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Raccolta di poesie di Diego Bello
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Pile di cieli e terre

Pile di libri, cataste
appese al cantonale
– i tanti cieli sulle spalle
per la festa della notte.
Si intersecano nuvole
e alcune volano
verso altro oblio
per mano avida.
Atlante resta accanto
ai tuoi sogni di terre, fedele
dove il respiro è carezza
su una lama di vetro
e il poeta un arrotino.

*

Der dai’ raich*

Fossi lastra di marmo nero

le vene d'oro

scintille della luna

nella notte che non passa

la notte fonda

di latte in cielo.

Fiati di mòchena

appiccano il sudore delle stelle:

venga il tuo regno

Regina – all'alba.

Venga il tuo regno.

Qui ancora tremano

le capre senza stalla

e queste labbra

chiedono perdono.

 

*venga il tuo regno, in lingua mòchena (minoranza linguistica nella zona del Trentino dove la meravigliosa etiope Agitu Ideo Gudeta, barbaramente assassinata, risiedeva)

*

un varco al plesso

un varco al plesso

in alito d’autunno-

senza riparo

 

 

Ispirato al dipinto “Ultima escursione" di SHITAO

*

la stringo in petto

la stringo in petto

la rossa melagrana-

se farà giorno

 

 

Suruc, città curda in Turchia al confine con la Siria, è la città del melograno, ed è attualmente vittima dei bombardamenti turchi.

*

La sorte malandrina

Saldi al contado nell’Apulia mia

tiravano a campare due compari,

un asino per uno in sorte ria.

Assenti in quelle lande i lupanari

ogni anima sperava che la notte

desse la stura a sogni e altri ripari.

 

Passati i tempi bui del nulla a frotte

sembrò la sorte uno di lor lambire.

In sogno gli soffiò su per le rotte

d’inganno d’Ostro in modo alle sue mire.

-          In tale posto recati per l’oro

con le bisacce e l’asino - il suo dire.

 

All’alba già sbuffava come un toro

che spifferò all’amico quell’arcano

perché con l’asino s’unisse al coro.

Ma questi infastidito dal baccano

negò l’aiuto e sentenziò:  - se intende

sull’uscio la fortuna molla il grano.

 

Tratta la bestia a sé levò le tende

promessa ch’ebbe parte del bottino.

Con gli asini a cavezza e senza mende

alfine giunse al posto del destino.

Qui trovò un fosso largo come un guazzo

ricolmo sino all’orlo d’oro fino.

 

Scie di diamanti gli occhi a mo’ d’un lazzo

e con le mani concave a saccate

empiva le bisacce in un gavazzo.

Le bestie tosto gravide e sbassate

ungevano il fulgore della luna

di ragli supplici, d’urla impetrate.

 

Presa la strada inversa, in una cuna

da un tremito fu scosso l’omarino

quatto vi si appartò dietro una duna

col ventre sazio d’aria, brama e vino.

Ma poiché in blocco ahimè fu costipato

le bestie avanti mossero al vicino.

 

Appena giunto al ciglio trafelato

degli asini non v’era alcuna traccia

né del malloppo tanto sospirato.

Quelli con tutto il peso sulla faccia

sì tanto sporti all’uscio del vicino

che a lui restò la feccia e la vinaccia.

 

 

Trasposizione in versi di una omonima fiaba popolare dal libro Fiabe pugliesi scelte da Giovanni Battista Bronzini e tradotte da Giuseppe Cassieri, Oscar Mondadori, 1983.

