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Raccolta di poesie di Emanuele Zeta
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Il nome a malapena

Svanito è il ricordo
di volti, suoni, luoghi; svanita
l’inaccessa corte accessoria;
rimane, infiacchito
residuo inconsiderato,
l’abbrumato ricordo
d’un anodino rimembrare
che fu, autotelico
com’è ogni cosa,
e solo un nome,
il nome a malapena;
e capisco che non m’appartiene
la malattia della memoria,
che intride quiescente
l’alfabeto, corrode
il nero midollo
evanescente
della parola.

*

Foto d’un pino marittimo morto

Nella trama
che racconta
un albero spoglio
e secco tracciato
a china
su un azzurro che si perde
già nel passato
c’è la suggestione di qualcosa
che per passare al vento
dalla terra, nel suo circolo svagato e senza orari,
costruiva paziente nei secoli
la giusta struttura radiante,
soltanto uno sterile
cerebralismo come un altro.
C’è la storia priva di morale
figurata nelle valli
e nei canyon e in certe
sassose mulattiere spraticate
soffocate da sterpi, che altri,
più o meno uomini di noi
(ciò è da stabilire)
avrebbero forse chiamato fiume
o torrente, fossero stati già pratici d’inventari;
c’è l’afasica epigrafe,
o sembra esserci,
del mito
su cui interrogano le bianche
pizie della nostra era
il mitocondrio renitente e in fondo ignaro,
soprattutto della renitenza.

In quell’incidentale monumento
a ciò che senza scampo
chiamiamo morte
si ripete l’intreccio medesimo
nascosto nella carne
del braccio e della mano
che scrivono per me,
lo stesso che s’espande dal collo
nella polposa testa che pensa
d’essere me,
punta più punta meno,
dove si registra momentaneo
un fluire senza fine che, mi dicono,
ha nome vita.

*

Gli ultimi giorni

Gli ultimi giorni

D’agosto

Van qui accorciandosi

Come il tempo

E scivolano sfatti

Tra le dita

Coi bagliori

Del sole sfracellato

Tra gli scabri rotismi della sera.

I bambini si ritrovano

mani luride

e grandi,

la cenere dei recenti inferni

muta in deserto,

e una volta ancora

s'arrende affannosa

la vita, e grata,

all'evidenza della fine,

e smette ogni enfasi forzata.

 

Altrove già rimatura

la frusta illusione

che questa resa anche

verrà a frustrare;

la morte entropica

cui tutto tende

conoscerà l’opposizione

disperata del prossimo Aprile,

che, crudele in cima a un tumulo,

nella lisa tromba crepata,

soffierà asfissiando

la condanna dei morti alla riscossa.

*

A est non andrò più.

A est non andrò più.

Al tuo sogno Augusto

ho dedicato la mia vita

e migliaia d’altre

sotto il trascorrere dei cieli

ne ho immolate a nutrire

di terre il tuo impero.

Ma a est non andrò più.

Stanotte mi schiuse un sogno

la fine delle nostre campagne:

era nostro il globo intero,

a eccezione d’un regno;

in testa all’avanguardia,

nella luce alleata della luna,

straziavo villaggi,

e non incontravamo soldati.

Essi erano alla fine,

di spalle, e così li prendemmo

e a loro anche portammo la morte.

Avevano voci giovani.

Nel voltarmi a cercare

la gioia dei miei uomini

c'era ancora il villaggio

attorno a loro, e il mio pugnale

nel sangue lucente

tra le spalle di mio padre.

L'uomo che la mia lama

finiva di spegnere

aveva la tua faccia; cadesti

che il riflesso dei soldati,

nella tua pupilla marmorea,

ancora mi dilaniava.

*

Ritorno

Grigio l’asfalto
inerte della strada;
cicatrici appena a lato
segnano cascanti
d’acciaio la campagna,
e va ingrigendo
più s’inerpica
verso l’acqua
azzurro spento
fin la costa
grigiazzurra
in lontananza
dove l’arancio
non la vìola,
e cielo, sopra, azzurrogrigio
e nuvole allungate
e grigie di passaggio
e cielo azzurrogrigio
di là d’un vetro sporco
di malintesa carità nociva,
fuori dal lamento
soverchiante
d’azzurrogrigia bestia
prodiga di fughe e
mesti ritorni.

 

Finisce il giorno
degli illusi.
Più su,
oltre ogni cosa
la luna come un faro
nota,
ostinata, luminosa
all’apogeo,
e insegna come stare
al mondo
spartendo un po’ ciascuno
l’impotenza.

