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Raccolta di poesie di Maria benedetta cerro
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

DA prove per atto unico

I luoghi dei labirinti

I labirinti sono affollatissime vie.
Sono luoghi d’incontri e prigionie.
I labirinti sono nodi insolubili
allegorie dei più profondi affetti.

~43~

Chi mi venne in sogno stanotte
sapendo che ero sul punto di morire?
Cercò di salvarmi
ma le mani ricadevano
e il corpo riprendeva la postura
della vita nel grembo.
Gemeva il gomitolo
– come per nascere – gemeva.
Il filo nascosto
che mi avrebbe tirato via da quell’inferno
non fu mai trovato.

~44~

Mi sono assentata.
Sono stata – anche per me stessa –
introvabile.
E non chiedermi dove sono stata.
– Non lo so –
Neppure adesso che cerco di capire
come fa l’anima a smarrirsi.
È il castigo dei labirinti
il contrappasso
dell’amore smisurato per la vita
– il confino negli abissi –

~45~

Tutto è cominciato
col dover andare nel buio.
Un ammaestramento a discernere
nel nulla un cammino possibile.
L’Anima ha passi pesanti
– porta in salvo un bambino tra le braccia –
L’Anima è femmina e conosce il parto.
L’Anima è piena di pesi
perciò sprofonda – pur avendo ali –

~46~

Ti avrò percorso come una pianura
dalla paura inseguita
o appena da lei scampata.
Non avrò dolore del ritorno
non avrò pensiero.
Il tragico è la follia
che non vede il suo principio.

~47~

Destarsi nello stupore
che altra vita è il sonno
– più dolorosa e senza pace –
Non riposa nel buio la stanchezza
ma per una strana bizzarria
a quella aggiunge altra fatica.
Ed è come avere il doppio degli anni
costringere il cuore al saliscendi
di muri a picco sul mondo
allenarsi a immaginare
che cadere oltre
può essere infine una fine migliore.

~48~

A chi hai dato ragione
che non sa nulla delle nostre pene?
Quale notte contiene
tutte le albe promesse?
Anch’esse furono recluse
ed è passato il tempo di nascere.
L’orrore narrato / più di chi lo vive
ferisce fino all’osso.
Ciò che sfinisce è lo sfioramento
del dubbio che sia la barbarie
a cessare prima della vita.

~49~

Così profondamente / o più lieve
come una foglia erosa
la cui filigrana in trasparenza
d’un gioiello costoso evoca la foggia.
Come una pioggia leggera
o certi veli di sposa
tale e impalpabile cala la tristezza.
Ed io vorrei a volte essermi madre
darmi una carezza / smettere il rifiuto
di un’attenzione / un gesto
e persino di una bella parola
sentire sul capo come un peso.

~50~

Di una gentilezza
quasi colpevole del suo sembrare
sentire su le antenne di chiocciola
come una carezza
e ridursi nel guscio
ché un gesto amorevole
può a volte anche spaventare
– o semplicemente –
deve farsi avvezzo il cuore
a un altro modo di amare.

~51~

Dei gerani ridotti a scheletri piegati
alcuni restano vivi
e stretti alla lanterna forata
che manda dal fregio luce arabescata.
Una ciocca di fiori quasi schiusi
un verde illuminato
un’isola estiva il crudo inverno sfoggia
come non avesse le altre piante ucciso
e fosse gloria sua quel piccolo miraggio.
Così agli umani
basta uno sguardo luminoso
un sorriso
a fugare il sapere doloroso
d’essere sospesi al caso.

~52~

Che nessuno si ricordi / di questa porta.
Una cosa / anche / vuole star sola
non cigolare più
non vedersi attraversata
lasciare imbrunire la maniglia
restituire passaggi
lavare impronte con la polvere
che ha bendato il respiro
accecato in bocca le parole
che avremmo potuto ancora dire

*

Una rilettura delle lettere a Lucilio di Seneca



Da una rilettura
delle Lettere a Lucilio di Seneca (da La soglia e l’incontro)


Non è la misura dell’abbraccio
la traccia che lascia dentro
la strana matematica del cuore
che non le parole calcola
o il gesto
ma l’onda dello sguardo
che in fondo giunge
e ritorna come una marea.
Eppure una parola esiste
che è lontana musica dei sensi
che forse attraversa la tristezza
prima di cogliere la mente
che s’era per un attimo assentata.

A quella torna coi suoi conti sbagliati
l’eccezione della regola esatta
che non prevede la ragione.



