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Raccolta di poesie di Elisa Mazzieri
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*
Qualcuno che scopre la
prima persona plurale
qualcuno che invece
o ricorda che altrove si nasce e si vive
in attesa, così: dell’impatto
Qualcuno che a tratti sbeffeggia
escogita d’impeto a volte
e un po’ si scoraggia
qualcuno che chiede alla cassa
qualcosa di più
e vede che c’è dietro il vetro quasi sempre
una donna — e nota, qualcuno
che gli occhi cerchiati li aveva anche prima — la donna alla cassa
Qualcuno che ieri al bancone “come stai?”
il bicchiere già in mano e la testa voltata
e che adesso non sa
qualcuno, eppure, che si commuove
Qualcuno che cerca la voce
o lo sguardo
e chiede per strada il superfluo
qualcuno capisce che poi
così ci si sente anche prima
Qualcuno che inventa altro riderci su
e lascia le finestre più accese
qualcuno che comunque il Lungotevere deserto
è bello e ci passeggia lo stesso
qualcuno che forse si ama di più
Qualcuno che un giorno poi l’altro
sempre meno canzoni
qualcuno che attende il rigetto
che stende propositi che aspetta che passi
qualcuno che a distanza di contagio
si ritrovava già e non attende più
*
Quieta
come una sconfitta
aspirata
Sorda
come una nuvola
sgargiante
Atona
—lieve
come una Musa
azzoppata
Arrogante
come una vendetta
umile
Dritta come
la leva
sfavorevole
Contraria
come il
languore palese
Per niente stanca
come la cadenza delle Maree
Sconosciuta
*
Gli angoli dritti
della Memoria-Ricordo
Assuefazioni
I begli occhi
del sapore
quasi andato — sguardi scovati
in un caso
Gli occhi assestati
sullo stesso scivolo
di marciapiede
strati di grigio lucido, quasi
di polvere, a tratti
ammutolito.
*
E io sto
comunque
con poca voglia
e tutta —tutta insieme
la come certa
lucente convinzione
dell’ovvio
In faccia
al lato, immersa
e intorno
questione di
rifrangenza
Conforto
Refuso-Confronto
Affetto
di quiete inchiodata
a un lato
e calce
di un biglietto
Strade scambiate
solo per il caso
aperta la via
del campanello
Qualche anno
di eccesso
per premere
e andare
Per ridere e restare
c’è anche tutto il
—tempo
necessario
*
Sciolta
come un vomito
senza sollievo
motivo già
vacuo
di bile
schiarita
E dopo
assordata dal resto
dimenticavo che
*
Così
Quasi
e, a tratti
come se
dopo
Magari più in là,
domani
la prossima settimana o
verso una occasione
vicina
Stesso pensiero
e, attratti — pressappoco
stomaco smosso quasi sincero
Quando capita, però
e se avviene, poi?
Tutto daccapo
come lo zaino per la scuola
in fila per il resto e — a qualcuno
la pensione
*
Didascalie
e assenze
frammenti della stessa
innocua conclusione
Immaginare — Confluire
Verbi, tutti maiuscoli
non sono coniugata, però
E in casa
neanche un foglio
proprio bianco
da imbrattare
né una vera
vena torrida o schiarita
quanto basta
*
Coda di Lupo
a contorno — e avresti approvato, chissà?
suggerisce youtube
Sapevi
abbastanza e molto,
di questo, di altro
e per amare un ragazzo
per essere Frocio, Marxista, Indiano
e risata da gay, quando c’era — schiarita
tutta sdentata
di naso aguzzo
e occhio lesto
Di parola — lesta
fuori abbastanza
conforto per l’adolescenza rispecchiata, forse,
in uno specchio uguale
forse spavento, per l’adolescenza riscattata
e senza impegni
al banco casuale di un fervore a portata
di parole
Andato via proprio a
metà
proprio al doppio delle star
Tornato — da dove?
il tempo per salutare
e in mezzo niente curriculum
riempito già da vecchio — il tuo curriculum — a trentatré anni
e ti sopportavamo, per noi.
Nenia da Vecchio senza barba
che spande senza recita la nenia
di un libro, un passaggio
irreversibile disguido, come Il Libro — che Libro?
Farneticante Jolly
che i tuoi compagni — di allora
stupiti proprio ora
Eppure noi
che proprio allora, per niente coetanei
e meno ancora discepoli
eppure con noi
che per noi era ovvio,
il tuo tempo era nostro
senza scarto.
