I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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Dell’orgoglio, come isola
Scrivo cose che non richiedono partecipazione e non partecipano ad alcunché, quindi non sono competenti. Il sillogismo non spiega il termine, il legno che si accetta è scelto per l’uso, ogni termine è un buon inizio. Le parole sono volatili, migratori soprattutto se le vedi in formazione. Vanno da un continente ad un altro che può contenerle. Siamo anche nidi. Nudi fino a coniugare ascolto a ripetizione. Con niente vinco la mia sete ma perdo la misura quando verso. Per questo indico i taralli: da tempo conservo i buchi come fatti e li utilizzo circondandoli di parole che finiscono tra i denti, masticate a ripetizione. Uso una lingua a pettine, un parcheggio da cazzeggio: le papille di dubbio gusto, la cultura al dente. Bollito, io penso. Parole come impasto spesso grasso o scarno per la consuetudine dell’agio da concedere nell’esposizione, alla luce dell’avventore. Vento che scuote il senno per scoprire se contiene il seno. Contornati i buchi sono vocali negli abbracci consonanti e la stretta, la bocca, li forma a ragione. Fa testo quanto manca. A Mimì e Cribi, con devozione.
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Della cura, come si diceva
A lei interessava il geranio e sono convinto che la pianta le andasse incontro con fiori alla mano. Tipico delle sue radici. Queste congegnano le forme per il piacere dell’osservazione al ritmo di qualsiasi rivoluzione. Tante menti superiori stanno sotto terra a staccarsi da quanto le radici fanno emergere di loro. Ognuna ci ha resi portatori di polline, insetti a tutto spiano. Disse, pronunciando staccarsi con la cadenza delle foglie e spiano con un tono autunnale. Al passo con il tempo, pensai, ripetuto e riflessivo autunno, come ci voleva, ci prese. Ma lei aveva colto il segnale: l’anima non è schiava della fioritura ma è probabile che la fioritura interessi l’anima per superare la periodicità del corpo. Prese una caramella, con gusto di menta e latte, dalla tasca, bucò la terra con un dito e depose come all’epoca dei pastelli il dolce al piede del geranio. Posava sui petali aria antica con la cura necessaria.
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Dell’alba, come ricordo
Questo è un POV dai piedi della notte alla cima della barca nella china schizzata dagli scogli. Contavamo su di loro. Ci prese un tale inchiostro che i lumi si accesero a ragione, ma è l’emozione dell’ignoto che regge gli orizzonti che in un dato momento sono la piazza con i più comuni accessori: le panchine nel raggio di un quarto di luna. Una degradazione del buio, disse lei, che fa immenso l’universo ridotto in chiaro. L’alba riallinea, cambia l’atmosfera in punti precisi del locale. Il profilo dei promontori somigliava alle nocche sbiancate che distendono le increspature del golfo. Appiattito e per niente riscosso. Le ha disegnate pachamama come poteva e noi stiamo esagerando con la gomma: cancelliamo cancelliamo, ma sono i residui che ci spazzano, sussurrò, prevedendo quanto avrei scritto oggi. Annuii: le femmine vedono oltre i maschi, perché i loro occhi e il loro respiro arieggiano il mondo, penso, come la brezza per non cambiare genere. Vista da qui, infiamma l’ora e se la squaglia in un minuto ignoto. Un richiamo al giorno. Parlò con quel tono strascicato da pescatore che dava la sveglia ai cefali malaccorti rimasti muti nonostante la pastura abbia il sapore del tradimento. L’inganno è una porzione d’amore, non tisana. Eravamo giunti all’ultima rotonda che immette sulla piazza in esubero di posti - il posto preso a caso è un volume comunque, benché poco letto seduta stante, a mezza voce suggerisco che il lungomare ormai è solo libreria dell’apprendistato in erba che non si cura di noi, anzi, cura la libertà di crescere con distrazione. È passata l’alba tenuta al paradosso.
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Per buona merce
Dal distributore di carburante fuoriesce il succo della crosta terrestre. Proprio lì condizioni di tempo buono trasformano i rifiuti in pompa magna. Per dirla con lei: sono umori profondi per l’uso che più in fretta accorciano la distanza dalle dipendenze. Obiettai che il pianeta è vivo ed è ruminante: siamo qui perché la Terra rimastica e affina, poi inghiotte il cibo brucato in una prateria di fenomeni contundenti. Tutto lo spazio fuori è occupato da esche che coprono l’amo che ci stramazza. Con un gesto frustato, aggiustò la gonna sotto gli occhi del benzinaio che guardava avanti. A ragione si ribellava: seminerò i rifiuti più naturali; e seminerò i consensi più castigati; e seminerò le occhiate più torve; e costruirò i miei castelli di rabbia sulla riva del male; e non dirò pane al pene o vino al tino, ma come essere sicura che non estraggano comunque la radice dalla gonna per i loro calcoli seminali? Disse. Ebbi la sensazione che un vento gelido mi prendesse in giro come per farsi strada. Era tanto mela quanto morso: si teneva coi denti alla vita e con la vita si teneva quell’aria espansiva da ottano infiammato per il quale l’esplosione è sintomo di bruciatura non prova di guerra. Ma non c’è vittoria che non sia conseguita con riserve. Non potevo amarla diversamente dall’amarla per tanti versi. Così scrivo di lei per leggerne. È proprio vero: un battere leggero di tasti dal posto più remoto diventa qui una tempesta di ormoni in assetto da corpo. E passammo all’incrocio come clementine cambiando le marce per buona merce.
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Ah, vita!
Nella stanza d’attesa la visita è concessa per grazia del santo e non c’è festa per l’ambito seguente. È strano quanto gli sguardi ci rendano scorpioni e la coscienza somigli ad una rana. Lei sosteneva che i visi pazienti fossero volti altrove. Affermò che la speranza deve concedere al timore uno sguardo vuoto. E il vuoto è che la prossima ora potrebbe farsi senza i resti delle stagioni precedenti e non tanto a breve il diavolo si lascerà prendere per buon motore. L’errore fu dirglielo con queste parole. Che è come abbindolare la rana con la scelleratezza dello scorpione. Lei disse che per approdare sulla riva bisognava andare a fondo. E camminare vs corrente trattenendo il fiato come assuefazione. Era lucida ironica spietata. Oh, lei indubbiamente aveva sensibilità a fior di terra. Lungo la schiena saliva il grido come l’asino di Buridano: tirava tirava senza raggiungere la bocca. E si spense a vita.