“Orbene, che cosa è che rappresenta per l’uomo il supremo valore? La ragione: tutto il resto egli ha in comune con gli animali e con le piante”.
(libro IX, lett. II)




L’opportunità del piangere
o piuttosto l’impossibilità.
Così fermo e bianco è il lago
che si accoglie nel fondo
– troppo oltre la bocca del vaso
che vi attinge –
Quella non è che negata dolcezza
del diritto al pianto
sapere persuaso il cuore
al buio fitto del nascondimento.
Passa nello sguardo ogni cosa
e si fa nulla
come il tutto che sai non ti appartiene.

Allora intero nel lago tu vuoi precipitare
a quel pianto aderire con totale slancio.




“Noi cerchiamo colle lagrime di dar prova delle nostre pene, cerchiamo non il dolore ma di mettere in mostra il dolore”. (libro VII, lett. I)





È quasi giorno.
La luce nomina le cose
e serra l’altrove
che in alto pone felicità e sapienza.
O forse erano nel buio
e lungamente in quello
esercitai la mia pazienza.
Altri mi lasciarono il passo
che via – e non raggiungimento –
mostrarono nel tempo.
Mi guardo il viso
da ben altre ombre attraversato
e segni del nulla o poco
che mani affaticate edificarono negli anni.
Non so di quale umanità
è parte questa vita
che sempre l’avverso sentiero ha perseguito
e pure con valore perso ogni contesa.




“È cosa grata avere qualche contrarietà da vincere, ed esercitare così la pazienza”.
(libro VII, lett. II)




Non credevo di tanto attraversare
virtù perseguire che forza crescesse
in volontà e tenacia.
Forse il caso o Fortuna che dici
questa corsa a ostacoli allestiva
perché giungessi quasi sul traguardo
a cadere sul filo del sorpasso.
Ora guardo il sasso
che mèta e valore è divenuto
e non comprendo ragione dello sforzo.





“Non per caso giungi alla virtù. E non senza grande sforzo si riesce a comprendere il valore e la finalità”.
(libro IX, lett. II)





È necessario l’andare.
E dove?
In quale strana maniera
senza luce nell’incerto
e la fatica del passo che non vuole.
Come arrivare a comprendere
che non è previsto pentimento
e avanzare nel tempo
è conto irreversibile e pagato?
Così ogni vita splende e si arrende
sotto l’occhio del sole
senza capire fino in fondo
che vivere è un morire anestetico
e l’ora appartiene al tempo.





“Compagni, è necessario andare in un luogo dal quale non è necessario ritornare” (discorso tenuto da un generale romano, nel mandare i soldati ad occupare una posizione alla quale dovevano giungere attraversando un grande esercito nemico).
(libro X, lett. II)

*

Diari inediti 2014

DIARI INEDITI 2014






Con il tuo nome dimenticato
al mio gemello imposto
alla sordità che si raddoppia
nel chiamare a vuoto
ora mi rivolgo
per quanto dura il tempo
che ti cerca dove non fosti
tra gente che non conobbi.
Mi aiuta foglio a foglio
a misurare l'eternità
un profondo calendario.
Per quanto straniero e pietrificato
dice ogni nome
ma non il tuo nel mio sigillato.
Il nostro “Fortunato” e “Benedetto”
amore
a cui s'intreccia una terrosa sorte. 18/02/14



Ogni virgola, ogni respiro, nulla di ciò che ho scritto mi è restato dentro -
Mi ha solo attraversato per divenire sangue e spargersi nel rigo in forma di segno.

*

Quando divenni parola vidi radice e volo incarnarsi nel più semplice suono.
E fumo, sole, nuvola prendere possesso del cielo e avanzare sulle vocali angeliche
finché l'equivoco del vero restituì il colore in grado di splendere nel buio.

*

I vuoti parlano coi loro due occhi scavati nell'insipienza.










I simulacri hanno casa
al cospetto della nostra casa.
Hanno occhi a forma di rosoni
arco-baleneggianti.
Ci guardano / li guardiamo
giorno e notte.
La veglia degli spiriti bisbiglianti
benedice i fiori che mordono
prima di morire
la mano che li accudisce. Luglio 14



Edeltraud mi disse in tedesco
un troppo calmo addio
e il nome – il suo diritto al nome -
cancellò per sempre dal suo corpo.
Il nome dimenticato
che non volle essere ricordato.
Il disperso nome con le cifre urlanti
sommessa cenere ricoprì la goccia.
Passò il guardiano.
Sopra l'urna vuota
vide i fiori in volo
dietro il nome in fuga.



