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Raccolta di poesie di Lino Lista
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Noi voleremo

Sarà un mare sereno
limpido e d'acqua dolce, non immobile,
un po' increspato da un leggero soffio.

E correremo noi a piedi nudi
senza smuovere sabbia sulla riva,
veloci più di Achille al primo slancio,
sospinti dolcemente dalla brezza.

E noi c'innalzeremo,
senza più peso, senza più dolore,
portando in cuore tutto il bene agìto,
lasciando il male fatto nella rena.

E voleremo noi per cieli nuovi,
vedremo nuove terre dove il tempo,
dove lo spazio sono cancellati
dall'unica misura, l'Infinito.

Ci poseremo su giardini eterni
illimitati, privi di confini,
dove perennemente il pesco è in fiore
dove giammai l'arancio non ha frutti.

Sarà per sempre gioia
ritroveremo tutto ciò che amammo,
nell'Infinito niente vien perduto.





14 febbraio 2018


*

Ricordo di una donna


Ancora mi ricordo di una donna
che mi cercava innamoratamente
in riva al mare, al tempo che correvo,
correvo e manco più so dove andavo.
Non serbo la memoria dei percorsi
con cui segnavo la battigia tutta,
intrecci e labirinti d’orme vane
che ricolmava e cancellava l’onda.

Non ho però disciolto nell’oblio
l’immagine di lei che mi ritrova,
ben la ricordo incedere superba
sopra la rena, coi capelli sciolti,
fasciata in veste lunga color fuoco
che un vento sospingeva contro il corpo
lasciando intravedere lunghe gambe,
colonne nel tramonto a Capo Sunio.

Seppure di quel tempo abbia scordato
il numero delle copiose stille,
sudori vacui d’un cavallo bianco
che scalpita e galoppa senza briglie,
rammento gli occhi suoi col taglio a mandorla
illanguiditi da recente pianto,
onici incastonati tra le ciglia
nel volto da Madonna bizantina.

Finanche ho perso il conto dei granelli
che sollevavo nei veloci passi,
chissà quant’altre volte il mar li ha mossi,
voltati, rivoltati e spinti altrove,
ma nella mente ho fisso il suo sorriso
di quando mi fermai per starle accanto,
lo vedo ancora schiudersi e mostrare
file di perle tra coralli rossi.

*

Baudelaire line

Oltre il confine duro del tangibile
esiste un bosco dove gli occhi ascoltano
e parlano i profumi, dove i fiori
son donne virtüose innamorate;
è la foresta che sorse dal Caos
sul limite tra il senno e la follia,
prìstina residenza degli archetipi
in cui la vita è sogno e il sogno è vita.
Divenne inaccessibile agli umani
quando fu perso il senso delle Forme,
smarrita l’empatia con la Bellezza,
confusa la parola dai Demòni;
è la foresta dove le radici
lambiccano l’essenza delle cose,
dove l’Amore è il fuoco che sostiene
mirti immortali e sempre fresche rose.
I cumuli di pietre del rumore
con polveri sottili hanno assordato
la vista dei viandanti, tronchi marci
ai margini del bosco prodigioso
sono scambiati per arbusti d’oro
e deviano il cammino dal sentiero
che all’albero conduce da cui stilla
la linfa dell’eterna primavera;
là dove le viole sono Vergini,
dov’è nei myosotis la memoria,
lungo una linea di virenti allori
sconfina qualche volta un buon poeta.

*

Europa demitizzata

Ed ecco il Sommo Zeus che – come si muta!
fu aquila imperiale e poi pioggia d’oro –
nella forma di Toro sta stuprando Europa,
si sgonfierà la borsa sull’amate sponde.

Mercurio l’eloquente vede e tace,
deve zittirsi e spingere le mandrie,
Giove comanda ed Ermes deve voti e onori
ai ladri suoi protetti; ogni prestigio
deve ai mercanti, e i sacrifici umani;
il sangue porterà sui sacri Monti.

Atena del palladio sta bocconi:
“Vèrgine sono io, genìa dei tecnici,
se taccio qualche botta la procaccio”.
Giunone le risponde: "Ma che cazzo,
questo secondo voi si chiama Olimpo?
Vendetelo al dio Odino, poi, magari,
guadagneremo in pace e dignità".

Mentre la Bestia taurina monta e fotte Europa
sta un uomo incatenato sulla ciminiera,
chiamiamolo Promèteo col fegato mangiato,
grida che non si spenga la speranza,
che non s’estingua il fuoco all’altoforno.


l.l.

