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Raccolta di poesie di Fabrizio Bregoli
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Finestre di notte

Vi offriamo l’indigenza dei dettagli:

un bianco impenitente di pareti

scorci di letti, moquette, caloriferi

un rogo indifeso di lampade

l’azzurro innaturale delle tende.

E noi sempre di spalle,

ritagli della vita che impudica

ci frana sull’asfittico dei volti,

sull’inerte delle mani.

Puoi chiamarla esistenza

il barbaglio che svasa

dal chiostro tutelare delle stanze,

da queste fenditure imbelli, nicchie

protese nella notte, quasi stelle

sacrileghe, ulcerazioni di luce.

Siamo le loro incrinature incongrue

lo scompiglio di scoprirci uomini,

soltanto noi e l’istante: stigma scritto

nella meridiana del nero,

cartiglio di buio che ha inciso

quest’opaco durare del mondo.

*

Esuli

S’affrettano sulle strisce scansando

il traffico dei pensieri dai passi,

s’accomodano accalcati cercando

sui tram un posto che non troveranno,

leggono assorti pagine di pubblicità

interrotta da qualche falsa notizia,

negli auricolari si frastornano ai suoni

che non fanno domande, non li spazientiscono.

Alla guida si cullano alle voci di donne,

sconosciute ninfe, che li ammaestrano

sicure su dove e quando svoltare,

nelle code della tangenziale s’inventano

un lavoro truccandosi furtive, ammiccando

nella luce d’un impolverato specchietto:

uomini e donne – li diresti guardando –

sotto un sole avventizio, raccogliticcio

offuscato tra riflessi d’antenne sul tetto.

Se trasgrediscono, è per noia o per passatempo

uomini e donne – se sai riconoscerli –

per scelta o per sorte, per mestiere o per arte

sempre indaffarati – si dice per certo -

divisi tra rasoi e rammendi

d’una stessa perduta memoria,

solo per errore, talvolta, rammentano:

una verità, giurerebbero.

 

*

Oggi nasci

Così lo udii pregare:

«Oggi nasci.

Ne sei sicuro?

Lasci un placido lago tra le tenebre

al prezzo d’un respiro.

Sottili palpebre

sono la distanza fra te e il sole.

Così - raccontano – un guscio denso, opaco

di greve materia si schiuse nel buio

ringhiò e fuggì uno scoppio di luce.

E accalappiò lo spazio

col guinzaglio del tempo

e furono galassie, stelle, alberi, mare.

E chiamarono quella vastità

inesplorata intoccabile

il nulla.

Da quella pienezza tu giungi

da dove tutto è incompiuto

e galassie, stelle, alberi, mare, uomini

gli uomini

sono il nulla che dovrai esplorare.

Tutto, conoscerai tutto      

la sua sterminata nullità.»

Si deterse la fronte, pianse e svanì.

*

La sera

La sera quando torni a casa

e un’imprigionata cappa di silenzio

un accumulo d’assenze t’investe

e ricordi di non essere un eroe

accendi la televisione, la lasci

- purché parli – parlare, ravvivi

le pareti con la consueta lampada

ti siedi sul divano, riconosci le foto

i quadri, le piante, gli swarovski

un poco più impolverati, lo sguardo

miseramente ieratico dei peluche

e l’ordine pazientemente custodito,

ti chiedi se sia consuetudine

questa estraneità a sé stessi

il sentirsi altri da sé e il non poterlo

il non volerlo essere

perché è questo vuoto

più cercato che fuggito

a renderti chi sei.

*

La torta di Stalin

Non è per il tuo volto scuro, Riga,

che abbraccerai più stretto il buio,

reliquia d’estrema Europa, fervida

di rimpianti sulle spoglie del vento.

Scorre lo sguardo oltre aspre voci

e bancarelle di biechi mercati,

poche cianfrusaglie fra esauste grida.

Cresta armata di svettante cemento

tu fra candele capovolte e spente

precipita ombra sulle guance glabre

dove fu culto ed impero, mieti ora

lividi bargigli e giunti tramonti,

oblia nome e sorte, breve eccesso.

Questo ti confida il rostro del mare

quando scava banchine, scarno sole. 