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Simili orpelli
Tutti gli appartamenti hanno vasi che gocciolano il nettare prodotto in cucina, diffuso nel salotto e consumato in una piazza comoda. Lei allora disse che avevo in mente il buio come un peso sullo stomaco. Un ambiente corroso che non fa distinguere il pensiero dall’alfabeto incerto che lo sostiene. Credo intendesse che la penombra contiene la singolarità degli occhi mentre libera dai confini i cuori in funzione. Mi corruppe. Disse, mi pare, "filtro da te", poi si spogliò. Era splendente in assetto di Venere. Le feci notare che quelle osservazioni rendevano il divano poco adatto a reggere il gioco, mentre una carezza sulla nuca avrebbe trasformato ogni battito in gemito. Dio è una espressione del genere e, in quanto morenti, questo ci serve. Lei concesse la schiena andando diritto a come la pensavo, ma l’anima, per il flagello della coniugazione e la supremazia del peccato, si era già data in pegno in forma di corpo, la sua compagine avversa. A modo mio le do il bene che posso come un acino, poi un altro ancora: a grappolo. La colgo dal mio filare. Mi trattengo. Per la sommità del seno dove giungo in affanno in grazia della sua disposizione millenaria. So che al buio la lingua può farsi luce. Divina mentre mi ricorda di non pubblicare simili orpelli.
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Nella cruna dell’ego
La vita mette la freccia nel senso che vuoi. Non sei arciere? Credi in quello cui tendi. L'arco è un petalo del cerchio costruito sull’anagrafe con una certa prevenzione comune. Mira al tuo ricco annuario per dare attrattiva allo stelo: la rosa degli acufeni è una menzogna. È il ronzio che sugge la gioia. Ha il profumo degli avanzi in un grave digiuno. Cos’è la gioia? Un fuoco artificiale tra tanti fulmini, la mano di vernice che copre le ruggini e, in quanto copertura, la gioia sbiadisce e si vede poco. Eppure, simuliamo di attraversare porte aprendo finestre che si sbarazzano del buio: tra le pieghe la notte spiega lo sconcerto come gong di fine ripresa e secchio e spugna. Torni in pugno alla vita che avresti detto grazia d’amore, a scanso d’equivoci.
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Ho conosciuto chi mi viene in mente
Non do i numeri, ma pure a decine non potrei dire quante decine. Quindi approssimo gli abitanti delle mie parti in parte devastati, parte consunti e parte in bilico mentre parte si allontana per quel vicolo cieco nel quale questo corso si trasforma al passo. Sono eletto a rappresentare un popolo che non soltanto io conosco, ma che io soltanto visito da capo a piedi. In certi momenti, anche il loro parlamentare è superfluo e i commessi stanno a memoria tra i banchi in quiescenza. Tacciono quelli legati ai luoghi rifatti per farsi ancora e quelli con due corpi in un solo cuore. Tacciono quelli legati al diario ed al periodo corretto, quelli che hanno lo spirito della camera aperta e dimestichezza con le commissioni interne. Comprendo il silenzio degli onorevoli eletti con la legge universale non ti scordare di me.
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Al successivo con fine
È affannata la piazza, cuore del paese; che non è più tale da quando in tanti l’hanno fatta città. Moltiplicando le piazze le strade non si contano più, come se venendo da una mela con otto semi, ci si perdesse tra mille mila semi in coscienti perché un’altra pianta ci ha presi. Quella piazza si ritiene ancora al centro del lastricato da passeggio con un sedile disoccupato per quanto urli: circolare, circolare!... Ma non è più una rotazione cardine. Lì, aprivi commenti che finivano in saluti e uscivi dai saluti per finire in un commento. Bastava il tono a spingerti alla periferia dell’argomento amico, più che punto, svirgolavi. Qui, e adesso, le frasi lunghe sono fuori periodo.
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L’imbarcata degli angeli
Gli angeli non ci guardano dall’alto in basso. Stanno attenti a dove mettono i piedi. Le scarpe lasciate a causa di un richiamo, le orme che hanno curato la profondità più che l’altezza o la natura dell’appoggio. Checché se ne pensi, gli angeli non hanno ali: salgono camminando comuni tra i comuni accomunati bene. Una fortuna. Si può dire ci passino sopra. Fanno percorsi concitati perché siamo agitati dalla contabilità. I contabili in questo tempo sono semafori che plaudono agli investimenti e i passanti sono come le cinture che li attraversano: si tengono in vita spremendosi. La loro anima compare nella versione più adatta alle radici dell’acqua non più in voga. Cerco angeli con le scarpe a mollo.
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U=E, per il resto cancello
Nella cruna dell’oscurità ci passa un’onda con le gobbe che fanno da sole. La sua velocità costante fa quadrato per redimere la massa dall’ignoto e conta negli oceani e per le more. L’osservazione del fenomeno posiziona il creato fuori dal miracolo, moltiplicandolo per tanto ma non per tutto perché se è vero che la mela si trasforma in forza e la pianta in disegno, come mai dalla coloritura ricaviamo l’indizio che ogni parola si allontana nel nulla per tornare come vagabondo fino al cancello? Giocoforza abbiamo grandi spettacoli e maghi da pulpito che fanno manovalanza a notte fonda. Il trucco è far scivolare la presenza nell’eco e la stella nel ventre del motore. Tra mille primavere si saprà perché la parola si consuma e perché tra altri mille ancora soffriremo prima del cancello, l’ultimo presente.
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Acquisti di stagione
Da poco fioriscono i pianeti ma uno che frutti come conviene alla specie non è a breve. Intorno ruota l’inverno a prescindere da quanta primavera la notte chiara invogli a vedere. Troppo lontani quei petali, per me. Fisso le mani in assenza del corpo e tu che sei rosa da vendere cara la pelle, piccola da qui alle stelle riunite nel linguaggio dei segni astrologici, visibilmente le informi nonostante l’inarrivabilità le manifesti prive di numero ma con una certa fondatezza. Come l’amore, dissi alla luce del desiderio.
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Prezzi alle stelle
Sulle scansie una forza oscura ha disposto cose innumerevoli e preziose, ma c’è spazio libero dove ciondolano ottici del cosmo e spazio occupato dagli spioncini in orbita. Eppure, i prodotti senza etichetta hanno origini certe e, forse - udite udite! -, una filiera come i tarocchi. E poi una stagione che li rende dolci. La speranza esattamente è toccare con mano, metterci le suole: lassù dormono i commessi, i fatti delle illuminazioni, le fonderie degli spiccioli del caos. Mi è possibile sapere tutto questo perché dove sono finito comincia l’infinito.
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La versione del corpo
Costruito in tanti esemplari dopo il seme e dopo l'amore, piùi n generale ad innesto continuo di termini e alloggiamenti fortunosi. Viene da un furore di catastrofi terrene e pietraie universali. Puoi dire che è d’acqua e calcare ma si descrive meglio con un miracolo di sangue misto a linfa e resine, con più dubbi che radici. Portato al limite è rimasto a lato di specie ancora in furia. In seguito alle mani, colse da sè la cupidigia da un ramo e liberò dal velo l’essere e quindi il sono. Cosicché tolto quel velo azzurro si scopre il vero viso di dio, immenso a tal punto che l’eternità neppure lo ricopre.