Risata da Indiano
che amava per scherzo ma sempre
il ragazzo di un’altra
e di noi era Compagno
e di tutti
Unico Indiano
che ti ho conosciuto
risata da Mago
pragmatico trickster
bibitaro di domenica
Compagno tutto l’anno
Condottiero senza Riserva
che giace in famiglia
zona arida-fucina
di allontanamento
Allucinazioni da Veggente
un roditore al posto del Papa* – e chi vuole capire, capisse – dicevi
La tua risata
a denti rotti, Cochise
Pazzo per niente
E una su tanti
Una su pochi o tutti, alla fine
Senza Riserva
e onore curvo
Finito in gloria di
ciance o pennelli,
ai tuoi anni spariti
avrebbero urlato ammiccanti testimoni
appena nati — platee di “io c’ero” appena nati
E invece dove
e come, con quale passo e che risate
con che parole o dita tese
e che metafore chissà?
Che cosa hai fatto di quegli anni
Chi lo sa?
Io so
giusto di prima e so
perché dicevi e ripetevi
ripetevi come il Matto
come l’Appeso
E che libertà
Ora so!
Cantarti mischiando Capitale e Grammatica
Sicura — grazie a Te
di essere ignorata
Sicura.
Sicura e aperta
come — Una — grata spalancata
Fiera di coraggio e non bestiame
Fiera per gli accenti, accenni
intenti
Fiera e non esposta
Ferma
come una lenza armata
Ultimo Indiano
sorriso sdentato respiro a metà
E sei tornato
Colpito
Andato
Senza richiami
E allora
sicura
che sei, Tu, proprio morto
e quando sei tornato
sei tornato proprio là
dove vivevo e vivo ancora
e resto
Là
Dove ancora intontisce
il miele delle
sdrucciole
più delle giuggiole
e per
organizzare un’Ode
fra le sillabe interrotta
da un probabilmente avverbio
ci vuole giusto un po’ di tecnica
un orecchio — uno dei due
che non sia sordo
E voluttuosa e a mente
sbaglio
proprio perché sicura-mente Tu
che anche nei sogni
sei com’eri stato:
Io sbaglio
E tutta fiera mi sorrido addosso
Tutta piena di affetto — come un morbo
e tutta dissacrata, rido
la tua risata folle — e tutta lucida
come un oltraggio alla tua morte
Cinque estati fa, la tua morte
Cinque anni almeno la tua dialettica sdentata
perfetta sussunta insuperata gaia pensante
Andata
E altri ancora quindici nel mezzo
Da bibitaro di domenica
Compagno in altre Vie
Indiano libero
Da tutte le Riserve, libero
Affacciato — Chi sa, sa dove
Indiano non rivendicato!
Alla Memoria di Massimo, detto Il Cochise
“Chi ha capito non s’ha da strani’, l’altri s’aripijassero” dedicata a chiunque.
Frase pronunciata dal compagno, cui dedico queste righe a distanza di anni dalla morte.
Frase trascritta letteralmente, alla romana, nei primi anni ’90 su una parte di una stanza dell’allora centro sociale *Hai Visto Quinto, meglio conosciuto come Sisto V, ora sostituito, come da previsione del Compagno Massimo, da un supermercato “e neanche da uno di una catena principale…” anche queste parole sue, e anche questo è vero (sostituito da un supermercato che porta il nome di un roditore).
L’invettiva di Massimo, detto Cochise, era riferita a chi “probabilmente cavalcava la tigre dello sciovinismo piccolo borghese. Chi ha capito non s’ha da strani’ etc…”
Un'altra scritta recitava "Il Cochise è vecchio, e c'ha trentatré anni". Io ne avevo quindici, poi sedici, poi dicissette anni... e così per un po'.
Le scritte eranno in alto, tanto in alto: qualcuno di noi (non uso il barra "a" dato che sono certa sia stato qualcuno a farle e comunque, in quegli anni, la riflessione sul linguaggio sembrava una Thule e non la Conmpagnia delle Indie ) ritenne per scherzo di "trascriverle".
Io personalmente, le citazioni del Capitale non le capivo. E a volte neanche tutto il senso, fino in fondo, delle riunioni fatte in una certa maniera.
Allora.
Tuttavia, quelle volte che "sto" nel modo giusto, che ricordo che va fatto "un giro di interventi" (ovvero espriamoci tutti/e dato che stiamo in teoria costruendo uno stare collettivo) e per la mia timidezza e, per quanto fastidioso, tutto quello che so su come guardare, sviscerare, svestire di accenti una parola e andare a vedere che significa e come "probabilmente compa' sto posto lo levano e ce fanno sopra un supermercato, uno scrauso compa'... hihihihi!!!"