Ogni giorno scalpiccia, schiude ciglia

di cispose effigi in serale questua,

tetti e nuvole, digiuno e silenzi.

 

Sciogli il nodo gordiano della storia,

stillane luce e tesa meridiana,

torchia inchiostro dal profilo ricurvo

del gatto che dà ordine al tuo cielo,

fanne erpice nella cantina sorda

del tuo cuore e fuggi, occhio o bufera,

l’alba di ghiaccio astuto giocoliere

dove s’arena il naviglio di tenebre

perché la cava nuca della notte        

confonde presto il brivido del tempo.

*

L’estate di Mondello

Il profumo del pesce nell’aria

afrore che stordisce nella canicola

l’impreparata gente di pianura

fra le casse di frutta in disordine.

Grida di donne nel mercato, cesti

e lo sfrecciare incurante dei motorini,

ragazzi sulla spiaggia che penseresti

assorti sui libri, muscoli al sole esibiti,

farandola di mani e di giochi.

Nelle vetrine arcobaleni di cassate,

cannoli gravidi d’antica voluttà,

fresche granite al gelso stupite

al contatto delle lingue e il mare immoto

e l’affrettarsi all’acqua e l’immergersi

sdegnando la premura delle ore

 

ed improvviso il bisogno

d’abbracciar questa vita:

nodo alla gola la cravatta

camicia di forza la giacca

scarpe ferrate ai piedi

e spogliarsi subito da questa corazza

e nella nudità del petto accoglierla.

Stendersi sull’asfalto

misurando nel silenzio i suoi passi.

*

Le vecchie di Sofia

Così mi accogli:

con un estremo lembo di vetro e cemento

vetusti falansteri di regime, scalcinati termitai

fontane di vuoti specchi, aridi rami

strappati ad una primavera in contumacia

acque fangose d’un misero torrente mai fiume.

In anguste vene scorre anche quest’ora

si cancellano i passi lenti sui ponti

la loro sfida al velo del giorno, alla memoria

ed è un angelo nero, opaco

a vegliare sull’eremo dei tetti

a chiedere spazio all’orizzonte - privilegio

di un volo - quando non sa brillare

l’oro delle cupole al confine della sera

e crollano bastioni d’ombra su antichi eroi.

Eppure a questa smorta vigilia ancora

credono le vecchie – profili bizantini

ginocchia nude nei solchi del legno –

e conoscono ogni riflesso delle volte

tra i tardi raggi fendenti le vetrate

difendono ogni tremito di fiamma

da sospiri accorati di preghiera

scandiscono ogni goccia di cera

che affretta il respiro, fa sporgere la lingua

con consueta e rinnovata impazienza

mentre stilla l’ultima candela

e tutto più fioco, più dubbio pare.

E mia, t’accolgo. 

*

Un altro mattino

Si raccoglie nel nido delle mani

si difende dall’impudenza di passi

dall’ovvietà di tragitti, dall’uggiolio

di freni che addentano rotaie.

 

Visi affondano occhi nei giornali

s’assolvono nello scudo delle spalle

respirano per abitudine, per rassegnazione.

Sono le nuove tavole della legge

irreprensibili, scolpite sul monte

dei pegni, dei facili pentimenti,

delle conversioni estorte sulle ceneri

d’un rovo combusto, morente.

E nessun altrove

mai.                                                               

 

Sono fuscelli impastati di fango

inermi fili di paglia le dita.

Così si stinge un altro mattino

implume alle rapacità del giorno,

balbettio su opacità di labbra.

*

Religione domestica

Un altro anno già calcia il calendario,

piazza tiri a traversa, fuori gioco,

ore arse come grani di rosario

ma attender sugli spalti torno torno

non vale il baloccarsi tra le cose

fino alla nuova luce che dà giorno.

E’ come allineare in una frase

frammenti d'una vita che discorre

in cerchio nel silenzio delle case.  

Il bollito di manzo, il cavolfiore,

a specchio le forchette lucidate,

bucato di lavanda, bollitore,

il luccichio ai vetri sotto il sole,

certezze tutte, in fila alle parole. 