Il giardino che non vedemmo
ci castigò tra i banchi di una scuola.
Tutta la sera
mi corteggiò un bambino
dalla voce cangiante.
Ho paura – disse – tienimi le mani.
Prese le mie e se le strinse al viso.
Dimmi che un ballo almeno
faremo un giorno insieme.
Il vino saliva nei bicchieri
la ragazza nell'angolo
che mi guardò il bracciale
ne versava con piangevole riso.
Il bambino tirato via dal padre
ripetutamente
lo sguardo volto all'indietro
Prometti – implorava – prometti. Luglio 14






Non dire musica / non lo è
la mano uncinata che spaventa
gli uccelli barcollanti.
Non è carezza
non è parola confortevole
non è mattino l'inizio ad anello
che riporta il cuore alla sua notte.
Le ore in cammino
passeranno al setaccio
i dolori dei dolenti inverni
i peccati dei giorni innocenti
e diranno / lamentevoli e false
che abbiamo meritato febbre e falce. 12/9/14




Con mutezza e calce avrai sigillato
la pietra della collera.
Alla notte / non serviranno candele
intorno ai segreti
andrà il silenzio a vuoto.
Vi saranno piantagioni di figli
dallo sguardo umido di pace.
Quando l'estate soffia
il buio gufante popolato di reliquie
prenderà alloggio nella cera.
Bianca sorgerà la luce dei sepolti
nella scorza della follia
nell'ora della nostra sorte
dei barbagianni / delle civette
e di altro che sia. 13/9/14




In apparenza / sono stato in vita.
In realtà ho solo amministrato
la mia nemica immagine.
In apparenza / ho avuto occhi
per decifrare tutte le assurde
indicazioni dei vivi.
In realtà / non vidi che esistenze
vegetali e sepolti parlanti
nelle parole che accolsi
in tutte le mie anime assetate. 14/9/14

*

La parola prosciugata

La parola prosciugata

Purché sia la gioia: la profondità della gioia.
Deve farsi spillo, essere trafittura. Sottile ed essenziale.
Tale la parola prosciugata fino al suono.
E ancora prosciugata, fino all’assenza del suono.
Perché meditativo e intimo è il luogo che origina la folgore.
Brace

che ancora non conosci cenere
vita origliata / deformata argilla
riconosciuta / trascorsa
non dimenticata.
Fedele al rosso
che torni / che non parli
che mi frastorni col tuo silenzio
Irripetibile la miracolosità del battito
– eppure possibile –

Una parola
– la sola che ti trapassa –
Troppo in alto per...
Sono io
ancora.
Dimentica
splendi
ignora.

Tu ghiaccio / tu ala
torre ascesa
con tutte le sue alate pietre.
Troppo rovente il fiato
troppo tenero il giglio!
Oh, mai del tutto fuggita,
nel nome dei lasciati
– a mia insaputa –
ti invoco fino alla supplica.

Orgoglioso silenzio
e maledetto inoltre
che graffia dagli occhi la gioia.
L’abbandonato
scrive parole di vetro.
Già si feriscono i fiori
che sognavano di nascere
e sono germogli impiccati
al gioco dell’inverno

Questi versi per te sono un inno sconvolto.
Io devo sostare nella mia ferita.
Altrove esulta la notizia della tua fortuna.
Musa oscurata
io non sono una che annuncia primizie
a chi è profeta del dire.

Arma che fu la sua luce
nebbia ormai
che più non ferisce
e tuttavia patisce
una morte più viva
intermittente
mai definitiva.

Io ti chiamo
benché non ne abbia diritto
a motivo del vuoto
e della illusoria libertà
perché le benedizioni
del Dio degli eserciti
hanno devastato il perimetro
dei confini
delle mura
delle mie certezze.

Alba / dove la luce imbianca.
A questa si fonde
la luce degli occhi.
L’anima vi riconosce il tempo
quello bloccato / il prigioniero
coi suoi nodi di catene alle caviglie.
Niente vive – niente fugge.
È pulviscolo: trapassa
le maglie della rete.
Tutto l’umano dolore non ha senso.
È polvere / solo polvere
sospesa nella luce.

Volgiti.
La notte è smisurata
ma cresce la falce della luna.
Taci delle nefandezze
– saranno lavate –
Mi danno del voi.
Perché lo permettete? – dicono –
A me che sono fraterna
delle meraviglie regali
che ignoro la palude
e l’alito di morte
dei lazzari non risuscitati.
Non tracciare cammini
che io non farò.
L’infanzia non cessa d’essere
dimora e tomba.
Le parole tornano ai righi
i suoni al silenzio.
Non chiamarmi più.
Mi si è troppo avvinghiata
addosso la vita.