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Ho provato a saltare sul primo pianeta possibile
Abbiamo attraversato grandi distanze e per immensi spazi ancora dovremo regatare, più mortali che forzati a vita. A bordo abbiamo un manuale di nodi per dove atterreremo, ma in cuor nostro non sappiamo ancora scioglierli. E non c’è un’idea di rotta; o la rotta è presa dalla prua in un circolo vizioso sul lobo della nebulosa: la buona stella maturi la mela azzurra. Eppure nel minuto è ancòra ostile la cruna dell’àncora, o è àncora ostile la cruna dell'ancòra.
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Questa che muove poco
La generosità è caduta in disgrazia. Si vede in prossimità degli androni: chiunque dorma sulla soglia coglie la libertà in terra ma funziona come un fazzoletto usa e getta. E solo questo, benché non sembra avere senso appena terminata la pulizia del condotto alla minima aspirazione. Ma di notte il gelo lecca la lisca come un gatto delle nevi. La lingua di ghiaccio della luna è cattiveria pura sprofonda nelle orecchie dagli occhi con la stessa parola rasposa: copriti meglio che puoi con il sonno di turno.
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Il tranello dell’eco
Ho pronunciato il nome consapevole che nessuna voce diventa presenza se la fonte rimbalza a caduta, ma l’eco si ostina a tirare la coda all’udito. È tutta farina del mio sacco. È quella con la quale impasto frammenti e il turno di notte sforna bocconi amari senza alcuna reticenza. La memoria è un panificatore che ti lascia a stenti. E tu che usi la solitudine come pala che gira e rigira diventa farcitura, stringi i denti perché il morso non ti sfugga di bocca. L’eco che risponde alla distanza rende le parole accidentali. Non si pronuncia. Eppure ha tutte le voci, come ricordo.
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Desiderio da impiagato
Vorrei tornare in fiore, a gambi levati. Amerei cogliermi in fiore nonostante il polline caduco. Ah, lo so che profumo di armadio, ma desidero ancora tanto - il desiderio è di solito appiccicoso e te ne lavi le mani così svaniscono altre ipotesi beneamate. L’uomo in fiore mostra il corollario personale: gambo diritto a mo’ di richiamo per operaie e l’interminabile seminario potenziale. L’uomo in fiore - non so bene con quale formula essenziale - snocciola fraudolenza nel solco delle mani invasate. Così viene il prato spiantato su tutte le furie e viene in casa. Viene di persona su gambe umane: non bussa, ha la chiave per trasferirsi in altro ambito. L’uomo in fiore sarà mezzo salvato, se manterrà il divario tra l’abbattuto e l’edificato. Fino a qui nulla è cambiato: tra tommaso e la piaga, un uomo in fiore muta la ferita in cielo assolato. È un punto fermo nell’epica orale: te la teli quando la tua casa è invasa.
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Credenza crudele
O signore tra cielo e mare stai interamente nel mezzo piantando grane e suppellettili edificabili e ramificate. Come terra ti vorremmo calpestabile; e da noi conquistato. O signore tra schiaffo e bacio sei rappresentato dalla guancia raso al solo e demotivato dal fatto - appena approssimato - che sviluppiamo in alto soltanto il nostro profilo patrimoniale. O signore tra sperato e certificato rivolgiti a noi con gli elementi dati accessibili mentre respiriamo privi dell’impotenza dei sotterrati e testimoniabili nelle sfere d’influenza delle iene e degli squali. O signore tra poi ed ora attraversiamo il brutto momento lasciando noi l’orma mentre ci accompagni: pensi sia desiderato caricarsi del tuo bagaglio immane benché contratto? O signore tra il santo e il sarto dacci oggi i nostri panni quotidiani asciugati in pace.
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Inseguendo il presente
Certo che al mondo fatti non mancano a vivere come bruti, ma chi segue virtude e conoscenza è tremendo per sommo conto. Come sempre tiene banco il mattino solo perché ha l’ora in bocca. Usa le lancette per pungolarmi al risveglio, ma il salto tra due raggi al confine del buio intenso è stato compiuto da fermo, disteso dal fiore della sera: la camomilla mantiene la calma se preferisco la melissa per la notte di congetture a frammentazione e sirene. Così riescono i sogni e gli incubi: provo a fermare i primi per fuorviare i secondi dall’attimo che risuona nello sterno. Tuttavia ho cura delle scarpe che reggono all’attrito tra il cammino inevitabile dell’orologio e la resistenza all’ignoto. Il respiro è tormentato dallo scendiletto, ormai! Come se l’esistenza fosse giunta a quella lingua di terra che spiega perché restino così tante lettere per i raccoglitori di storie a tappeto.
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Come funziona il morto
C’è pericolo che si perda l’equilibrio, che una colonna diventi collana di una città a nome del Paese: un nucleo urbano con le bandiere sterminate. (Quando cito “nucleo”, l’aggettivo cui rimanda esplode fuori luogo e guardo e tremo per i figli in fumo.) Il calendario non sembra coinvolto: volta pagina la brutta storia, si sfogliano i marmi e i numeri sfidano il permesso dai ricordi. Vedo tutto dall’oblò sul mare d’Azov: i led rendono liquido quel che muore e noi sopravvissuti a pena scomposti.
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Formi d’abilità
La diffusione dello spazio si insinua in una porzione di vetro a seguito del cielo. Le stelle: che viene dopo? L’uomo che cerca sè trova loro, comparse a parte. Tutto quanto è fuori entra come per rubare attenzione. Non una carezza tentenna, eppure la paura del contagio un po’ frena. Sarebbe tardi, comunque; e il formidabile occhio prende l’esterno. Un modo per scoprire che il panorama rimuove la notte insopprimibile. Nel buio due finestre sono camaleonti sui davanzali. Fanno un solo boccone dei segreti; e il formidabile noi compare in tempo per giocare la mano vincente. In questo senso puntiamo la mente e si perde il cuore. Il cuore può essere un totem. Gli idoli spingono per l’illusione, mentre il sangue gira tra le lenzuola contenuto e in seguito a scapicollo fugge da manigoldo; e il formidabile seno poggia sul mio braccio dove orbita il pianeta che mi viene addosso. E la formidabile silhouette s’informa dal soffitto: cala l’ansia come un asso di briscola sulla carta imprudente. Ti guardo: cielo alla rinfusa; se guardo il cielo precisamente, trovo corrispondenze in luce. Che ho scritto di te, ieri? Dillo per bene. E il formidabile dia letto a chiarezza del momento, non la nebbia che tergiversa. Quest’ultima, pare l’autobus del passato, perché solo alcuni scendono ad oggi; e il formidabile presente è segno della ribellione incessante degli occhi, l'udito più fragile della rosa, al tatto dal ventre; e la formidabile pelle impone ai polmoni un profondo fremito. Non c'è altra acrobazia nel luogo oltre l'agilità che hanno le tue ciglia; e il formidabile pudore mi apre alla grazia del fatto. Ricordo la scintilla innestata dalla carezza: provocò un tremore incauto alla barriera del ventre, tenero sulle labbra se combatte prima il viso l'allusione del desiderio. E il formidabile rossore posato come asse tra desiderio e paura: quanto questi due infingardi durano, come insinuano trattenimenti in questi corpi con tanto spazio! E le formidabili mani inattese sulla schiena. Campo esposto a semi labbra. E una formidabile sonnolenza istantaneamente fa ritrarre le ali. E' evidente che volare è cadere anche per poco, ma temere e amare sono collaudi; e il formidabile esubero per questo gioco.