*

Al pianista di Roman Polanski


Va’ libera parola, non cercare
la rima, va’ nel modo in cui van sciolte
le dita del pianista di Polanski
sopra la sua tastiera immaginaria
nel ghetto devastato di Varsavia,
va’ libera senza cercare un bacio.

Va’ libera parola, non bloccare
lo slancio, non lasciare che il pensiero
offenda la memoria ed offra spazio
a riflessioni storiche e giudizi
per colpe nuove, usure e deicidi,
va’ libera senza cercare un metro.

Va’ libera parola, non frenare
lo sdegno, ti sospingano l’immagini
di donne, bimbi e vecchi dietro il filo
spinato, ti soccorrano i ricordi
di forni crematori e marchi ai polsi,
va’ libera, componi pure a braccio.

Va’ libera parola, non temere
interruzioni della tua spirale
di fiati senza sosta, uguale a Primo
Levi domanda che scolpita sia
nel cuore la Shoah: come al pianista
sta’ certa non ti mancherà la musica.

*

Un fiume chiamato “Follia”


Passavo il ponte sul fiume chiamato Follia
mirando l’acque ch’andavano controcorrente,
mi rispecchiavo nei vortici sorti improvvisi
attorno ai raggi riflessi d’un lampo incidente.

Veloce andavo, lo vidi seduto sull’argine,
meditabondo poeta, sembrava Siddharta,
nel fiume pareva cercasse la vita cosmica,
ma non taceva, cantava monotono un verso.

M’avvicinai e gli chiesi: “Scusate maestro,
son già passato l’altrieri, l’identica strofa
recitavate, mi piace, è quanto più bello
io abbia udito sul fiume chiamato Follia”.

Lui sorridendo rispose: “E’ fluido il fiume,
osserva da qui come scorre, simile a verso,
come combacia la goccia alla goccia vicina,
una parola mi manca perché così sia”.

Trascorsero gli anni e tornai di nuovo sul ponte,
già vecchio il poeta cantava l’identica strofa,
cambiato aveva soltanto un accento e una voce,
gli dissi: “Maestro, capisco, adesso è perfetta”.

Lui confutò sorridendo: “Il fiume ci parla,
che sensazioni, emozioni, presagi c’incute,
ma non riesco a trasmetterli, devo cercare
ancora, son certo ch’esiste, un verbo migliore”.





*

Abu Ghraib


Non confidate
di trovare scampo,
quando trabocco anniento,
v’indurirò nel tempo d’un istante
e diverrete un blocco inseparabile,
l’opera somma tra le brute immagini.
Solleverò la mia furia
come un’ondata di magma,
v’erutterò sui pensieri
lapilli e montagne di cenere;
sono il nemico d’ognuno,
ignoro la tregua e la pace,
confondo carnefici e martiri,
accorpo carcerieri e carcerati:
io sono il vulcano più attivo del mondo
di repentine eruzioni, chiamatemi Odio.
Mi coprirò col mantello
della nottata più buia,
m’inietterò nello sguardo
il fuoco perenne degli inferi,
innalzerò dagli abissi
i cerberi cani ringhianti,
impietrirò le vostre carni assieme
e diverrete un gruppo immortalato,
dei vostri cuori vuoti farò calchi.
Susciterò l’invidia inappagabile
d’ogni sorta d’artista maledetto
e strozzerò la voce dei poeti
quando pronunceranno il nome Amore.
Dovrà Botero le sue forme tonde
mutare in corpi duri e spigolosi.


.

*

Acini Sparsi


Quegli acini d’uva
sfuggiti alla presa del grappolo
e sparsi nel fondo del piatto
erano forse
i più saporiti e maturi.

*

Donna Bellezza

Se tu non esistessi,
se fossi solamente il parto candido
della sublime mente d’un filosofo,
idea di perfezione,
ti porterei rispetto perché, donna,
prima di te,
non fu Diotima, non Urània Venere
né Pàllade virginea
a dare adempimento alla bellezza.

E se tu fossi solo pura immagine,
tratti d’uno scultore o d’un pittore,
guglia di un architetto,
con te sarei ossequioso
pensando alla piattezza della terra
senza le cattedrali a Notre Dame,
immaginando la desolazione
delle pareti nei musei dell’arte,
l’arido dell’estetica
senza i dipinti del Beato Angelico,
di Botticelli e Giotto,
priva della Pietà di Michelangelo.

