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Raccolta di poesie di Livia Bluma
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Come se tu te ne fossi andato da un momento

Ecco lo sguardo in punta di piedi. A un passo da me.

Suoni fitti densi - puntellano l’aria. È il magma del mondo che muore sincero, un fiore abbattuto, lo stemma impolverato

delle persiane di fronte, sotto ai miei piedi.

Vola tutto, lieve - stridendo geme, via

dalla finestra, dal mattone, dalla città,

quello che io so di te, le congetture, gli spazi nulli di un incontro

che batte come un orologio globale, tutto è per un momento
fermo, tutto è per un momento fievole brina - aria che è goccia
sulla mia fronte, tu che prendi un’altra strada,
io che torno a fissare la mia.

Di nuovo occhi bendati, per me;
il sussulto è durato poco, e per caso
sapere che si è in vita.
Ora sarai per scendere dal treno
io rivivo il vagone che parte dieci,
cento volte: qualcosa stride - le rotaie,
l’aria, qualcosa di te che mi è rimasto intorno -
e per me sarà sempre
come se tu te ne fossi andato da un momento.

*

La caterva del silenzio

A sbirciare il tepore maldestro della mia stanza

sta una lente lontana, occhio di un vecchio che si finge storie:

le tiene in grembo fino a maturazione, le spezza, le offre

- lui, aedo gentile, messia di strada - senza prezzo alcuno

alla gente incauta che con labbra sdegnose

lo scaccia - vedono solo cartacce

in quei pezzi di vite, mozziconi spenti, e farci caso

sembra roba da pazzi - gente che scivola

in direzioni opache, cani detersi ben addestrati

a traiettorie collaudate, che non spaventano più.

Ma sussurra il vecchio - ed io, via, mi fido - che sotto al pelo e alle zanne

dorme un rorido nòcciolo goffo, il ricciolo di un bambino,

che si vuole a tutti i costi

camuffare - chi lo sa poi cosa siamo disposti a sacrificare

pur di sentirci al sicuro.

 

Da che parte andrà mai la mia angustia - questa spina di forma bislacca,

la mia miseria - che mi ritrovo a farmi da balia, la sera,

mentre cuocio sul letto sudato d’estate,

mentre il caldo mi asciuga il tempo rimasto,

e non so più se sono io

o una storta chiazza di quel che volevo

e che non sono capace di diventare, avulsa dalla storia

che di me si racconta, protagonista sgraziata

sempre di corsa tra un rigo e l’altro

in attesa che prima o poi qualcosa accada,

ed esposta ai cambi di trama, ai colpi di vento

di questa penna d’oca che sfugge ai cercanti

come un odore sotteso, una postilla,

una chiosa che gracida dentro l’erbaggio

e non alza la testa.

 

Quanti sono i narratori

e dove dorme la verità:

domande mal poste che meritano niente di più

che un eco siderale, di perdersi nel vuoto

là dove sta la memoria di cosa è o non è stato

- non fa differenza.

 

*

In un preciso momento non determinato

 “Per dove si va?” ha chiesto la donna tedesca

col cappello a larghe tese, bizzarra cadenza

e occhi lucidi di rapace - potesse arraffare

queste strade belle porticate

come un sincero palpitare dell’asfalto al sole -

ha fatto un giro su se stessa e messo in moto gli altri:

San Petronio è il grido di battaglia

e la sosta eterna di lunghe peregrinazioni.


Forse anche Odisseo rincasò a San Petronio,

poi Polo e i clerici vagantes, perché

tutti vi fanno ritorno prima o poi, ruvidi dal viaggio,

volenti o meno, a lei o a qualche altro mattone,

la vedono titana e altro non si può che entrare.

 

Mondo a occhio di bue e cielo

carta velina: non lo dico io ma gli occhi

di un bambino che srotola fantasie

come la corda da limbo sul pavimento

della piazza, e ci fa inciampare tutti,

me ne accorgo dallo stralunare degli occhi

dei passanti. Ci fa vedere che oggi è soleggiato,

poco vento e nell’aria sempre lo stesso mistero,

sempre la stessa carenza di logica narrativa,

con l’illusione di essere cresciuti, di capire

più di ieri e meno di domani, ma a naso è una frottola

del cervello, che a tutti i costi chiama ragione

e invece è buio: lattiginosi fatti che non accadono

se non li veniamo a sapere, e persone semoventi

che potrebbero - a quanto ne so - essere l’ultima

trovata delle nostra industrie.