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Gioco di rimando
Come un segugio il naso punta in fede il polline denso del panorama schierato come in censo (conta che sia smarrito, per rifiutarlo semplicemente). Si agita la coda degli occhi quando trova trame nel vetro e il segno è in odore di miracolo, o in dolore. Invoca di uscirne presto così diminuiranno gli inserti volanti delle guide metalliche proprio come transenne della stracittadina corrente. Perso per perso ho già vinto l’universo.
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Ad ire
Diciamo che mi piacerebbe restare in questa sera d’annata più a lungo del consentito e per l’età discreta fino alla tenebra - giungesse di colpo e non per colpa. Vorrei evitare di diventare vecchio col sole. La vecchiaia è l’ultima pelle che s’impiega per coprire la vita a breve. Penso che le cose non sanno che sono correnti. Una sorta di via ferrata, dice la persona cui è dovuto il loro essere, ma come tracciato l'impiego si regge sulle traversine non nei vincoli ciechi. Quella Signora, o Signore, che stringe in pugno la sabbia di ognuno ha millemila mani e altrettante palette verdi o rosse. Ferma o avvia. A caldo o a freddo. Quella Signora, o Signore, stampa tutti i calendari ma non il suo: un chiaro conflitto d'interessi.
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Halei
Come sai forma sapere quanto matura dai bei tomi e per la polvere che viene a pezzi da quel che si consuma in no: i tipi, innanzi tutto. Ho preso a cuore pure tutto tramonta solo quando è ora (*) preso da te: il grande gesto del mare che più pare scontato più la luna costa ai continenti una marea a braccia e produce passeggeri carenti, umidi per venti complessi. Vanno nelle corsie a strati invisibili i frammenti di materia lungimirante. Poggiano dove cadranno i resti. Fai che non si tolga la terra dalle biblioteche. (*) “Incisioni” di Cristina Bizzarri (qui)
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Ad agio
I limoneti producono gialli quando le gemme virano bianche al viola di ponente e il battello dei colori imbarca vitamine in forma di goccia per entrare in circolo prima che si iscriva l’agrume. E secca l’acume liberato dalle scorie della liquidità con il bene placido di Dio. Dio! Oh, se non si arrabbia per lo spirito infuso perché dovrebbe farlo per quel giallo sfusato e acerrimo: Dio non ha una posizione certa per definizione, quello che si intuisce sull’argomento è che lo nomino tre volte mentre il gallo canta per il vigneto fruttuoso e per il castagno frangivento schierato conto tersi. Riconosco al momento l’eternità come passa tempo che toglie spazio ad altra materia con un po’ di terra.
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Ad ombra
Chiami il medico e risponde: "sto visitando: descriva i sintomi come le sono venuti, passerò non appena finisco i malati." Quando il medico o la medica sono crudi per loro natura guidano sale d’attesa dove la deontologia consente la posa dei mezzi morti in cura. Sono stanco di essere paziente per il bene dei discorsi in pillole: uno, l’aria di casa ha i suoi lati sicuri; due, la ressa nel vocabolario dà caratteri a folle; tre, vai a calcare tu e il distanziamento. Mi viene difficile usare la lingua per acconciare il passo.
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Ad opera
Il contadino usa il giorno in breve come momento opportuno o come adesso posso. Come mostra il grano rincarato alla fiera con sorte dubbia. Ha speso tutto in luogo di un buon raccolto: il suo torna conto - tutti puntiamo sul bacio ed esce la lingua perché si perda. È stato piantato da poco e, si sa, l’abbandono è la chiave nella seccatura, aria fritta dell’addio - larger than life, la bocca si sbraccia con parole abradenti. Il contadino è provvisto di elementi naturali, in realtà artifici a tempo. Egli è scomparso, perché vedeva lontano ma si è ridotto dov’è. E dov’è l’invidia semina scontento mentre in campo scende il suo seme - figlio, il tuo maggio scioglie la mia ultima neve. E mi rende geloso non della Rosa che ti porta, ma di quella carezza che gira sole a te.
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Ad oro
Le braccia incrociate, custodi del diaframma, frenano lo spirito al crocicchio da nullafacente. La prospettiva della vetrina del negozio lancia linee di moda che vanno in fuga subito dopo averle ottenute, ma il desiderio di apparire ben messo in quel gruppo diminuisce il vestito che indosso. Lascio che il mio avatar prenda posto nel polline dello schermo, lo stelo curvo tuttavia, lavorando con il tono giusto. Ricordo di aver annunciato alla regina che vespe e calabroni attaccano in volo benché lo sciame li accalori a morte.
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Ad atto
La il i lo gli le, poi termini così. E’ come dire sei ai sensi di un articolo ad atto. Questa è ossessione per l’ordine. È il mondo categorico in genere. È il trip del costato: un prezzo da pagare con sconto per la condotta. Chiamiamo l'idraulico per l'idraulica. Chiameresti l'idraulica per l'idraulico? In termini di lavoro, il torace non è cassa ma scavo, una fossa che ha bisogno di un viso per riconoscersi ad uso. Si può dire ad un ciclamino: cambia colore? Può darsi che l’identità lo aiuti. Talvolta. Talaltra radica. Tra l’altro il futuro non viene ancora, ma non manca di strizzare l’occhio all’universo: l’articolo mette i soli a fuoco.