*

disfacimento

siamo macchine senza più revisione lanciate al massacro

e balziamo troppo allegri a bordo, con le gomme che stanno già per scoppiare

al volante si alternano nani senza mani che nemmeno tentano

di arrampicarsi su spalle più solide

in putrefazione d’urto scricchiolano le porte

dai cardini secchi e seminano retroguardie

in crosta di smalto sulla terra arida, che il contadino è stufo di possedere

la zappa prende ruggine nella teca di una latrina e l’aratro

è incastrato nella mente piatta di un professore 

i sedili rosicchiati dai topi continuano il loro sporco mestiere

con le molle che sfidano culi d’acciaio, attracco

a sdrucite strisce di gommapiuma, come pesci d’aprile

il cambio lasco, in folle perenne, lascia che il carico

proceda a rilento in mezzo all’ombra d’ulivi lebbrosi

e si scende verso il mare del sud, trascinando il rumore

di latta a graffiare quel che rimane di asfalto, a zittire

il frinire molle di timballi, tra le ultime foglie bruciate dal sole

come in viaggio di nozze con la sposa puttana

in grembo un bastardo che non sa dov’è meglio piazzare

e lo sposo coglione, con un crisantemo nell’asola

rosso vermiglio, rubato al cimitero dei sogni

dalla bocca di un poeta vigliacco

si sobbalza in buche riparate alla buona

con cadaveri di coscienze corrotte e la notte

è a un passo dal ciglio e si tiene lontana soffiando

aliti di peste sulla cenere spenta

*

è il dopo che è vuoto

è il dopo che è vuoto

quando manca l'odore

del tuo viso acquietato

e le mani ti cercano

secche d'aria tesa

la notte arranca su ogni pietra

che è spenta come stella morta

*

Conferme implicite

Scusate se il poeta chiede

conferme implicite
come alimenti
del suo continuo erodere
il dubbio
al consumarsi dentro
e se si apparta in terra
smotta
e ignora ogni riparo.

Scusate se si spezza
il ramo cui s’avvinghia
se non può offrirvi l’acqua
dal calice svuotato
se non può dirvi più
parola tratta
dal sacco che l’incurva
né darvi un bacio
da labbra tumide.

Scusate se è beffato
dal vento che si cambia
e picchia nelle fosse
di polvere, se è steso
a bere lacrime di prato
rigonfio di tepore
a sfiato d'ombra
se è senza sangue
lo squarcio del pugnale.

*

La porta nel tumulo

La fronte fredda

Sul coperchio di zinco

Che scivola nell'urna.

Il graffio della spatola pareggia

La malta

A saldo delle fughe.

Il marmo

Rimbomba

Nel vuoto del buio

E come a casa

Bussa

Alla porta nel tumulo.

Ora corri

Corri e sorridi, sul viso più traccia

d'alcuna ferita.

E ti senti chiamare

Da lontano, dal cielo

Dall'erba che scintilla di sole

Dal rosso della terra d'ulivi

Dal vento di mare

Sulle canne piegate

Dai pampini già saturi

D'una promessa d'acini

Di negramaro.

È la mamma! È la mamma!

È la mamma che chiama!

*

La notte s’è portata via ogni cosa

La notte s’è portata via ogni cosa

solo un languore muto sulle labbra

aperte al pianto mio, dentro la bocca

cornice secca di veleno e l’anima

s’è persa, appesa al sogno di ciliegia

rossa nel ventre sazio di dolore.

Inutili le mosse e le sequenze

inedite dell’anca, i baci molli

che trattengo sull’orlo del dirupo,

la seta delle mani nel ricordo

che mi trascino appresso a quel profilo

d’acqua sorgiva, d’estasi che sgorga.

Rifiato sul lenzuolo insonne e mesto

e un faro da lontano prende il buio.

*

Dopo Natale

Dopo Natale

le luci per le strade 

sugli alberi, le case

i mesi freddi, anche di luce

colore assente domina

la neve che si asciuga. 

Il passo si fa stanco calpestio

di sogni

come acqua a terra

che sgorga dal pluviale.

*

Tre haiku #GiornoMemoria

*
dal firmamento-
il pianto senza lacrime
di stelle d'oro

*
sempre più luce
sui petali sommersi-
dirada nebbia

*
valanga all'uscio
di strada per l'inferno-
resti la neve

*

raggio di bile

raggio di bile-

d'incapace calunnia

tinge la luna

*

Arresa al brivido

porta i balocchi amore

dolce sarà la semina

sul campo arresa al brivido

berrà tutte le nubi la tua brace

tra mille strette d’alabastro

e mille mani su ogni poro

e mille bocche su ogni spazio

*

Il cinema del vento

Mentre leggi, la luce da sinistra

si scontra lì negli occhi e s'apre a quella

che scende dal soffitto in diagonale,

 

disegna a destra una finestra ovale

che ti proietta il cinema del vento.