Per tutte quelle volte, ho Memoria. Ogni giorno.
Grazie a chiunque leggerà, qui, anche casualmente, anche e soprattutto comprendendo quanto sia molto lontana dalla Poesia. È una Memoria, non ho idea di come si scriva una Memoria. Né le capacità per farlo. Sapendolo fare, non la sprecherei in nessun luogo virtuale che richieda un pollice alzato. Massimo alzava, di rado, il pugno sinistro. Io, lo stesso.
Chi c’era l’hai trovato
*
Amico che vai
Amico dei pascoli e dei ritorni
nei quartieri di graticola
Amico che non vuoi – non leggerai
Amico che non ti si può dire
a voce, non si richiede a fatti
Amico che non serve la didattica
Amico che rifiuti un grazie e scovi il contorto
prima di me se a ringraziare insisto
tutta contorta — e insisto e af-fondo
Amico
che vai dove sei
Dove sei —già
è giusto lì,
che vai
Fortuna oculata
incontrarci a scadenza – io e te!
quattro mesi i tuoi amori – più dei miei
Amico
Fortuna precisa
cuore disposto, e la tua barba finalmente bianca
— un encomio anche modesto a un Amico tutto biondo non si può! —
Amico che “a volte si scopa cercando un abbraccio” — parole tue
Amico che a me hai dato braccia e cuore, invece
Amico che, quindi, non ti piacevo?
Amico che, insomma, è tutto un mio viaggio?
Amico…
Tutta-la-Via Amico
e il viaggio è tuo
Amico che sa
Amico che o così
oppure niente
oppure tutto
Amico con il setaccio – che Fortuna, Amico!
Fortuna gentile — che se ti avessi ancora tutto Amico
sarebbe un fremito imbranato di nostalgia
prima che parti!
E invece
Grazie, Amico
per il tuo selvatico modo di amare
e questi anni —non i migliori, non i peggiori, anni fra tanti o molti —
per la Fortuna ponderata — e che ti aspetti?
che asciuga il fazzoletto
Grazie Amico
Amico incontrato.
*
Perché mi hai insegnato
questa
Libertà?
E a non lasciare
il boccone nel piatto — come si deve
e che mi sta bene
tutto
tranne lo straccio
Perché ho imparato proprio
questa
libertà senza
tramonti
credenze o
posate immagini accorte
al ritocco quasi blu
di un est in plexiglass — e velato?
Priva di occhiali
si è sbaragliata una luna casuale — fuori rotta
muta al trionfo enciclopedico
del bugiardino — furore tutto interno
zoppo-dolciastro
come una torta un po’ accaldata
di allevamento
*
Il corpo
lavato dalla pioggia
è più
dolce
svestito di profumi
sorprendono
le pieghe dei capelli
i nodi
odoranti di vita coperta
che si fa
strada
senza rabbia
sfrenata
contro la coltre
delle parole
oltre lo sguardo
scordato
ritrovarsi
fra giunture e gangli
le imperfezioni
della memoria non raccontata
*
Dove il ricordo
s’intende con l’eterno
e docile
è la gabbia
Appare
senza stenti
il voluttuoso indugio
dell’Uomo che separa
la spiga
e la consegna
*
E invece
Qui
chiodi corrosi
e àncora che sfila
alla rete — e fusa
e zampe di gatto
graffiate di fuliggine
e risacca
distese al velo-cataratta
di Luna ossidata
senza pretesa di passerella
*
Spaesato
come un calzino
sdrucito
dall’implacabile centrifuga
del Tempo
e che
In fine
all’altro unito
sgomento
scorge
lo sgargiante ordito
che in Lui si fa
Ormai
solo
resto sbiadito
*
Se poi — all’ultimo
tutte le pieghe dell’animo
si riducessero
a una misura di acqua distillata
— amido, per le grandi occasioni
Se ogni crinale fosse dato
per provare
lo snodo del tendine — l’eccellere del muscolo
e il boccale ghiacciato — infine
a ricompensa
Se
in-somma
tutto l’affaccendarsi della casalinga
bastasse
alla metafora di vita e morte?
