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Raccolta di poesie di Franca Alaimo
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Per sempre

 

La notte ha una collana di opali per me,

pallidi come tutte le lune del mondo.

Il mio corpo non si addormenterà più nudo.

Mi veglieranno gli angeli neri della terra

sommessamente in pianto.

Non sono nata con un cuore

di ferro per concepire l’impossibile.

Che cosa sostiene il desiderio

se non l’abisso dell’ignoranza,

il punto nascosto dell’immagine?

La rosa dopo un solo giorno muore.

Notte, abbandonami qui per sempre

ché nessuno possa più deflorarmi.

Il paesaggio del sogno mi pensa

mentre lo attraverso e fanno

le pietre immote ombre senza scopo.

A me bastano l’arazzo nero del cielo

e quell’unica stella lontana.

Oh, la presenza tumultuosa di Dio!

 

*

Mezza bambina

 

La domenica era un rito il bagno

nella pila grande di legno,

la stessa del bucato,

lo stesso sapone di marsiglia.

Lei mi lavava con ferocia

come volesse sgusciarmi

dal mio breve passato:

solo un nudo gheriglio

senza pellicola e mallo.

E se dicevo: la mamma di prima

m’immergeva nell’acqua del fiume:

era così bianca, così bella,

lei mi sfregava con più ardore

come un vestito da smacchiare,

ripetendo: è stato solo un sogno,

un sogno vano, o figlia.

E quando l’acqua sembrava uno stagno

lattiginoso di scaglie di sapone,

io dicevo: guarda, mamma,

sono la tua mezza bambina.

E lei, allora, recitava Dante:

dalla cintola in sú tutto ʿl vedrai

con un sorriso dolente

che galleggiava tra i fumi del vapore.

 

*

Metamorfosi dei morti

 

Noi non ci giacciamo, né riposiamo in pace

come lassù, nel mondo bello della luce,

la gente così stupidamente dice.

Noi ci sconfiniamo e ci camminiamo

gravidi di silenzi e sogni oscuri.

Siamo come bestie o come bambini

che giocano allegramente a nascondino

qui, tra i lombrichi rosa, sottoterra.

Nel buio fitto fitto che ci invade e serra

seminiamo umori, il vuoto della bocca,

le mani, il vestimento della pelle e

gli occhi come bulbi fertili e molli

sperando che scoppino in alto le corolle

di tanti giovanissimi fiori,

quando verrà la primavera.

Ah l’aria che li corteggia

ed il profumo sparso goccia a goccia:

sì, li ricordiamo in qualche punto

di noi, in qualche incorruttibile presente.

Dal nero, dalle trame delle radici,

dai minerali, dalle pietre, dalle fauci

del tempo sotterrato partoriamo esistenze

parallele  nei vuoti dell’ assenza

con un’ ancestrale devozione

alla macina perfetta della trasformazione,

fino a restare col bianco essenziale delle ossa.

Però, non siamo stanchi.

No. Non siamo stanchi.

Il bello della morte è essere vissuti.

E noi non siamo più remoti

di quelle stelle che rilucono ancora

dopo essersi disintegrate

in chissà quale remotissima era.

 

*

La rosa sulle macerie


Dopo, il mattino cominciò a vagare
Intorno alla bellezza di una sola rosa
alta sullo sfarinamento delle facciate
e dei balconi sempre coniugati all’aria.
L’inspiegabile mistero della persistenza
del colore e del suo bellissimo aroma
piovve sul convulso dolore degli occhi
che guardavano il mistero del finire:
il bagliore rossiccio della polvere
là dove c’era il ricordo di tanti gesti buoni
e di un nugolo di rondini volate via
dal melograno verso il settentrione.
Sul davanzale di quella finestra due bambine
cantavano così allegramente, ieri,
nella luce del sole che illumina adesso
i profili irregolari dei muri
come la loro scrittura infantile.
Tutto si è spalancato alle parole
“mai più”, ai fiumi che nella notte
sono bende d’argento sulla fronte
dei morti così fermi e silenti,
sulla loro materia stanca
che più non vacillerà di desideri.
Io non posso, non posso altro
che farmi conca che accoglie
la breve fiamma delle vostre vite,
lingua che mette in fila i vostri nomi
come grani di un rosario d’amore.
Posso restarvi accanto questa notte
come una mandorla sgusciata,
come un destino ineluttabile,
un intimo sentimento primordiale.
Quella rosa così rossa che cresce
senza acqua, senza giardino, senza cura,
ci ricorda che nessuno è al sicuro,
che su tutto e su tutti sempre si stende
lo struggimento di una bellezza solitaria,
un bagliore di luce che si perde.

*

E al mattino, di nuovo


Io voglio narrarti la bellezza vagabonda
dei cieli quando si apre a raggiera
il suono delle campane al mattino
e la vita è come un contagio di calore,
una festa di ali. Quando il sole fa
di un pezzetto di metallo
nascosto fra i fili dell’erba
un coagulo abbagliante di luce.
E gli angeli vengono a sostenere
insieme le nuvole e i verzellini,
e sono così chiari con le braccia
umide di mare e un ricordo di Dio
che beve nella musica scrosciante
di un torrente che non si arresta mai.
Oh, biancore dell’aria che si fa
inizio verginale del giorno e
illumina gli angoli delle case
e di nuovo si alza un mormorio
di vite denudate dai sogni, un ritmo
d’immaginazioni che sorregge
i piccoli gesti quotidiani.
Il mio primo raggio di sole
predilige sempre l’acquaio e poi
allarga le mani su tutto il luogo
che vede il mio risveglio di fronte
ad un bicchiere colmo di latte.
Mi sta tutt’intorno la vita
come un corpo chiarissimo
che cerca le mie mani
per appoggiarsi e farsi un poco d’ombra.
Mi pulsa un richiamo nelle tempie,
una felicità semplicissima ed assurda
che mi fa dire: Sono viva, viva.
Sono tornata come una barca
carica di pesci d’argento
che approda da un’infinita nostalgia
dell’acqua marina con la sua danza di morte.
Però adesso devo dire sì perché
nulla si disperda fra me e tutto ciò
che ha un respiro: le foglie dei tigli,
i fiori, i piccoli animali, la terra.
E dunque: guardami dalla nicchia del cuore,
sorprendimi con il ronzare delle api
intorno alle gemme, baciami
con le labbra di un bimbo che sanno
di annunciazioni, deponimi
sulla lingua i chicchi della prossima semina.
O Luce, dissolvi tutte le morti brevi
che mi abbracciarono ogni notte, nel sonno.

*

Nostalgie

 

Quel giorno cantò la voce di Dicembre.

La data fu segnata  con la matita rossa:

usciremo a comprare piante di giacinti.

