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Raccolta di poesie di Bianca Fasano
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Grazie ad Andrea Camilleri

Grazie, ad Andrea Camilleri. Gentile amico, /che non mi ha conosciuta,/ però conosco, /ti voglio ringraziare,/ per la tua lunga vita/ dedicata allo scrivere e al creare. /Per la Sicilia/ che hai metabolizzato/ dentro te /e, come un uccello padre/ hai poi donato a me./ Per quell’uomo Montalbano/ pieno di sé/ che però non si vanta,/ non dimentica mai l’umanità./ Grazie perché,/ da scrittrice che ha già una età,/ mi hai fornita la speranza /di essere conosciuta /ed apprezzata da anziana,/ come è accaduto a te./ Anche se,/ senza vanto,/ ti dico che sei stato/ proprio bravo/ e unico davvero/ da meritare quel tuo successo/e, giacché per me lo meriti davvero,/ onestamente,/ non ti ho mai invidiato/ e spero che tu,/ quell’eternità che ricercavi, /l’abbia poi trovata./ Bianca Fasano. 17 luglio 2019.

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Il paradiso delle lucertole.

Il paradiso delle lucertole Questa storia me l’ha raccontata mio figlio, ma lui non ammetterà mai di averlo fatto, in quanto è una persona “molto seria” e fa un lavoro anch’esso molto serio, per cui mi ha suggerito di scriverla io, che, in quanto artista e scrittrice, si sa, faccio un lavoro che con la fantasia a molto a che vedere, per cui posso permettermi di raccontarla. Chi l’ha suggerita a lui? Una lucertola. Ecco: subito, a questa mia frase, avrete cambiato espressione. Dapprima lievemente incuriositi, di poi avrete “storto il muso” con espressione incredula. Ho capito cosa vi è passato per la mente: Ci siamo, la solita scrittrice piena di fantasia che vuole farci credere qualcosa di impossibile. Invece si tratta proprio di una storia vera e la racconterò (ricca di qualche particolare), così come l’animaletto verde scuro l’ha raccontata a mio figlio e lui (riducendola all’osso) l’ha poi detta a me. -“Sono una lucertola. Un rettile, vicino ai miei lontani parenti, i serpenti. Ma, quando si dice “parenti serpenti”, non si ha davvero idea di quanto sia difficile convivere con quelli veri. Sono nata in una campagna del napoletano, essendo ancora giovane, presento delle strisce laterali continue di color bruno scuro sul dorso, ma invecchiando cambierò colore. Ho imparato da sempre ad occuparmi di me. Me la so cavare. Ho anche un carattere aperto e simpatico e quindi non mi è difficile avere a che fare con le mie coetanee, ma anche con le lucertole più grandi. Mi è sempre parso importante ascoltare i vecchi, ossia quelli che si avvicinano ai sei anni di età (ma ne ho conosciuti di più anziani), i quali si divertono (anche le lucertole lo fanno), a raccontare le loro avventure, o quelle che hanno ascoltato, a chiunque sia tanto fermo da farlo. Al sole, da maggio preferibilmente, quando ci accorgiamo che intorno non si muove nulla, ci stendiamo in panciolle a farci riscaldare dal sole e non troviamo disdicevole (se capita), di afferrare qualche incauto insetto che si avvicina troppo. E’ stato così che ho sentito parlare del “paradiso delle lucertole”. Non si trattava di un paradiso da raggiungere dopo la morte (noi non crediamo nell’anima), ma di un luogo straordinario che alcuni dei miei amici dicevano di avere visitato, per poi perderlo. Perderlo come? La cosa mi lasciava sempre perplessa: come si può perdere un paradiso? Ma poi, di che paradiso si trattava? Non si lasciavano pregare e me lo descrivevano: un territorio immenso, dove esistevano vere e proprie case (non le buca nei muri), per le lucertole. Dove esistevano parchi a nostra misura, con laghetti puliti, fiumi, teatri (vi recitavano, naturalmente, lucertole attori), e fabbriche di ogni tipo, piazze piene di luce, strade pulite… inoltre, gli insetti si trovavano in grande quantità come cibo, non volendo saziarsi con quello che gli esseri giganteschi (che stavano in paradiso proprio per renderlo sempre più comodo per noi lucertole), lasciavano in giro. Un paradiso, insomma. Bene. Ma dove fosse codesto paradiso non si riusciva a comprenderlo. Non appena mi provavo ad intervenire, chiedendo indicazioni in merito, i vecchi lucertoloni guizzavamo via, presi dai loro improvvisi doveri indifferibili e le femmine parlavano di uova da controllare. Ed io restavo al buio. Finalmente, però un giorno feci amicizia con uno strano tipo di lucertolone. Un conquista lucertole. Ogni volta che gliene capitava una a tiro la corteggiava e poi la prendeva a morsi sulla schiena e la faceva sua. Di lui si raccontava che aveva figli ovunque, anche fuori delle campagne di Napoli, perché “viaggiava”. Viaggiava? Dunque questo era proprio il tipo adatto a rispondere alle mie domande! Ma faticai non poco per farmi ascoltare, anche perché favoleggiava di dover presto “riprendere la strada”. Riuscii, comunque, ad avvicinarlo un giorno, in quanto aveva fatto davvero una brutta esperienza: aveva perso la coda. In pratica, quando gliene chiesi il motivo, parlò del figlio del camionista (?) presso cui lui aveva casa, che, avendolo trovato sul camion del padre, lo aveva colto di sorpresa. Presalo per la coda, lui non aveva trovato nulla di meglio da fare che lasciargliela tra le mani. Il ragazzino l’aveva subito buttata a terra, osservandola mentre si agitava come se fosse viva. Il mio nuovo amico mi aveva spiegato che la coda della lucertola continua a muoversi per ingannare un eventuale predatore. Questi si avventa sulla coda perché la vede muoversi e intanto la malcapitata lucertola ha il tempo di fuggire e mettersi in salvo in un buco. Mi tranquillizzò dicendomi che la coda si rigenera, ma potrebbe anche nascere doppia. Non lo sapevo. Gli chiesi se facesse male, ma lui rispose che: no! esiste un punto di rottura che lascia staccare il pezzo. Da qui a farmi raccontare perché lo definissero “viaggiatore” fu facile: si infilava nel camion e partiva per il viaggio che doveva fare la merce. Gli chiesi, ovviamente, se sapesse nulla del “paradiso delle lucertole” e lui, dimenticando di non averla più, cercò di agitare la coda in segno di divertimento. Altro se lo conosceva! Lui ci andava spesso: scendeva dal camion a fine corsa e il paradiso era a pochi metri. Soltanto che vi sostava brevemente, in quanto voleva tornare a casa. Nel suo buco? Restai di sasso: -“Ma come? Potresti vivere in quel luogo meraviglioso e desideri di tornare in questa campagna?”