Il presente
non è mai
esistito.
Il futuro non è
che un ammasso
di beffarde
macerie.

*

Eluana

Rimane
il rumore,
assordante,
del silenzio.

*

Memento (remember me)

E,
mentre la gente,
idiota,
guarda
grande fratello,
Eluana,
innocente,
muore.
Ti ho vista
tante volte
in tv
questi giorni:
bella,
invetriata
nel dolcissimo
sorriso
dei tuoi vent’anni.
Bella.
Mi ricordavi
Simonetta,
molti sanno
di chi parlo,
un’altra povera
ragazza,
che assassinarono,
come te
oggi,
più o meno
quando tu
ti schiantasti.
Bella e giovane
anche lei;
non si sa
chi la uccise.
Per te,
l’assassino,
gli assassini,
hanno confessato
prima
di vibrare
il colpo:
eccoli,
in ogni strada,
in ogni piazza,
ora te li addito
a uno
a uno.
Ti ho vista
così tante volte
in foto,
che tu,
più grande di me,
mi eri,
ormai,
figlia.
Ed io,
che sono padre,
sconvolto
dalla tua storia,
pur pietoso
verso il tuo
di padre,
mi dissi:
non potrei mai,
non potrei mai,
non potrei mai,
Dio non voglia,
accudirei
mio figlio
settanta volte
sette anni,
fino all’ultimo respiro.
Chissà come
hai vissuto
questi mille
e mille
giorni:
il nulla?
dolore?
o,
come hanno
detto tanti
che dall’ombra
del coma
son tornati,
beatitudine?
Non ce lo
dirai;
forse
non ce l’avresti
detto
lo stesso.
Qualcuno
ha provato
anche a salvarti;
povere suore bianche
volevano adottarti;
ma
ti hanno ammazzato
lo stesso.
Spero che
alcuni,
che molti,
questa notte,
la passino
in amare riflessioni.
Tu,
piccola, dolce
ragazza
diventata
senza accorgerti
donna
e
senza accorgerti,
spero,
uccisa,
perdonaci.
Mentre Maria
ti accarezza
i capelli
ancora nerissimi
e sorride
nel tuo sguardo
sereno,
ora che
il tuo bianco sorriso
dura per sempre,
ti prego
perdonaci.
Tutti.

*

Superbowl

Non vincono mai
i migliori,
qui come
dappertutto,
oggi
come sempre.
Mezz’America
esulta,
mezz’America
piange,
mezz’America
se ne fotte.
Io,
qua,
ho passato
una notte
folle
di esaltazione
fanciullesca,
solo
davanti
ad uno schermo,
almeno lui,
in festa.
L’altra
metà
dell’America
si interessa solo
del risultato
finale.

*

04:10

Sono
le quattro
e dieci
di una notte
scialba,
che ancora
non si scioglie
in mattino.
Guardo,
sconfitto,
le stupide immagini
del televisore muto
e penso,
nella mia vita,
di aver sbagliato
tutto.

*

Guai agli umili

Sono stanco.
Dovrei smetterla
di guardarmi intorno.
Sono stanco.
La violenza stravince,
il puro muore sgozzato.
Il furbo cammina spedito
sul letto di ossa del giusto.
Mite per natura,
cerco disperatamente
di essere altro,
di spezzare i flutti
delle nere giornate
col piglio,
col ceffo
del duro.
E soffro
la mia inestetica
schizofrenia.
Tu,
mio dolce,
mio caro amico,
sei troppo limpido
anche per fingere;
a pagare
gli ingiusti dolori
che soffre il tuo cuore
sei tu solo.
Osservi morire
i tuoi piccoli,
onestissimi sogni
sotto i colpi
di chi,
più feroce,
ti schiaccia
e poi ride
sui resti di quello
che avevi.
Dolcissimo,
non giovane amico,
invecchi,
per la sofferenza,
un anno al giorno:
distratto,
dimentichi te stesso
in una ridicola tragedia,
fatta di gesti non compiuti,
di frasi non dette,
di eloquenti silenzi.
La tua vecchia roccia
si sgretola di fronte ai miei occhi.
Resisti, ti prego,
resisti.
Il mite
esorta il mite:
lascia che,
in qualche modo,
ti difenda,
che diventi
violento per te.
Per proteggere
la tua infinita
purezza,
sono pronto
a sacrificare
la mia.