Non tornano che i fuggiti.
Non si arresta che l’andare
in obbedienza al movimento.
Partire è già incontro.
Ma dove il richiamo?
dove la fonte dell’eco?
Volgersi alla nascita
– ricongiungere il cerchio –
Attuare l’unica perfezione
concessa alla vita.

Non c’è definizione per la forma
né immobilità.
L’ombra si allontana dal suo chiodo
la sua nudità è una viola dalle note sinuose.
Già dispensatrice di carezze
e per sempre disposta all’incontro
accorda l’anima al ritmo della continuità
– certa del germe che da sempre
in qualche luogo vigila il respiro –
Se tace
è un lago felice del suo abisso.

Appartengo alla mia mutilazione
come l’esilio al luogo della nascita.
Esploro il lutto e la ragione
dimentico di nascere.
Conosco l’imposizione
– che è la legge della tua mancanza –
il disuso della lingua
di cui sei custode e carceriera.
Ma esiste una cerniera dalle labbra fredde.
Lì si origina il tutto
come nel dormire il sogno.

*

La finzione della gioia

La finzione della gioia


Prologo

Claudicante, sola, ubriaca, folle. Ferita, ignorata, esposta alla caduta è colei che dall’ombra è irrimediabilmente scissa.
Non temere le folgori – mi dice – hanno i bagliori del vero.
Luminose ferite apre la gioia nell’abisso.
Così puoi vedere per un attimo nel fondo splendere la perla.
Cantala piano, scagliala a distanza.
Nel buio dell’indifferenza, prima o poi splenderà.


Annuncio

Sarebbe tornata la gioia.
Con archi e corni le soglie ne furono informate
e per sempre fu chiara la lingua dell’abisso.
Conosceva la dimora delle parole
ne pronunciava il senso.
Sprigionava nei labirinti cornucopie di luce
perché si riconoscessero e insieme danzassero
tutte le armonie.
Celebrava sponsali, scioglieva legami uncinati
e con braccia tonanti benediceva nati e nascenti.
Le righe fluivano come immagini
dietro il buio dei ciechi.
Ogni grido riconobbe la sua bocca.
Le labbra a forma di bacio intonarono inni di festa.


Modulazione

Io ti riconosco mia promessa
attraversare l’estate con il canto in gola
e di vocali piumate prolungare il giorno.
Il nume che ha messo la sapienza
al sommo dei luoghi elevati
ti segnò la fronte.


Volo

Con rumore d’acqua spiegò alte le ali.
Ebbe l’azzurro rami di cristallo
bocca sonora la fonte dell’abisso
e alveo la pietra.
In concentrici anelli raccolse i giri della morte.
Finché li stringe in pugno
non v’è chiave che disserri le sue porte.







































*

Poema dell’altrove

Poema dell’altrove



Prologo

Fummo nella dimenticanza di noi stessi eterni.
Una lontananza incalcolabile definì la percezione dello spazio.
L’inganno futuro non parve più inaccessibile.
La Ragione e la Musa scelsero templi dalle soglie ardenti.
Ne delimitarono lo spazio oracolare.
Avvenne il trionfo, nonostante i divieti.
Nel cerchio purissimo, nel punto glorioso, l’Io e l’Eternità
dialogarono a lungo.





Scena della vestizione
(con voce fuori campo)


Eleusi mi addestrò alla morte.

Non fu necessario giungere, piuttosto liberarsi e semplicemente essere.

Mi concesse la dea una vestale esperta di misteri.

Dimenticare. E vedere, udire unicamente il tutto.

È come sfilarsi una collana – disse –
E mi tolse anelli bracciali e corpetto.

Non più indefinita e inquieta la suprema dimora.

Ma la veste invasata di vita, sulla pelle tessuta e cucita non fu dato strapparla.

La libertà, in tutta la sua ampiezza, violava l’involucro della carne.

Incollerita mi cacciò dall’Ade.
E me ne andai come da una festa, sfilandomi adagio la collana.

La stillante tenerezza vide la sua pietà inondare il corpo delle cose.