*

Ospiti

Stanchi nella penombra,

 

dondolano per gioco
ai trapezi della sera
appese le zanzare
pungono le schiene
ogni tanto
brividi
di un'estate automatica
ricordata con rabbia
svogliata cala, Godot, la notte,

 

gli ospiti provano

a chiudere gli occhi
per non riaprirli.

*

Quello che conosco.

Di zufoli pispoli e chiù
di zirli e trilli
conosco il suono
(e posso anche farvelo:
eccovi un chiù);
di un barrito, di un muggito,
d'un bramito conosco il suono;
e il suono conosco di tutti i versi
degli animali.

 

Conosco il suono d'un bacio

e d'un abbraccio, d'una carezza,
della brezza che spira un'emozione
che abbandona il petto
e conosco il suono d'un balletto,
dei tuoi tacchi che tic-tac ticchettano
sull'acciottolato
e il suono che fai
masticando il cioccolato.

 

Di questa poesia,
da sempre sordo,
conosco la voce, e il suono
puntuale d'ogni verso,
parola per parola.

*

Il mondo sta finendo

Il mondo sta finendo
da sempre.
È finito già
infinite volte
e finirà ora in me
e in te, per quanto tu sei
mondo e lo sono io,
e in tutto ciò che sente.
Rimarrà la morte.

 

E la morte non è

il mondo, senza occhi
che la guardino.

*

Sono la morte

Costretta a vagare sola
da sempre aspetto
compagni di viaggio,
un aiuto per comprenderne la meta.
Non ho colpe, solo una natura,

ma tutti mi temete;
avveleno l'aria
e secco la terra,
e se danzo per non pensare
è un attimo: i pianti
coprono la musica che faccio
nella mia testa,
i piedi s'imbrogliano
nei corpi sul terreno;
devo smettere.
Come voi avrei potuto,
preferito forse,
non esistere;
ma la speranza m'è segreta
nemica, e m'attacco
come a un seno
alla condanna della vita.

*

a

Aiuole algenti all’alba
affiancano arbusti amputati ad arte,
automobili altrove attese
azzannano autostrade;
alberi antichi accolgono
ali ad atri antri adattate: allocchi
albini abbandonano atroci affannati
assalti, assaporano anfibi
avvinghiati al volo, annullati.
Automi? Animali? Antiche
anime attaccate ad ali?
Addormentati, assorti,
argentei attenderanno
altri astri,
atti ancestrali,
ancora ascoltando
abituali agonie,
angosciosi afasici «aiuto!»

*

t

Tori, toreri, titani, tiranni;
torri, tendoni, tenori tonanti;
turgide tette, trottanti turisti,
tenere, timide, tortore tristi;
“Tite tute Tati tibi tanta turanne tulisti!”

Tutto trascolora
e torna terra.

*

Il bosco di castagni

Le foglie nel bosco
di castagni sono in terra
una pelle morta, le ere
un vapore immobile tra i fusti
come il muschio; in alto
le chiome mormorano
raccolte della lontananza.

Il vento da sud suona coi tonfi
una sua melodia
a distanze cangianti,
e guida coi ricci il raccolto,
la caccia ch'io faccio
fuori tempo; ogni tonfo
è il dono d’un complice
ch’accoglie impensato;
e inalo, riconosco, dimentico. 

Duecento passi più a nord
s'arricciano tre nasi di lupo;
si prepara allo scatto una vipera
sotto l'ultimo colpo di tamburo.

*

Breve elenco lacunoso di cose inutili

La carta, le sigarette,
le silhouette,
le schegge di legno,
o di vetro; ogni sforzo.
La polvere e il vento
che la sputa addosso,
ogni balza, ogni fosso;
il pesce palla, il pesce rosso
il pesce gatto, la murena,
ogni pesce, ogni gatto,
la cancrena,
un letto sfatto,
un copriletto con un gatto
e due uccelli, o tre uccelli;
tutti gli uccelli,
i rettili,
gli insetti
anche non fastidiosi;
io, tu, le nostre mani
che si sfiorano;
tutte le mani
e le cose che sfiorano,
i pollici opponibili,
i ponti, il pollame,
il polline impalpabile,
i vetri rotti
e gli infrangibili;
tutto ciò
che questa poesia non dice;
gli occhi della lince.