Ma  la sera strappò dai suoi occhi scuri coltelli,

ed il centro della stanza girò su se stessa,

poi si riempì del lutto infinito della notte.

Stava con i pugni serrati  sospesi sulla paura

del mio petto dal quale cadevano le stelle

mentre dormivano i passeri col capo reclinato.

Corpi senza materia noi due,

ombre  verticali alla finestra,

mentre mi distraeva il vento

picchiando sui vetri  gli orli  delle foglie,

convocando a sé briciole d’amore.

Finché dopo l’una restò il silenzio,

la porta aperta sui campi.

Andò via  con una valigia di cuoio marrone ,

e tutto divenne  più grande, più denso,

troppo arduo da capire.

Le fenditure, le crepe sui muri ferivano la casa

e il sentimento cadde in una ragnatela

come un insetto minuto.

Ora il mio cuore è un muscolo leggero,

una cuna, una  zolla  dove s’inarca una rosa

sullo stelo, spinosa-memoria.

Io siedo a volte sulla soglia e osservo le distanze del cielo.

Ma quando, sorta la bianca luna,

poggiate le mani sul davanzale,

non vedo sul sentiero la sua ombra

accanto alla mia più breve,

il ricordo mi  strappa l’anima a pezzetti.

Mi brucia le radici .

E non c’è stata più la guarigione.

 

*

Certe idee di Dio

 

Me lo hanno somministrato

in pillole di saggezza banale:

mi hanno detto che è onnipotente

immenso  e onnipresente

e però lo chiudevano a chiave

dentro un angusto ciborio

come per paura che Dio

fuggisse via come un ergastolano.

Ma io no, non ci ho mai creduto.

Giravo attorno a me stessa

con le braccia aperte e lo toccavo

nell’aria e gli baciavo i piedi di vento

che passeggiavano nel mondo.

Gli parlavo della gioia d’essere viva

e lo sentivo gorgheggiare tra gli alberi.

Io, io dicevo, anzi noi, noi, e tutto

tutto questo che non finisce mai.

Cadevo sotto l’ombra del nocciolo:

la sua ombra mi copriva piano.

Qualche volta mi addormentavo

e lo sognavo ed era un sogno bello

di quelli che ti svegli e ridi

a tutto ciò che vedi.

 

*

Amore senza amore

 

Poi lui non volle più mangiare il mio corpo

buono e fragrante come pane fresco

e lo lasciò sul vassoio bianco del letto

a svaporare con il respiro dei rami

e la luce della luna che mi avvolgeva

nella sua carta stagnola per fare di me

la Sirena che canta nel mare rovesciato del cielo.

E nemmeno lo volle a primavera quando il sesso

profuma come un mazzetto di biancospini

dai minuscoli stami troppo rossi.

Girato verso il muro mi offriva la schiena

con le sue costellazioni d’efelidi color del vino

come il mare d’Omero o il cielo arrossato

di nuvole purpuree o le rose covate dalla notte.

Ma ogni tanto sognavo che tutta la nostra stanza

fosse il mare aperto e che noi, dormendo,

eravamo caduti nel cuore dell’acqua

in pieno analfabetico silenzio

dove leggeri e senza riposo come le alghe

andavamo e venivamo dall’uno all’altro corpo

con orgasmi lenti come passi di danza.

 

*

Le trombe degli angeli

 

A volte ritorna, la piccina, con gli occhi luminosi

Come di chi ha pianto o  smania per la febbre

Mostrandomi una tromba d’angelo più grande

Della sua mano ma meno bianca, dicendo

“Senti come sa di vaniglia”, con la certezza

Che basta il suo profumo ad aprire le porte del paradiso,

“Ma solo se restando ad occhi chiusi lo lasci

Entrare là dove l’estasi comincia”.

Lo so che lei è come se fosse morta

Lasciandomi erede di tutti i suoi ricordi,

Però ogni volta mi meraviglia la bellezza del fiore

E mi commuove l’orlo sinuoso della corolla come

Spuma che ricama il profilo dell’onda.

E tuttavia c’è una cosa che non le ho detto mai

Per non guastare la sua festa infantile:

Oh, la bella pianta, la datura suaveolens,

Che lei tanto ama, come le altre della sua specie,

Come tutte le cose inebrianti, serba in sé un veleno potente.

 

*

Il piccolo poema della fine

 

Basta scuotere la testa e fare scivolare le nubi

Lontano, mentre la barca si allontana con le sue vele nere

Portando verso la distanza sempre più intoccabile dell’orizzonte

La sua navigazione senza approdi.

Resto nuda sulla mia tavoletta d’argilla

Cosparsa di sinuose investigazioni 

Dopo essermi tolta la benda dagli occhi,

La cintura irta di chiodi ai fianchi, la corona di spine dal capo.

 

*

 

O Dio - grido - dell’Olimpo, o Dio morto sugli assi del dolore

Assorta serenità del Buddha senza immagini, oh carità della vita!

Vengono sempre gli dèi se invocati talvolta sotto forma di animali miti,

Che annusano con i musi umidi e pietosi i pochi centimetri

Tra la gola ed il coltello. Oh Isacco, Isacco, timore e tremore!

Vengono con la parola di un angelo onirico come testimone di verginità.

 

*

 

Una volta - ricordo -  Lui, il ragazzo dell’amore mistico,

Guidava un tram rosso fiammante ed io ero una ragazza

Sfatta di pioggia e di gocce di lacrime. Lui mi chiese dove stai andando?

Portami  - gli dissi - in quel giardino dove crescono more giganti.

E ci andammo davvero.  E là non pioveva.

Vengono sempre gli dèi sciolti nell’aria,

Nel sole, cadendo tra le dita, soffiando gioie con i venti

D’Oriente ed Occidente. 

 

*

 

Oggi, invece, Lui ha preso l’aspetto di un piccolo zingaro

Con i piedi nudi e una camicina di tela bianca,

le rotule rotonde come due pesche ed i capelli ricci

Ubbidienti alla bellezza dell’oro. Tiene la testa

Teneramente inclinata come le fanciulle del Botticelli

Ed ha un cavallino  tutto bardato di rose chiare

Come la pelle di una neonata sotto cui scorrono

I dolci fiumi azzurri della sorgente della vita.

 

*

 

Sali - mi dice -  seminando chicchi  sul dorso delle mani

Come in  piccoli appezzamenti da coltivare con il sole

E la luna  e la fame  e la sete e soprattutto con un azzurro senza fine.

Mi porta silenzioso: il cavallino è di cristallo, le redini di seta,

Finché il silenzio mi scoppia nel cuore come la più alta felicità.