Scena del commiato

Euclès, prenditi cura di me.
Dal ricordo della vita difendimi e dalla trenodia dei lamenti.
Il ruvido signore ha ghermito la mia veste azzurra.
Presto, prima che si spezzi il volo.
Più presto, che non sorga il giorno dopo la paziente luna.
Prima che sia l’ultima questa – rosa dalle cento foglie – al tuo pallore affine. PPP

*

ELEMENTI (ovvero le stagioni della vita)


ELEMENTI
(ovvero le stagioni della vita)



Infanzia – Inverno - ACQUA


Fui del segno dell’acqua
e ne conobbi il fondo.
Fui pietra e sale
mi annegò e mi pianse il mare.
Il nostro mare d’erba alta
che al passo vandalo adagiava
letti di fiori inaspriti dalle grida.

Poi fu spenta la vita.
Non c’è nave che porti
-mi dicevo- dove il quieto
tuo esistere mi chiama
né mare appagato del suo moto
che specchi immune
la tua ronda notturna di colori.

Così mi strangolò la sciarpa
del Liri e scordò il riso
delle sue sorgenti.
La neve entrava dai vetri rotti
e il gelo mi marchiò le mani.

Hanno ascoltato le tue mani:
chi più diritto ha avuto di me?
Cosa mi hanno detto le sue mani
che io non ho capito?

E’ scritto nel fondo, ma tu parli
oscuro, mio elemento inquieto:
non ti corrisponde la chiarezza.
“Acqua penetra nelle mie grotte buie.
Rotola, schianta, fammi levigata
e pura più di una segreta perla.”
Perché l'amore ha con il gelo inciso
il delicato frutto della vita.











Adolescenza – Primavera – ARIA



Poi venne la stagione tellurica.
L'infanzia sulle gambe svettanti restava a guardare
e le bocche si nutrivano di vento.
L'aria sonora/ lo stesso canto da sempre
gonfiava le nostre piume. La smania
il rito del corteggiamento
a mezz'aria le ruote dei pavoni.

Il vento fatto di nulla spogliava le mimose
spargeva uccelli/ seminava/ sfrondava
poi tornava/ quieto/ come da una corsa il cane/
sguinzagliato.

Perdemmo la memoria/ la cognizione
del futuro/ e dell'essere sacri a gli dei.
L'attimo nitriva impennato.
Sotto gli zoccoli levati/ incoscienti
e felici conoscemmo l'eternità.
Il canto nelle gole spalancate/ nell'ora
dell'ombra a picco/ correva al richiamo
cieco e diritto dell'adescamento.

Dalle case anguste/ appena appena
si vedeva il cielo/
i voli tagliavano le ciglia/ quando il fiuto
del verde al grano spigato ci condusse
muti e bendati.

Scoprimmo i mesi dai nomi favolosi
e ci perdemmo infine
“nel tempo in cui la rosa
descrive ai sensi/ la sua carne odorosa”











Giovinezza – Estate - FUOCO




L’estate duttile nel piombo dell’asfalto
fondeva sigilli di zoccoli legnosi
quando la donna che rapì al bersaglio il centro
partorì la luce che galoppa.

Con mani affascinate la portò nel vento
le diede zampe e scatto di puledra
perché vincesse nella corsa il tempo
e i capelli dell’acqua avesse come briglie.

Poi da sotto le infantili pietre
traesse il suono di conchiglia
che aveva un tempo per gioco sepolto
e dalla città che più non esiste fuggisse
con artigli di canto appesi alla criniera.

Lontano fuggisse - lei - la sconosciuta
la straniera dell’Orsa - già tesoro di molte albe –



























Maturità – Autunno – TERRA



E' grembo/ e madre/ e donna
sa che spesso si fugge – complici gli incontri -
ma sempre / e soli / a lei si torna.

Così ci si apparta dalla vita / col dirsi a mente
che tutto finisce/ e quel che è stato
per lo più non conta.
Così le mani scordano gli abbracci
gli occhi la carezza dei volti
e già l'addio/ dallo sguardo lungo
ci lascia sull'orlo del forse e del mai.

Il giorno oggi è di poco più breve
ma nel sangue è il tempo di ieri
e dall'anima la luce
in silenzio si separa.

Conosco i segreti della terra
la vita che perisce/ le sue resurrezioni
i tradimenti/ le promesse/ le separazioni.
Ciò che passa
passa sul corpo con ruote di carro
e tu / alba / sorgi già orfana del mio respiro.