L'inverno sulle foglie, i rami sciolti

 

e le cadenze d'un meriggio lento

all'ombra di torture, come volti

di nostri torti e densità di palpiti

 

di morti, stracci vivi e una parola

che danza al tuo singhiozzo. Gira un mestolo

per dilavare il grumo secco in gola.

*

Perché non io?

Perché non io
sotto il lenzuolo gonfio
d’osceno, offeso sangue?
Perché non io
martirio d’asfalto
in polvere d’alba?
Perché non io
nel cielo liso
di marmo, senza scampo?
Perché non io
spiffero del mondo
e preda del caso?
Perché non io
nel marcio dell’inferno
di sole putrefatto?
Perché non io
in quelle lacrime di ghiaccio
e solitudine?

*

Capodanno

Vorrei stringere ancora l’aspro

del tuo seno

prima che il tempo di quest’anno

triste si divori il torso

e dare un morso

nella tua bocca molle

di te nell’ora della fine

per morire

al caldo del tuo sangue.

 

E te

che come dentro rocca impenetrabile

asciughi l’ombra e il fiato che s’addensa

erodi ossa, stremata

e gli occhi al vento

soffochi le grida

abbracci labbra e cielo

di pioggia chiara, a passi

di nuvola serena.

*

La gola d’occidente (Gola)

S’ingozza alla sua mensa

la gola d’occidente

seduce labbra ai calici d’argento

con lingua di diamante.

 

Dentro la cerchia

rosa, con mani di cristallo

si cuce addosso un abito

ornato di magenta.

 

Fuori s’assozza

la calca di fanghiglia

l’incavo gonfio

di fredda pioggia nera.

*

Mare d’inverno

mare d’inverno-

dentro le barche pendule

le nasse vuote

 

frizzo di spuma-

l’onda gonfia da nord

punta la riva

 

solo una vela

bordeggia all’orizzonte-

la notte incalza

*

Resta un bacio di ruggine (Avarizia)

serrata stiva

empia di foglie d’oro-

non passa il sole

 

per l’inverno perenne

resta un bacio di ruggine

*

Nel lamento dei morti

Non è lo stesso il buio

sulle lapidi bianche

del nero che torce la schiena dei vivi

come diverso è il sole

che muove i colori dell'erba

tra le crepe dei marmi.

Occhi aperti dal tempo

vigilano croci spuntate

e l'olezzo dei fiori

inchinati alla terra

nel lamento dei morti.

*

Preme la vita

…prima il dolore, poi la giustizia e infine il senso. Tutto il resto è caos.
Ian McEwan, Nel guscio, Einaudi 2017

 

Preme la vita
da prima
sente il mondo che annaspa
dalla carne s’infetta.
E preme 
dal suo guscio nell’acqua
ché sta sempre più stretta,
stanca
d’esser parte che sente
sciaguattare nel chimo.
Nell’anelare
d’imbrattarsi nel fango
freme
dentro madre assassina,
sa di rose e veleno
che condanna e che l’ama.
Non si strozza alla cima
non rinuncia a passare
per lo stretto al dolore
e al sapore dell’aria.

*

Lontana madre

Un altro due novembre senza mai

il sorriso di un fiore sul tuo marmo

lontana madre decomposta ormai

nel fiume di memoria già in disarmo.

 

Il tempo eterna le sentenze crude

del palpito di un cuore in agonia

ricuce cura fa l’anestesia

trapianta e asporta da chirurgo rude.

 

E franto per congiungermi all’oblio

che ti nasconde madre, al guscio aspiro

della dimenticanza nel tuo stringermi

 

al sole nudo al bacio di un respiro

al bagno nel tuo pianto senza tingermi

di grigio e allo svanire in un fruscio.