- Lui fece un mezzo sorriso (come sorridono le lucertole) e asserì che la sua tana era il luogo più fresco della terra, che la sua campagna era il paradiso più grande che conoscesse e che, quindi, una passeggiata andava anche bene, ma poi voleva rientrare. Inoltre non amava i gatti. i gatti? Cosa erano i gatti? Non volle dirmelo. Faticai non poco per convincerlo a condurmi con sé al prossimo viaggio. Parve perplesso: non si sentiva troppo bene senza coda, forse vi avrebbe rinunciato, per una volta. Che figura avrebbe fatto con le lucertoline? Però, tanto insistetti e tanto pregai, che alla fine si convinse: “Tieniti pronto”, disse. Si parte a breve. Inutile dire che “non stavo nella pelle”. No: non come i miei parenti serpenti che di tanto in tanto la lasciavano davvero. Ma l’emozione era tanta che faticavo a provvedermi il cibo. Quasi non ci contavo più quanto (il sole era calato molte volte), il mio amico viaggiatore venne a chiamarmi. Giunse affannato, dicendomi che occorreva sbrigarsi, in quanto aveva visto che “l’uomo con le ruote” aveva preparato tutto. L’uomo compiva una serie di gesti quando stava per partire e vagabondo li conosceva. Dimenticai l’insetto che stavo puntando e la lucertolina che mi attendeva al sole e mi precipitati con lui. Lo ammirai mentre si arrampicava sul muretto a fianco dello strano animale con le ruote e lo seguii compiendo lo stesso tragitto per tuffarmi all’interno che appariva scuro, nel ventre della bestia che si muoveva. Facemmo appena in tempo: chiuse la bocca e restammo al buio ad attendere gli eventi. Parve eterno, anche se, dopo un poco, cominciai a lanciare in giro la mia lingua, per annusare su cosa fossi planato e mi parve un odore gradevole. Sbattei più volte le mie tre palpebre sugli occhi per abituarmi al buio e riuscii a vedere che il mio compagno si era addormentato. Beato lui. Mi trovavo a disagio: in mancanza di sole non potevo utilizzare il mio “terzo occhio”, ossia la piccola area che ho sulla superficie della testa e mi permette di seguirlo. Alla fine decisi di seguire l’esempio del mio compagno di avventure e caddi in una sorta di letargo. Molto tempo dopo, fui risvegliato proprio da lui che, avendo l’abitudine ai viaggi dell’uomo con le ruote, capì fosse venuto il momento di sgusciare fuori. Non appena la bocca della bestia si socchiuse, lui si lanciò verso la luce, subito lo segui e planai malamente su di una zona dura e scura. Non ebbi tempo neanche di rendermi conto di dove fosse, che già il mio amico mi chiamava per raggiungerlo. Non lo compresi bene, a causa del fatto che non poteva usare la coda (l’aveva ancora cortissima), però mi parve chiaro: nascondermi! Sembrò già preso da altre cose. Mi indicò il percorso per raggiungere il “mio” paradiso e precisò drastico: “domani, appena dalla testa sentirai il calore del sole, dovrai tornare qui, altrimenti non potrai più andartene.”- Andarmene? Ma chi pensava mai di farlo? Mi gettai a quattro zampe, velocissimo per raggiungere il luogo di cui mi avevano parlato gli anziani ed eccomi ancora qui.”- Bene, questa è la storia che ha raccontato a mio figlio (lui vi dirà che non è mai accaduto). Un’ultima cosa: so che mio figlio gli ha chiesto se si trovava bene nell’Italia in miniatura (il paradiso era proprio questo), ma pare che non abbia voluto rispondere. In prossimità era giunto un grosso gattone bianco e nero, per cui, dopo avere scosso la coda più volte, la lucertola si è tuffata sotto un ponticello, nell’acqua sottostante ed è scomparsa, lasciando il micio con un palmo di naso. Bianca Fasano.

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La casa delle grida e dei sussurri.

In un certo senso Valeria fuggiva: dalle ultime vicissitudini, da una storia finita male, da un lavoro lasciato poco più che a metà. Come pensava della sua vita. Affittare quell’appartamento fuori mano, in una zona così differente da quella cui di solito abitava, era stato anche un mezzo per allontanare se stessa dalla tentazione di riprendere vecchie consuetudini che, all’apparenza, potevano sembrare rassicuranti, ma che l’avrebbero, invece, riportata nell’incertezza. Considerava la possibilità che camminare in una folla di sconosciuti fosse più piacevole di quella che l’avrebbe costretta a raccontarsi, ancora, tra conoscenti. Così aveva affittato quel mini appartamento nella zona antica e poco elegante di Napoli, a due passi dalle strade più animate, ma costretto in un vicolo che di sera non e appariva, tutto sommato, neanche sicuro. Non vide nessuno per molti giorni: usciva poco, passando molte ore a disegnare modelli da presentare a qualche improbabile casa di mode. Il suo sogno era pressoché impossibile visto che ben sapeva come molti marchi, come Bulgari, Emilio Pucci, e Fendi, fossero italiani solo nel nome e lei non aveva agganci. Tuttavia cocciutamente disegnava, aiutata da una grande scrivania ben piazzata sotto una luminosissima finestra (l’unica, praticamente, utilizzabile) e dagli ultimi spiccioli del lavoro appena lasciato. Vittorio l’aveva ripagata di tre anni con cinquemila euro e un bacio sulla guancia, amichevole, perché non si facesse illusioni. Non se n’era fatte. Aveva bisogno di luce e di silenzio; per due giorni non erano mancate entrambi, ma poi, in spiegatamente, una mattina, quasi all’alba, era stata svegliata da una furiosa litigata in un napoletano strettissimo cui lei non era praticamente abituata. Di là dal muro, tanto chiaramente udibili come se fossero in casa con lei, un uomo (che pareva anziano) e una donna, sembravano volersi riempire di improperi per questioni che non le erano chiare. Lui appariva il meno disposto a continuare, non la chiamava mai per nome, o in qualche modo che chiarisse il loro rapporto, ma sollecitava: -“Che vuoi? Perché ti incazzi? Sono stanco di queste storie!”- Lei sembrava ricordargli che le doveva dei soldi, faceva conti, gli rispondeva che era stanca anche lei, che non lo sopportava più… ma esprimendosi in un dialetto feroce e con toni altissimi. Poi, silenzio. Quegli improvvisi silenzi duravano ore. Poi si sentiva come un ronzio di là del muro. Come se qualcuno parlasse molto a bassa voce. La matita, o il pennello, le restavano appesi in aria. Ascoltava. Sussurri. Forse lamenti. -“C’aggia fa mo?”- Una frase chiara. Un tonfo. - “Come faccio mo’?”- Sussurri, piagnucolii. Come se qualcuno stesse male. Era un’illusione o aveva sentito un grido di dolore? Poi veniva accesa la televisione, un programma nazionale, come se si trattasse di un gioco a premi. Quindi il telegiornale, che, per un bel pezzo, le portava in casa tutti gli avvenimenti del giorno. Di quale giorno? Valeria non riusciva a seguire bene la cosa. Poi film, pareva di Totò. Non si lasciava distrarre. Lei non aveva TV in casa. Non c’era intermittenza. Impossibile da sopportarsi. Ma nessuno si lamentava con l’amministratore? Venne tentata più volte di bussare a fianco e una mattina, verso le cinque, dopo che appena aveva preso sonno, fu destata da un litigio più feroce del solito: la voce di lei era acuta, insopportabile, dialettale. Continuava a capire ben poco di quelle discussioni. Lui sembrava sempre più stanco che irritato, aveva toni alti, ma di chi vorrebbe stare tranquillo, mentre lei lo incitava, come se gli dicesse che era un buono a nulla, incapace, che le rendeva la vita una noia, che non si cambiava le maglie o qualcosa di simile. -“Sì nu spuorco, nu zozzo. Lavate!”