Ma “ il brindisi è rosso/ e il tramonto
dai rubini a goccia
pende dai lobi delle finestre a fiori”


*

Astuzia delle fonti

ASTUZIA DELLE FONTI

E se fosse quel frammento di vero la saetta che incide le sorgenti?
*
Promessa che mai più sognerai stretti sogni e buie soglie, perse le catene della luce, a precipizio nei
mentali pozzi.
*
Tradito il gesto, spezzato il fuoco del ritorno, quella soltanto, parola l’ogni tenerezza, resta fuori dal
dubbio la sola evidente certezza.
*
Sarà ancora puro il giorno, purché ignaro della falce. Papavero assetato nel rogo delle spighe, viva
ferita, bacio mai più prodigo di colpe. Mai più segreto.
*
Non ho mai incontrato il tuo pensiero. Non aveva, quando mi sovvenne, lasciato impronte. Chi ha
moltiplicato il delitto della distanza?
*
Da questa brama al respiro del progetto. Folle! L’impotenza non calcolasti. L’onnipotenza non cessa
di assalire la nostra fragilità.
*
Non sopporta libertà, chi di libertà non ha più sete. Estingui il sogno. Non è generoso consolare la
spina. E morse sul dito la perla di sangue che sapeva di rubino.
*
Verrà, mano sul fianco, con sublime altezza ripiegata nello sguardo. Crederai trascorsa la sponda
della notte, distante l’edera tenace, Ma dove il fuoco che arresterà la tenebra?
*
Il corso del pianto è celato nelle mani, quello delle parole dalle mani sgorga e tradisce il tuo segreto.
Anima, che hai di spine il letto.
*
Crollerà nelle ali il vento. Il volo non più essenziale sarà ridicolo e disperato. Persisterà un dolore
così smarrito che dovremo indicargli dove andare.
*
Apprende a volare alla scuola del vento, ma dubita che mai presso i Troni poserà stanche le ali.
*
Ho cercato di Lei e creduto su labbra scarlatte di scorgerne il riso. La dove di lei si ragionava erano
vesti discinte e mani prodighe di anelli. Oh, meschina la coppa che al suo nome non brinda!
*
In questo sogno di aver dimora concedimi: Al modo delle gazze avere alto il nido e alle trecce del
vento aggrovigliate. Ora, prima che mi tradisca il tempo. Prima che mi detesti la bellezza triste di
ciò che poteva e non è stato. La peonia splende nel mio cranio. rallegra alla morte il suo trofeo.
*
La veglia si adegua al suo diamante. Splende e va in frantumi. Perfetto e costante è il battito che si
desta nell’improbabile luce.
*
Non v’è attesa per chi solo l’andare conosce e il disgiungere. Cos’è la carezza seguita dal rifiuto?
Un buco nel petto dove passano come in un ago i fili che non faranno mai un legame tessuto in
mille nodi.
*
La memoria non si volge indietro. Morde il futuro e vi si aggrappa. E’ un morto che da solo non se
ne vuole andare.
*
Chi paga i vostri concerti? Forse la fame pigolante che vi sgrida le piume. Chi al poeta i suoi deliri?
La febbre, l’impervia tenerezza che preserva dall’infamia. Sillabe aperte, avventurose concertano la
partitura delle cose.
*
A quale luce ho aperto gli occhi stamani? Chi mi difenderà dalla morte altrui? Sul perno della resa
ruota con fermezza la mia desolazione. L’inseguita bellezza, la sua categoria. Intollerabile l’eccesso,
ferito il paradosso.
*
Le promesse hanno nomi ingiustamente lunghi. Scritti nel più disabitato silenzio.
*
Inclemente è la veglia: Rapida volge la dinamica del sogno. Ossessiva ma non ribelle scava nel
fango degli anni. L’acqua che lambiva la gola allenta al respiro la morsa.
*
Il silenzio è una melagrana acerba dove le parole sperano di crescere. O forse è un grido che ha
perso l’acuto e si esprime per assenza. E’ un frutto di scarlatto dolore.
*
Gli anelli spergiuri pagano le cicatrici del profondo. Emergenza è vivere per gli uomini che hanno
scritto e affisso con uncini da beccaio frasi elementari che sanguinano.

*

Il rito delle fughe

IL RITO DELLE FUGHE

Poi dalla congiura degli opposti
guarì il poeta.
Vide - senza fremito -
avanzare nello specchio del tempo
il passo ancora lieve.
Ma l’occhio tradiva il languore.
Con dignità
- malgrado le ferite -
fissava l’istante da attraversare.
Prive di senso le ragioni
ma realizzò la morte nel supplizio
del respiro
che più non sapeva d’infinito.



Non trasalire - mia estranea -
Non diversa è la spina del canto.
Ciò che pensi da tempo in me si versa.
Strali sono le parole
ed hanno la mia inermità
ferito a morte.