 

Va bene così, ho indugiato anche troppo

e Nettuno mi indica con piglio da guardiano:

“la piazza è suolo pubblico e tu la derubi

di troppi pensieri.”.

*

Una freccia

Non sono uscita indenne da questa casa,

dai suoi rombi di marmo freddi

per i piedi di una bambina,

e anche che ci fosse sempre poca luce

non era un bell’affare

per occhi sempre affamati

com’erano i miei - forse ora

ho perso quel vizio, e mi avrete addestrato

alla fascinazione dell’ombra.

 

Tutto in buona fede: non abbiate remore,

non pensiate - davvero - che abbia molte riserve

o che rimugini spesso sul vostro rigore da patriarchi

e sull’educazione quadrata,

anche se ho cercato ogni tanto

di disegnare sui muri, di indicarvi da che parte

andavano i miei piedi, zoppicanti perché

le cose che ci instillano da piccoli

rimangono come terreni difficili

da battere, dove nascono alberi vecchi

che raramente fanno per noi.

 

Vi prendo nel vostro sorridermi

anche se molto è stato sepolto

sotto questa pace pacchiana

e molto è di volta in volta taciuto

perché via, è meglio così:

a cosa serve dibattere strillare -

aderire non è meglio, non è meglio

a tutelare?

Belle le vostre mire, per carità,

ma mi sono poi scansata per la paura

di essere altra da me. Abbiate pazienza:

sapete, preferisco cercarmi

sulla via di Nessuno.

*

A chi manca il momento

Chissà se le cose possano rimanere le stesse

dopo una parola di troppo

e una confessione arrischiata

marcita per lungo tempo sulla punta della lingua

e finalmente sputata.

 

Adesso che ci guardiamo

siamo più stranieri l’uno all’altra

e ci fissiamo come a voler pescare un che di familiare

in occhi alieni.

Ma all’amo abbocca poco - qualche alga, forse,

così per caso.

 

Temporeggiare credendo

che non arriverà mai il momento,

con la pretesa di mettere in pausa

la vita intera, nello spazio di una bella risata

mentre i nostri passi riempiono il portico

e si sindaca su cosa sia rivoluzione,

su cosa sia già stato detto, su cosa manchi all’appello,

su che direzioni prendere

per rispondere all’illusione di distinguerci,

di essere esemplari rari.

 

Certo tu lo sei per me e forse anche viceversa.

Ma com’è banale il decorso di quest’amore:

adesso non si può, ma chissà se si abbia voglia

di aspettare, di verificare - sai, col tempo -

la tenuta delle nostre promesse.

 

Forse sei un po’ troppo alto e quando t’abbraccio

non basta che mi sollevi sulle punte.

Forse prendo tutto troppo sul serio

ed è meno divertente di quanto ti aspettavi.

 

Prima di dormire

mia nonna mi raccontava di Euridice.
“Orfeo si gira al momento sbagliato; sentiva

il profumo delle sue trecce. Tutto per volerla vedere, d’un tratto…”

“No, no!” scalpitavo - che strazio ascoltare.

Sarà, il tempismo, una favola per bambini?

 

Io esito a voltarmi. Ora che mi guardo,

non sono neppure su una barca: ho l’acqua alla gola.

Però lo sento il tuo profumo. Tutto per volerti vedere.

D’un tratto…

*

A parvo usque ad magnum

Basta con questa rabbia cocciuta

da scimmie, proviamoci

anche se siamo abbastanza certi

di fallire.

In fondo non ci è riuscito mai

di diventare noi stessi

né di capirci per bene, se non

per i cunicoli degli occhi

e i tocchi delle mani: più svelti

loro, senza indugi, abili

a riconoscere le forme

senza pensarle; si capiscono

in fretta, senza le sillabe amorfe

e brulle

che ci intasano il tempo.