*

Vetro

Sincero,
non nasconde
bellezza né abominio.
A volte gioisce
nella malinconia
della letizia degli altri,
sorride di riflesso;
per natura aspira
a non farsi notare, forse
a non esistere;
impara che nessuno lo guarda per guardarlo
che è sempre fuori posto,
mai nel punto verso
cui volgon gli occhi,
sempre prima,
o dopo,
e mai s'intromette nelle scoperte
di due sguardi
che si cercano.
Gode con voi
di una giornata di Sole,
si perde insieme a voi
nel buio.

È fragile, il vetro
d'una finestra, instabile
per natura, non adatto al mondo
trema ad ogni alito e mano che lo sfiora.
In questa vita di vetro
lo scaraventarono a forza,
non la chiese.
Non era così mentre irrideva il vento
del deserto
e col nome di sciagura
soffocava l'arroganza
in gola agli sprovveduti,
concedeva un termine
al lungo viaggio dei dispersi.
Forse se non lo ferisse
ancora giovane
ogni sguardo storto
e disperato che lo trapassa,
il tocco mal calibrato
che la distrazione accorda sempre
agli oggetti,
quella devozione meccanica
di cui non è il fine;
se troppe voci non stridessero tanto
inutilmente
se avesse il tempo
di adattarsi alla paura
arriverebbe a conoscere la luce
rossa della fine.
Ma non avviene mai,
invecchia sempre prima,
e alla fine si rompe.

*

Santa Teresa di Riva

Della parola più lunga
non conosciamo
l'inizio, né come finisce.
Riconosciamo
nel rauco gemito del mare
solo il dolore che a tutti dà la vita.

A Riva
l'acqua è una schietta trasparenza
azzurra, e ci puoi leggere
dentro cosa pensa.
Delle paure, delle passate
delusioni, delle ossessioni,
degli amori sbagliati
ne fa una pietra, milioni,
e prova a liberarsene;
ma ritornano sempre: le stesse pietre,
per milioni d'anni gli stessi pensieri
consumati dalla risacca,
spinti via a poco a poco.

È un moto di tutti i mari:
pietra dopo pietra costruiscono dall'odio,
e per desiderio di purezza, i continenti.
I mari sabbiosi rimuginano
più a lungo, e più d'ogni altro, e su tutto;
non fossero afflitti da se stessi
svelerebbero l'Universo.
Altri paiono non conoscere cura,
e ne hanno poche, o solo una;
ma scoglio, isola, arcipelago
irriducibile e che mai consumeranno.

Non vantino quindi i marinai
giunti a riva la propria padronanza
del navigare; alla malinconia
che il sorriso custodisce
chiedano che vale loro tal disprezzo.

Le pietre di Santa Teresa
stanno in una mano a due o tre;
le più distanti dal mare
sono vittorie sofferte e antiche:
non ha eguali la crudeltà
di chi per gioco ve le ributta dentro.

Sdraiato sul limitare
dell'acqua, mi offrivo
alle onde, che mi spingevano
sulle pietre, e con esse.
Non mi voleva, quel mare,
non quel giorno,
e sull'odiata terra
mi respingeva che mai
mi ha voluto.

*

Ombra e luce

La guerra che fan
per le strade luce
e ombra d'estate
dura da sempre.

E lì dove mai vi fu
scorrer di linfa
in ime processioni
malate di lentezza,
le nuvole è una parola
che nessuno dice
e vuoto è il cielo
non parlato,
dove niente increspa il nulla,
non v'è gialli fruscii
o verdi al vento
né al sangue, che non pulsa
e fermo e fisso è sempre
stato tutto nella morte;
lì solo
troveresti,
turbandola infine,
che dura immacolata
una luce eterna.

*

Lindbergh

Trentatré ore nel nulla
ho catalogato deglutendo differenze
nel monotono ronzio lontano
delle stelle sull’Atlantico.
L’ombra del mio spirito
profondo nell’acqua
tratteneva il respiro,
ogni nuovo orizzonte sfioravo
come il filo del telegrafo.

A Parigi in centocinquantamila
si dividevano un po’ dell’attesa
mia della Francia, e ne erano stremati.
Tornai tra gli uomini e s’acclamarono,
portati in trionfo; fui esposto
simbolo non più umano dell’umano
dominio simbolico sullo spazio
vuoto per anni tra lunghe ali di folla
viaggiò il mio corpo per miglia,
ronzò la mia bocca.

Il mio spirito in volo
restava in quell’istante,
spiegava pesanti le ali
due metri sopra
il filo del telegrafo.