Eppure — ancora
stupisce
il divieto di calcare
con orma di fango
il tappeto già pulito
*
E allora scesi
fra gli ulivi e i platani
con ali morbide
come velo che raccoglie
voci di culla
e Donna
e Vecchie
dalle mani antiche
rosse di sale e vento
e Vecchi
dagli occhi di nuvola
e tempesta
E mani
che intrecciano le mani
e quiete
svelano
in volo di sorridere pacato
pieghe del giorno
al fuoco ombroso
che mi ripete
*
E me ne vado
Non credo
nell’entusiasmo che esce lento
nella foga che muta
nell’atto che si compie
da sé
Non credo
nel battito che si trasforma
nella sostanza scissa
né in quella parte eterea — a troppi poco chiara
Non credo
al dono di Natura
alla Fortuna
all’acquietarsi dello spirito
che si fa saggio
Non credo nella veglia
distinta in sogno
non credo nel tepore
più che al torpore
Non credo nella
scelta del maestro
nell’incontro fatale
nell’incrociarsi dello sguardo
che splende solo dopo
riesumato dal ricordo
preda casuale di sinapsi lese — o salve
Non credo alla creazione
nata dal pianto
ma so per certa la convenienza
di una gloria postuma
cui non si deve diritto d’autore
E mi sottraggo
*
Nome che aderisce
guarda com’è
e comprende
senza caduta
né seguito d’immenso – come potrebbe?
E allora torna
guarda com’è
per abbracciare
E senza freni
senza menzogna che divide – e sdoppia
lascia che sia e
come deve emerga
non per l’approdo
*
E sia
lambita a destra
dritta a sinistra
incunea l'Onda - e spira
Scioglie in ventaglio
uguale
armonico incessante
fuori sesto
inarca batte e cede - e si contrae
appello in campo aperto - rimane
e gira
zampillo mesce lava
pronto all'innesto
Copia incantata – senza mantello
scorta del solido
perfetto
si fa preda
liquida d’Ombra
*
Lo so
perché è arrivata in novembre
come si deve — e tutta cupa
e perché dopo
sono
senza gonfiori di aggettivi e affanni
senza lussuose tregue — e meritate
puntelli di lusinghe
mezzane a nuove imprese di altrui sfide
per darmi ancora fièra — in circoli o cerchio
Lo so perché ho scordato
cos’è novembre
per quali affanni
fiamme e tendoni
e sola
*
Si sfece
il canto gobbo
in fine maschera
e braccia quiete intorno
come vela che riposa
eco di nuvola o conchiglia
E gocce
di mattino nuovo
giù dalle grotte
veloci sulle guance
fino alla pancia
che non è anfratto-ventre — non è mistero
pancia soltanto
E giù alle cosce
né spalancate-chiuse
dischiuse-offese
cosce soltanto
E infine giù
dentro la Terra — che è Mistero
giù dove il piede resta
piede soltanto
*
Se fosse meraviglia
senza sgomento
e se gridasse la condanna
alta nel resto
Se al decoroso ammiccamento
porgessi fiera il riso della pazza
e se strappassi a mani disattente
campi di pane al sole
fidando nel raccolto casuale
E se alla nenia guasta di offese rispettose
superbe in bocca — e all’atto balbettanti
ti consegnasti adorna delle tue
insolenze cimentate lustre di conio
Se gratitudine non hai per sbarre e muri
la notte accanto al giorno è letto o stelle
Sospiri tu di voglia
loro di sdegno
*
Non l’ha creata lei
la quiete nuvolosa — il tuono stanco
Non l’ha staccato lui
il velo unto
grave di polvere sfinita — manto corroso
Hanno ceduto entrambi
Sipario e Chiodo
lavata anche la ruggine — rifatto il letto
arresi senza lode
inetti al trambusto
*
E ora che
buttare
dentro o fuori — è già canestro
i buchi nella rete
chi li centra?
*
Capita — nel mezzo
mi si scovino
bagliori
che non sapevo
Può darsi che — a scavare
negli angoli e in cantina
trovi anche io
scrigni interrotti
di fili e molle
La soffitta — no!
ho resistenza incerta
e potrei scoprirmi forse
àncora e preda
di altre vette
*
Che capiti — se deve
ma non a me
troppo banale!
Il fuoco intorno all’occhio — nell’ordinario
sotto controllo il polso — superfluo il calco
Batti sbatti smussa allinea e squadra
traccia smarrita e muta — poco male
cambio la rotta
Al tempo dei carboni ero sbadata
capita — mi dicono — persino a me!
Il sole allaga il colle
vuole il riscatto
l’ho dato in pegno ieri — ora ricordo
scambiato con due chiodi e tre martelli.