 

*

 

O madre - canta finalmente il cuore - nella tua lingua sconosciuta,

Nella tua scomparsa gentile è il segreto: amore della memoria,

Ti ascolto mentre parli con la voce luccicante della pioggia

E mi aspergi nel battesimo, mio girasole sempre volto alla luce.

 

*

Per Gianmario Lucini

 

Tempo lasciato fra libri accatastati, foto ed agende,

appuntamenti  mancati, luoghi svuotati.

Ora sei stato spossessato delle tue donne,

degli aromi delle loro bocche e dei fianchi caldi

come  il giallo oro degli alberi. Sei caduto sulle mattonelle

con un tonfo , come una cosa che si rompe improvvisamente

o che brucia come se fosse passata una materia incandescente

Avevi  già una distanza marmorea, il colore dell’erba

sotto il plenilunio, la bocca abitata dalla notte e

sotto la lingua filamenti di commozione,

come se ti piacessero  i dolori,

e quelle cose che sanno di morte e di metallo duro.

Se , adesso, potessi guardare fuori, ti chiederesti  perché

ci sono tanti stormi nel cielo, e perché tutte le cose

che si alzano in volo  sono così struggenti.

Ma ormai non hai che gli eventi muti dei morti:

il tuo petto è diventato una nave che con la prua apre

i flutti del cielo, mentre  gli occhi buoni degli angeli

si colmano, e i battiti delle ali compiono la migrazione

verso l’irreale, navigando tra le stelle come il carro

dell’Orsa maggiore. Ricordi solo qualcosa, per esempio

la beatitudine dei rami fioriti sotto i piedi

per quella tardiva primavera che era ancora ottobre e

penzola nell’aria il tuo sorriso: oh, nessun male ormai,

nessuna pena. Sono tutte cose leggere  le tue cose di qui,

Fanno musica, hanno i colori dei bambini.

Parli con la luce con la stessa adorazione dei fiori

che escono dai semi , bucano la terra e si alzano

perché il loro compito è benedire l’aria.

E poi ti volti appena con un gesto  tutto bellezza,

Saluti noi che qui siamo rimasti, e sei già così distratto,

come chi più nient’altro vuole  o chi sorride nel sogno.

 

*

Preghiera per essere libera


Oh Dio, liberami dalle tue gabbie,
dalla tua ira e dal tuo giudizio.
Strappami dalle mani
righe, squadre e compassi
perché non pensi più a tracciare,
prendere misure, assediare.
Lasciami pure vacillare
a un centimetro dalla tua bocca,
sorda e cieca, annoiata perfino di te.
Io ti sono viva sorella nella carne,
la materia santa che ti rivestì
che ti profumò le mani,
che sulla soglia del cuore
traboccò di sangue.
Dio, ti ricordi quando ballavamo
sotto gli alberi mentre addosso
ci cadevano le stelle?
Quando camminavamo baciandoci
per rinascere sempre?
Liberami, liberami dagli animali sconsacrati
da quelli che arrossiscono
per falsa vergogna.
Mio Dio, che sogno faccio sempre:
le montagne sciacquate,
le nottate imbiancate da una grande luna.
C’è una fanciulla dentro la fontana
che zampilla latte dalla bocca.
E tu sei seduto sul bordo e
Io so, lo sai, che dopo ti sposerò.


22 Luglio 2014

*

La scrittura invecchia

 

Si comincia come per magia

pensando sia facile trovare la via

della leggerezza nei suoni delle parole,

ordinate in versi per misure e colore.

Sembra di starsene a mezz’aria

come un uccello che lascia lontano

la sua ombra e cantando beve tutto il cielo.

Ma ora che non mi è rimasto quasi niente

e sono caduti  la luna  le stelle i firmamenti

e più non sono le cose dei miracoli viventi,

vengono fuori dal petto solo domande stanche

e fanno male il vuoto delle persone morte o abbandonate,

gli strappi al cuore nella nebbia della memoria,

Come sono pesanti le parole

Come sanno di oggetti consumati

O di spine che trafiggono la gola.

Le rose sono sfiorite. L’umido autunno

fa marcire le foglie, stende nuvole sui pensieri

che volevano salire fino a Dio ed invece tornano

nella mano che scrive e  lentamente respira

sfogliando ad uno ad uno i fogli bianchi.

 

*

La mia gatta

 

La mia gatta non gradisce questo nuovo appartamento.

Lo capisco dal suo sguardo offeso e sprezzante.

Infatti, per seguirmi, ha rinunciato a tutti i suoi possedimenti

Un frutteto di centinaia di ettari, un prato

Dove aveva tutti i suoi giocattoli: lucertole, topolini,

Gracili passeri caduti dai nidi, farfalle;

E non può più decifrare con le lunelle attente

Le ombre della notte ed i suoi linguaggi.

Gironzolando per le stanze  ha provato tutte le poltrone

E infine ha eletto una ciotola di terra sul balcone

Dalle cui sbarre osserva  sconcertata certi animali di latta

Luccicante che strepitano e gettano nell’aria neri vapori.

Ma soprattutto temo che abbia cambiato  opinione

Sul mio stato mentale: chi mai lascerebbe l’Eden

Per l’Inferno?  - si chiede, ma guarda tu che razza di padrona

E nel farmi le fusa mescola l’amore col rancore.

 

*

Dopo tanto silenzio

 

Nonostante l’incuria e la solitudine,

L’albero del mandarino  non ha dimenticato di accendere

La sua cupola verde  di fiammelle.

I rami dei fichi hanno già piccoli frutti destinati

Alla luce estiva ed alla festa degli uccelli golosi.

Strano che anche il futuro sia per noi un ricordo.

Già le rose canine anneriscono  il sentiero

Con macchie rotonde e  vacillanti.

Già alle dieci del giorno i frammenti di noi stessi

Si sono sparpagliati sulla tappezzeria di un vecchio divano.

Ascolta Mozart, concerto n. 23,  ovvero le parole non dette

Che però stavano tutte dentro il petto

E aspettavano una primavera ideale per sbocciare.

Solo che mi hai lasciata al buio,

Solo che mi hai staccato la lingua con un morso.

Solo che il passato pesa come una pietra

Con la sua durezza silenziosa.

E tu conosci Vinteuil? Piaceva tanto a Proust

La ricerca del tempo perduto, quello che

Immaginiamo stipato tra queste mura.

Quando le finestre contro la siepe verde

Facevano da specchio

Al movimento  dei corpi

Nella luce intima della casa.

Quando starsene seduti sui gradini

Era il piacere di sentirsi semplicemente vivi

Come lucertole immobili nel sole.

Così ti ricordi di tutto, ancora?