*

Fiore di cactus

Si schiude il nido molle odor di luna

come quel fiore ha petali di fiamma

le stille della notte sulla cruna

hanno cavato pietra entro la sciamma.

Ora che il sole irraggia la laguna

investe il chiurlo sulla dura bramma

e per la cappa ritta verde bruna

non si frappone più alcun diaframma.

Fiore di cactus giallo rosso prugna

asperso di rugiada ti coltivo

e sopra al desco colmo la mia brocca

per quell’unica notte in cui la spugna

dentro la forra - grato d’esser vivo -

annego come il nettare la bocca.

*

Magnete

Silenzio m’è rumore

e assorda il vuoto

insonorizzato

dell’anima sospesa. La scorza

recido di un pertugio

e l’occhio vi precipita

da turba. Nella nebbia

magnete sei

per la mia bussola.

*

Lamà Sabachthani Askatasuna!

Lamà Sabachthani Askatasuna!

Non sei per chi t’invoca

non è per te

per me

la fuga dal cilicio è àncora

foras te exita

polve de ceniza

scura

penombra che trita

a strati visi vuoti

monosillàbi

che grida nell’assenza.

Lamà Sabachthani pendant la guerre

vivant enfant

avec mon rêve

avec mon rire

sur la rive droite

de ma pauvre tête.

Mon doux enfant

si tu tombes ainsi parmi ses feux

ta mort

sera la mienne.

 

 

*

Novembre

Triste s'annuncia
In un dolore intimo
Al freddo ultimo autunno.
Morte ti vive dentro
E dura come pioggia
Rumore di novembre
Odore dell'inverno.
Passi per viali spogli
Elitari e silenti
Rigagnoli di tempo
Sentieri che rifrangono
Estati di memoria
Mare luminescente.
Primavere lontane
Risorgono un istante
E l'attesa è nel vuoto.

*

Scandito un tuo riverbero

scandito un tuo riverbero 
nell’incedere deserto
ogni atomo
immerso in bozzolo di piume
mi è tregua nello sforzo

*

Sei quartine erotiche

il viso tuo in penombra è come un prato

dove ha attecchito a cumuli dispersi

la luce della neve che ha spogliato

il cielo ormai digiuno a trattenersi

 

sulle mie labbra notte e tuo tepore 

di voglie appese al tempo dilatato 

spazio feroce, madido languore

ostia che scioglie un brivido assetato 

 

la vita ti sussurra rude in bocca

di pietra dentro l'urna il graffio cieco

colma d'ardore che ogni lato tocca

e asperge rorida dell'onda un'eco

 

all’alba gronda di rugiada il fiore

straziato dalla tenebra d’un fiato

franto dal buio un petalo si muore

da stelo inflesso al morbido sostrato

 

tracima il fiume dalla cava, strazia

pareti esauste, palpiti di gogna

delta che stringe alla violata grazia

arresa e complice alla bisogna

 

e poi venire tu mi senti piano

per me che mordo la tua voce acerba

per te che - amore - sguazzi nel pantano

e colmi vuoto come vento d'erba

*

Come le foglie in fumo al precipizio

E’ l’emersione tattile di un demone

quell’occhio vigile
e segue il vento.

 

Arranca senza fiato vittima 
come le foglie 
in fumo al precipizio.

*

Ramo di glicine

Disseto ossari

d’idee corrotte.

 

Rampica incavi

ramo di glicine

 

come la corda

tesa dal buio.

*

Ai pastori rumeni a Castelrosso

Raggiunto il bosco è il cielo il suo riparo

azzurro ancora intatto brilla vivo

quando il respiro fa tremare un faro

e il sale brucia il sonno del sollievo.

Sente il sicuro lui, la furia spenta

nel fumo nero al letto di metallo

nel sangue del fratello al cimitero

di Castelrosso, al prato del pastore.

Poi il nero-solo-nero come il cielo

e come i guanti stretti sul bastone.

Nebbia che cade - punta di un macigno -

la madre che gli tira giù il cappello.

Lontano inverno, la carezza cede

al vento e buio il bacio che ha strozzato.