Se poi tu fossi un verso,
il desiderio d’un poeta orfico
che disperatamente
discese nell’inferno dei pensieri
per dare vita all’Euridice propria
io ti sarei devoto
perché senza di te non ci sarebbe
il fremito più alto,
il canto trentatré del Paradiso.

Se infine processione
tu fossi, solamente tradizione,
quindici agosto d’un paese in festa,
campane, luminarie e fuochi a mare,
grazielle ballerine,
ritorno d’emigranti e bancarelle,
abbasserei la testa
siccome adoro i riti popolari
e le vecchine in nero
che sgranano rosari di speranza
avanti a case vuote
e trovano con te conforto e pace.


____________________________
Buon 15 agosto a voi tutti.
linolista

.

*

I colori del cielo a Birkenau


Non c’è più luce negli occhi di Sara,
giace nelle pupille
distese sui vetrini
nella baracca trenta a Birkenau,
le studiano gli allievi di Mengele.

Pietà.
Non dite i colori del cielo,
è troppo scuro il fumo
che s’alza in nembi dalle ciminiere
e sporca il blu coi grigi,
non ditele mai “manna”,
non ditele mai “neve”,
quella che piove a Birkenau è cenere,
polvere bianca che ricopre il campo,
che si solleva ad ogni passo d’oca,
e Sara sa che cosa la produce,
Sara conosce a Birkenau che brucia
nella speranza che diventi colla
in gola e sulle labbra della Storia.
Non dite “Altrove, domani è più bello,
l’oriente già s’indora
e porterà il mattino l’oro in bocca”,
un’alba, Sara sa, sorge e tramonta;
non ditele mai “sole”,
non ditele mai “raggi”,
Sara conosce i runici gioielli,
le svastiche vendute nei mercati
dei denti, dei capelli e dell’usato.

Non c’è più luce negli occhi di Sara,
erano gocce azzurre
diversamente chiare,
nella baracca trenta a Birkenau
la specie si degrada con gli studi.

*

Dove tu credi


Ai bordi della pozza di Narciso,
un palmo d’acqua limpida e nient’altro
dove tu credi si rifletta il mondo,
scorrono vene di lacrime calde
e polle ribollenti rosso sangue.

E tutt’intorno è un turbinio di falci
celate nelle nebbie del mattino,
cadono i bocci bianchi e dei vermigli
non restano che polveri purpuree
ma tu non vedi, sogno di parole.

Dove tu credi viva la bellezza
un refolo di vento basta e avanza
per increspare rughe in superficie
e rivelare un greto d'aspri sassi
dell'amor sui destino, voce d'Eco.

*

Natività mistica

Lasciamoci sorprendere,
sgraniamo gli occhi come da fanciulli.
Pulviscolo d’argento
di stelle palpitanti,
Lucifero si ottenebra,
falce di luna rossa che si eclissa.
Nella costellazione planetaria
sotto il segno profetico dei Pesci
Saturno e Giove uniscono le luci.
Diparte dall’Oriente una Cometa
seguiamola finché giunge al Presepe,
nel cuore un poco tutti siamo Magi.
Cori di cherubini dalla volta,
suoni di serafini con sei ali dalle sfere,
un angelo perfetto che con voce altisonante
convoca pastorelli umili e impuri.
Lasciamoci stupire,
l’oro dei re a un Bimbo in una greppia.


25/12/2010

*

E tu soffiavi fiori

Nel mar dove biancheggiano le voci
e spumano le risa d’onde lievi
Zefiro buono, tu soffiavi fiori
per raddolcire il gelo di febbraio
e preparare il letto alla Bellezza.
Cullando il nicchio dove nacque Venere,
di là della materia e dell’orrore,
oltre la castrazione disumana,
vergin vedesti sorgere dai flutti
l'idea chiara del bello e lo stupore.
Spirasti spore tra quïete brine
ed affrontasti i rischi di misura
precoce vita dando al fine anèmone,
del lino confortando fino al Tigri
d’imporporata polvere il destino.
Tra colli e insenature, oltre gli scogli
di Cipro, rivelasti il desiderio,
le frecce dell’anelito dal cielo
scagliate in mare. Vento di Ponente,
per raccontarlo tu soffiavi fiori.

*

Don Peppino Diana


Se passerete per paesi dove
spuntano come funghi le cappelle
di santi protettori e padri pii
e cristi coronati con i rovi,

dove stanno tempietti di madonne
che piangono in silenzio senza stille,
non indugiate, son pizzini a Dio,
bestemmie ed empi voti di camorre.