Adesso con le spalle contro il muro

Sappiamo quanto è duro

Guardarsi con quello sguardo obliquo

In cui il presente entra pensieroso nel tempo del tempo.

C’è ancora quella pianta che ha gli stessi anni del nostro amore

C’era tanto vento che ci stormiva già sulla testa,

E la notte la guardammo come una figlia in difficoltà.

Così pensiamo. Così asciughiamo i cuori umidi.

Che vuoi, le cose andate non sempre cadono via.

Girano nella testa trascinate dalla nostalgia.

Non dimenticare di riascoltare

Il concerto numero 23 di Mozart.

Specialmente l’andante.

 

*

Acque fontali

 

Per questa vocazione difficile e leggera

Mi sono incarnata nella vita

Ma ebbi per poco le mie cose più care.

Però, quando i muri si sono sgretolati,

Mi sono rimaste eredità verbali.

I miei doni furono solitudini lunghissime

Attraversate da canti fertili come venti pieni di semi.

E quando anche i nomi si frantumarono,

Ho raccolto i dettagli  più minuti

Incollandoli con la saliva delle parole poetiche,

Affinché conoscessi la grazia dei relitti

Che galleggiano nelle strade turchesi delle vene.

Ma ora sono in cerca dell’acqua fontale

Che mi  benedica colando nell’orecchio

Il comando iniziale: che la vita sia

E che tutto si desti e mi attraversi

E riluca con lo stesso impeto

Di una spada affondata nel petto.

Sgorga di nuovo – dirò – dalla gioia,

Mettimi in ascolto del mio mare interiore.

E tu, Palinuro, che cadesti vinto dal sonno

Nel grembo blu delle acque, torna a raccontare:

Tutto ciò che affonda, se si sa aspettare,

Risale alla metamorfosi  del sole.

 

*

Comincia un giorno

 

Si alza ogni mattina alle sei, e già ha odore di caffelatte

E di uova  fritte in tegamino

Se ne sta a fumare tra i capelli sontuosi e spettinati 

Che cadono come fiotti

Neri verso il centro del petto,  i cerchi del fumo

Attorno alla bocca come gli anelli di Saturno nel cielo.

E’ giovane, la pelle levigata di ciottolo fluviale, spesso canta.

Vagano da una gronda all’altro le rondini come  suorine dentro un chiostro

Che garriscono preghiere tra le colonnine tortili come serpenti tentatori.

E poi ci pensano i bambini a dissipare il colore del sonno

Con grida cristalline e pianti purché qualcuno li consoli, 

Con una parola cara, un toccare d’amore.

Emerge anche l’albero  dal vaso di terracotta

Mostrando i rametti fioriti

E quel suo fare inconsistente che comincia a crescere

Ed alzarsi ineluttabilmente verso l’alto senza sapere

Perché e come affrontarlo.

I fiori sono odorosi, bianchi, ma appena li porta via il vento,

E’ come non fossero mai esistiti,

Poiché tanto piccolo è il loro peso da innamorare il nulla.

La signora del quarto piano scuote le coperte

Con quei tonfi gravi che fanno nell’aria le stoffe damascate

E le lascia a ciondolare dalla ringhiera

Ancora  odorose di notte e dell’intimo dei corpi

Come sipari  sulla  scena oblunga del cortile:

Un motore incatenato al palo di ferro rugginoso,

Il bianco squallore del cemento,

I colombi che fanno flap ansiosamente con l’ali,

Una vasca piena d’acqua piovana  che per me prepara

Un’interruzione di questo tempo, qui.

C’erano i pesci rossi,  l’amica d’infanzia bionda e bianca come la luce,

Che rideva dentro lo specchio dell’acqua,

Tra ciuffi tremanti di capelvenere,

Mentre con le mani sperimentava la fuga dei corpi scintillanti,

L’inabissarsi del desiderio, il frantumarsi  di un volto tenero.

 

Maggio 2013

 

*

Natale 2012

 

Vieni, piccolo Dio, nella mia casa.

Ti scalderò con il mio vecchio plaid bucato

Da cicche di sigarette e con il fiato

Dell’anima mia, asina impaziente e lenta come un bue.

La stalla è nel mio cuore dove il profumo del fieno

Si mescola al puzzo del letame.

Eppure io lo so che ti lascerai cullare

Dalle parole della ninna nanna che già cantai

Al figlio appena nato.  Che ti potrò baciare

Le gote, la fronte e le manine sante.

Vieni nella mia casa, o Dio bambino,

E falla risuonare dei tuoi vagiti:

Fa’ che per una volta sola

Sia io a dare a te  consolazione.

*

Tosatori e macellai

(ad Alejandra Pizarnik. A tutte le donne)

 

 

Alejandra, com’è stato duro riconoscerci e salvarci.

Con noi ragazze sono stati tutti tosatori e macellai.

Le nostre madri giunsero con forbicine d’acciaio

E ci raschiarono un poco la lingua canterina.

Ma noi la medicammo con qualche goccia di miele.

A primavera piombarono i padri sulle nostre terre

-Barbari e gelosi-, e con vanghe, rastrelli e cesoie,

Recisero i fiori, potarono i rami, estirparono i tuberi buoni.

Ci rifugiammo di corsa nella nostra cantina e là

Bevemmo coppe di vino viola e ci sentimmo immortali.

E le vecchie, tritando il tempo in vecchi mortai,

Ci dissero che la vita somiglia ad un pavido

Coniglio nascosto dentro il cilindro di un Mago.

Ma noi urlammo forte per non sentirle e farci coraggio.

Quando addosso ci crebbero le dolci primizie,

Le presero i ragazzi sotto angusti soffitti.

Tuttavia, di nascosto, in notti senza luna,

Scrivemmo sulla porta i versi di un antico rito.

Pensavano tutti di averci smussate, addolcite,

Appiattite, come ciottoli muti nel farsi della vita.

E invece, che fiamme, che canti covavano

Nei nostri nidi celesti. Quanti no, quanti viaggi diversi!

Ed ora, Alejandra, dobbiamo parlare.

Siamo donne d’amore, Sirene che sanno

Cosa nascondono le viscere verdi del mare.

*

Fuoco e neve

Hanno i cuori cuciti insieme dalla stessa paura

I corvi neri che si alzano a stormo

Per un secco e lontano rumore. E poi

Ricadono sparsi come sassi tra le foglie.

La luce bianca chiude il paesaggio

In un foglio di carta opalina

Accostando i grappoli di suoni

La danza del vento in imprevedibili traiettorie

E le calendule già sbocciate nel gelo

Sopra la carcassa del cane con gli occhi

Otturati dal fango, che guardano pacificamente

Dentro la sua stessa decomposizione

E dicono come la bellezza sia l’unica testimone

Che si rialza sempre dalla vita torturata dalla morte.