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Ad ora
“La parola, se non altro, ha le mutande grosse” Fausto Torre - Il tempo della soprastanza Quale meridiana allunga l’ombra ai presenti per adesso? I presenti che convengono, ad ora sono binari nella memoria del computer; un convoglio ritengo - lasciando correre il nonsenso passeggero. Ho un cervello in scatola, potrei dire, ma la mia mente è un’altra cosa da fare in seguito. Ad ora picchietto sui tasti e non telefono, digito nome, cognome, premo l’invio e trovo che sei nella lista doveri ancora. Così poi si cercano i volti; i volti sono tra loro concorrenti, come le statue che mantengono in vita manifesti vuoti, ma per tutti i santi manca il posto, ad ora. Credo che la mia scrivania sia un buco di Wheeler e divori i convenevoli: tra questi fogli ammassati i battiti e i sacramenti. Quello che so, ad ora, è che lo sterno è manovrato dal suo interno e se si chiarisce quel sintomo di colore vivo scompare un intero percorso. Come ti ricordo ognuno è la chiave della sua portiera. Il piano da occupare è l’intera sera. Meglio i lampioni. Meglio l’artificialità del sole che il suo metro per tutto il tempo, così lavoro da controfigura nelle pagine che mi recitano, ad ora.
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Contrazioni
Cosa c’è nell’intensa azione del viso che sostiene il rossore ma non perde occasione di sbiancare? L’ammore colora un greto sommerso da rovesci e seccature. Noi lo attraversiamo come i fiori attraversano la letteratura: belli sempre ma abbandonati per inciso. Ammore è un torrentello increscioso dovuto alle precipitazioni frequenti in un percorso dannatamente breve. Chi ha messo il myosotis a pagina tot e pestato la corrente in quel guardo? Lì, proprio lì, lasciammo orme sull’acqua. Avevamo costruito un ponte con la lingua così da traversare le arterie evitando i patemi del traffico d’organi in genere. Ugualmente il corpo aveva apparecchiato i suoi dipendenti con la stoffa che aveva. Una conoscenza tardiva, come l’età e il lockdown, mi dicono che ammore porta contrazioni pericolose e potenti, messe in gioco da un sospiro appena letto.
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Del chiosco
Per quanto provi a battere le palpebre gli occhi non vincono la sonnolenza e una frase quale “Dormo in piedi come un cavallo” è uno stato di forma. Inoltre, il bancone accetta i gomiti poggiati sul suo livore. L’attesa si acquatta dove beccano i piccioni. L’uomo ha messo l’anima nel distributore nel quale il ghiaccio giubila lo sciroppo. L’anima è il fossile che sopravvive alle intenzioni dei bicchieri. Ma l’anima parla da saputella del vigore. Per il distributore ci vuoleva fegato: l’inedia non è la danza dell’acqua liberata dall’attitude al freddo. L’uomo conta e stima i cestini, sacrari del monouso. Resi delle secche labbra che per altra via contaminano l’ambiente: oggi, cinque o sei, lo hanno messo al centro della sete e del ristoro conveniente ma più che il mantesino immacolato l’anno va in bianco da più di un mese. I polmoni pompano il calore in circolo. Sangue che dovrebbe bollire ma gela all’ombre del chiosco. Lui pensa che il sole aumenti l’attrazione, benché la massa nella rotonda sia ridotta, e che induca al doppio gioco tra desiderio di spegnere la sete con le tasche lise e l’acqua pubblica. Pensa di doversi occupare della fontanella e si apposta disteso.
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Voci in confidenza
- Se non hai altro da fare, io ti consiglierei di fare altro. Dice, sporgendosi dalla nota che altro non era se non colletta di suoni. Così la nota grave mantiene il timbro della voce, la sua, ricca di tendini. Tesi, fuoriusciti tirando le cuoia. Tese, mano a mano da qualche parte lo spirito compresso lentamente si distende. Dalle mani alzate, ricordo, l’intenzione. Di farsi guanti del mio sangue - non se ne parla nel ricordo stesso: nè con la lingua dei conciai, nè per confonderle con la preghiera. Più di un voto, come d’altro canto voi. Lettori, stranieri per poco, poi clandestini: così vi avverto. Fermo restando che mai si capisce compiutamente un altro e mai ogni altro appare uguale io per adesso. Per un momento può bastare la condiscendenza (quasi a dire). - E qui mi abbandono risposi allo stesso tempo per altro.
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Epica dell’attrazione
Il satellite si squarta; e quasi una fetta ci tocca con approssimazione aperta parentesi. La luna si muove da macina luminosa in un fiume albino che la fa ruotare e trae a sé il fior fiore del mare. Il pesce San Pietro pesa la vita secondo Archimede e l’avvia al principio del nuoto. Il mare, antenato di ogni destinazione, è un tratto in comune alle onde. Il molo duole quando gli sbattono contro - da che parte? Inspiegabilmente porta altrove. Che c'entra? Amo il fatto che mi diede tempo. Nato non fui a viver come eterno, ma per seguir te a momenti. Amo il trasporto che mi abbandona sullo scoglio, infine. La cresta sbatterà di sicuro, di sicuro ci metterà la faccia l’abile spirito che sguscia per rifarsi sorgente. Sicché ogni foce succhia, ogni foce ha una mammella in terra. La luna, faccia in ballo fine a se stessa, antenata degli antenati dei discepoli, priva di tentennamenti della guancia lattea affollata di efelidi: solo per questo riceve il bacio da un telescopio: sfruttamento. Luna a breve e l’altro a lungo.
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Tornio al lavoro
Oggi ho disegnato un marchio. Il tizio mi ha scelto nel nome del padre nostro. Non lo pregai di venire da me, come non si invoca la sveglia nella notte. Essere fratelli è stato a piedi nudi, ma non si sta in piedi da soli, fratello. La commissione parlava chiaro: devi metterci l'anima; però l'anima non si spiega a parole nè per grandi linee. Il simbolo sulla carta mena visioni per aria così uno schizzo si riduce a vista. Ora, una matita è un’affettazione del foglio mentre sul monitor scappa di mano. Qualcosa trae dal nero una forza luminosa. Io trovo il simbolo e dentro altri simboli: per ogni geometria illustrata dall’inchiostro, l’estro adopera il punto in cui sono per generare i punti del creato. C’è una melagrana, c’è un’onda, c’è l’ospitalità del mare nostro che il padre appare disteso. Il disegno mette mano ovunque, sequenzia ogni figura complessa finché le grandi linee non raccontano altro: questo nistagmo lavora fino alla nuca e attornia privo d’arti, il mestiere di vivere; e più difficilmente l’idea è resa.
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Che viene dopo
Ci sarà sempre un disegno e poi il gesto di temperare la punta del miracolo nel legno: la gemma appare chiodo sul tronco crocefisso al lavoro di diffusione. Che comunicatori tolleranti sono i fiori vs gli occhi! In special modo alla mano stemperata quella tesa sui capelli corvini del compianto giovanissimo amore, che non è stato mai ricercato nel verde in calore. C’era un disegno che stufava, allora? Divenire oggi dolore.