- L’uomo doveva essere vecchio e malato. La donna più giovane, si comprendeva che lui le dovesse uno stipendio. Forse soldi arretrati. Le parole di lei erano come una cantilena altalenante di urla e strida. Cominciava davvero ad averne abbastanza. Si decise a bussare contro la parete con le nocche delle dita più volte e… scoppiò il silenzio. Quel giorno, dopo sette giorni da che era sbarcata in quell’universo, decise di uscire. Era al quinto piano e scese a piedi per sbloccarsi un poco. Non incontrò anima viva. Passò dal vicolo alla via principale notando il contrasto tra il via vai apparentemente felice di Via Toledo e i silenzi del vicolo. Faceva quasi caldo ed era uscita con una giacca di lana. Se la tolse posandola sulla borsa che aveva al collo. Le vetrine l’attiravano coi colori di un’estate tutta da venire. Il cellulare lanciò un grido acuto, simile a quello del telefono di casa che fortunatamente non aveva. Il padre. La chiamava di nuovo, preoccupato. Doveva avere capito che si trovava in un brutto momento, doveva avere parlato con Laura e la sorella avergli detto che era andata via da casa. Di Vittorio lui non sapeva nulla. Del suo lavoro, meno. Le aveva trovato una buona occasione a Milano, dove lui viveva, in un importante negozio del centro, come organizzatrice degli acquisti e delle vetrine, ma lei aveva rinunciato. Mentre chiudeva la chiamata con un messaggio opportuno, si ritrovò a terra. Era caduta, bene tutto sommato, salvandosi con i palmi delle mani. Qualcuno si girò a guardarla, una mano si tese per aiutarla a rialzarsi, una voce le chiese se voleva un bicchiere d’acqua. Stordita, stupita della caduta, controllò i pantaloni che, rompendosi, le avevano salvato le gambe, almeno in parte. L’uomo recuperò dell’acqua in un bar e gliela porse. Ringraziò e bevve. Dopo cercò di darsi un tono. Il suo soccorritore le fece vedere la buca del terreno dove era inciampata. Lei sorrise e disse, quasi a se stessa: - “Napoli è piena di buche. Debbo stare più attenta!”- Poi si infilò in un portone per controllare il ginocchio indolenzito e il palmo della mano sinistra: livido. Cercò intorno una farmacia, acquistò un prodotto adatto e nello stesso locale, sempre con l’aria smarrita, lo passò dove le parve opportuno. -“Vuole darmi il codice fiscale?”- -“No, grazie…”- -“Può sedersi se ne ha bisogno…”- -“No, sto bene. Niente di rotto.”- Se la filò, vergognandosi di essere caduta e chiedendosi perché. -“Sono distratta, penso ad altro che al terreno che calpesto.”- Si disse. Fece dietro front e rientrò velocemente nel suo appartamento. Aprire con la chiave, accendere la luce, posare la borsa e… Riudire immediatamente dalla sua stanza da letto (in realtà forse l’appartamento, in passato, doveva essere stato diviso), le urla dei due individui a fianco. Le venne la tentazione di appoggiare l’orecchio al muro per capire di cosa discutessero, ma infine si disse che non erano fatti suoi. All’improvviso un silenzio, un tonfo, il brontolio di uomo che sembrava chiedersi cosa fare (di nuovo?), qualcosa che veniva trascinato oltre quel muro. (Un corpo?). La televisione accesa all’improvviso. Sembrava il solito gioco a premi: qualcuno poneva domande ai concorrenti. Lei non li seguiva. Chiuse la giornata stendendo pochi panni e cominciando a riporre quelli puliti nel borsone: forse era venuto il momento di rientrare a casa. Di decidersi ad accettare la concretezza dell’offerta paterna e lasciare i sogni alla notte. Si versò tre dita di Muller Thurgau dispiacendosi di non avere bicchieri adatti (era una bestemmia l’uso di quelli in plastica), poi altri tre e così via di seguito, disegnando con particolare ferocia grafica fino a notte. Aveva finito la bottiglia e le prese sonno. La mattina seguente, verso le sei, fu svegliata dalle solite urla. No: non ce la faceva proprio più. Meglio rientrare nelle abitudini consuete di un condominio italiano dove l’amministratore non permetteva che gli inquilini disturbassero. Erano soltanto quelli di sinistra a farsi sentire, da destra non le giungeva alcun rumore. Vi abitava, così come le aveva spiegato la padrona di casa, un vecchio primario in pensione. Decise che, in un orario decente, avrebbe bussato al suo uscio per chiedergli chi fosse la coppia che disturbava in modo così pesante la sua quiete, tanto da farla desistere dalla decisione di fermarsi di più. Verso le dieci del mattino, vestitasi, si avvicinò all’uscio di destra e bussò vigorosamente. Per qualche minuto pensò che non vi fosse nessuno in casa, ma dopo poco la porta si aprì ed un uomo in giacca da camera, dall’aria austera la guardò con aria di domanda. -“Mi scusi: vorrei chiederle una cosa Sono momentaneamente nel monolocale della signora Olga…”- -“Sì.”- -“Volevo chiederle come mai l’amministratore del palazzo non fa nulla per evitare gli schiamazzi della coppia che abita a sinistra del mio appartamento.”- -“A sinistra?”- Indicò con la mano la porta scura e chiusa, abbassando la voce. -“Lei dice la coppia?”- -“Sì.”- L’uomo assunse uno sguardo stupito. -“La disturbano?”- -“Certamente! Forse lei non li sente in quanto abita lontano dalle pareti…”- L’uomo sembrò ancora più a disagio e prese ad osservarla come se si trovasse di fronte a qualcuno non proprio completamente in sé. Poi parve decidersi e, aprendo la porta in modo più completo, le fece segno di entrare. -“Vuole un caffè?”- Lei, che stringeva le chiavi di casa nelle mani, accettò volentieri: voleva capire. Si ritrovò in un ingresso con molti segni di agiatezza vecchio stampo, dopo passarono per uno studio scuro, in legno, che le ricordò quello del nonno ed infine lui decise di condurla in cucina, dove l’invitò a sedersi. Lo fece, accanto alla tavola, mentre lui con una velocità improbabile, mise sul fuoco una vecchia macchinetta da caffè. L’osservò, quindi, perplesso: -“Lei è disturbata dalle grida, dice?”- - “Sì. Nelle ore più problematiche per me, che vorrei dormire. Pare non vadano d’accordo.”- -“No, difatti non andavano d’accordo… “- Il vecchio medico si accorse che era uscito il caffè, lo versò in due tazzine, mise lo zucchero in zollette accanto a queste e le fece segno di servirsene. Sembrava sorridere per un suo pensiero, quando le chiese di nuovo: -“La disturbano?”- -“Sì. Parlano un dialetto napoletano quasi incomprensibile. Lei deve essere proprio insopportabile, lui mi fa quasi pena…”- -“Già. Lei era la badante di mia moglie. Brutta persona, davvero. Quando la mia Angela se ne è andata l’ho pagata e messa fuori casa. Insisteva: voleva restare con me. Per carità. Nascondeva bene la sua indole, ma sarebbe venuta fuori prima o poi. Io sto bene e non ho bisogno di nessuno.”