*

Magari è solo un’ancora di pace

Magari è solo un’ancora di pace

insonne protensione al circolare

gravida notte spesa nel vivace

lenito àmbito, mai regolare.

 

Incede nel legame, si frantuma

anelito d’inversa rotta intriso

come uno stento all’apice si tace.

 

Consuma stame e dentro ha una petunia

idea di luce spenta nel piattume

odore di limone soffocato.

*

baratto la tua indifferenza

baratto la tua indifferenza 

al mercato dell'artificio

la tengo stretta

lungo le strade dell'inferno

*

Quel sorriso che s’affida

Quel sorriso che s'affida

mi trafigge

e l'uccido con l'oblio.

*

Mi è amico il ramarro (Accidia)

Mi è amico il ramarro, fedele

nell’ozio di sole

sul greppo, che inquieto si torce

a bugna di calce

in cumulo a nervi d’oblio.

S’inerpica fermo

appeso al fioretto dell’orto

e cuoce trafitto

nell’occhio, da spina di seccia.

L’insidia si cela

nell’erba dell’ombra, in anfratti

attende la biscia

e al cielo pulito si fissa

ne mima il respiro

e il colore, ingolla sostanza

di ruggine e miele:

un bacio feroce s’incanta

di brivido, beve.

L’ardore è dipinto sul gozzo

e il morso disvela             

l’errore, ridesta dal sonno

un labbro d’autunno.

Il muso del sauro protende

deciso alla serpe

che cova nel buio: si sfalda

in mano la rosa

con l’indaco e l’oro del drappo.

Come il sole - statua

che scalda lontano - lui pesca

nell’animo umano

sua esca una spugna su tutto

sul tempo che cessa

poi l’amo trapassa la gola

del mostro, conquista

la quiete perenne d’impulso

e vive in un guizzo. 

*

La lista

Lamentazione, ruvido rosario

tra dita intirizzite d’umide navate,

scandita prece elettrica del prete

calvo con nenia pingue.

Grani di sangue anemico, martirii

di sale e coltri nude al gelo delle stelle,

pietre feroci nel posto del cuore.

Il cielo ha visto iridi in catene

e il mare il bianco d’occhi precipitare al fondo,

erigere il calvario il peso del rifiuto.

Rantolo dai vetri nebbia

nomen nescio di vite rese oscene

nell’imbuto del mondo.

*

Bosco in autunno (Tre haiku)

*

un cielo denso-
attorniano formiche
lago di foglie


appare appena
dai rami spogli il sole-
ombre nell'ombra

*
decolla un sogno
di foglie di betulla-
e muore il vento

*

Dentro i corpi

Imparare a vedere dentro i corpi

non nei corpi sodi e integri

non nei tanti corpi che sono stati

sani o malati e sono morti

appena apparsi come gabbie in divenire

e in disfacimento

materia esecutiva della sorte

delibera sociale

livello e addestramento al disperare.

 

Vedere dagli occhi senza patina

se non si vede e fa paura

perché apertura e abisso il palpitare

la mossa d’ali

vedere senza pelle

ardere un fremito

di carne viva

l’attimo

di luce.

*

ombre di nubi (tre haiku)

*

il vento torce

catene sulle piaghe-

trema la luce

 

*

l'occhio del cielo

anticipa la notte-

ultima resa

 

*

ombre di nubi-

cerca riparo un passero

sotto la gronda

*

L’odore della luna

L'odore della luna

è bianco come neve
senti la polvere nell'aria
lieve.
Il sangue si raggruma
svapora
e ti fa smunto, alla deriva
d'un'altra notte.

 

*

Un sasso sul ferro sciolto

Com'aspettasse di fondersi al greto

al prato asciutto, cenotafio

dell'umana ragione.

Ora è sepolcro d'immense lapidi

sconnesse, Atlante rotto

e polvere celeste.

È tutto imploso in quel volo di morte

come nebbia a nascondere il nulla

perenne

strato su strato

col cielo in pianto.

A noi un pensiero, lasciare

ciascuno un sasso

sul ferro sciolto.