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L’artefice di tanto
Ho messo il silenzio nel soffiato. Normalmente il seme scaraventa nel panino tutta la farina del suo sacco e il rumore della macina crea l’effetto farfalla in mente per i millemila pensieri in campo. Me ne nutro senza risparmio. Lo accompagno con sorsi di primitivo e la lingua fa un leggero schiocco. Non mi curo che le sillabe sparse siano o meno raccolte, il silenzio è così diffuso che ne posso seguire le molliche per dare pane al vento. Anche breve, sottile come un fazzolettino usa e getta. Il silenzio è una farcitura amara al gusto di zenzero e assenzio, ma l’artefice soffia in testa.
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Ermete Trismegisto nel cortile fermo
Che razza d’acqua è questa? Piatta, in posa da granito. Stentorea per un lungo tratto - passo su quanto affiora. La conoscenza si innalza ben oltre qualsiasi punto di arrivo - e in più avanza. Ormai anche l’acqua è diversa tra una razza e l’altra; e traversarla implica un corrimano tra un dio e il prossimo - pure uno solo con se stesso dov’è riposto - come un libro illegibile aspetta una mano che lo scelga. “Quale pensiero mi fa nascere adesso che sia di me almeno un terzo?” Ho preso visione dei cinque decenni e migliaia di secoli. Ho ascoltato invocazioni da marmo, ho risposto da muto dipinto come curvo, ho saldato le voci con velocità. Un orecchio profondo mi fa sbarcare che tipo le fascine autunnino prima al verde prese dalla miseria quando si legna; sapere significa aver visto tanto - io, messaggero distratto dalle trombe dell’universo che per me è questo vociare indistinto venuto alla luce da occhi neri - e tocca ancora i sensi. Mi dà una mano l’idea che tira un dio - preambolo del verbo dentro le forme.
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Edward Leedskalnin
Ho potuto spostare le pietre, grazie a un congegno mentale. Con gli artifici di secoli tenuti in disparte e conservati a ruota delle opere magistrali. Li ho svelati; e le rocce si sono sentite sollevate. Le ho lavorate - ogni colpo un’attesa, perché ti attendevo, Sweet Sixteen, e ti aspetto mentre osservo le ninfee e parlo alle pozze di sedici anni d'acqua. Ciò che somiglia al fardello della tua assenza è quel che passa tra due poli magnetici: l’amore che ti ricordo e il tuo ricordo senza amore. Tra questi due solenoidi il mio corpo minuto è ora. C’è magnetismo nel rifiuto - l’addio calamita il moto perpetuo dell’amante da un abbandono all’altro. Mi è stata d’aiuto la Terra, con la sua energia incondizionata. L’energia che la mia leggerezza ha valutato a forza di baci non dati, adesso libera nel suo bacio come avrei voluto venire dal tuo.
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Makoko (o di una lacuna africana)
Perché scrivo di te, chiuso nel mio guscio in similpelle? In un perimetro murato, detto per casa, l’anima è stabile, seduta stante. Una finestra fa risiedere il mondo qui dentro. Sullo schermo una piroga àncora tra palafitte curve: ma come cazzo si ergono dall’acqua? È Makoko. MA-KO-KO, nemmeno so dove va l’accento, se su pene o su malarie. Incerta e ignorata, come il numero angelico dei canali televisivi documentati a più riprese. Ne so poco, anzi: meno di te. Soprattutto qui, i pali in sesto sono retti, dai ritti marci, e forniscono l’habitat ai molluschi - questi che vivono a frotte, presi alla gola, come morti alle volte. Come sgombri richiesti all’acqua perchè la terra non basta. Le conchiglie non risiedono per scherno tra le suppellettili del deserto che fuggono, impietrite sul tronco cavilloso delle dune. Finanche la carne si scaglia ai pesci e affonda nella lacuna la corrente e la spina. Lacuna, o laguna. Umana, o naturale. Affare, o sciagura. «Qui si trova di tutto. Tranne una sepoltura.» L’acqua è una tomba paradossale che tiene in vita i galleggianti. Una pesca miracolosa della malora. Ho letto di sardine spinate di fresco e andate in fumo, dal loro punto di vista salubre. All’ora dei coloni il gin tonic nasceva qui ma qui non si porta l’aperitivo. Quindi è necessario che scriva, perché si veda nel lacero-contuso blu la miriade di rifiuti buttati ai pesci.
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Collima all’altopiano
Dalle pietre ricevo un saluto che rotola e almeno un mondo precipita nell’orrido. La risalita del sasso è un desiderio che rantola mentre ancora cade e cade e dal ripido salto nel futuro senz’appoggi sgaiattola l’arrampicatore al tramonto. Grida fanciulle su dalla goletta già giocano agli adulti prima di scoprire che la goletta è una burla: occorre una gola per rispondere all’insulto di quegli onnivori che rubano fin dalla culla. Gli adulti, cioè io e altri vecchi tafani che alla questione del tempo hanno tolto il dovuto, già vendono il prossimo grano che mai da loro coltivato è invece raccolto. Ne parleremo da sotto la terra con le mani che cercano la colpa in quanto dissolto.
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La città dei vincoli stretti
Fai un’opera caritatevole: legami al tuo nome. Prima, però, indicami la risposta che dà il vento ai vincoli incurante della fisionomia dei voli. E che io sia una vela lo testimonia l’amore per il mio albero di terronia. Sono della razza con la fronda alta, una sfumatura di azzurro che esalta l’aria quando ammattisce torrida per indovinare la bocca più lucida - nonostante le labbra alla luce. Poi la corda serra in gola e induce a fuorviare la parola ascolto: quel che entra dal padiglione è tolto dal quotidiano e spinta solo dagli strilli, benché in volo tutte le parole muoiano a frotte. Bei santi quelli delle edicole ridotte: somigliano ai passanti come si deve, taciturni al netto del rumore greve come chi ignori il lordo pro tetto.
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Privilège du Roi
Il Re era in barca completamente ma la Regina, più realista e solidale, fregava le mani con eleganza formale. Soltanto al giullare vennero in mente i cavalieri in cortile fermi da giorni aspettando di avere una cavalcatura adatta alla natura della buona cura dimodoché il Re in sè facesse ritorno.
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È duro, ma morirà; e durerà a lungo
Non c’è notte per il sole finché gira così. E non è vita come la pensiamo, è un girotondo senza fissa dimora: ci trascina un vagabondo che non ha occhi se non percorrere. L’amore? Una trappola per stormi, fatta di congiunzioni tra energia e materia che viene a corredo quando può. Come quella ragazza, magari, che chiamavi stella dalla lingua di fuoco appena lambivi la sua gonna benevola. Come lei, magari, che nel suo parco di pianeti fissa da lontano i più maestosi e quelli devoti ai suoi piedi li incenerisce con l’indifferenza di tutti i soli. Lentamente ci lascerà riprendendosi anche i vuoti.