- Sorrise. -“Quindi? Com’è finita a fianco?”- -“Lui era un pover’uomo. Uno che, da giovane, aveva un’inverosimile vendita di qualsiasi cosa gli riuscisse di trovare. Vendeva su di una bancarella al mercato. Roba da niente. Forse anche trovata nell’immondizia. Comunque merce di scarto. Divenuto vecchio e restato vedovo ha accolto in casa la badante di mia moglie. Si chiamava Concetta. Ma subito cominciarono i litigi. Lei non lo sopportava, l’accusava di essere sporco, gli lavava i panni e li metteva fuori la porta, su di uno stenditoio, perché in casa non c’era posto. Pochi soldi. Gridava sempre che la pagava poco e male. Li sentivo da casa. Come dice lei. Qualche volta li sento ancora e ma figlia dice che ho l’Alzheimer.”- -“Perché?”- -“Ma lei mi dice che li sente, vero?”- -“Certamente! Non si sopportano. Poi, ogni tanto, suoni strani, sussurri, tonfi, come un trascinamento di qualcosa…”- -“Trascinamenti?”- -“Sì, come di un mobile, o un tappeto, o una poltrona…”- -“No. E’ un corpo.”- -“Dio mio!”- La giovane sussultò. -“Un corpo? Di chi?”- -“Vede signorina io e lei dobbiamo essere vittime delle stesse vibrazioni spazio -temporali…”- -“Vibrazioni?”- -“Spazio temporali. Le stringhe. Non conosce? La teoria delle stringhe, quella che sostiene il principio secondo cui la materia, l'energia e, sotto certe ipotesi, lo spazio e il tempo sono solamente le manifestazioni più evidenti di entità fisiche subordinate, che hanno differenti dimensioni e vengono chiamate "stringhe" oppure "brane". Non mi guardi così. Non c’è una prova scientifica della teoria, ma le urla che lei sente appartengono certamente ad un tempo differente da quello che stiamo vivendo adesso, io e lei.”- -“Io non capisco… sento quei due gridare, sussurrare, ascoltare la televisione…”- -“Certo. Lei li sente. Io li sento. Ma, vede, molti mesi fa quel pover’uomo, non sopportando più la donna, la ha accoltellata…”- -“Accoltellata?”- -“Come le dico. Poi ha acceso la TV (l’hanno trovata accesa a tutto volume), l’ha trascinata in camera da letto, l’ha sistemata sul letto e, avendo capito di avere commesso un omicidio, si è tagliato la gola.”- - “Gesù! Morti?Entrambi? Ma lei che dice! Io li sento!”- -“Le stringhe mia cara signorina. Le stringhe. Forse farebbe meglio, lei che può ancora farlo, a rientrate nella sua collocazione spazio temporale e asciarli sentire soltanto a me, che sono molto vecchio e non ho futuro. Se ne vada.”- Inutile dire che la giovane donna, dopo avere lasciato la casa del vecchio medico, decise di allontanarsi dall’appartamento e tornò alla sua dimensione nel più breve tempo possibile.

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Sleevata

"Sleevata." -"Che bella bambina!". Mi dicevano. La mamma sorrideva. Riccioli biondi, grandi occhi azzurri, la boccuccia a cuore. Soltanto: un poco cicciottella. In estate, sulla spiaggia, la mamma m'inseguiva con il cibo. A me piacevano i gelati e a ora di pranzo, tutti sul lido, o in pizzeria. Tutti, cioè il papà, un metro e ottanta per circa 160 chili, la mamma, un metro e sessanta per 95 e il fratello più grande, alto e pesante quasi come il papà. Una famiglia allegra e mangiona, dove il cibo era un argomento da "ricerca del posto dove si mangia meglio". Poi l'incidente. A dodici anni mi ritrovai ad essere la cuginetta cicciottella in una famiglia di magri. La sorella di mio padre mi prese con lei. Anche in quella casa il cibo non mancava, ma i miei due cugini, magri, mangiavano "per mangiare", mio zio Lucio era un chiodo alto un metro e ottanta e la zia olga, un chiodo e basta. Tuttavia io non persi le mie "buone" abitudini: colazione abbondante (facevo fuori marmellata, yogurt, miele, biscotti e quant'altro), assieme al latte. Mentre i cugini prendevano il tè con tre fette biscottate e mi osservavano, muti. Gli zii si lanciavano sguardi tra di loro e zia Olga sottolineava: -"Mio fratello e la moglie erano di buon appetito"- Come per scusarmi. Io sentivo la mancanza delle risate a tavola, della mamma che mi comprava il gelato, del fratellone che mi sollevava di peso come fossi una piuma. Non c'erano più. Nessuno mi diceva: -"Che bella bambina"- Bambina non lo ero più: dodici anni, poi tredici, poi quattordici. Dalle medie al liceo classico. Pochi amici, molto studio e tanta musica nelle orecchie. Ricevuto in regalo un iPod, collegato al computer per copiarci sopra alcuni brani musicali da Internet, camminavo con la cuffia sui ricci biondi e lo sguardo azzurro fisso in avanti. Ottimi voti, scarsa in palestra, sempre più alta (come papà), più affamata (come in famiglia), più sola. A questo punto zia Olga decise di intervenire e cominciarono le visite mediche, i controlli, le sgridate condite di sentimento e logica nel vedermi immersa con la testa nel frigo. Cominciarono anche i pranzi dietetici, i cibi scomparsi di casa (niente più merendine o biscotti), le "pesate" settimanali e gli sguardi corrucciati dei cugini: io mangiavo, mi allungavo e pesavo sempre di più. Togliermi la paghetta? Inutile: insegnavo greco e latino, ma anche matematica ed italiano, a domicilio. Guadagnavo e mangiavo fuori. Avevo più amici (cene offerte, pizziate, gelati per tutti), ma ero sempre più alta, grassa e sola. Bella? Non so: un metro e settantacinque per circa cento chili di peso, capelli ricci a boccoli biondi, lunghi, grandi occhi azzurri e, sì: una boccuccia a cuore sotto un bel nasino. Mi diplomai, m'iscrissi a legge, mi laureai con il massimo e la lode. Superato l'esame di stato, lasciai Napoli e trovai lavoro in uno studio a Benevento. Avevo una scrivania, un angolo di balcone e con il tempo anche molto lavoro. Nulla di impegnativo, però diventano ogni giorno più indispensabile allo Studio Legale G. Di Luna e M. Di Luna. Laddove la G. era il padre, Giuseppe e la M. Massimiliano, il figlio. Più o meno della mia età. Sull'altezza ce la giocavamo (era uno e ottanta), ma sul peso decisamente no: palestrato, abbronzato, occhi neri e capelli in ordine, mi dedicava sorrisi di circostanza, dialogava con me sui casi più problematici e spesso facevamo lo spacco del pranzo, assieme. Lui mangiava con gusto, ma in quantità moderate. Io cominciai a mangiare di meno, per non sembrare troppo affamata. Persi qualche chilo e m'innamorai. Aspettavo il suo passo il mattino. Lo seguivo con lo sguardo. Lo seguivo su Face book (chiesi l'amicizia sotto falso nome). Non avevo speranze. Poi seppi che la sua fidanzata l'aveva lasciato per un avvocato "di grido", più grande di lui e pieno di soldi. Capii che soffriva, tentai di aiutarlo e cominciammo ad uscire qualche volta assieme di sera. Passeggiate in auto, cinema, cene, ma mai con gli amici di lui. Una sera mi portò a casa sua per un bicchiere di vino e vi restai fino il mattino. Forse a causa