Dite tre Gloria Patri e pace ai morti
ma non vi soffermate sulle nicchie,
il marmo è d’ossa trite, le candele
grondano sangue come piaghe aperte;

non fatevi domande sui misteri
e non tenete troppo fissi gli occhi,
dei propri paradisi artificiali
assai sono gelosi i costruttori.

Se varcherete l’uscio di una chiesa
mentre un pastore celebra le nozze
tra guardaspalle ed abiti alla moda
con un padrino che bacia la sposa

non vi chiedete quando sarà vedova,
chi l’ordine darà che i cuori spezza
e chi dal dito strapperà la fede
per rendere un anonimo il cadavere.

Se invece incapperete in un Battesimo,
o Cresima con Prima Comunione,
non siate sospettosi dei compari
se diverrà ben presto il bimbo un orfano.

Un prete a tutto questo disse: «No!».
Vibrarono al diniego le campane,
tremarono le ville e i cascinali,
di petto un muto seppe fare il do.

Se passerete un giorno per Casale
– chiamatelo “il paese di don Diana” –
non vi fermate fuori sul sagrato
della parrocchia sua di san Nicola.

Entrate nella scena del delitto,
la polvere da sparo ancora esala,
s’odono all’alba le rivoltellate,
entrate, entrate, non abbiate fretta...


II


Aveva ricevuto per talento
da Cristo don Peppino la Parola
ma non la seppellì sotto un terreno,
la portò in giro andando senza manto,

la portò in giro ed era acuta spada
tagliente al punto che fendeva il male
– tanto che fino ad oggi porta pena
a chi patteggia e alla Camorra cede –

e dell’Altare fece una trincea
con le due sacre Pietre e coi Vangeli,
non apre porta il Cielo ai criminali
che dicono mors tua est vita mea.

Un prete, quand’è prete veramente,
è capatosta da sfiancare i muli,
perciò ci sono i santi e i missionari
che vivono di Dio, tra salmi e stenti;

don Diana apparteneva a uguale specie,
la stirpe dei profeti seccatori,
dell’omertà la nebbia diradò,
tuonò contro i padrini la sua voce.

Nella terra perduta e devastata
gridò con Isaia: «Per amore
del popol mïo io non tacerò!»,
servono preti e laici più arditi.

Lo strillo raschiò i muri dei Palazzi
del malaffare, ruppe i doppi vetri
fumé delle Mercedes dei padrini,
smacchiò coscienze con la sua chiarezza.

Nasce da riti il camorrista, segue
le processioni e in prima fila latra,
infilza un dito e cola sul santino
nei giuramenti un gocciolo di sangue,

molto devoto è a san Michele arcangelo
– ogni famiglia ha i propri santuari –
per sé ciascuno adotta una Madonna
così che l’estorsione ha il nome obolo.

Peppino il Paradiso s'era preso,
e pure pretendeva che i compari
non fossero omicidi, da Gomorra
due colpi gli spararono sul viso...


III

Sopprimere un profeta fa paura
mica per fede, per superstizione,
– fu scosso Erode Antiba dal Battista –
i designati n’ebbero terrore.

Più volte s’adunò l’orda dei lupi
ma sempre si disperse più di un cane,
restarono talune fosche bestie
con fauci colanti bava e sputi.

Il diciannove marzo, a san Giuseppe,
entrò la Morte fin dentro la chiesa:
«Chi è don Diana?». «Io!» e cinque morsi
prevennero l’offerta della Coppa,

«Chi è don Diana?». «Io!» e le canee
ringhiarono nei giorni dopo a iosa,
un quotidiano in lungo e in largo sparse
un fiele per macchiarne la nomea,

scrissero ch’era stato un camorrista,
che andava a donne e custodiva l’armi,
ch’era affiliato a un gruppo di Gomorra
– fu tra i briganti annoverato Cristo.

Per buona sorte il Tempo è galantuomo
e mitiga ogni piaga, non si ferma,
egli è buon testimone e sempre corre
appresso a Verità, la sola ch’ama;

con le sue conoscenze il Tempo è un giudice
onesto che sa leggere le croci,
don Diana concretò le predizioni,
“Luce vedrà con il tormento il martire,

avrà per premio lui le moltitudini
perché fu giusto e rese giusti i molti,
annoverato fu tra i malfattori
perché prese su sé colpe del prossimo”.

Se passerete un giorno per Casale
– chiamatelo “il paese di don Diana” –
non ascoltate l’eco degli spari
né le menzogne in bocca ai criminali,

gridate voi: «Posa non mi darò
finché Giustizia non sarà una fiamma»,
dite con don Peppino: «Per amore
del popol mïo io non tacerò!».