 

Tempo perso quello di fuga,

il lasciar stare perché «Domani -

forse - sarà passato».

Non so se ci perdoneremo

questa miopia viscida

e mentirosa, se giocheremo ancora

a "Torto e ragione": siamo assediati intanto

da un nemico comune, che feroce come pochi

chiuderà il sipario, un giorno o l’altro.

Non abbiamo tutto il tempo del mondo,

perciò faremo così: ci racconteremo che

abbiamo fatto bene,

che non c’era poi tanto da dire,

che ci avevamo visto male,

che di amori ce ne sono mille altri.

Buonanotte, dunque,

a noi che si nega

che si è fatto buio: sogneremo di stringere

redini vive, ma saranno le nostre

abbozzate discolpe.

 

Ci sono stati, sai, altri Alessandro,

altri Napoleone, e prima ancora

altri Socrate e Cicerone;

ci sono stati altri pianeta Terra, altri

noi stessi.

Ma l’universo inghiotte tutto

nella sua forma strana, e la vita

riconduce a polvere, e nella polvere

puoi scorgere

l’acqua antica, e due

che fecero finta di niente,

proprio come noi.

*

Sotto il terriccio

Ancora questa noia grumosa

e questa nostalgia sfilacciata,

e di buono nell’aria

c’è solo l’odore di castagne,

solo l’odore del freddo collinare

che fa la voce grossa, ma è in fondo

solo una nebbia rancorosa,

e nasconde un’estate che è ancora lì

e si sente bene: strepita forte sotto il terriccio bagnato.

 

Lo dicevi tu che ogni stagione è

estate, finché si ha tempo:

sorprendente, per me, quella fiducia

che diventava spesso sgangherata,

tanto si accoccolava alle cose

barcollando in preda a una paura strana,

di morire.

 

Quando è possibile aderire

all’incessante cuore delle cose

- e ogni tanto, abbiamo visto,

si può - si sta bene. E si apre in noi

un che di saggio, di vivo,

una pace lunga come l’eterno,

insensibile ai giorni e alla Storia,

un tepore di chi torna a casa

dopo anni, e riabbracciando la propria madre

scopre che basta poco

a sospendere tutte le condanne

che si è inflitto, le storpiature

che si è addossato, che insomma

abbiamo a disposizione

un modo di vivere molto migliore

di tutti quelli escogitati

dall’ansia di vita, che coglierlo è semplice

e rarissimo, quanto allungare le dita

sotto il brillare imprevisto

dell’alba.

 

*

Ultime notizie

S’è allentato ancora il fusto dell’esistenza

mentre noi ci perdevamo a investire

su crediti e grandi speranze.

Tu ancora hai fiducia in me, e sei prodigo

nelle dolcezze e nei sani propositi,

ma anche tu come me ti asserragli

nel biondo tepore della buona stagione, tu -

cicala che stride - non credi che le minacce

vengano per nuocere

e pensi che le brutte notizie possano toccare

solo l’altro emisfero, o l’altra costa

o la città limitrofa - dove, comunque,

non hai intenzione di andare.

 

«Altrove» dici, parola d’ordine

del tuo abbaglio, che delega

al lontano e al passato

la lordura del mondo.

Un mondo immanente, tuttavia,

che urla impaziente: bertuccia ammattita,

si fa il segno della croce e rimpingua

gli arsenali. Vendon bene

gli ordigni, meno le arti,

meno i buoni proponimenti,

meno la pace e le storie sul cuore:

se lo mangiano crudo,

il cuore del mondo,

se lo pappano ingordi - è gente perbene,

questa: addestra i figli

alla libertà (loro, però; non altrui),

mentre lucida la carabina in salotto.

 

Non son nata scettica, giuro,

né col vizio dell’utopia:

ma debbo sapere che alla resa dei conti

ricorderà l’umano

di avere umanità, questa bestia sacra

salita sull’altare sbagliato,

con la voglia di consacrarsi

al dio del massacro.