della sofferenza subita, mi trovò attraente, o almeno, passabile, malgrado fossi decisamente cicciottella. Avevo comunque forme femminili e la pelle bianca come il latte. Bei seni e viso piacevole. La fidanzata, intanto, si era sposata. Fatto sta che, dopo alcuni mesi in cui ci frequentammo piuttosto assiduamente, senza fare pubblicità alla cosa, lei si fece sentire di nuovo. Da sposata, le andava bene avere un amante giovane, lui, da uomo innamorato qual era, mi fece capire a chiare lettere che intendeva riprendere la relazione con la sua Federica. Insomma: dovevo lasciare libera la piazza. Non feci una piega: che dire? Niente promesse, niente amore. Mi doveva bastare la bella esperienza e così mi feci da parte. Bene: da quel momento la mia fame divenne compulsiva: piangevo e mangiavo di tutto, sfogavo la mia depressione nelle pizze, nei dolci, nei gelati. Il frigo sempre pieno, la "birretta" ad ogni ora. Vino bianco, vino nero, varie tipologie di liquori dolci. Partendo dalla mia non certo magra situazione, in breve mi ritrovai decisamente obesa. Inoltre: piangevo sempre. Sul posto di lavoro sembravano non farci neanche più caso. Massimiliano mi guardava, di tanto in tanto, ma era troppo preso dalla sua storia sentimentale per curarsi di me. Un giorno, però, mi chiamò nel suo studio, il padre. Sembrava a disagio. Andò diritto allo scopo: -"Avvocato De Martino, così non si può andare avanti."- Tacqui. -"Lei si accorge che gli abiti le vanno sempre più stretti? Mi sembra che la sua poltrona non la sorregga più. I clienti l'osservano a disagio. In tribunale, ho saputo, che i giudici la chiamano con un termine che vorrei evitare, ma mi tocca dirlo: "Cicciolona". Lei è chiamata "La cicciolona dello studio legale Di luna. Mi perdoni, ma le ridono dietro, anche quando difende una causa e non la prendono sul serio. Noi abbiamo, invece, bisogno di essere presi sul serio. A mio parere lei ha bisogno di cure."- -"Cure?"- -"Sì: mediche, psicologiche, non so dirle. Deve cominciare una cura dimagrante e farsi sostenere da qualcuno che la incoraggi e le dia ausilio. Personale qualificato."- Restai senza parole, ma lui continuò: -"Le darò un mese di stipendio e un mese di ferie. D'altra parte se le merita: non le ha mai prese. Mi auguro che in questo mese, lei riesca a risolvere le problematiche estetiche e di salute di cui le ho parlato. Auguri."- La mia tragica figura imponente si stagliava di fronte, nello specchio. Sembravo un elefante senza proboscide. Presi l'assegno che l'avvocato mi passava, raccolsi poche cose e mi diressi a casa. Come prima reazione mi rivolsi al frigorifero che non mancava mai di nulla. Mangiai fino alla nausea e bevvi. Mi addormentai sul divano, con la televisione accesa e mi risvegliai su di un canale americano che, chissà per quale combinazione della sorte, dedicava la sua attenzione agli obesi. Fu come un lampo, un'illuminazione, come San Paolo sulla strada di Damasco, fui folgorata dall'idea di dover dimagrire ad ogni costo. Come? Non credevo nelle diete e neanche nella ginnastica o nella palestra. Occorreva una cura drastica. Mi ritrovai a scrivere il termine "obeso" sulla pagina del computer che mi rimandò ad un Forum: "Eravamo obesi. Sleeve Gastrectomy, Plicatura e Gastroplastica verticale. Fui sommersa da un mare di notizie. Sensazioni simili alle mie, vissute da tanti: non ero più sola. Cominciai con il crearmi uno "spazio utente", misi come immagine l'elefantino rosa con le ali e presi ad interrogare sulle loro esperienze i "nuovi amici". Si mostrarono disponibilissimi. Capivano ogni mio stato d'animo, ogni problema fisico e tutti m'incitarono a provare con la chirurgia: "la sleeve gastrectomy laparoscopica." Nomi di medici, di cliniche vicine o più lontane e spiegazioni: -" La Sleeve Gastrectomy Laparoscopica (SGL) è un intervento di tipo restrittivo in cui lo stomaco è tubulizzato. La SGL è stata originariamente sviluppata in Inghilterra e in seguito adottata negli Stati Uniti, Germania e Belgio. L’ intervento è realizzabile con pratica laparoscopica e presume l’asportazione di una gran parte dello stomaco mediante una resezione, conseguita con l’ausilio di suturatrici meccaniche. La parte di stomaco residuo ha un aspetto tubulariforme di volume ridotto in modo drastico, con una capacità di circa 100/150 ml. Questo procedimento non è reversibile perché una parte dello stomaco è eliminata. I nervi dello stomaco ed il piloro, la "valvola di uscita", restano intatti conservando la funzione gastrica a dispetto del volume diminuito. Durante l’alimentazione il cibo entra nello stomaco tubulizzato e lo riempie per impilamento essendo arginato dal piloro . Il riempimento del tubulo gastrico stabilisce un’importante limite meccanico all’assunzione di altro cibo, associato ad un senso di sazietà."- Quello che più mi colpì fu il fatto che avrei provato un "senso di sazietà" e che ci sarebbe stato qualcosa a limitare la quantità d'ingestione del cibo. Qualcosa di meccanico, che non mi avrebbe più permesso di mangiare di tutto ed in quantità industriali. Approfittai del forum per porre interrogativi, per dialogare, comprendere quale fosse la strada che stavo imboccando, cosa mi aspettava ad un mese, ad un anno e nel futuro. Mi convinsi. Così fu che, sempre tramite internet, trovai quello che mi sembrava (a Roma), il centro più vicino e sicuro per mettere in atto il mio piano. Fu questione di poco. Il denaro non mi mancava (non ne avevo praticamente speso che piccole somme, dal momento in cui avevo cominciato a lavorare ed avevo, anche, una bella cifra ereditata alla morte dei miei). Partii per Roma, permisi che mi studiassero in tutti i modi, formai tutte le carte che dovevo e, infine, mi operai. Mi attendevo, nel tempo, una riduzione del 50-60% dell'eccesso di peso, ma mi aspettavo, sopratutto, il mantenimento del peso nel tempo. Non avevo famiglia e non volevo rivolgermi agli zii, per cui tutto il percorso, difficile, che avrei vissuto, avrei dovuto superarlo da sola, ma avevo soldi a sufficienza per farmi aiutare da qualcuno. Così, dopo essermi procurata un grazioso villino fuori Roma, avevo prenotato una specie di badante che mi aiutasse all'uscita della clinica. Si chiamava Barbara, era simpatica, grassottella e automunita: mi aveva accompagnata ad ogni visita prima dell'operazione e mi attendeva all'uscita della sala operatoria. Una sorella a pagamento, insomma. Pur essendo scettica, sapevo che gli studi dimostravano come il senso di fame sarebbe diminuito perché la porzione di stomaco che mi era stata asportata, produceva la Grelina, ossia uno degli ormoni responsabili del senso della fame Dopo quattro giorni di degenza, dimessa, ebbi un decorso post operatorio sereno, senza difficoltà, senza sofferenza. Non avrei mai immaginato, dopo la "rampogna" del mio capo, che