*

....................................Distanze


Sai,
avremmo noi dovuto
............... – di più io non potevo –
tentare perlomeno
....................di superare il “lei”.

Mi spiego,
non ci sarebbe stata sconvenienza
nell’abbandono a qualche confidenza,
penso a un Martini, intendo a mensa insieme
.................– di più tu non sapevi –
cercando d’andar oltre
.....................la regola del “lei”.

Concordo,
erano i ruoli ad impedirlo,
un badge con la foto troppo seria,
la valigetta tua da Direttore
riempita di problemi e d’interessi
.....................– d’altri, non tuoi –
le divergenze tecniche,
i rendiconti e la carriera certa
con l’azionista di riferimento,
la mia giacchetta blu di Presidente.

Ricordo,
non m’era mai passato per la testa
che, convenientemente,
c’era di meglio dei saluti nostri
«Buon giorno, come sta? Salve, alla prossima!»
finché non t’ho rivista
con i capelli corti e troppo radi
ma col sorriso in volto,
la gioia per la vita
di quando il Male pare che s’arretri.

Mi dolgo,
...............è stato per la fretta,
un po’ per la sorpresa,
se non ho colto il senso del saluto,
l’inusitato ciao che m’hai rivolto,
se non l’ho ricambiato prontamente
facendoti ritrarre e dire:
..............................«Scusi!
Buon giorno, come sta? Dimenticavo,
noi due siamo rimasti
...........................con il “lei”».

*

Macchine


Mi sorpassò scorrettamente a destra
rasente la vetrina di Ferré,
andava troppo svelta sulle Prada a pattini,
inavvertitamente mi strusciò.
Non per il graffio, per il disappunto
col tasto d’emergenza registrato sull’iPhone
l'impulso le mandai del blocca freni,
il codice di Hamming per correggere gli errori,
per la Seconda Legge dei robot lei si fermò.

Era un automa femmina mutante
brevetto giapponese del duemilaventitré,
aveva labbra rosso Maranello al silicone,
la pelle artificiale un poco tesa sul telaio
e un tono da pistone che picchietta la testata,
udendo la mia voce così docile tremò.

Le curve erano uguali a Montecarlo,
gli zigomi agli alloggi dei fanali di una Porsche,
portava i seni troppo grossi e gonfi
come due airbag, può darsi per lo scontro.

Poi che lei si fermò le sussurrai
quel verso mio immortale
che dice: “Ama la carne, pur se molto fragile”,
dopo ch’ebbe vibrato per due o tre microsecondi
tentò di darmi un bacio e s’inceppò.
Fu rottamata.

Il Parlamento
a seguito del tragico incidente promulgò
la Quarta Legge che protegge i robot
– fu pubblicata da Gente Motori –
e al carcere condanna quei poeti che con versi
ardiscono rivolgersi alle macchine moderne.



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[NdA: il testo esclude interpretazioni maschiliste. Il primo verso della seconda stanza, infatti, recita "Era un automa femmina mutante". La deliberata specificazione del sesso della macchina dà a intendere che esistono linee di produzione di maschi mutanti :-)]

*

I serpenti di Coleridge


Danzavano i raggi di luna sull’acqua del golfo,
dal tuo balcone a Posillipo li contemplavi,
dal corpo di donna distesa distante di Capri
muovevano scie lustre d’un bianco abbagliante.
Miliardi di scaglie, di lucide lingue guizzanti,
d’eccentrici sprazzi rotondi di forme argentate,
di spire brillanti sul bruno velluto del mare
condotti dalle correnti s’attorcigliavano.
“Sono i serpenti di Coleridge” tu mi dicesti,
“Io li conosco,” risposi: “I serpenti marini
sono abissali creature, viscide e tetre,
diventano cose viventi felici alla luce,
tu benedicili e, sai, porteranno fortuna”.

*

Ancora vieni, qualche volta...


Ancora vieni, qualche volta,
incedi tra mattoni di memoria
franti dal tempo e ricomposti nella visuale
dei dèmoni cubisti della notte.
E quando avanzi cedono
le muffe dell’inverno del pensiero,
lungo sentieri brulli mai percorsi
di boschi misteriosi
le tinte scolorate si ravvivano,
gemmano i rami d’alberi deformi;
poche parole dici
e sono calamai di sapienza,
i popoli ciarlieri dei miei incubi
sgomenti si dileguano
davanti all’odor tuo di rara essenza.