Dalla pietra muschiosa, dall’agave carnosa

Dall’erba foltissima la bellezza si avventura nello spazio

Rispecchiandovi i segni minimi di un mistero vastissimo

Parallelo al visibile. D’improvviso la visita impetuosa dell’acqua

Zittisce il turbinare dei merli, ricama umidi alfabeti nel vento

Circumnaviga gli oggetti lasciati all’aperto:

Zappe rastrelli sacchi di cemento una panca rugginosa.

Si piega in ginocchio come una bambina

Sui cespi fioriti del mirto, in giardino.

E il cammino profuma i suoi piedi:

il destro della nota dolciastra della terra inzuppata

il sinistro dell’aroma del finocchio selvatico.

Con la sua bocca bianca e buona

Il giorno invernale m’insegna

Che la lentezza deve misurare i pensieri

Che non occorre stare in affanno

Quando il tempo mi chiede

Di sedermi accanto senza parole

Fissando il fuoco che arde  ed incanta

Con le sue lingue barcollanti impigliate nei rami

Che fischiano l’anima giovane del tenero midollo.

Non c’è cosa che duri per molto nell’inferno

La corteccia che brucia e s’annera

Staccando piccole squame

Fa un dolce profumo di resina;

la curva di un ramo imbiancato sotto la neve

fu la sua più bella architettura

il suo ultimo boschivo ricordo

Ricorda, oh ricorda!

Non c’è cosa che duri per molto nell’inferno.


*

Dopo aver letto un articolo sul massacro di My Lai

Che cosa facevamo noi ragazzi della contestazione
innamorati dei nostri mostri sacri e delle canzoni di Joan Baez
il 16 marzo del 1968, mentre a My Lai , durante la guerra vietnamita,
(ascoltavamo, intanto, senza conoscere davvero la bestialità umana
“C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones”)
La sacralità dei tre regni della vita veniva violata:
uccisi gli animali, bruciate le piante, gli uomini massacrati
ed alcuni gettati nell’acqua di un canale dove si ripiegarono
nudi tingendola di sangue nudo dopo una pioggia dura di proiettili.
Quale manifesto scrivevamo, bevendo coca cola, contro i potenti
Mentre un bimbo di pochi mesi guizzava fuori dall’acqua
come un pesciolino d’argento, tutto lacrime e scaglie di terrore ,
e Calley, il tenente, gli sparava alla testa solo per esercitare la mira?
E che cosa speravamo noi, fumando qualche canna e baciandoci
Mentre lo stesso giorno dopo mezz’ora altri soldati nordamericani
sterminavano i sopravvissuti: una bambina accoltellata alla schiena
cadde nel caldo della camiciola di tela, ed una ragazza dopo la violenza
fu finita, mentre urlava il suo terrore a Dio, dalla canna di un M16
infilata nella vagina (così andò a pezzi la sua dolce stanza fertile
che cullava le prime settimane del suo primo bambino), e le ossa delle anche
schizzarono in piccole schegge e dalla bocca fiorirono mille papaveri sanguigni
che adornarono le tuniche bianche degli angeli e dei santi in paradiso.
Ma noi ragazzi della contestazione dell’anno 1968 non trovammo mai il nome
della tragica sposa vietnamita leggendo i libri di Marx di Mao e di Marcuse
o nei sonetti dei poeti maledetti francesi che ci rendevano più forti e sfrontati.
Perfino Cristo non soffrì così tanto. Perfino lui si dimenticò di Calley.
Ma Calley disse dopo che non aveva fatto nulla di male
e che per quanto lo riguardava avrebbe messo “tutte quelle scimmie gialle
su barchette e spedite in mare dove volentieri le avrebbe affondate”.
E Calley scontò solo tre anni e mezzo di arresti domiciliari
(Infine aveva fatto il suo dovere di soldato, che non può permettersi
In guerra d’essere anche un uomo, e che deve solo ubbidire e sterminare)
e visse a lungo, ma sempre senza rimorso, fiero di se stesso,
e della morte di così tanti civili che per contarli e ricordarli,
uno al giorno, un minuto di silenzio, ci vorrebbe un tempo
                                                                                  [ più lungo di un anno.
Dov’è adesso Calley? Chi fra i tanti morti è riuscito a dire: io ti perdono?

*

La fabbrica degli angeli

Poiché, a quanto sembra, la fabbrica degli angeli non chiude mai i battenti,

C’è un continuo bisogno di materia prima: pelle morbida, occhi trasparenti

Come un pietra di carbonio puro, tendini freschi e molecole innocenti di bambini.

L’angelo scuro li raccoglie  come mazzi di fiori da ogni dove:

Da un bus che si schianta contro un muro, da una scuola sperduta in un villaggio

Che si accartoccia tremando come foglia, da una barca che naufraga in mare aperto

E diventa una bara di salsedine  e soli agonizzanti;

Li battezza di nuovo con nomi che sanno d’aria e d’acqua sorgente

E li dota di un paio d’ali attaccate alle scapole per scendere ogni tanto

Sulla  terra e lasciare una piuma  sui pavimenti delle case e qualche petalo di giglio.

Quelli che restano li vedono risalire di slancio sollevando i piedini luminosi

E lasciare una scia di polvere d’argento come le lacrime di San Lorenzo

Che non danno il tempo di dire lo stupore e sono già svanite.

Però mi chiedo: perché aggiungere perfezione a ciò che è già perfetto?


*

Fuga


(a Maria Musik)

 

Ho fatto le valigie e ho chiuso dentro il mondo:

Parto per un viaggio nelle profondità,  

Metà aria, metà acqua, sparsa in frammenti

Sopra nel cielo o nei fondali neri del mare.

Per dimenticare il peso, un paio d’ali

O una larga pinna dorsale:

Le labbra come due valve d’ostrica a serrare

La perla coltivata d’emozioni, che più nessuno vuole,

Le piume per fluttuare seguendo le correnti d’aria

Dove le parole scorrono con il vento

Tra le foglie, scuotono i rami, scoperchiano le case:

Linguaggio di fischi e schianti, forse di pianto,

Che nessuno ha più il coraggio di parlare.


*

Non è mai troppo lo spreco

Andare incontro al mondo con passione,

Offrire il corpo alle ore voraci

E dire sempre amore

Agli uomini che lottano, che amano, che muoiono

Fino a ridurre l’anima a brandelli,

È il mio modo di dare sogno e spessore

All’incessante ardore e spreco della vita.

È andato il giorno col suo fiato di luce.

È venuta la notte con le sue stelle mute.

Tra l’uno e l’altra è passato il vento,

Mutando lo scenario delle nuvole in fuga,

Aria violenta che tacque all’improvviso

Lasciando una quiete piena di ferite.