l'operazione mi avrebbe rivoluzionato la vita. Certo, non da un momento all'altro: dovetti riabituare il mio nuovo stomaco al cibo, per cui la mia "badante", si trasformò in una baby setter, facendomi subire uno svezzamento durato un paio di mesi. Dalla data dell'operazione fui costretta ad ascoltare cosa voleva il mio corpo e a comprendere quello che non mi faceva bene e quando dovevo fermarmi per non stare male. Dovetti chieder ausilio ad una nutrizionista, che mi aiutò a scegliere la qualità di quello che avrei mangiato e raggiunsi un accordo tra la fame vera e quella di testa. Il mio frigorifero si svuotò di molti alimenti per riempirsi di quelli che mi erano consentiti. I miei gusti erano cambiati, dimagrivo e dimenticavo il modo di vivere l’approccio con cui gestiva l’alimentazione la mia perduta famiglia. Mi sembrò di tradirli, ma il cibo, usato come una gruccia per le difficoltà, divenne inutilizzabile. I cambiamenti si fecero vedere nei mesi e ne occorsero nove per dimagrire oltre quaranta chili, ma ero soprattutto mutata dentro. Mi guardavo allo specchio: sotto il grasso, ricercavo quella nuova donna che mi avrebbe permesso di fare l'avvocato senza sentirmi chiamare con nomi divertenti e offensivi. Non m'interessava più di piacere a tutti, di essere accettata, apprezzata, aiutata. Non volevo essere amata da Massimiliano, anzi, usata da lui, per dimenticare la donna che l'aveva tradito. La Evelina conciliante e debole che aveva bisogno del cibo per sentirsi meno sola, non c'era più. L'Evelina attuale era più riflessiva e meno istintiva e mi resi conto, che avrei avuto bisogno di una psicoterapeuta, perché mi aiutasse a trovare un giusto equilibrio tra il mio nuovo essere interiore e il mio nuovo organismo esteriore. Per apprendere ad avere una percezione reale del mio corpo. A vedere così com’era la persona che si rifletteva nello specchio, non identificavo le vere dimensioni, così differenti da un anno prima e trovavo difficile riconoscere la donna di oggi; ma dovevo anche tenere conto che, per tornare completamente alla mia vita normale, utilizzando il dimagramento, avrei avuto anche bisogno di un'addominoplastica. Difatti; lentamente, nel tempo, ero dimagrita, ma il mio addome era divenuto flaccido e pendulo. Un poco come le mie braccia e le gambe. Insomma: nessuno mi aveva preparato al fatto che perlomeno un intero anno della mia vita avrebbe dovuto essere dedicato alla mia bellezza, se volevo utilizzare il dimagramento. Altro che il mese previsto dall'avvocato del mio studio! Subii, sempre accompagnata da Barbara, l'asportazione chirurgica dell’adiposità localizzata e dell’eccesso cutaneo addominale e alla fine ebbi un addome piatto e rassodato, che, assieme ad alcuni "ritocchi" alle braccia e alle gambe, completarono il mio nuovo aspetto. Anche quegli interventi dovettero essere seguiti da un percorso post operatorio. Oggi, finalmente, ho cominciato a sentirmi fortunata, comprendendo di avere avuto una nuova opportunità e di essere stata capace di coglierla. L'alimentazione era proprio cambiata: una pizza intera? Impensabile: ne riuscivo a mangiare 1/4. Pasta? Una media di 50-60 grammi con condimento di verdure. Finite le laute cene: mangiando carne, riuscivo a mangiare pochissimo contorno (un paio di forchettate di insalata o verdura o peperoni o una due fette di melanzane). La fame ritornava a breve, perché digerivo subito, mangiavo frutta, o un pacchetto di cracker. Il ricordo dei miei genitori e del fratellone robusto, nel tempo, si è come appiattito, ma sono diventata più forte e capace di riprendermi la mia vita e affrontare le giornate di lavoro e un uomo, se mai verrà, che si innamori di me e non mi debba usare come il momentaneo sostituto di un amore perduto.

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Albinismo. Tre storie

1) Albinismo. Il mare di Pioppi, quel giorno, appariva mosso. Il gruppetto di giovani, arrampicati sugli scogli, sembrava ben adatto a muoversi comunque con assoluta disinvoltura: le mascherine sul volto, si tuffavano dai punti più alti, insinuandosi, fuori vista, in cerca di polpi e di ricci di mare. Erano maschi e femmine sui sedici, diciotto anni. Una ragazzina bionda faceva incetta degli spinosi animaletti, salvandosi dalle punture con le scarpette di gomma. La rete che li conteneva mostrava il contenuto che si agitava, tra il colore bruno e il rossiccio. Un ragazzo scurissimo di pelle, con il costume arricciato sui fianchi per liberare meglio le cosce, con un coltellino corto, ne apriva alcuni, mangiandone la parte commestibile, per poi gettare il resto in mare, mettendo a rischio i piedi di chi non usava sandali di gomma. Altri corpi snelli o più grassottelli spuntavano a tratti dalle onde schiumose. Giusy, quella fine estate, era diventata di un bel color bronzo. Ben differente il colore di Francesco, che si riparava dal sole sotto un ombrellone. La pelle, malgrado l'abbondante dose di protezione solare -la più forte- era color gambero. Qualche ciuffo biondissimo di capelli, anzi, più che biondo, bianco, spuntava da sotto il cappellino a visiera. Gli occhi, di un azzurro che litigava con quello del cielo, erano comunque ombrosi. Si guardava intorno, evidentemente a disagio, mentre gli altri del gruppo, ragazze e ragazzi evidentemente a loro agio, saltellavano sugli scogli, si tuffavano, infilzavano sotto l'acqua polpi di piccole dimensioni, inseguendoli e punzecchiandoli fino alla resa. Francesco si era più volte bagnato, per non soffrire il caldo. Nuotare, per lui, era un gioco felice, in piscina, o durante le ore in cui il sole calava determinatamente all'orizzonte, ma non poteva mostrarsi come gli altri al sole, pena scottature violente. Fissava apertamente Giusy, chiunque poteva rendersene conto: per lei aveva una vera e propria passione. Tanto da seguirla su quegli scogli, scendere per le rocce che portavano al mare, sotto il calore accecante e restarsene lì come un povero gambero che si trovasse fuori del proprio guscio. Si era portato un libro di Ernest Hemingway: For Whom the Bell Tolls (Per chi suona la campana). In inglese. La sua fotofobia poteva comunque essere ridotta impiegando normali occhiali da sole. I suoi erano ottimi e gli permettevano anche di leggere, protetto dall'ombrellone che si tirava dietro come avrebbe fatto una lumaca con il suo guscio. Difatti: volendo vivere l'estate assieme al gruppo di amici, doveva comunque proteggersi dal sole e cercare, anche, di passare il tempo, mentre gli altri si divertivano in tutti i modi legittimi che si potevano trovare in estate. Studiava l'inglese, perché sognava di andare a vivere in Inghilterra, laddove, pensava, il colorito pallido, gli occhi glabri ed i capelli chiari, avrebbero potuto passare quasi inosservati. Intanto seguiva le evoluzioni della ragazza sugli