Smarrita e muta accado
fratturo il gesso
che capiti — se deve
ma a collo dritto!
*
Nuda in pieno schermo
fluorescente
e mi sta bene
come un vestito stinto — stesso sudore
Sfumata la fatica
sbiadisce l’alba!
Patteggio per la tregua — ma è giorno alto
*
Ruota
il giro nel canestro
scende la rete — perde la pietra
la gazza fa il suo cerchio — affonda e sale
piegata al circolo del podio
sbaraglia l’onda — e si fa spazio
Cambio di turno: servizio arreso gonfio
e vuoto a mantenere
reggi la schiuma
Il legno va alla zolla
affonda e scava
la gazza nella culla scova la lente
*
Sono qui — con te
tu sei al pc
mi hai appena chiesto scusa
che sei qui o al pc?
Accetto
taglio discorsi e scuse
tu cuci il resto
Il suo sistema operativo mi boicotta
ma ero in tregua
adesso ci sei tu e fate trincea
Termine a due anni — lui
li compie a maggio
io ho voglia di sgranchire braccia e gambe
Avremmo fatto squadra — io e te
senza sistema
a maggio di due anni fa
a primavera
*
Sgomentami sopiscimi
e invadimi il sogno
Pulsami e uccidimi — il padre e la madre
spalancami e chiudi la porta
Fata pietosa
mi siedo e ti aspetto
che fuggi o ritorni fai pure — io sono all’arrivo
Le tue cantilene titillano il senno — e nient’altro
rimandami il segno scarnato
che possa ridartelo gonfio e sfinito
Rimandami il vuoto
e risanami il velo — se tanto ci tieni
lo strappo lo tengo per me
Io so la cesura del taglio
Io so la vaghezza del polso
Ridammi il coltello — ti lascio il controllo
ridammelo adesso
in cambio — Io, vengo
Dispensa affollata mi asfissi — mi avanzo
e del basto ci faccio un sofà
Se vuoi cadi pure in ginocchio
io salgo comunque e tu scendi da me — che mi annoi!
*
Una due tre
altro copione
Prova
le mie certezze fino al limite
per ogni volta che
ti ho recitata e ho perso e
per ogni volte che
ti ho sbeffeggiata e hai vinto
sul limite di ogni evidenza avvinta
per ogni opposizione di passaggio
precipizio mala-mente alla partenza
*
Ti prego ti prego ti prego
Hai presente un vaso? È vuoto
Eppure stavolta davvero
stavolta per ieri per sempre per tutte
Non appellarti alle evidenze
per far finta di capirmi
che direbbero il contrario
lo so da me e anche lo stesso
lo dicevo senza voce che le cose hanno cadenza
e che il giro poi si inverta non stupisce
ma ho cambiato molla e perno all’orologio
e lo porto alle caviglie è più sicuro
i miei polsi non li porgo non offro mani
Ma se l’ultima volta appena ieri te l’ho chiesto per favore
a che serve la preghiera?
Non ricordi, non ci credo come non hai creduto a me
abbi fede non è certo per vendetta
non mi sento così folle da cambiare amore in odio
per legarmi anche più stretta
mi hai accorciato il fiato quanto basta
ma respiro − è sufficiente
Ti ricordi di quel vaso?
C’era dentro una sorgente
l’hai creduta eterna e l’hai obbligata
a ubriacare mandrie e morie di sete
e ogni volta da una goccia lei è rinata
e ne ha fatti bere ancora per non accusare te
ma quell’ultima sorsata restò appesa così a lungo
da mutarsi in forca e la squassò
per la sorte l’urlo esplose proprio allora
negli scherzi della gola e la spezzò
E ora hai voglia a riempirlo col tuo miele
fallo pure – non attacca
non sapevi di quel vaso che era la sorgente
l’uno e l’altra sono asciutti e io sobria
*
Forte di braccia e di capelli
sventolo
fintamente sospesa
sguardo tondo
Perdonati la fata e il viburno
non resta che ucciderli
o tapparsi le orecchie
Allora salgo — forte di braccia
oltre i rami e il cinguettio
e di capelli — potrei farci una treccia per scendere
ma bisogna aspettare che crescano
*
Ci spargeste d’oro voi e ci uccideste
voi pietrificaste il cobra rosso
badando a non confondere l’Idea
ci deste un’Ida stanca e sempre in lutto
guardiana della fiamma eppure cieca
che non poté distinguere la luce
col capo appesantito dalla calce
le ossa mezze rotte eppure viva
se ad altri lei si dette o voi la deste poco importa
con la bocca piena di cemento non si può mangiare uguale
Foste invidiosi della sua solitudine
Soli — voi — non potevate essere
perché terribile è la solitudine e magnifica
Con fibule serraste e ammutoliste
il ritmo sanguinante della Terra
per meglio aprirle il cuore a usufrutto
che il suo piacere libero sia colpa
ma se copriste il fiume di catrame
che il cielo si oscurò perché stupisce?