*

Vacanze di Natale

Nonostante tutto
e tutti,
sono stati bei giorni
questi.
Sono stati belli
perché
c’eri tu,
piccolo frutto
del ventre della madre
e mio,
ineffabile gioiello,
dono di Dio.
Il mio cuore,
uso a paura
e incertezza,
pieno di sgomento
soprattutto quando gli altri
festeggiano,
si è placato,
conformandosi
al tuo breve,
dolce respiro.
Al suo ritmo,
il mio giorno
ha preso altra forma;
e quando
il tuo alito
si faceva
più pesante
nel dolce sonno
dei tuoi pochi mesi,
sentivo dentro me
una dolce stanchezza,
come quand’ero bimbo
e il sopore mi chiamava
a un riposo sereno,
dopo la lunga giornata nel parco.
Ed io non avevo altro pensiero
che abbandonarmi a delizie
e sogni
che non sarebbero stati mai.
Ma addormentandomi insieme a te
riesco ancora,
come ieri,
a provare
un briciolo
di quel purissimo torpore,
di quella dolcissima attesa
di vita futura,
che non ho avuto più,
che non avrò mai.
Ma Natale è passato,
e tu torni a trascorrere
le giornate coi nonni,
mentre io sto
ad aspettare,
la sera,
di rivederti.
Il tuo sorriso
non è sempre lì
a confortarmi;
devo,
ogni giorno,
lottare,
devo,
ogni ora,
guadagnarlo.
E sono sicuro che,
senza nemmeno saperlo,
nel fondo del puro,
inconsapevole cuore,
la mia stessa pena
un pochino
la soffri
anche tu.

*

Abiura

… ma a volte
basta
un attimo:
uno scorcio
di cielo
fra due palazzi
del secolo scorso,
l’acqua
del fiume
che scorre
incurante
del tempo,
un albero stento
che filtra
la luce
del un sole.
Un sole che
sembra
il primo
sorto
da secoli,
che segna
l’alba
di una nuova
storia.
Che dice:
guarda
quanto è
profondamente
bello
colui che mi fece.
Hai ragione:
è bellissimo.
Signore mio,
Dio mio,
è Natale.

*

E’ Natale

Si digrignano i denti
per le strade
e nelle case;
o, magari, si è contenti.
I parenti
son serpenti;
oppure buoni,
vecchi sentimenti.
Due si lasciano
nella mischia;
due si baciano
sotto il vischio.
Chi si getta giù
da un ponte;
poi chi, invece,
rialza la fronte.
Chi fra le labbra bestemmia,
e chi è accecato
sulla sua via
di Damasco.
Chi crepa
da solo in una stanza;
chi trova compagnia,
il cielo, la speranza.
Io che incido quattro versi
sghembi,
nati non dal gonfio cuore
ma dal grembo.
E’ sempre così,
anche quest’anno,
questo maledetto anno
che se ne muore.
E’ Natale,
è Natale…
dammi la forza
Signore.

*

Il prisma (a un’amica)

Egli ha deciso:
ancora posso sperare.
Un piccolo,
umile
raggio di sole
è penetrato
nella mia vita
e tu,
inaspettato prisma,
lo moltiplichi
ovunque.
La luce
è ancora debole,
è vero,
ma così,
proiettata
attraverso il tuo corpo
geometrico,
sembra un piccolo,
piccolissimo
sole.
Ed io,
novello Lazzaro,
ancora insicuro
se credere
all’insperata vita
o schermirsi
dall’inganno
della morte,
godo,
indeciso
fra speranza
e illusione,
i timidi,
tiepidi
raggi.

*

La forza del presente

Se mi guardi
con quegli
occhietti,
vispi,
di preda
messa all’angolo,
per gioco,
dal cacciatore
barbuto,
tutto dentro di me
si scioglie,
per un attimo
non esiste il dolore,
non è mai esistito;
il tuo cinguettio
cancella
tutto ciò che è stato prima,
prima di un anno fa
o poco meno.
Piccolo, dolce frutto
dei miei lombi
e del grembo materno:
quando guardo,
come ora,
una tua foto,
l’unica,
insopportabile sofferenza,
che mi trafigge il cuore
con un raggio di luce,
è dover aspettare stasera
per poterti riabbracciare,
per baciare ancora e ancora
quegli occhi di preda.