Irreprensibile è la consuetudine
- ecco il giorno mi divora -
Non ancora è tempo: dormono le viole
con le piccole bocche ancora chiuse.
Non stringere troppo le ciglia
lascia un piccolo varco
se l’anima volesse un poco uscire.
Perché “Io me ne vado
come l’ombra quando s’allunga”.



Ospiti mai stanchi delle insonni attese
- prodighi di segreti tradimenti -
non mi portaste fra le braccia
oltre le soglie dei conviti.
Non diceste parole
che avrei gradito udire
né tratteneste a lungo la mano nel saluto.
Con tale indifferenza mi lasciaste andare.
Eppure vi aspetto
- non vi stupite -
Ancora.




Dove vuoi che vada?
Prima che ti dica “andiamo”
mi chiedi dove andrò.
Sulle torri regali attenderò la Musa.
Avrò monili e vesti
di nobile fattura.
A lei la mano già nel vuoto
pendula e amica.
A lei sola perdono le fughe immemori.
Unica - lei - erede del ritorno.



Se non fossi del tempo la ritrosa gemma
potrei nelle tue ubiquità
stabilire tragitti
moltiplicare mutamenti
che tanto inquietano il rito delle fughe.
Ma cosa insegui?
La tua smodata febbre vede più grande
il rischio d’assoluto.



Quale destinazione aveva il tuo sorriso
caduto in questo presagio di spavento.
Ho pregato
- non so se abbastanza -
perché potesse l’Eternità degnarsi
di volgere a me la sua pudica luce.
Tre volte ogni sera
ho contato le perle dei misteri.



Io non saprò per quali vie
mi giungerà la vostra voce
ma so dove l’aspetto.
Ogni impaurito palpito ne annuncia l’evento.



E venne
mentre i gigli dalle schiuse braccia
guardavano la pioggia risalire agli occhi.
Parole - mi disse - inadatte e scialbe.
Io sognavo follemente
che al vedermi sorgessero dai rovi
repentine rose.



Quale dispetto hai creduto di farmi?
Io di te mi rallegro.
Non guardarmi attraverso il tuo precario slancio.
Non è marginale la conquista.



Da quale parte stai?
Dovrei guardare dov’è sorta questa luna smisurata.
Ma non è questo che intendi.
Non il luogo
né la temporalità
danno il senso alla sfida.
Dunque l’altitudine sovrasta il volo
ed è indefinibile la vertigine.
Sto dov’è lecito chiedersi che sia
il viola mortifero
di un viso dopo il pianto.

*

Dimora del ballo superstite


DIMORA DEL BALLO SUPERSTITE


Noi eravamo le unghie
tenerissime.
Bocche di passero
per chiamarti.
Indefinite salivano armonie
alle festive mani.
Al nostro trasalire
volgevi altrove
i perigliosi occhi.
Quando non ti cercammo più
attraversavi il buio
- quanti anni di buio -
per allarmarci il sonno.


Inchiodavo legni.
Lente rotazioni scandiva il tempo.
Cresceva nelle corte vesti
il magro significato di un fiore triste.
In molti rivi spandeva il suo vino
la promessa.
Procedeva sulle impaurite vie
di un mai svelato disegno.
Nella bottega allentavo morse
sui gemelli legni.
Stringevo nei pugni trucioli odorosi
chiamati ciascuno per nome.


Come se non fosse
entro una pellicola trascorso
il teatro degli anni.
Nel sangue penetrato il morire
di un ballo superstite e stanco.
Il luogo felice tradito dal tempo
noi dall’attesa.


Mi chiamò - ma bassa aveva la voce -
come dettata da un malore.
Brevi scale e avanti a me una bimba
dal corpo di cera.
La stringevo - era leggera e fredda -
Sentivo spezzarsi le ali di carta
o ghiaccio o vetro.
Come un amore postumo
e maligno vedevo cappelli
e fiori deridere il saluto.


La mia Amica funesta
mi chiamò dall’ombra.
Brune aveva le vesti
e in capo un velo.
Per non vederla
chiusi il timore dietro le ciglia.
Ma poi in mente mi tornava il canto
che ogni passo con lei segnò il cammino.
- Lasciami un poco seguitare il volo -
E mi sorrise - o parve - nell’indulgenza
simile a una madre che lascia
il figlio un po’ più tempo al gioco.