Così
sepolte mute e cieche ci rendeste
ma la solitudine nostra non l’avevate
perché terribile è la solitudine e onnipotente
Faceste fare il giro alla pienezza
squarciando buccia e polpa con l’arpione
che l’utile non sveli mai il diletto
bella o saggia — meglio dismessa
Eppure vi scorgemmo nello specchio
cercare con dovizia e sempre all’erta
mai soddisfatti — nemmeno per vendetta.
Terribile è la solitudine e trasparente
non ha sostanza alcuna e già le ha tutte
risale dalla Terra che è Parola è minima compatta eppure è ovunque
per questo ci provaste e per possesso
ma ancora come sempre Lei ritorna
l’antica Larva bianca che tempesta
i vostri sogni grigi e castigati
e più faceste buio col bitume
più lei splendeva ovunque tutta piena
*
Vieni
Formica dorata
Formica dannata
ho aspettato ho avuto
mi basta mi avanza
nutrita a rifiuti avanzi di echi
i resti per me sono stati banchetti
vieni e accontentami
divisa — mi dicono — è meglio che zero
ma peggio di una e si può governare
vieni e scolpiscimi gli occhi e la mano
e un capello soltanto a sgranare il setaccio
la valigia è sulla scala pronta come me da sempre
mi dicono sia nata per questo — una valigia e una scala
entrambe lavate di fresco
Diranno che ho scelto
rispondi per me rispondi alla porta
diranno che ho perso rispondi per me racconta la lotta
valanghe a frammenti l’orrore e il piacere lo stesso vestito
un sussulto poi il conto ogni volta più alto
per un briciolo sordo già secco a metà
diranno che in fondo c’è altro
rispondi che al fondo c’è voce di tuono
rispondi che al fondo c’è spazio soltanto per una
diranno che ho avuto paura
rispondi che è vero
rispondi che vado con l’anima asciutta e il sangue lavato
rispondi che all’altra condanna ora scelgo la mia
Formica dorata
aspettami arrivo — il tempo soltanto di un altro belletto
intanto di’ loro che mento
e della sua barba ne feci una stola
e una corda per scendere il pozzo
e a ogni gradino un’impronta
e a ogni gradino una veste
ma ora — svestita piedi in aria
di’ loro che ora non è
di’ loro che è tardi
la fine è passata
*
Ho smesso questa guerra
mare fermo e zoppo richiuso come stagno
l’ho smessa senza resa né ritiro
Seduta osservo la sfilata degli uguali a passo corto
accelerano al punto da inciampare uno sull’altro e farsi monte
confusa in pieno sogno il intravidi
scambiai il mulino per la ruota e persi il pane
non sapevo la dose fiacca della fame e me ne cibai — ma non fui sola
e un giorno dopo l’altro vennero in molti
Qualcuno perse il senno un altro il turno
i mei vestiti usati persero linfa
e ignorando ancora l’urgenza del pudore
ne suturai le maglie con la pece per rivestirmi in fretta
ma troppo esile l’ordito e nuda e fredda m’inghiottì
e si fece rete
Era silenzio!