 

Se resterà nell’orma ancora polvere

aggiustarsi il cappello sulla fronte

sarà come vedersi un po’ resistere,

come a dire la soglia all’orizzonte

non spaventa, si deve pure andare

alla ricerca di ciò che oltre il fiato

ancora resta, la fibra già attorta

e non combusta, il palpito che dura,

quel chiaroscuro a sprazzi dentro l’ombra,

quel niente che si fa letteratura.

*

Mazinga e l’Uomo Ragno

Passare la domenica allo specchio,

estrarre la sequenza delle rughe                    

per farne perno, fingersi più vecchio,

rimpiangere il passato fra le fughe

delle piastrelle sorde ad ogni passo.

Così si sfoglia l’album di famiglia

convinti che ci possa dar la sveglia

con rapidi rintocchi di memoria,

rivedi poi la maschera di Zorro,

lo scudo di Mazinga, l’uomo ragno

gettare la sua tela in bianco e nero

sul volto imbalsamato di chi resta

e in controluce sai, si fa straniero.

 

E’ vita trattenuta sulle labbra,

riavvolta sulla spola il lunedì

nella promessa nuova del mattino,

resistere alle code in tangenziale,

fuggire il cannocchiale del vicino,

indovinare il titolo al giornale

espedienti tutti, e ali di fortuna,

sopravvivenza spiccia, da manuale.

Il cellulare piatto sotto petto,

la giacca abbottonata, la cravatta

fanno scordar l’azzurro del costume,

la chiazza di colore, dozzinale.

E’ tempo d’oggi, d’attizzare il lume

del quotidiano giogo al carnevale.

*

Storie di pianura

Restano i nomi, pronunciati per abitudine

distrattamente, obliqui serbano gli echi dei luoghi,

i riverberi – tre cantoni, feniletto di sotto,

il mulino del conte, la vecchia filanda, la seriola –

o neppure restano per i cascinali rossi

diroccati, nell’alternarsi di muschio e gramigna.

Qualche racconto tramandano i vecchi

sottovoce; se verità o mito

più nessuno sa dirlo:

Zaira verde bendata, passo di riccio,

la più abile a domare le mosche con le mani

o Pietro, pelle tabacco arsa dal sole,

smorfie di sorriso come carezze di vanga

o Diletta immobile nella sua sedia di giunco

o Demetra la bigotta, Nando il pazzo, Vittorio

e lei – per chi sa - nata quella notte, vissuta

nello spazio fra i primi vagiti e il silenzio,

battesimo consumato su occhi di madre, soltanto.

Sono le ferite della terra, appena più profonde

nel reticolo fessurale, nel duro delle zolle.

Le diresti durare, per un’ora più lunga di sole,

le leviga poi un breve scroscio di pioggia.

Sono le storie catturate nei cerchi dei tigli

che le annodano ai tronchi, in riva ai fossi

per preservarle forse…                   

e mentre sfiorata dal plettro del tempo

più alta ne avvampa la voce

non ho che labbra di sabbia

mani di paglia.    

*

Grandi poeti

Pasolini, Sanguineti, Pagliarani, Zanzotto:

vi leggo e vi rileggo

e non vi afferro.

 

Per questo scrivo.

*

Di passaggio

Così accade che sul palmo tu veda l’impiccato

e t’affretti a disegnare l’ultima asta:

sai che ho smarrito tutte le lettere.

*

Heisenberg

Il melograno ferito sul tavolo

è il lemma fortuito.

Tace la stella polare

incupita assorda il magnete.

S’ammansisce la belva manichea

fra tautologie e paralogismi:

divergenze rinselvano in silenzi.

Mi colpisce la luce: bersaglio

della mano aguzzina:

verità mi spoglia.

Impazziti i numeri quantici:

orbitale improbabile

m’anniento:

indimostrabile esistenza.

*

Bambino

Cosa guardi, bambino, lontano?

Non mi bastano mille occhiali per vedere,

eppure sorridi rapito

con vivace sorpresa.

Quale segreta voce parla al tuo cuore?

Tendo mille orecchi e verbo non odo,

solo silenzio tutt’intorno.

Eppure sorridi

gli occhi felici al futuro,

mi porgi la mano per condurmi lassù.

Bambino,

solo oggi comprendo di essere un uomo.