 

17 agosto '18

*

Legittima difesa e...alleluia!

Ora la notte qui non è più buia

la illumina il riflesso della canna

di quest’arnese, sporta come zanna

che aggetta fiera dalla fitta tuia.

 

Fino al tramonto a salve si può armare

a chi vi turba il grotto sulla fronte

non c’è che digrignare arcate smunte

 

o ancora l’altra guancia rimostrare.

Ma appena il sole cala all’orizzonte

disintegra sorprese anche presunte.

 

Se d’uno spillo acuminate punte

minacciano un pericolo imminente

sappiate che v’assiste l’esimente:

legittima difesa e… alleluia!

 

C’è già la legge, ancor non scritta bene

e in caso di legittima reazione

a un’aggressione ingiusta e contestabile

 

non c’è poi da scontare grosse pene

se la difesa a offesa è proporzione

- con quella attuale e questa inevitabile -

 

e la reazione è l’unica pensabile.

Però questione vera e assai spinosa

è la non netta proporzione, cosa

più ambigua, perché il giudice s’abbuia.

 

Ma se la differenza è rilevante

tra male inflitto e male minacciato

- laddove l’arma punti i fuggitivi -

 

non c’è esimente e scatta l’aggravante.

Ma che il far west sia almeno scongiurato

che detti sempre il giudice i motivi

 

e che soltanto in casi tassativi

si possa rilasciare una licenza

per tirar colpi ed allentar la lenza

in questi mari mondi troppo bui.

 

 

 

Ballata costituita da una Ripresa di quattro versi seguita da tre Stanze (ciascuna composta da due Mutazioni e una Volta), nello schema classico ABBA XYZ XYZ ZWWA.

*

Ab aeterno

Mondo nel mondo

per un futuro ab aeterno

dell’uomo

in sospensione criogenica.

Vuote corsie di porte linde

chiuse sotto terra, spazio

neutro d’immagini

sognate alla morte. Pareti

in proiezione di tracce

paure iterate.

L’angelo narra

ascolta la voce, il senso

del suo pensiero

in egocentrico cielo

- sopra Berlino.

Dove si va

è un mondo terso

alla poesia negato

-  tutto s’è trovato

ogni stento rimosso.

Tutto è risolto

e tutto si sa

non si immagina nulla

perché già immaginato.

Il viaggio è in controsenso:

sospesa in guscio

l’attesa del trapasso

dalla morte alla vita, fuori

dalla storia

- matematica pura.

 

E anche l’affresco

- ora qui -

di tecnologia

che si sta dipingendo

con il passo spedito

è crosta d’effimero

raschio d’intonaco, sniffo

di polvere nera

è tentata evasione, assenza

di gravità.

Torni la storia

il dubbio che martella

la pietra che precipita.

Riprenda lo scavo

su ciò che si ignora.

In questo s’annida il cammino

in questo guardare sui prati

in questo stupore

di foglie di sole.

Riprenda a sognare

la testa

a scordare le cose

a scoprirle da dentro.

S’inverta la rotta

in sane paure

con mostri in agguato

e limiti

da superare.

Si torni a soffrire

l’orizzonte di morte

il mistero

infinito dell'uomo.

 

 

Poesia ispirata al romanzo ZERO K di Don Delillo, Einaudi, 2016

*

Estate (in tre haiku)

*

morde la sabbia

le corse dentro l'onda-

asseta il sole

 

*

ombra d'estate-

il salice consuma

ansiti alterni

 

*

sera d'arancio-

anche una barca in secca

traghetta sogni

 

 

L'ultimo dei tre haiku si è classificato 1° nella sezione haiku nel 3° Bando Internazionale di Poesia 2017, Veretum

 

 

*

Fosse noia mortale che s’appressa

Fosse noia mortale che s’appressa

all’ombra stanca di parole vuote

da briciole di sole fugga – in dote

all’occhio – e travi senza voce tessa.

Cominci il sorgere d’inverno cupo

verso uno stagno di speranza imbelle

con quella rosa fragile di pelle

chiara, scavato un solco in un dirupo.