*

I ritagli di Amelia

Amelia mi voleva
molto bene.
Amelia mi voleva
un mare di bene.
Era l’unica che credesse,
davvero,
che io valessi
più degli altri,
più di tutti
gli altri.
Del resto
non ci credevo,
né ci credo,
neanch’io.
Ma lei, cocciuta,
diceva:
<<Capiranno,
lo capiranno tutti>>.
E ritagliava,
per me,
dai giornali,
ogni tipo di notizia
che potesse essermi utile:
avvisi di concorsi
letterari,
bandi universitari,
offerte, alte, di lavoro.
Ma,
soprattutto,
nutriva la mia passione
poetica,
pasceva il mio animo
di narratore e di critico,
con gli articoli di cultura,
le ‘terze pagine’,
di questo o quell’
autore,
di questo o quel
libro,
rassegna,
vernissage.
E, più di tutti,
serbava per me
gli scritti su Paolo,
ben conoscendo
il mio amore
per la sua splendida
arte.
Tagliava,
Amelia,
ritagliava,
per me,
come una bambina
con le antiche figurine,
quelle su cui andava
la colla dietro.
Ora,
poverina,
non può più:
il Signore,
qualche tempo fa,
ha deciso
che era arrivato il tempo,
per le sue mani,
di riposare,
per sempre.
Tengo nelle mie
di mani,
quei suoi fogli,
quei suoi piccoli doni.
Non piango,
rimpiango,
ma sorrido,
pensando che lei
mi guarda,
dal cielo,
ed è felice.
Mi vede,
umilmente,
percorrere quella strada,
che lei, unica,
per me immaginava,
quando nessun altro,
sulla Terra intera,
le dava retta.
Sorrideva anche lei, allora,
e continuava a lastricarla,
quella strada,
con pezzi
di carta
di giornale.

*

24-2-2008

Una domenica ottusa
come lo sanno essere
solo certe domeniche
di febbraio.
Dormivo,
staccati tutti i telefoni,
bisognoso di silenzio
e solitudine.
Appena riacceso
il petulante cellulare,
la chiamata:
stavi morendo.
Corsi veloce
e feroce,
arrabbiato
della mia cecità,
ottuso di sonno interrotto.
Arrivai alla tua casa
grigia,
o forse il cielo
lo era,
o forse nero.
La porta aperta,
le tante facce affrante e,
forse,
un po’ irritate
del ritardo;
il corridoio,
la tua camera,
tu.
Vecchia ormai bianca,
piccola,
bambina,
nel letto di sale.
Mi avvicinai.
A qualche passo
uno stupido dottore,
vicino allo stupido
comodino
di fronte allo stupido
me.
Ti accarezzai
i capelli sudati;
sembrasti sorridere
di un piccolo conforto.
Sembrasti sorridere.
Poi il respiro affannato,
il rantolo,
la morte.
Pochi attimi.
Io avevo tardato,
ma tu mi avevi aspettato
ostinata,
come sempre,
attaccata all’ultimo alito
con i denti.
Avevi fatto attendere
anche gli angeli.
Me ne andai,
mi mossi verso l’auto,
già accesa la sigaretta
del ritorno.
Forte,
nell’aria tersa della notte,
la sensazione
di aver ricevuto,
ancora una volta,
più di quanto
non avessi dato.

*

L’angelo

(2-11-1975 / 2-11-2008. In ricordo di Pier Paolo Pasolini.)

Mezzanotte
è a stento passata;
l’aria è fredda,
il vento soffia
sul tuo corpo
ancora ardente
di sangue.
Ti sono vicino,
da sempre;
anche ora
che la tua macchina
è appena scappata
e che qui
nel buio
sei solo.
L’una, le due.
La brezza fredda del mare
ti asciuga sugli abiti il sangue,
incrosta
il tuo volto
devastato,
le labbra
che poco prima
hanno urlato
la madre.
Tutto è fermo:
non sento nemmeno
le onde del mare vicino;
neppure più il battito
di cuori in tumulto,
di chi ha visto e sentito
e non parlerà,
né ora, né mai.
Le tre, poi le quattro, le cinque.
Ho in grembo la tua povera testa,
accarezzo intrisi
i radi capelli,
chiudo, lento,
l’occhio sconvolto;
con gesto veloce riaccosto
i lembi dei tuoi pantaloni
che altri hanno,
impudicamente, slacciato.
Sono qui a vegliare
il tuo corpo,
mentre tu sei,
spero,
chissà dove.
Già,
chissà dove…
Le sei.
Non arriva nessuno nell’alba,
calcinata,
del triste giorno festivo:
no, anzi, una donna,
una piccola donna,
ancora lontana.
Fra poco inizierà
l’immonda commedia.
Paolo,
un’ultima carezza veloce
sulla bocca che più non grida,
ma , nemmeno, ahimè,
parlerà.
Me ne vado,
scompaio su, in alto.
Stavolta,
per sempre.

*

Emma (a mia figlia, il mio tutto)

Piccola,
meravigliosa
creatura
di Dio,
mi indichi il cielo
col ditino,
senza dire nulla.
Ed io sono in cielo.

*

Costi

Mi verrebbe da piangere come un bambino.

Ho tenuto fra le braccia la vita.

E lei mi ha sorriso.