*

La scrittura come dovere

Sto dalla parte di chi vorrebbe ancora seminare

Nelle vite raschiate dalle lame arrugginite di riti e cerimonie

Il polline biondo, la neve scintillante e quella vertigine stellare

Che compongono remote nebulose di umana nostalgia.

Ma la storia è stata abbracciata da un tempo desolato

E l’antica sapienza mostra i tatuaggi lividi del tradimento

È morta l’allegria degli dei e la lingua non santifica più i nomi.

Si svela crudelmente la materia inerte delle cose

Dov’è il sorriso del mito che abitava perfino l’erba del fossato?

Ora è dovere, non più destino, mettere la poesia sulla bocca

Dei traghettanti  per salvare i cuori dall’oscuramento


*

Prima di leggere

Prima di leggere  mia madre m’insegnò le filastrocche

Della sua memoria infantile

Che mettevano insieme parrucca e imbacucca nelle rime

E qualche volta, se stentavo a dormire, 

A bassa voce le ripetevo a me sola ,

Addossata alla spalliera del letto, la finestra spalancata

Sulle pietre annerite del muro dell’orto,

Quando di notte cantava l’usignolo

Ed io cercavo di capire  la sua idea del buio

Come un colore attraversato dalla musica:

Un punto di vista assolutamente fantasioso,

Una  smania di grazia sulla desolazione. 

Era così incantevole che di lui ci fosse solo la voce: 

Nota dopo nota contro l’angoscia del non vedere più nulla.

Il giorno dopo si appoggiava al ramo dell’albicocco

E tra le fronde il piumaggio rosso del suo petto era la certezza

Che ogni notte il vuoto della morte era traghettato

Verso la vita dai versi di una veglia musicale

*


[ Traduzione in tedesco a cura di Stefanie Golisch ]


Bevor ich lesen konnte


Bevor ich lesen konnte, lehrte mich meine Mutter die Kinderreime,

An die sie sich aus ihrer eigenen Kindheit erinnerte.

Da reimte sich Pferd auf Schwert

Und manchmal beim Einschlafen sprach ich sie bei geöffnetem Fenster,

Ans Gitter des Bettes gedrückt, leise vor mich hin.

Auf den schwärzlichen Steinen der Gartenmauer,

Wenn nachts die Nachtigall sang

Und ich versuchte, die Idee der Dunkelheit zu begreifen

Als eine Farbe, die von Musik durchquert wird:

Ein absolut phantastischer Gesichtspunkt

Ein Anhauch von Gnade über der Trostlosigkeit

Zauber der reinen Stimme:

Note um Note gegen die Angst, nichts mehr zu sehen.

Am nächsten Tag setzte er sich auf einen Zweig des Aprikosenbaums

Und unterm Laub war seine rote Brust die Gewissheit

Dass nächtens die Leere des Todes von Versen

bewacht wurde und von Musik


*

[ Traduzione in spagnolo a cura della poetessa cubana Juana Rosa Pita ]

Antes de leer

Antes de leer mi madre me enseñó las cantinelas

De su memoria infantil

Que  juntaba peluca y acurruca en las rimas

Y a veces si tenía el sueño difícil, 

En voz baja para mí sola las repetía,

Pegada a la cabecera de la cama, la ventana de par en par

Sobre las piedras ennegrecidas de la pared del huerto,

Cuando de noche cantaba el ruiseñor

Y yo trataba de entender su idea de lo oscuro

Como un color atravesado por la música:

Un punto de vista absolutamente fantasioso,

Una  manía de gracia en la desolación. 

Era tan encantador que de él solo fuese la voz: 

Nota tras nota contra la angustia de no ver más nada.

Al día siguiente se apoyaba a la rama del albaricoque

Y entre las frondas el plumaje rojo de su pecho era la certeza

De que cada noche el vacío de la muerte era transportado

hacia la vida en alas de una velada musical.

*

Un quadro e l inverno

Come un sortilegio di antiche voci, quanti lontani inverni,

Le colature della pioggia sopra l’intonaco  

Ed il lenzuolo  attorcigliato  dal vento sul filo di metallo

Una conca bianca che raccoglie le ombre dei corvi

Che passano nel cielo di cenere come un nero alfabeto.

Oscillano le colline, le case, gli ulivi scintillanti

Tutte le altre cose mai ferme tra le lacrime,

Ed il cuore  ha una ferita  così rossa da eguagliare

La bacca pendula come un ciondolo corallo dal ramo.

L’autunno come un amante spoglia gli alberi

Per mettere  in evidenza i  gioielli sulla nudità della terra.

Guarda la donna senza vesti con solo un filo d’oro

Attorno  al collo simile ad un sentiero spalato dalla neve

Dove  batte il sole, le cosce tonde, i seni paralleli

E i minuscoli petali di pesco  al sommo  con una dolce gemma,

Come fossero già gli ultimi giorni di febbraio in questa valle.

Ma come si fa, adesso, a sconfiggere la muffa dei muri

Ed il veleno mortifero del sonno? Bottiglie e ventagli alla rinfusa –

Questo è il ricordo – stavano a  giacere sul tavolo dove poggiavo il gomito,

Quando un fascio di luce biblico fuggì da un cumulo di nuvole di piombo

 E divise  esattamente come una lama i pochi metri quadri della stanza.

Tra terra e cielo sta il nome del borgo nella carta topografica appesa al muro,

 La sua minuscola geografia di arance di rame dondolanti, e adesso,

Sebbene le prime calendule  e i primi steli agrodolci tra i denti  come nell’età infantile,

Che mura scalcinate prossime al crollo, tra radici e nodi di canne

E che cancelli arrugginiti. Ci torno da fidanzata e sposa del mio passato,

Con quei ricordi di me, bestiola  così  scalmanata  e tenera in amore.

 

12 gennaio 2012


*

Un carillon di suoni

Adesso abito uno spazio incenerito

Dove ogni cosa è quel  che era prima di esistere.

Dove si può dire “fonte”, prima che la sua goccia iniziale

Le dia il nome che la inchioda all’acqua.

Là io, non questa me, navigo

Come il primo uccello dell’Eden stupito dell’aria

E del mistero delle sue ali.

Ho sempre con me un giocattolo dorato

Che è stato il primo dono di Dio:

Un carillon di suoni che giorno e notte

Mi distrae da domandargli

Com’è che è cominciato tutto questo dolore.


*

La fidanzata

Giaci sotto il temporale tra l’erba

Scintillante umida e fresca

Con i piedi immobili quasi azzurri

I capelli impastati di terra e di verbasco.

Il viso mi si è infiammato

Vedendo come sei morto.