Sento alla fonte ancora che zampilla

remoto il tuo sorriso che non sciupo

e bruci tra le mani come stella

che nella terra arsa più non brilla.

Del proprio sangue si disseta il lupo

e stringe l’osso dentro le budella.

 

 

Secondo sonetto sulla lontananza

a rime incrociate e ripetute: ABBA, CDDC, ECF, ECF

*

Lo sguardo si riposa

Lo sguardo si riposa entro una cresta

in bagno d'aria, ove arde triste il pianto

d’ultimo raggio torvo che ti desta

e si nasconde. Sulla mano ranto-

lo estatico di un cenno soffocato.

Pulsano vene al collo perché s'oda

il tremito lontano -  un verso lato -

come mozzata s'agita una coda.

Di là s’attende in fremito la terra

e frana che disciolga oasi al nulla.

Ma tutto è lento andare e appena un fiato

dichiara a lunga notte la sua guerra

ogni legaccio sradica alla culla

e dà sollievo al sangue del dannato.

 

 

Primo sonetto sulla lontananza

A rime alternate: ABAB, CDCD, EFC, EFC

*

Il nero dentro

Una scritta sul muro del parco

mi s’annida come un tatuaggio in petto,

addensa nebbia che di te mi porto.

E si imbianca la notte col fumo

rimane solo un canto che trema

sulle note quasi assenti dei passi.

Non oso guardare in alto le stelle

l’occhio s’ostina sull’erba lavata

di brina e salta sui solchi dei cani

nelle ceneri del trotto dei bimbi.

E tu rimani anche tu assente

tra le mie mani stanche di vuoto

che s’asciugano ancora all’odore

di te sul vestito.

E m’affido alla luna

al sicuro suo pianto di neve

al rumore di pioggia che nutre

il respiro dell’aria e vorrei

fosse alba o notte più scura

del nero che dentro rimane

fuliggine di te ancora assente.

*

L’addio

Una chimera nei tuoi occhi saturi

di vuoto appare in lampo e si dissolve

quasi un riflesso al buio del binario.

Ma guance senza pianto m’allontana

lo spazio che si muove e ancora il fischio

ai timpani implacabile. Saluto

dentro, ché non ti guardo scomparire

solo la pioggia sulle mani in basso

- tenaglie al finestrino e dentro il cuore.

*

Di chi è la terra?

Di chi è la terra molle che resiste

prona all'asfalto ruvido che bolle?

 

Di chi è la terra lenta sotto i templi

che è cardine a pilastri e fondamenta?

 

Di chi è la terra offesa che raccoglie

in grembo seme e sangue di tue rese?

 

Di chi è la terra, verso che si scioglie

mossa al tuo passo perso sulla neve?

 

Di chi è la terra, seno di vagito

denso di latte e madido al tuo freno?

 

Di chi è la terra uomo d'Occidente,

la terra che sorride alla tua fronte?

 

È solo madre tua figlio obbediente

o è vera madre aperta ad ogni gente?

 

Il sangue tuo accolse alla dimora

quando più lacrime mano non pianse.

 

Ed ora che altro sangue grida sete

rivendichi esclusiva al tuo recinto.

 

Ora che mano acerba graffia pane

sbuffi furore da gengive vuote.

 

Ora che ventri gravitano luce

spegni il cervello a danze di ragione.

 

Perché sarebbe tua la terra idiota

chi te l'ha data, chi t'ha fatto ardere?

 

Chi è stato che t'ha reso così certo

d'avere il petto gonfio da padrone?

 

Chi t'ha riempito il collo d'ira infame

chi ha chiesto di rivendicare piaghe?

 

La terra è delle braccia che la scavano.

La terra è delle fronti che la sudano.

 

La terra è delle grida che la scaldano.

La terra è di chi vi ha perduto sangue.

 

La terra è di chi l'ha raggiunta in mare.

La terra è delle genti che la amano.

 

La terra non è merce che si serra

dentro lo scrigno della propria pace.

 

La pace non respira senza luce

e il mare muore se spumeggia sangue.