*

Oltre l’orizzonte

Oltre l'orizzonte
va lo stormo lontano
vociante nel tramonto;
e lo ricordo sotto altro cielo
spezzare nella corsa
verso il polo opposto e spargere
in terra più obliqui raggi.
Ieri s'appoggiarono come accenti
spaesati agli ulivi del limite,
oggi un attimo sul palo
ai cui piedi s'aggruma il fango.

Non fossimo così estranei
tutti a questo mondo
(non condividessimo l'aria
sola, e il tedio, e il furore)
Fratelli, griderei,
è vano,
ma se mai troverete
da dove si esce, venitemi
a chiamare, io v'aspetto
qui sulla mia croce.

*

Pretese

Strisciano
fuori dal tempo
sicure

lucertole scure
a seccare sul muro
dell’estate senz’ombre.

Un bambino
dagli occhi perfetti
ostinato
le piglia a pietrate,
ogni tanto ne ammazza;
ha le ginocchia graffiate
leggera la fronte
il vento alle spalle,

una pessima mira:
tutta vuole per sé la vita.

*

Stillicidio di vite

Taci. Tanto
se parli non odo
parole che siano
umane; ma odo
soltanto grugniti
o suoni simili a versi
di cane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su un mondo
che è pieno di farse,
piove su inermi
e su gente in armi,
piove sui carmi
profani;
sugli attimi fuggenti
da noi mai colti,
sui ginocchi rotti
d’artrite dolenti;
piove sui nostri volti
d’umani,
piove sulle nostre guance
irsute,
su i nostri sentimenti
di ieri,
su i brutti pensieri
di una vita, diciamo,
non bella,
su la fellonia bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
credulone.

*

I nostri mostri

I nostri mostri son mostri nostri;
conoscono i nostri posti,
son tosti come mai fosti
né fui, né di ciò noi sconosciamo i costi.
Divisi in caste, i nostri mostri,
a cataste ci s’accostano
da dietro, s'accalcano,
incauti a volte cascano,

in terra vuoti poi s'accasciano;
ma i più lesti ci tastano,
e sembra testino, le lasche
coste, che treman come lische,
con losche e lunghe dita come aste,
non certo caste, e che a tale task
traggono dalle tasche.
Di buio pesto e di peste s’impasta
la pasta che sostanzia la casta
di questi mostri che le nostre teste impesta;

e conoscono i nostri posti
dall’alba dei giorni nostri. 

*

Ricordo - a L. -

Ricordo
il dieci e il disìo
acerbo del tuo seno.

Giovane 
sul bianco
dell’onde salato
saltellava il sole;
tu nera
lo fendevi di giallo
fasciata e di blu,
e con te, di lontano, insieme
il respiro
ogni volta
e il tempo bloccavo
che nel grembo,
per tornare,
sparivi del mare.

Guardavo.

Dai tuoi lunghi capelli poi
l’acqua, e non capivo,
e dalle tue spalle
s'allontanava,
tornava acqua; e
tornava a colorarsi la spiaggia
di un verde
che più non conosco
e che nei tuoi occhi
solo
ricordo.

*

Un senso per certe poesie -versione rivista-

Certe poesie son lunghe e noiose,
altre, noiose, son corte;
alcune, un po' meglio, sorridono,
in altre, un po' meglio, è la morte.
C'è, chiedi forse, un senso per tutte?

Magari son tanti, non certo nessuno,
e sarebbe ben bello trovarne pur uno.
Ce n'è, son sicuro, minimo mezzo
(tre quarti, davvero (davvero), non penso).
Ma tu non resisti, tu vuoi che lo dica,
ben vedo che già ti freghi le dita;
eccotelo allora, il senso, lo dico;
lo dico, pur mezzo, e condiviso alla vita:

se tu guardi il picchio l'albero vola,
il mare sul fondo profuma di viola;
(sbirulì sbirulà trenta novanta una volpe che canta)
ma se non lo mangi finisce la sabbia,
ti cadono gli occhi, ti serra la gabbia.

E' un ostico mezzo
tal senso, lo so; e
se il tuo preferisci
(e se non l'hai mi stupisci),
se a te proprio non piace,
hai letto un poemetto
e vai avanti
in pace.