Dicono fra monotoni lamenti

“Sembra che dorma” le altre

Che non ti hanno dato baci.

A me anche la pioggia brucia come fiamma

Ora che il tuo respiro è nulla.

Balbetto nel dirti l’ultima volta: a Dio!

Per te domani mi vestirò d’abiti bianchi.

Ho troppo lutto per mostrarlo. Ma ora

Lasciamogli il silenzio. E che vada solo

Poiché era coraggioso e detestava il pianto.


*

Mio figlio alla finestra

La luce estiva come una colata d’oro sul giardino

E il cielo chiaro, arcano come una fronte pensosa

Ripiegata sulla mano; l’albero di susino, folgorato dai raggi,

Giovane e biondo come un cherubino, è un fruscio di osanna.

Ma ecco che appari tu alla finestra: i capelli di fuso rame,

Le gote accese dal sonno accaldato tra le lenzuola,

La pelle scintillante di sudore, la bocca col mio nome.

Sorridendo alla tua immagine umida di bagliori,

Ti grido da lontano: Adesso vengo, Giulio, sì, vengo…

Intanto  che penso: Quanto ti amo, viso bello di sole,

Figlio della mia gioia, estate abbacinata del mio cuore


*

Ai dolenti dei nostri giorni

Voi che il dolore e la storia crudelmente perseguita,

Uomini spogli, donne dissanguate, stendetevi sul mio corpo

Come su un prato fresco di erba e di papaveri  labili e gaudiosi

E ridendo, rasserenatevi del mio amore fertile, moltiplicatelo.

E voi bambini spauriti, angeli delicati che l’orrore ha devastato,

Rannicchiatevi nei ventricoli del mio cuore di poeta, implumatelo

Di leggerissimi pensieri, e giocate a chi lo mangia più in fretta,

E poi piantatelo ancora come un seme perché vi dia sempre frutti

E fiori e ombre da spargere sul capo come carezze, e notti scintillanti,

Cieli velati d’aurore rosarancio. O volti germogliati, o vene azzurrine come fiumi,

O fiori nascenti, voi tutti amati e ridenti, quando il male si sarà raggrumato

E sarà sceso nel fondo, e Dio, come una morbida femmina di tordo,

Vi coverà nella coppa del suo nido intrecciato di silenzi e di perdono.

Quando il mondo perderà la vergogna, quando ovunque sarà luce fonda.


*

Come un fiore autunnale

Non smetterà mai l’insonnia della vita di migrarmi addosso

Con le sue stelle rosse, i fondali azzurri di un fiume,

Mentre le morti più minute già secche acuminate

Mi pungono gli occhi, altre più morbide e infanti -

Piume, corolle, germogli - si stringono presso il pube o le ascelle

In allegro disordine, esperienze mistiche del tatto,

Teatro furioso e cangiante sulla superficie della pelle.

Intanto che gli altri bellissimi parti del tempo, tra lutti e sassi,

Mi levigano a tutto tondo amorosamente,

Premono e mi disfogliano come un fiore autunnale

Finché resta di me la forma essenziale quasi svuotata di nervi e ossa,

Qualcosa di prossimo a un guscio sottilissimo e asciutto,

A una lamina madreperlacea o a un animale d’ombra

Che trascorre nel bianco lucentissimo dell’occhio lunare,

Dove come in un ostensorio il mio corpo è

Una porziuncola di sacra bianchezza, e la mano

Una dolce reliquia che stringe ancora semi per la futura primavera.

Immersa in questo lavacro, m’illumina un sorriso aperto

Come quello di un angelo, che sa come s’innesta

L’infinito riposo dell’inverno nel bulbo del narciso.


*

Grano verde

Dopo avere accumulato nella notte immagini felici

E voli dell’anima ridente nel groviglio del caso,

Svegliatami con lo splendore nuovo dell’aurora,

Vedendo ancora il suo corpo inclinato verso il mio tepore,

Lo riconobbi come stordita, tanto mi sembrò

Superfluo averlo ricevuto tra le mie braccia al buio

Senza alcun suono se non un gemito lungo d’animale.

Sì lo ricordavo: come un frammento caduto

Sulla metafora bianca della mia carne che chiamava amore,

Ad essa ricongiunto come all’origine stessa della sete,

Le gemme pulite dei suoi occhi che mi precipitavano

Nel ricordo di una valle verdissima di grano.

Il ticchettio dell’orologio spostava il tempo verso il tempo a venire

Mentre, a torso nudo, sul letto disfatto, silenziosa

Osservavo gli oggetti sparsi per terra con furia,

Come dopo un assalto nemico o un impeto fortissimo di vento.

I miei anni notturni volteggiavano nella testa

Come un drappello di rondini in cerca di un luogo più caldo,

Più certo di un respiro di ragazzo ancora dormiente.

Avrei avuto ragione se gli avessi detto subito addio,

Se fossi andata via per sempre. Ma si svegliò che pareva

Un tenero angelo bianco, un destino di grazia,

Una ridente delizia. Come esultavano fuori le creature viventi,

Come scintillava l’azzurro limpidissimo del cielo!

Gli morsicai la bocca che sapeva di mandorla

E l’accostai al seno perché bevesse di nuovo il latte della felicità.

Oh, i nostri occhi nuotarono ubriachi vedendoci senza vederci e

Ancora più caldi furono i baci, ancora più verde il grano di ieri.


*

La limpidissima sostanza

Come stendardi sonori - tra fiammate ed arazzi d’oro-
Gli uccelli leggeri straripano la gioia avvolgendo la vela
Del giorno al sommo e ai piedi del cielo nel vento
Che raccoglie le emozioni sparse nell’aria
E le litanie degli animali terrestri, i silenzi dei pesci
Nella concavità delle tane, delle rocce e dei mari.
A sud ovest navigano nuvole di corallo,
Si alzano i duetti delle colline con il sole al tramonto,
Un cane randagio fiuta le erbe frammiste a fiori minuti.
Sopra le nostre teste biancheggia Venere lucente
- Nelle ombre le chiavi per aprire il mese di aprile
Da ramo a ramo- le foglie nell’acqua come sorrisi
Tremanti e poi il fresco delle tue labbra,
La sera sulle nostre braccia tra chioma e chioma,
Le parole divorate dallo spazio delle prime tenebre
Che è un intorno senza pavimento e senza porte.
E il silenzio della luna spuntata sottile
Come un curvo ramoscello di nocciolo,
Il profumo resinoso di una bacca caduta
Sono la felicità di non vedere e immaginare
Dio e la poesia in bisbigli sacri d’amore:
Alberi sciolti che stormiscono nel buio,
Stelle pigolanti, e scie odorose di menta
Tra i passi nel giardino dove si allungano
Le nostre ombre toccando la corteccia del noce
Dove io posso vedere la tua voce
Posso toccare come un prodigio di primavera
Il germoglio di gioia celato dal tuo petto
Che si alza per venirmi incontro,
Per donarmi la limpidissima sostanza
Di un sentimento che somiglia all’acqua zampillante
Della fontana, mentre chiacchiera
Con la passione senza tregua del mondo.