Torno a casa, in macchina,

con la testa piena di farfalle,

come non mi succedeva da tanto,

troppo tempo.

La sigaretta accesa al lato della bocca

piegata in un infantile sorriso di felicità.

Le luci scorrono veloci

sulla carrozzeria che sfreccia;

la notte apre i suoi occhi,

sorpresi, su un uomo nuovo.

La macchina corre via, in carrellata,

verso un buio illuminato al fondo. 

 

(caspita, è già passato un anno... Auguri Ce'!)

*

Una per te

Mio padre
piange.
Quando piange
una roccia
vuol dire
che anche in Cielo
c’è qualcosa
che non va.
Quando piange
una roccia,
la terra stessa
si ribella
e ribolle d’orrore
e smarrimento.
Non è giusto,
ecco,
che gli tocchi in sorte
anche il pianto:
una roccia già passa
l’intera vita
nello sforzo di essere tale,
coerentemente,
di essere appoggio
saldo
agli altri.
Dio gli ha donato
di non cedere
ai sentimenti
proprio per questo.
Se una roccia piange
di dolore
o di disperazione,
forse
Dio stesso
sta calcando
un po’ troppo
la mano.

*

La poesia

Niente di grande,
niente di immortale.
E' come mangiare,
respirare:
semplice necessità fisiologica.
Non lo fai? muori.
Anzi,
mi scusino i puristi,
è più vomitare,
andare al cesso.
Non la controlli
arriva ed esce fuori da sola.
La membrana del tuo cervello
vibra e duole.
La penna impazzisce,
la tastiera prende fuoco.
E tu non devi far niente,
puoi solo assecondarla,
schiavo di un gatto infernale
che ti ficca le unghie
nella schiena.
Pochi fiori,
molto sangue;
pochi voli
terra, terra.
Non è un gioco,
la poesia.
Ah, naturalmente,
se sei poeta...

*

Esser morti o esser vivi (a P.)

Scandaloso in vita
come in morte.
Scandaloso trenta e passa anni
dopo la morte.
Il dramma ha un sorriso ironico,
come sempre.
Tu oggi avresti forse un sorriso amaro
ma ironico appunto,
vedendo come nulla è cambiato,
scrutando l’universo orrendo.
Forse serreresti per un attimo la mascella,
gli occhi rabbuiati dietro gli occhiali scuri,
vedendo, senza alcuna sorpresa per carità!,
che nessuno ti ha ancora fatto giustizia
E addirittura rivedresti le stesse facce
dietro gli stessi scranni,
magari un po’ invecchiate ma quelle.
Ciò che avevi affermato con forza allora,
e che ti è costato questa vita,
ti accorgeresti che resta di un’attualità,
davvero troppo sconcertante, intollerabile.
Insomma, dopo aver salutato gli amici,
con uno sguardo dolce e veloce,
decideresti ancora di andartene via,
come facevi, verso l’Africa, l’India o lo Yemen,
lontano da questo paese di sepolcri,
neanche troppo imbiancati.
Del resto lo avevi già detto proprio tu
ormai un po’ di tempo fa:
esser morti o esser vivi,
non è che la stessa cosa.

*

Una per me

Oggi mi sento
più vecchio,
dell'anima stessa
del mondo.
Che inutile masherata...
Quanta fatica,
sprecata...
Lo so,
i versi sono sghembi;
lo so,
mi ripeto
in continuazione.
Se vuoi accomodati;
ma se non vuoi
nessuno ti costringe
a continuare
a leggere.
In realtà,
dovresti averlo capito
da tempo:
io lo faccio per me.

*

Il poeta

Perché continuo a scrivere
versi brutti e monchi,
brutali e osceni,
stupidi e vaghi?
Non lo so,
ma sento il mare in tempesta,
il vulcano in eruzione,
la frenesia incoercibile del cuore,
che mi afferra e graffia la mano
perché, anche contro voglia,
io continui a sputare sul foglio
la schiuma dell’anima mia.
E se il verso è brutto,
vuol dire che forse è brutto chi lo scrive;
ma almeno è vero,
scandaloso santo peccatore,
prescelto per essere straziato,
da un vecchio genio bambino.

*

Un sorso di vecchio Buk

La giornata è stata cattiva,
nera e ruvida come il cemento
brutto delle periferie.
Il lavoro noioso e ingrato.
Le mani di ragazzo mi tremano
della tristezza di un vecchio.
Stravolto, sporco e arrabbiato
arrivo a casa e getto malamente
i vestiti infelici.
Mi sdraio nel letto
stiracchio le gambe e apro il libro:
finalmente un sorso del vecchio Buk.