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Mi sta addosso per un tratto
È un contenitore di serie a parente. Non so dire se sia una cella: non ho lenti capaci di trapassare vestiti e carni; e scoprire come di battiti nel torace. Quindi mi informo di uno per altro e raduno memorie in cui tirare il fiato e basta. Duro a dirlo, ma sono ignoto e dell’ignoto conosco il vuoto. Sapete, cerco un appiglio dov’è appeso il lume la china che sappia fare volume o che porti un piccolo segnale: - ehi ehi, sono quiiiiiiiii… (la “i” è lunga per un vizio dialettale). Date le circostanze attuali, rispondo agli echi, ormai abbandonati in favore dei like. Siamo voci singolari in uno spazio singolare, su di un pianeta che pare di pari, ma non lo è, però pare singolare, una serra più fragile dei petali che protegge. La mia guardia del corpo è lo spirito che regge la resa a parole. Parole maratonete che come Bikila sentono la sete quando corrono scalze all’orecchio lunato senza mai lasciare il ventre provato - un baco che non si libera del bozzolo e solo per brevi tratti si coglie a volo.
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Chi mi ha chiesto una cura
La strada non muta la meta. È comodo per riguardarsi. È sufficiente il modo di coinvolgere la lattaia che portava il nutrimento alle porte. Nemmeno si vedeva in piena luce. È importante ci sia stata, ma non c’è. Come tante polveriere, come i coppi sugli spioventi e bartali al Col du Galibier che lo sostenta. Le mucche sono munte dal metallo eppure è difficile tirare in ballo che abbiano una salute di ferro. Chi ricorda l'ape Elvira dalle borse trarre il tintinnare del pascolo dal sacco elastico? Voi non l’avete vista bussare, ma io la sento e fantastico. Viene in mente che il vetro fa compagnia e la plastica solitaria è una pessima spia. Il mezzolitro ciarliero rivoglio che imbianchi la lingua al risveglio. Cos’é la primavera per questo motivo? L’aria trasparente dal candore primitivo che traduce in sanità una parte di me. Quella parte invariabile che non prosegue nel seme. Bisogna racconti della mia arnia. Bisogna che la rifondi e confronti. Penso a quando il verbo automatizzare era inutile per quanto ciò che è resto umano sembri infantile. La creatività era una maraviglia a tutto spiano. Oggi si spiana tutto e la maraviglia è una rana.
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Gira la carta del sogno
Fosse vero!, dite. Che ne sapete? Io ero lì, ero presente: con mio figlio l’ultimo ed il primo, insieme, e di fronte tutta un’altra storia. Marzo era fatto di giorni che pesavano quanto una barca tirata in secco. E nei mesi a venire non avremmo pescato meglio. Sulla tolda dell’anno tenuto insieme dalle assi dell'ora la sua bella criniera riccia e bruna - di notte sofisticata e leggera - , si staccava dalla mia mano tutto compreso dal mare a riva senza fare una piega. Aveva in mente passeggeri pensieri che salutavo come marina di sbarco per i miei grevi in terra. Isole, per lo più, perché i continenti vecchi o nuovi che siano sono in guerra. Lui voleva vedere i nidi, peró: palazzi a iosa: in città ci sono solo ritrovi per uccelli che fanno le ore più piccole a piedi.
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Au Sénégal
Molti di noi lasciano la rabbia in luogo. Della tomba citiamo a caso un sottoposto. La culla ci porta là. Dondoliamo in tempo. In senso stretto vediamo dal tremo lo stesso viaggio. Siamo chiose non c’è altro, Dame. Là cade il frutto del respiro - anche distante, Dame. Dalla sua culla cade là. Marcisce la polpa dei baci in una bocca del terreno. Mettiamoci una pietra sopra, così nessuno ci pensa più. Per come Miriam lo seppe, non lo avrei detto. Il quotidiano locale aveva trattato la notizia usando la parola “decesso” con l’assioma “solitario”. Eppure, Dame detto Peppe, di seguito citato con “il nero” - per via della sua “nigrizia” che è come “mestizia” riferita alla notte dei morti -, lui, il nero scoperto, dall’alluce glabro alla calvizie lungo 6 ft. sulla panchina per pazienti, lui, di seguito citato come tunonavereottantassscinquecentesimiperme?
- così sopravvive a stento, lo so - non avrebbe voluto il corredo del deserto sulla pelle. Ma la vita è peggio che adesso, Dame.
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Piccola pro testa
Ovunque sia diretto il nord, il sud gli andrà dietro. Dico alla ricchezza che le faremo il culo. Detto netto, senza volgarità. Detto con amore del meridione. Dal tetto il mio meridione è una corolla per far presa sul sole. Detto perchè il sole è il solo contingente che ci accoglie. Detto al contingente che conta. Il contingente è più di un continente e timorato si direbbe perfetto. Inutile bloccare gli scafi sul mare scalato. Chi gli ha dato la forma di una catena? Neanche il dio più cristallino vi sale. Intollerabile finire in malo mondo. Siamo la terra del primo solco, siamo zolle distratte dalla vaghezza delle dune. E’ la loro cronica dunamicità che ci fa a pezzi. Ma anche la vostra opulenza non è male. Così veniamo morti incalcolabili mentre vivi di poco conto ci contiamo in scala uno a tanto. Nel nostro disegno è buona fortuna parlare alla pietra di quanto è dura. Detto di voi che durerete a lungo, ma dove? La nostra orma unchained sente già la terra: Não sei se é você para elevar você ou eu a afundar como de costume.
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In vista di una nuova generazione
L’onda trema in un calice della costa perché l’acqua ha perso la calma per la corrente. E nonostante la roccia abbia il polso fermo avanza un palmo dall’arenire. In realtà retrocede fino a perdersi la sabbia fuorionda, piena di relitti e di rotte come bottiglie a nuoto. La spuma sovraeccitata, orgoglio di una mossa, non è la regola ma uno strumento del vento in corsa. Un trucco capace di mettere voce tra i pesci - intesi come gemelli -, e sollevare il calice per un brindisi. Il brindisi agli spiriti fuoriusciti dal cielo - noi in forma di attesa. Il cuore sgroppa tra le costole come un granello sguscia di mano. Levati di torno, dice, e la mente va, viene, moltiplica i locali che ricordano loro. E tra loro appari tu che non hai visto le alici venire alle squame dall’azzurro netto. Chiedi alla terra dove sono le orme dei sacri e calcale di fresco. Calcale con noncuranza perché tanta leggerezza muta in futuro di peso così come nè il papiro, nè la quercia furono fatti precisamente per l’oceano, eppure lo hanno percorso a lungo con un disegno spiegato al vento.