*

Quando andavamo al fiume

Sì, c’era, dopo i cespugli fitti,

Ma prima il canto e un fruscio in movimento

E il vento ora assente ora veloce e finalmente

Come la visione di un altrove veniva il fiume

Correndo verso il mare lontano e dilagante

Nell’ansia e nel cadere verticale da una balza muschiosa.

Per ore contemplandolo tra ardori d’erba alta

Aggrovigliata e i gigli selvatici esplosi

Da tuberi infossati nella terra intenerita d’acqua

Fra radici e sassi levigati. Di fronte alla sua forza

In sovrabbondanza di grazia stavo muta,

Accoccolata come un dolce animale,

Con le mani sporche e la menta selvatica tra i denti,

Lei nel pensare assorta al fiume che trascinava il passato

E il luogo lontano poi che dopo cantava una canzone

Nella sua lingua natale di suoni misteriosi

Come quelli attraverso i rami e le foglie dei boschi.

Andiamo dove, andiamo dove? - cantavano, era già sera -

Gli uccelli notturni e il fiume diventava un drago con tanti

Occhi aperti e dardeggianti. Lei mi custodiva la mano

Come una colombella nella gabbia per paura che mi perdessi,

Che affondassero i piedi. Scoppiavano in ogni albero alto,

Solenne, inni rituali, cerimonie nascoste e le ombre

Scrivevano geroglifici sacri sull’aspro delle cortecce.

Le caviglie graffiate, le foglie infilate fra i capelli,

Le tasche come culle di corolle già esangui,

Foglie aromatiche e il giorno morto tra i ricordi.

Le nostre braccia allargavano il mistero e passo dopo passo

Sul sentiero conquistavamo ancora il ritorno alle cose:

Una brocca di argilla bianca con l’acqua della fonte,

Il pane caldo lievitato nel forno di pietra e tre pere mature

Posate sul tavolo di legno grezzo, prima del sonno.

*

La memoria

Oh sì, che bella cosa la memoria
Che fa muovere il tempo avanti e indietro:
Avevo un abitino a rombi rossi,
E avrei voluto, ma mi mancò l’ardore.
E poi di quell’altro giorno mi ricordo
Che il cielo era sbiancato d’abbandoni
E le lacrime calde: mio Dio, quanti dolori!
Meglio tornare qui, al tempo della bocca
E al corpo che da sé si è già distratto.
Una carezza che quasi non ti tocca,
Un bacio come un soffio sulla fronte.
E’ il tempo, il tempo che non sai
Se passa per farti male o per dire
Quello che un tempo non ebbe parole,
Ma l’emozione tutta viva, la stretta
Forte al petto, il sentimento. Adesso
La vita parla d’altro: è un po’ vecchia,
Ha gli occhi stanchi, l’artrosi alle ginocchia,
E la sera chiude il grembo e la porta.

*

Dietro la porta socchiusa

Sentivo al di là della porta socchiusa

Cantare gli usignoli e chiacchierare l’acqua

Con la luce. Ma non andai. Mi dissero di qua

Che il demonio sceglie bisbigli e sussurri

Per sedurre. Così, non lasciandomi tentare,

Ho perduto la gioia profonda che alla cima conduce.

La saggezza indossata era una veste grigia

Che stringe il cuore e la mente illimitata.



Oh, se potessi, ora, avere le gote vellutate,

Se il tocco della mia mano fosse più delicato

Di un fiore di mandorlo bianco a primavera,

Arruffata, a piedi scalzi, piena di notte, la bocca

Avida d’amore, andrei là e non avrei paura.

La vita e la morte sono due care amiche:

Nessuna delle due si giudica. Ora guardo

Nelle molte gocce che pendono dai rami

Come specchi i miei molti volti antichi.

Se le scrollo, resta l’ultimo e mi vergogno.



Oh, Amore, passando, abbi pietà di me,

Ammira solo la mia infinita nostalgia,

Chinati un poco sul mio corpo, sussurrami

Nell’orecchio quella parola che tutti

Mi hanno detto, ma dietro la porta socchiusa.

*

Le stelle cadenti (per Saffo)

Che mondo di brusii nascosti sentivamo

Quando nella notte dell’agosto che cadono le stelle

Ci dicevamo che erano le anime ardenti degli dei celesti

A chiamarci per nome. Io ti chiedevo: Ma tu lo senti cosa dicono?

Vogliono i nostri passi di fuoco per incenerire lo sporco

Che è del mondo, il suo perseguitarci col dolore del nulla

I fiori notturni allora aprivano le corolle, si alzavano

Dalle zolle, ci inviavano i loro odori come messaggeri

Della consolazione e noi li sentivamo col respiro,

Recitando a voce alta, fino a sfinire il cielo, i versi scritti

Da Alceo per la bella Saffo. Scendeva allora uno sciame di stelle,

Solcando per qualche istante il cielo. Oh, erano le viole

Del tuo crine, dolce ridente Saffo, più d’ogni altra ardente

A cadere come ametiste sul palmo delle nostre mani.

*

Io ed Alejandra

Io ed Alejandra

Perché non abbiamo vissuto insieme Alejandra
La nostra infanzia disperata che aveva balocchi
Di dolore? Avremmo unito le mani del destino
Sopra di noi, scambiandoci i nostri doni
Di tristezza e i canti degli usignoli, nel buio,
Quando non dormivamo, perché le notti erano profonde
E belle senza la voce ossessionante del mondo
Quando è sveglio. Alejandra, mia cara, abbiamo cominciato
Allora a intrattenerci con la morte, lo stupore in gola,
Un roveto di more nere nel petto. Quante volte ce ne stavamo
A giacere supine sulle piastrelle fredde di marmo del balcone
A contare le stelle lontanissime e poi pregavamo che
Ci cadessero addosso come gocce di lacrime luminose:
Oh – dicevamo - che preziosi ricami le luci, i corni oscillanti
Della luna , e quante, dolci ombre! E chiamavamo una folla
Di parole, che avevano la musica dei vetri che si spezzano:
Ci risuonavano nell’orecchio le loro incrinature,
E finalmente cullate, l’oro in bocca, le farfalle notturne
Sugli occhi, ci addormentavamo sognando di essere là,
Prima del mondo, prima della menzogna che lo ha generato