*

Un passero

Da sopra le sbarre
d’una panca lo spiavo:
leggero, fragile, indifeso
tra i venti ai più forti, alle correnti, concorrenti,
beccava meccanico
l’arido cemento e
non parlava;
monotono a tratti
scambiava lo sguardo mio
triste col guardo suo triste
di pianto
e non spauriva, forse
non soffriva; spariva,
tornava, era dietro la gamba nera.
Entrambi eravamo in gabbia.

*

Quando annichilito ...

Quando annichilito
tra rantolosi corpi
trascino la mia carne
e muta è la natura;
nei giorni più corrotti
sotto il silente grigio,
quando d'alati suoni
rimane il vano auspicio;
quando la via è un deserto
di dune mutilate
ormai prive del canto,
dagli astri abbandonate, e
persino al triste vento
fa senso tale sciàra
e il mondo, freddo,
trema, e il terminal dolore
urla con voce chiara;

allora in me mi sprango,
richiamo la tua voce,
e il cielo mio nervoso
un poco si rischiara.

*

Onomatocardiopee

Tum tum
in me
tumulto e strage;
tu menti, ancora,
e ancora non lo senti.

Tum tum
tumefatti tumori
d’intuizione s’ingrossano
di vecchi accenti or disfatti
nelle parole consuete
che ancor ripeti,
sai tu perché,
e più non senti;
né io sento.

Morbide ancora le labbra
tu muovi,
e ancora vedo una t
io appena e non sento.
Tum tum
sento,
tu muori.

*

cane straniero

Cane
straniero
che in terra dormi
e hai per letto il tuo sangue,
indifferenti
accanto a te
ti schiva l’oblio
e il traffico che ti ha schiacciato,
e i denti
bianchi insozzi
secchi sull’asfalto indaffarato
di passi veloci
e freddi
che non odi;
né vedono
i tuoi occhi aperti
che come prima non
esisti.

*

Eppure ti amo

Eppure ti amo
e tu mi ami;

come ama l’amaca
la mole che l’ammacca,
o l’amo la madida ombra
di pesce distante
a cui ammicca nella morta
acqua dello stagno;
e ama l’amorosa
idea, l'amorfa,
che mai non muore
dell’amore
il mortale che da molti
a morte sopraggiunti amori
ricevette ammonimento
eppure amor ricerca ancora
in ogni dama, non gli accorda
altro costume suo talento,
e muor d'ogni novo
amor sotto la lama.

*

Metamorfosi vocale

E I fu.
Siccome E
appena era stata, e
A prima ancora;
poi O sarebbe,
e infine U, diventata. 

*

Sfiorando l’interruttore

Sfiorando l’interruttore
mentre non penso,
mi viene in mente
l’elettricità
trepidante

in attesa
sotto al dito,

e il tungsteno che la sogna
nel suo bulbo asfittico.
Poi certe case
abbandonate,
chiuse 
da tempo,
con la polvere

sui tasti; e come a volte,
con la nostra assenza,
decidiamo la solitudine degli altri. 

*

Poe-s-tiche

Nel mezzo dell’infinito
silenzio, immobile,
accanto a un muro
in un’alba di perla,
sta una capra
e bela, non rugge.
(E come potrebbe mai ruggire, o cantare?)
Bela
mare terra morte
bela
colpe tum tum pomeriggio
bela zigrinatura e
apocatastasi
beee
suoni
parole.

*

a M.

Ora che hai volato
nel rosso petecchiale
del sole affogato
nelle cortine
si perdono i miei occhi.

Tu sei come una fitta
rete che alla preda arrendevole
s’appressa,
gli angoli della tua bocca
amo da cui sanguinante
solo tu puoi salvarmi
se m'odi;
lampare d’ambra scure
nelle tue palpebre luccicano
della luce di lune baltiche.

Sei come il forte bosco
odoroso che stendendosi
la sua chioma rossa spande
lento per morbide balze
e col languore della morte
apparente su di sé invita l’autunno.

Sei come stormo d’aliti leggeri:
soave il tuo amore gemi a me
che per colli e spelonche
vado annusando i sapori
di questa mobile terra,
sui lievi suoi colori striscio
cercandoti, sempre escluso
ti sento sotto di essa.

Tu sei come il baco pudica.
Dopo avermi carezzato
e mordicchiato ogni foglia,
come il fremito d’un rantolo
soffoca la gioiosa ricerca,
trascolori e ti chiudi
con un ghigno tuo
nel molle lenzuolo, delicato;
ne esci stanca, diversa,
sazia di paure,
guardi fuori.
Rimani poi
sul mio letto a morire.