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Mali intesi
Tutto ciò che possiamo è davanti a noi ma quello che dovevamo e non facemmo ci urla dietro. La conquista di altro spazio non serve al punto in cui siamo. Nessuno qui ci aveva invitati, ma qualcosa fu fatta per favorirci. Trovammo il locale ben aerato, ricco di argomenti da sviluppare, ma poiché a noi piace dedurre il peggio, fu facile riempirlo di atti sbagliati e congetture sulla natura dei segni. Così usammo la lingua dei fenomeni per le distanze officinali da portare in tavola. Sulla porta c’era l’avviso di mangiare in modo adeguato fino alla frutta da evitare. Eravamo predoni di terra e di mare, violenti e nerboruti, entravamo in tutte le tane per razziare le credenze e i forzieri dei santuari: necessità motrice degli imperi per tutto il tempo. Così iniziammo a consumare la carne al sangue e poi il grano e radici e foglie verdi dopo il sacco delle mammelle. L’acqua era dove il conto faceva passare la fame, e stimava il piacere, e ne prendemmo a sbafo. Il vino ci fu portato dopo aver schiacciato acini nelle giare e più del calice si poteva andare. Giocammo ai dadi il passaggio del mare con l’unico risultato che contano gli squali. Erano chiaramente momenti di un gioco di razze che non ci farà durare benché duri.
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Misticanze
Tra gamba e gamba tanti luoghi comuni e un pendolo strambo che cerca fortuna. Lo sguardo ai nembi ne ferma uno. Un vecchio andante qui suggerisce l’aiuola nuda che già conosce la differenza cruda tra attendo e piscio. L’urgenza, si intuisce, esplode a zonzo come ne esce il beccuccio del gonzo? Potesse mettere bocca l’erba incurante di mormorii e di verbi col congiuntivo risicato e fiorito che già saliva da palliativo. Siamo fabbriche di scorie e resti al verde in cui precipitiamo presto. Al massimo un secolo, un breve ponte da un bacio all’altro, all’altra di fronte. Traversiamo il continuo brusio, terragni come dei quasi dio: Well, nobody's perfect if the soul is a concept of opportunities beyond the eyes.
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Ai tuoi occhi oserei chiedere
Hai nello sguardo un occhio di riguardo per chi osserva la lunga notte come una celia della tua faccia ignota ma rappresentata in millemila volte tronca per similitudine con la tua sorte. Credo che sia stato posto nel posto più ovvio. E’ già ovunque, se lo cerchi e ti cerchia chi lo ha raggiunto. Quanti saranno? Grani infiniti e per nulla sparsi, raccolti in crocicchi pedonabili. Lì raggiungerò futilmente l’ombra avuta in anticipo, o venuto dopo poco convinto dell’armonia che avrebbe dovuto generare se non trovata già qui o comunque presunta nel verbo che ti augurava. Vieni adesso a parte da qualcuno e portami la pace in mente a nessuno.
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Il condominio del fuoco
Al Santo giova l’idea del paradiso fatto a piedi. La sua fede proclama i sandali aerei. Le piante gli urlano contro tinte a ripetizione. In me gira voce che non propriamente il bianco sia simbolo della purezza: non esiste, o è mera radiazione evoluta a colore. Coltivo un sintomo di speranza nel verde, rosso, giallo: dimmi tu quale altro viene meglio di quegli altri che si alzano da terra con indubbia frequenza. So che l’arcobaleno è una prospettiva festosa dello spettro che appare roso. Roso è dovuto alla goccia che degrada il sereno. Il sereno fiorito nell’alba in quanto speranza? Rosa. Rosa è delle piante che non conoscono il grigiore e chiudono la notte il loro corsivo elegante. Insomma, stretti fino al sole. Ma al Santo giova l’abito da sera e sostiene da sole luna e l’altra opera della fede: la credenza vuota. Prega che abbia un senno almeno il satellite. Non l’estro luminescente, ma lo spirito è un labirinto privo di segnaletica e lui, sul precipizio dei feretri, crede nella parola a stento quanto la campanula al verde: musica in censo. Chiedo al ministero dei canonici, alle bugie ferrate ed alla confraternita delle candele almeno un lumino per il Santo Fumino di cui sopra il paradiso a venire che non richiede altra fede oltre l’alare, l’attizzatoio, la semplicità del cerino, il soffio oltre il costato e la fiamma a perdifumo. Inoltre, l’inverno è fuori di sè, geloso non più di tanto perché dentro cova un fuoco insperato: cambiare consonante con una effe di legno, presa di sana pianta da una selva selvaggia e aspra e forte, che nel pensier rinovi il vero contenuto.
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Il cognome delle api
Quando apparve la candela c’era già la fiamma. Il fior fiore dell’antagonismo non bruciava, era là, in carne: piroclastica ingente, di bocca in bocca. Venne l’ape, un geometra puntuto, forse l’angelo che parlava col linguaggio delle cabrate. Il vento aveva l’aria di buon seminatore e fuochista di talento, ma era dubbio e nel dubbio l’Altissimo Condizionatore serviva with a name of your choice, whit a puff. L’atomo, e il suo piano industriale, fece presa. Non ci siamo ancora. Comunque, oserei dire che l’uomo esplose. L’olio prese il posto del legno e del fulmine per fare luce fino alla cera. Il pungiglione puntava il nord, l’alveare si affacciava a sud e altre contrapposizioni del genere. Ora lo stoppino è un proiettile, ma ieri non è peggio di domani. Il termine medio tra loro è: paura; la lungimiranza prende tempo. Questo era tra i titoli sulla panchina. In un catenaccio con due chiavi di lettura: qui ti ho amato (per adesso). Femminile penso, ma alle volte capisco niente. In quell’attimo coesistono l’amore e il tradimento, in quel momento un bacio può più del sesso. Vorrei che la storia avesse qualcosa di vero: i ruderi sono certi mentre certi ruderi s’inventano. Amor mio, est in canitie ridicula venus. La supremazia del ventre ha ragione quando serve un fremito. Posso dirti che c’è la stessa calamità nel bacio e nel melo. Tendono ad un passaggio di stato nel quale gli atomi si rivestono con ciò che trovano sulla sedia. Ci allontaniamo di colpo per finire meglio. E sempre in un colpo può svettare una storia, svenarsi un corpo, svelare la tresca di tutti i sacramenti mentre l’anima sverna agli antipodi della vita, in quel miele che per adesso è ama(ro).
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Indotto a fiori
Da ovunque venga la viola, in luogo della buona sorte, apre uno spiraglio e si lascia cogliere alla sprovvista da un turbinìo di gemme. Rivoluzione si direbbe, dal nocciolo duro del susino che in una notte temperata ha capito che vento tira. Ma la viola? Sono convinto finga disattenzione mentre indossa il suo capo di stagione. Come quei battelli lungo il fiume o nell’invaso dai barconi che suggeriscono alla foce dov’è il mare col battibecco futile tra schiuma e onde. Fuggendo al largo, le anguille si allungano e resta a molo una cima a mollo: da capo, come l’altezza nel triangolo è dal Vertice una venuta in terra, per dio.
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