Cercandolo nel chiasso lo perdevo
spaventato come me di lui si rifugiava
la calca delle bocche strozzava l’aria
spiccai lontana dalla folla e mi distesi
E sono resa senza vittoria né sconfitta
i trattati di armi bianche ombre di rosso
li vedo sfilare uno sull’altro curvati e sghembi
dritta la strada e libera biancheggia
mi alzo senza vanto e allineo il passo
*
Lanterna della notte
bugia svelata breve — nota perpetua
per ogni tuo gradino erto
e per la chiocciola scalare spezzai il fiato
Per l’ascensore rotto nei festivi
l’allarme fluorescente in mezzo ai piani
e il tempo di aggiustarmi a inclinazione — in quell’attesa
Ora riposo
per l’atrio indaffarato
e il gatto di mia madre e prima mio
che a intuito era una gatta e di nessuno
e visse più noi ma per sognarci
Vicine di pantofole o mercato — ci sognava
correva alla sua voce e alla mia — correva al piatto
al suono di mia nonna si svegliava
tendeva orecchie e baffi e Lei rideva
a noi mordeva il piede — ci contentava
*
Fermati qui
aperta sulla soglia
dammi un saluto e lasciati tornare
Socchiudi quanto basta
perché diventi nota anche la luce
socchiudi alza l’orecchio e lasciati ascoltare
Aggrappati al crinale e fatti piatta
e scruta uno alla volta
i cerchi d’aria tonda sugli scogli
vapore acqua salata stesso vento
spalanca quanto basta per la scorta
apriti in canto e vola, respira nuota e sali — respira e torna
La soglia è scardinata c’è ancora il tetto
respira quanto serve e fatti dritta
se ti fai densa e dritta potrai forarlo
*
Desiderio cadente
limpida azzurra molla protesa
da Nord a Sud svettante
scaglia la freccia verso Est
Sublime ordito appare
il dedalo svelato nel volo tremulo
e già colpisce l’occhio s’infiamma e guizza
gli zoccoli puntati a Orione
cinta d’argento china lo sguardo
s’inchina il Minotauro al ventre luccicante
scava la terra e si fa Uomo
*
La somma
e la cantina piena
vertigini in soffitta
e un pavimento a scacchi
corrimano verde marmo — guscio di riccio
Scioglie le spire in punti — di scala in scala
e a ogni curva un piano rettifica la somma
*
Lasciami qui sdraiata aperta
azzurra contro il nero bianca di notte
il mondo dietro me scivola verde
il gancio obliquo regge — non lo addrizzare
lasciami qui lasciami a terra
sdraiata contro il blu sono anche in mezzo
Hai mani gonfie e dolci Bocca di Joker
e una coda dentata di carne questuante
mi suggeriscono che puoi mutare il sangue
e allora che ci fai con uno sfregio in bocca?
Non dirmi che lo tieni per ricordo
lo avresti rammendato in oro — lo avresti perso!
Se vuoi fare una prova
prova con questa
non è ancora affogata — ancora scorre
aprila e guarisci — apri la vena!
Aggiustami le schegge — aggiusta il tiro
rimetti in sesto l’arco scaglia la freccia
torpore e gancio tossico intra-nervo
risveglio di altro ramo in altro alloggio
riparami quel freddo con la scossa
ribalta il quadro elettrico nel cerchio
scintilla di emergenza in altri roghi
patibolo o proscenio stesso sguardo
di folla in corsa a battito di marcia
la fame della stella o dell’offerta
Ma il tempo del rigetto ora è diviso
piega del gomito il mio metro — unica piega!
Il pendolo del collo angolo retto
lo cedo a palchi o roghi — io cedo il posto!
Al passo dei fantasmi — passo di danza
risponde l’ala zigrinata — ala di grillo
che prova la cadenza prova il tempo
che prova e cade e gira e svolge il ritmo
rimando indietro l’arto — rimando il turno
se in cambio ho scarpe strette — rosse di danza
il coro mormorante è già lo stesso
inganna muta e attende e attenda pure!
Mi fermo e il mondo scivola nel verde intorno e dentro
distesa contro il giallo a piedi nudi fisso l’azzurro
*
Muta
ferma come dopo una festa forzata
interrotta a forza
per ricominciare:
mattino, finire
la corsa — la stessa
piatti diversi per fondali discreti
e il fornello in perdita
Lontani i miei occhi
dai tuoi, persi a forza nei miei.
No grazie, oggi non uso
sono a dieta di te e di me
sono gonfia del mio nulla
straripo, non vedi?
In basso
lì, proprio sotto il tuo piede
ci sono stracci e alcol
per scrostare lenti sparse
scendi!
Lo so — lo so prima di te
il morso della schiena curva
lo sai — tu
il prezzo della retta?
*
Cavalli alti nell’autunno
porte di azzurro limpido lavato
e vapore in nebbia grigio perla nube di lana
Il naso oltre le sbarre
la bambina guance rosse e nocchie
pieghe di bianco contro il ferro
nastro di nuvole negli occhi — scorrono
e un berretto giallo sulla fronte
Sei fiocchi tra le sbarre e la villa cadono
raso nero per la dama scarmigliata
sei fiocchi le soffocano il busto
la bimba ne vede uno soltanto
bianco di neve
*
Chi sei – niente fretta
non sfilo la ruota
distratta per me al riprogramma
Chi sei – ora aspetto
non sfido mi affido
speranza o padella è rimasta nel sacco
Non spezzo il traguardo
rinnovo del taglio – paura divisa
Mercurio di orecchio − cancrena dell’occhio
o inverso nascosto lo stesso ululato?