 

Per fortuna stasera Fabrizio festeggia i suoi ventuno,

i compagni sono allegri e il Sauvignon

sembra un Acheronte: ribolle dei nostri vivaci

spiriti, più o meno confessabili, tutti - o quasi -

assolvibili. Siamo curiosi dell’altra riva

ma ancora di bragia non se n’è vista:

attendiamo l’alba e - se di mezzi non ce ne danno -

andremo a nuoto.

 

*

L’alieno integrato

Io vengo dal mare

a vedere queste case rotte

e questi atri aperti, città

lucenti e plastificate.

Ci guardo, noi,

nutrite stole di benpensanti

puliti, garbati ma devo dire

vanesi, oltre la misura

che la natura ammette.

 

A forza di aggirarmi per i deserti

ho perso la mia modica linfa:

ne raccatto un po’

di rado, quando per caso

incontro un volto vero, scoperto,

che si mette sotto al riflettore

non per narcisismo né per confessione,

ma così, per franchezza,

perché c’è in giro una solitudine

che ammazza, e bisogna un poco

scostare la tenda

per evitare di finire al forno

insieme ai nostri orgogliosi scalpi.

 

Noi due siamo ancora qui

a raccontarci balle,

troppo umani per giocarci

le nostre riserve e scommettere

sul bene di entrambi.

No, molto più d’effetto

il lamentarsi nel nostro crogiolo

d’errori, che ormai hanno l’odore

di abitudini rozze e incancellabili

che solo a pensare di smantellarle

sembra di puntare

alla luna.

 

Ma chi ci pensa, poi, agli astri,

noi che va già bene

quando inciampiamo in un po’ di

autocoscienza - buona, quella.

Ma che fatica riconoscere noi stessi

(e gli altri poi non ne parliamo),

che fatica capire che non siamo sotto

a nessun cielo, e che le stelle a cui

piangevano gli antichi

stanotte, a Bologna, non si vedono neanche:

il cielo è sanguigno

e sogghigna, lampeggia ogni tanto

per il solo gusto di fare paura,

ma ormai se n’è andato da un pezzo

il tempo in cui tutti, anche i bambini,

tremavano davanti al temporale.

*

La curiosità melmosa

Se ancora tu starai aspettando una parola gentile

una pacca sulla spalla

o un sorriso complice,

da parte del tuo tempo accidentale, quello che

ti è capitato per caso, lascia stare:

c’è da conquistare la fortuna, da corteggiare il caso,

che è una primadonna e di far concessioni

non le importa.

Dicono che ci sia un solo modo di vivere, uno per tutti

e che non abbia a che fare col vedere tutto, sentire tutto

capire tutto -

che a ben guardarlo sarebbe un prospetto

un po’ superbo.

Dicono che sia meglio la contemplazione

e che la bella gioia la si trovi - sia il colto,

sia il popolano - nel momento del risveglio,

nel bicchier d’acqua dopo la sete

nel divano di casa

nel vedere che tutto è come lo abbiamo lasciato

ma non pesa, anzi

ci sgrava dal timore che il domani

possa essere alieno.

 

Ci atteggiamo a intellettuali ma siamo poi tutti

animali da cortile, e abbiamo imparato a farci piacere le palizzate

e qualche palla sgonfia.

Perché - vedrai che è così - ci bastano i sogni e qualche

scommessa ogni tanto; ma più no,

solo in teoria.

La pratica è semplice: è solo il postino che bussa all’ingresso,

buone o cattive nuove che siano, e noi che annusiamo il prato

perché è adesso primavera, e basta che ci sian due crocchette,

magari un po’ di terra da scavare, e io dico che siamo a posto:

ci contentiamo dei nostri trastulli, e va bene così.

Chi voglia ampliare l’angolo dell’occhio

accorcerà di molto la lunghezza focale:

quanto più del mondo vorremo capire

tanto più nel fondo rimarremo invischiati.

 

Impelagati ben bene, mi pare, ma il capriccio del sapere

non ce lo toglie nessuno.

Sarà che solo a noi

piacciono le sabbie mobili, ma hanno detto

- πάθει μάθος e qualche cosa del genere -

di stare tranquilli, che si respira anche sotto.