scogli. Era un maschiaccio: bruna di pelle anche d'inverno, con i capelli ricci che splendevano di ombre blu e gli occhi grandi e scuri, rappresentava il suo esatto contrario. Forse proprio per questo, l'attirava. Ma non accadeva il contrario. Giusy ammirava Giovanni. Alto, robusto, con i capelli di un castano rossiccio, che teneva legati in una codina che non diminuiva la sua aria di maschio, non era certamente bravo come Francesco, a nuoto. Ma non aveva paura del sole e questo lo rendeva più vicino a Giusy nelle giornate al mare. Il romanzo gli piaceva, così ricco d'amore, di disperazione e di sesso, così senza possibilità di soluzione positiva, lo faceva sentire partecipe del dolore dei protagonisti. Tuttavia di tanto in tanto lanciava occhiate preoccupate verso Giusy, che gli sembrava troppo poco attenta al pericolo. La testina bionda fuoriusciva a tratti dalle acque, mentre le onde sembravano sopraffarla. Poi il suo corpo aggrediva uno scoglio, ponendosi in salvo. Ma, nella sua ricerca, sembrava perdere ogni contatto con il gruppo. Si allontanava sempre di più e ogni volta che scompariva sotto l'acqua grigia e bianca Francesco si ritrovava più preoccupato. Misurava la distanza tra lui e lei, chiedendosi in quanto tempo avrebbe potuto raggiungerla, se fosse stata in pericolo. Un attimo: abbassò lo sguardo sulla pagina che appariva marrone per le lenti degli occhiali e quando lo rialzò, dopo una pagina, non gli riuscì più di vederla. Attese qualche attimo, fissando l'ultimo scoglio laddove la ragazza era scomparsa: nulla. Divenne ansioso. Si rialzò, gettando di lato il libro e guardò ancora nella direzione di lei: nulla. Pur comprendendo di correre il rischio che i suoi timori fossero inutili e si mostrasse ridicolo, uscì allo scoperto sotto il blando sole della giornata nuvolosa e si lanciò verso il mare. Si aspettava, da un attimo all'altro, che lei riapparisse e la sua corsa divenisse inutile, goffa. Ma lei non comparve. I primi scogli bassi, le rocce, urtarono contro i suoi piedi, mentre fissava l'ultimo scoglio dove l'aveva vista infilarsi in acqua. Il cuore gli batteva all'impazzata, il tempo gli sembrava essersi bloccato, ma sapeva bene che non era così: per lei, se si trovava davvero sott'acqua, con la mascherina senza respiratore, ogni minuto poteva essere fatale. I suoi muscoli allenati in piscina ubbidivano veloci. Le ore passate a fare esercizio in palestra servirono a che superasse di slancio gli scogli, fino a raggiungere l'ultimo dove lei era scomparsa. Senza mascherina, si tuffò ad occhi aperti, disperato, guardandosi intorno nell'acqua melmosa. Era terrorizzato. Quei minuti passati sott'acqua poté affrontarli per l'abitudine a farlo in piscina. La vide. Era ferma, insinuata di sbieco dietro uno scoglio. Da un lato del capo fluiva come un filo rosso e comprese che si trattava di sangue. Doveva essere urtata violentemente contro una roccia a seguito di un'onda più forte. Raggiunse quel capo per trarlo fuori dall'acqua, mentre il peso morto dell'amica gli fece credere che fosse inutile, che lei non svenuta ma finita senza respiro, l'avrebbe portata a riva come un cadavere. Avrebbe urlato se avesse potuto. La condusse fuori, fece scivolare il corpo sul più vicino scoglio, la mise di fianco per fare sì che l'acqua fuoriuscisse dalla bocca, la scosse, poi, dopo averla girata col volto verso l'alto, le batté il petto ritmicamente con le mani unite: Poi di nuovo di fianco, per farle espellere , l'acqua, mentre lei, finalmente, cominciava a tossire, agitandosi in modo dapprima senza senso, poi con maggiore logica. Tentava di mettersi seduta, tossiva, si passava una mano sul lato della fronte dove provava dolore. Ma, fortunatamente, il fiotto di sangue sembrava essersi bloccato. -"La testa. Mi fa male la testa."- Sussurrò. -"Sì, dobbiamo, tornare a riva. Dobbiamo portarti all'ospedale. Da solo non ce la faccio, devi aiutarmi."- Lei parve accorgersi di lui all'improvviso: -"Cosa ci fai qui?"- Chiese- -"Ti ho visto scomparire e sono venuto a salvarti."- Rispose lui, semplicemente. Finalmente da riva sembrò che gli altri del gruppo si fossero resi conto del pericolo corso dall'amica: cinque o sei ombre si agitavano, vicine tra loro, ma nessuno sembrava intenzionato a raggiungerli. Comunque, fortunatamente, era oramai inutile. Un po' nuotando, un po' arrampicandosi di scoglio in scoglio, i due giovani raggiunsero gli altri. In pochi minuti, malgrado che il sole non sembrasse neanche esserci, la pelle di Francesco era divenuta di un bel rosso acceso. Lei se ne accorse: -"Il sole ti fa male!". Gli ricordò. -"Fa nulla. Passerà."- Non era intenzionato a mollarla in quel momento. Lui l'aveva trovata, lui l'aveva salvata e lui l'avrebbe accompagnato al Pronto soccorso di Vallo della Lucania, con la sua auto. Anche a Giusy la cosa sembrò logica. La afferrò per mano e si allontanarono, risalendo verso la strada a picco sul mare. Fu faticoso. Lui portava le chiavi dell'auto nel pantaloncino che indossava. La fece sedere di fianco al posto di guida e mise in moto. -"Grazie"- Disse Giusy, osservandolo attentamente, forse per la prima volta. Si accorse che era proprio un bel ragazzo, malgrado i capelli bianchi. -"Fa male essere albino?"- Gli chiese. -"No. Ci sono nato e ci ho fatto l'abitudine"- Rispose lui sorridendo. Si rese conto che era proprio la verità. 2) Nero. Dopo molto dolore nacque suo figlio e il suo uomo la lasciò, non appena l'infermiera lavò il piccolo e lo consegnò alla madre. Era bianco. Un padre nero come l'avorio non può accettare che dalla propria donna nera venisse fuori un essere dalla pelle bianca. -"E' uno zeruzeru"- Decretò. Così erano definiti i piccoli diavoli bianchi (gli albini), nel villaggio di Maka, che si trovava fortunatamente in un clima mediterraneo. La vegetazione a macchia, era stata utilizzata dall'agricoltura, per cui vi cresceva la vite e l'ulivo e quindi la vera povertà non era di casa. Ma l'ignoranza imperversava. Strinse al seno quell'essere bianco che subito dimostrò la sua voglia di vivere succhiandolo. Cosa ne avrebbe fatto? Secondo quando aveva sentito dire era stato il diavolo a sostituire suo figlio, nel suo grembo, con un bimbo albino. Perché lei sapeva che suo figlio non poteva essere che albino. Lei non aveva tradito il marito con l'uomo bianco presso di cui lavorava come cameriera. La famiglia presso cui vivevano lei e il suo compagno era europea. Medici che a giorni sarebbero rientrati in Italia. Guardò il suo cucciolo e provò verso lui un amore feroce, ma sapeva bene che sarebbe stato condannato alla sofferenza: gli albini erano considerati contagiosi e potevano trasformare in pelle bianca chiunque li toccasse. Lei sapeva, inoltre, che suo figlio sarebbe stato considerato un fantasma dei colonizzatori europei. L'avrebbero condannata: doveva per forza avere avuto un rapporto sessuale con un uomo bianco. L'avrebbero cacciata dal villaggio, sempre che lei non avesse ucciso e seppellito il piccolo mostro. Ma c'era di peggio: le avrebbero proposto di acquistarlo per prelevare al bimbo le orecchie, la lingua, il naso, ma anche i genitali e gli arti. Il suo uomo si era mostrato fin troppo buono: avrebbe potuto strapparle il figlio dalle braccia per rivenderlo a cifre enormi. Sapeva di bambini venduti, fatti a pezzi, la cui pelle era stata usata per confezionare talismani. Cosa avrebbe fatto di lui? Si addormentò, stanca e provata, con il bimbo a fianco, ma fu svegliata da un rumore. Aprì gli occhi e vide che il dottore e la moglie la stavano osservando. Era brava gente, venuta in Africa per aiutare. Avevano vissuto per molti mesi in una capanna del villaggio, migliorando l'ospedale che era stato realizzato con denaro proveniente dall'Italia. In quell'ospedale era nato suo figlio e Dott, con la moglie Irene, erano venuti a salutarlo. Ma adesso l'osservavano. -"E' bianco"- Disse Maka. -"E' albino"- Disse Irene. Per qualche minuto tacquero tutti, tranne il piccolo che cominciò ad agitarsi e lanciare tenui strilletti pretenziosi: aveva fame. La moglie del dott allungò le braccia per prenderlo e lei glielo consegnò. Nel momento in cui il piccolo fu tra le braccia chiare di lei, sembrò essere al posto giusto. La pelle di lei e quella di lui erano uguali. Bianche. -"Tu comprendi che non puoi tenerlo, vero?"- Chiese l'italiana cullando suo figlio. -"Sì. Il mio uomo mi ha lasciata. Posso tornare a casa con voi?"- -"Certamente. Ma tra quindici giorni noi ritorneremo in Italia. Allora cosa sarà di te? Cosa avverrà del bambino?"- Tacque. Parlò il medico: -"Lo sai che ho studiato come sono trattati gli albini qui da voi. Li fanno a pezzi, perché la magia nera africana sostiene che se lo zeruzero soffre molto morendo, più urla, mentre gli sono amputati gli arti, più grande è il potere presente nell’arto amputato. Le Nazioni Unite hanno contato più di 70 albini uccisi in Tanzania negli ultimi mesi. E' un numero basso rispetto alla realtà. Vuoi venderlo? Vuoi ucciderlo? Vuoi vederlo fatto a pezzi? Lo sai che anche se vorrà studiare sarà trattato come un deficiente. Nelle scuole, ammesso che tu possa portarlo all'età scolare, nessuno capirà che deve stare vicino alla lavagna, perché vede male, perché il suo udito può essere basso."- -"Cosa volete che faccia?"- -"Dallo a noi. Non abbiamo figli e lo adotteremo."- -"No!"- Urlò lei. Ma sapeva che l'offerta era buona. -"Lo faremo crescere e studiare. Sarà un bambino normale. Bianco tra i bianchi."- -"Dimenticherà la sua gente. Dimenticherà sua madre!"- -"Noi faremo in modo che non accada. Gli parleremo della sua terra e di sua madre. Gli diremo anche che tu hai fatto un grosso sacrificio a lasciarlo a noi, per farne un uomo felice. Studierà. Forse diverrà medico. Forse deciderà di tornare nella sua terra, da forte, da adulto, da italiano. Così potrà cambiare le cose. Se lo terrai morirà o ne farai un infelice. Maka sapeva che avevano ragione. -"Portatelo a casa."- Disse. Così fecero e dopo una quindicina di giorni in cui ebbe modo di vedere come fosse amato, lo portarono via con loro. Lei non pianse. Poté tornare al villaggio, da sola. Il suo uomo la guardò e non disse nulla, ma poi l'abbracciò e la tenne con sé: aveva agito bene. 3) In funicolare. Lui vendeva un po' di tutto in funicolare, ma con una cert'aria di serietà ed orgoglio. Penne, ventagli, contenitori per bibite. Cose di discreta qualità a prezzi bassi. Cominciava il suo discorso ponendo in luce il fatto di essere albino e di come fosse difficile vivere e lavorare essendolo. Molta gente comprava, non per pietà, ma per convenienza. Un giorno, verso le 14.00 in quel primo vagone entrò un piccolo gruppo di studentesse. Probabilmente universitarie al primo anno, allegre, spensierate, con l'aria di essere un pochino "figlie di papà". Tuttavia una di queste, nell'entrare, ebbe un sussulto violento, fu quasi tentata di spingere fuori le amiche, di condurle in un nuovo vagone, o, almeno, più in alto. Le amiche non se ne resero conto. Non si mossero. L'albino aveva cominciato a presentarsi e illustrare i suoi prodotti, ma all'ingresso del gruppo, parve che le parole gli restassero in gola. Le osservò, a disagio, poi abbassò per qualche minuto lo sguardo. Lo rialzò di nuovo, con un'espressione che sembrava di essere d'attesa, fissando gli occhi su una delle ragazze che ricambiò per qualche secondo lo sguardo, ma poi gli girò le spalle. A questo punto l'uomo sembrò ritrovare il sangue freddo e riprese il suo discorso da capo: -"Buon giorno a tutti, scusate se vi disturbo, ma non voglio costringere nessuno. Io sono nato albino e per questo non vedo molto bene e neanche sento molto bene. Sono anche particolarmente portato alle malattie e non posso stare molto al sole perché rischio tumori della pelle..."- Le persone che lo conoscevano restarono piuttosto perplesse, in quanto non si era mai tanto dilungato sulle sue difficoltà. Continuò: - "In effetti sono un commerciante al minuto. Non chiedo l'elemosina a nessuno, perché vendo oggetti utili e soltanto a chi desidera comprarli."- Sorrise. Una ragazza dal vagone più in alto si sentì chiamata in causa: -"E' vero! Le vostre penne sono buonissime ed uso sempre e soltanto quelle! Ne posso avere due?"- -"Sì, certo. E con il ventaglio le donne possono rinfrescarsi. Però ho anche questo micro ventilatore a pile, per due euro, compreso le batterie..."- Sorrise. Una signora chiese un ventaglio e lui le chiese che colore lo volesse. Lo prese nero: un euro. Qualcosa lasciava pensare che probabilmente la donna a casa ne avesse altri, ma che le facesse piacere aiutare quell'uomo gentile, che non chiedeva elemosine. Lui passò oltre e percorse il primo scompartimento. Alla fermata successiva scese, per raggiungere un altro scompartimento e rifare il suo tentativo di vendita. Le ragazze restarono nel primo. La funicolare fece tre fermate e ogni volta il commerciante al minuto cambiò vagone, per provare a vendere i suoi prodotti ad alti viaggiatori. Finalmente la funicolare giunse all'ultima fermata del vomero e l'uomo sembrò attendere prima di scendere dal vagone in alto. Pareva cercare qualcuno tra la piccola folla di persone che saliva lentamente le scale per raggiungere l'uscita. Aspettava le ragazze. Non tardarono a passargli avanti e lui le tenne dietro fissando le spalle della più piccola: una brunetta dal colorito olivastro. Fu un momento. A pochi passi dal raggiungimento dell'esterno, la ragazzina rallentò, poi si fermò fino ad affiancarsi all'uomo, che le fece una timida carezza sulla spalla, nascondendosi. -"Ciao papà. Buona giornata!"- Sussurrò la brunetta. Poi si lanciò per raggiungere le compagne. .