Cadute abissali ogni volta più dense
ti chiedo perdono o regalo per dare
la torre o la trave o il martirio riposto nell’antro distorto?
Segnale da faro
sirena impigliata alle corde fricate
bloccate attutite in cerniere di denti
orecchie voltate e mani a ogni passo più ruvide e dentro
eppure mai freddo davvero
Chi eri e chi vuoi?
Arrocco di stelle-mucose
malate di notti schiarite per forza
rapprese in coaguli eterni di veli e ora ferme
suffissi ammuffiti in soffitte inchiodate alla stessa matassa
obliqua di fili e di ragni
Matrice che morde
matrice che nutre
Veleno e Torpore
stupita o stuprata − lo stesso prefisso
diverso ogni volta il tuo numero primo
ogni volta infinito stringato in giacigli spirali di blu sangue-morto
Dolore il tuo bacio
e più del tuo bacio
Dolore svelarlo
Alla gola asfissiata − mascella indurita
al cavallo del giogo e la giostra nebbiosa
ora scelgo – ora scendo
un giro un ritorno un tranello
e non basta e ora basta
e ora ferma ora afferro
quell’ultimo salto nel giro del mio pugno aperto
e la mano schiacciata
e la penna trafitta o il colore azzittito
il martello nel lago il coltello nel tempio − ora scendo
Ora tolgo − ora afferro
quel giro di ulivo e la quiete e la siepe
e il sepolcro al coperto
Nel fondo del pozzo
c’è il pozzo e ora io
nel fondo del pozzo c’è l’olio
e la lampada è qui
E ora scendo − chi c’è?
Per ogni suffisso un prefisso
e un numero nuovo per due case vecchie e nessuno di là
il filo interrotto nell’ago − ora scendo
Nel fondo del pozzo
c’è l’olio l’allume e il metallo
nel lago il martello − lo porto con me
che sia per il chiodo o la testa
un colpo alla cruna − uno squarcio alla panca
la melma del pozzo fu culla e la foglia del pollice avrà
ancora salti e sorrisi e gorgheggi di loto
Nel fondo del pozzo
c’è posto soltanto per me
Tutta Intera: altezza menzogna e barlume
che cada anche l’olio e s’interri il coltello
la lampada incendia e trafigge − ora scendo
Mi basta, Ora: il conto!
*
Incensi
e la tua battuta madre mima il volo
sbeccato agli angoli qua e là — unto di noia
Pretendi
uno stupito grazie ormeggi nuovi
e calici levati bordi oro
Ma il posto delle prove oggi fa il giro
impeccabile il costume — come sempre
al posto della piazza oggi si gira
nei vicoli e si gratta il volo zoppo
e il fondo pettinato in onde grasse
Non sfiora l’occhio — cede appena
inetto al tuffo e uguale alla scalata
sussurrano del tuo vestito–cielo
ringiovanito e pronto — come sempre
e al posto della rete
oggi c’è il suolo — attento!
potresti scivolare come un re
*
Quiete
e un ventaglio di spigoli aperti — trafitti
Ritorno
passo scaleno in identico intermezzo
tra l’arrivo e il segno: il mare
denso di fiumi in braccia
nere lontane orme di abisso
e in mezzo il cielo
spiegato in vela franca e scoperchiato in sogno.
E in mezzo io
dritta scarnata e giunta
in nuvola di carne e sangue asciutto
salto di gatto oltre la gola
e un cimitero uguale per scatole discrete
Guardo
oltre la crepa
il solco di altre case in altre sere
ognuna un fuoco all’alba e un filo al giorno
ognuna occhi e lingua e orecchie calme
Resto
seduta in piedi in cima
avvolta aperta
accordo all’imperfetto questa voce
e all’eco del rifugio offro la schiena
che mi colpisca pure!
*
Era.
Sì, era l’ultima — come me
ma di cosa?
Era.
Sì, il vecchio e il nuovo
marciti insieme
come l’oleandro
Palude zuccherosa
per mescolarmi il veleno
peccato però — e sì che mi piace
preferisco l’amaro e il sale
Bevilo Tu
mi hanno recitato qualche buona maniera
Io — intanto
sciacquo il bicchiere