Escogita una forza che cede.
Versa nell’invisibile il suo segreto.
Così spera di crescere la diletta,
figura minuta, che ancora durante il passo
di calpestare le stelle si rifiuta.
A saltelli procede, la dolente,
sui tasti del tempo a piedi nudi.
La musica che nasce è una ferita
che l’anima nutre. E castiga.

*

Dimora delle banderuole


DIMORA DELLE BANDERUOLE


Notte
i tuoi diamanti
incrinano il vetro degli occhi.
Così frante e aguzze vedo le luci
che mi sento parte dell’ombra
inaudita e grigia
dove iniziano a vivere i poeti.
Come in certe notti d’affanno
- perso il senso del tempo -
una che non sa chi è
e dove va
con le sue carte inutili e gelose.


Non indosserete il mio sorriso.
Nei vostri cappelli
in un’eterna vacanza svagano i pensieri.
Intorno al mio smarrito esilio
ruotate altere le fulgide raggiere.
Torna al suo fuoco la notte
un diadema di braci mi si appronta.
Destinato al canto.
Prima di me sepolto.


Saremo fraterni.
Anche nel delitto.
Torbidi nell’adorazione
generosi nel sospetto.
Ci difenderemo dall’amore
lo precederemo nella corsa.
Saremo inaccessibili.
Contro il divorante amore
furenti e ilari.


Il cielo non è un luogo dove alto risiede
il puro concetto d’infinito.


E’ una lingua alleggerita dal senso
- corriva e proterva -
Una cintura di suoni
adorna la sua vocalità.
Promette naufragi di grazie
poi cala sugli occhi
la sciabola del suo ventaglio
e nell’andare
le spalle ti volta.


Senza di me i tuoi fiori
non sono forse morti?
A chi porti le rose?
Quali soglie ancora trovi accoglienti?
Le mie per te sono lame taglienti
che io passo la vita ad affilare.


Lasciala andare
- è mutevole e avversa -
Cerchi di tenerezza risparmiale.
Che nobile prigionia potrebbe mai
più dolce fare il suo canto?


Hanno portato via la gioia
radiosa e beata si è lasciata condurre.
Altrove poserà lo sguardo consolatore.
Qui ha lasciato l’ombra.
Il sasso e la disarmonia
chiuderanno il varco.


Sarai per dormire. Dormi.
L’azzurro sarà intenso o pallido
- senza che tu lo voglia -
La soglia sfiorerà la gioia
o la corte del pianto.
E tutto
- senza che tu lo voglia -
La parola sarà cedevole
non amica.
Impietrirà e tu la lascerai impietrire.
Ti sanguinerà la bocca
- tanto ti costerà parlare -
Proclamerà se stessa
- senza che tu lo voglia -
Inutilmente ne sarai sconvolto.

*

Dimora delle spade

DIMORA DELLE SPADE
1
Non dormire.
E’ il giorno che passa.
Una volta
per l’ultima volta.
Ascoltalo.
Arrestalo.
Guardalo negli occhi.
Riconoscilo. E’ il tuo tempo.
Non lasciarlo andare senza una parola.
Io sono colei che ama tutte le tue fibre
che le ascolta cantare come un pianoforte.
Ecco
la faretra in spalla
esco per incontrarti.
Non passare senza sfiorarmi.
Sono colei che se l’ignori
sguaina lo strale.
2
Le parole sono calamite
che tolgono agli occhi la ragione del divergere.
Di notte le inseguo.
Sosto
Cammino.
Se le perdo rincorro a perdifiato
stampelle tristi e ubriachi destrieri.
Sotto le torri commuovo guardiani
che non mi aprono.
Poi divento piccola .
Mi commisero
mi abbraccio.
Mi soccorrono i morti che non si rassegnano.
Poi mi lascio in quel buio e torno indietro.
La distanza è una palpebra
che mi scaglia nel sole delle forme.
3
Cosa ti scrissi un giorno
che non ricordo.
Le parole aprivano varchi in attesa
sentieri di vita sospesa.
Annunciò tre volte il gallo
l’alba dalle banderuole.
E vennero dai pioli sconnessi dell’io
i camminanti
tre volte battendo sull’uscio.
L’amore ha il cuore duro
spranga
sferza.
A volte sul tamburo del sangue
richiama la dispersa mente.
L’amore spacca l’interezza.
Dura
persino la tenerezza.
4
Hai fatto il nido nelle mie ferite
nel mio diurno spazio.
Tuttavia
per la neve benedicente delle margherite
ti ringrazio.
Per il breve dialogo
che l’insidia e la fiducia hanno in me intrapreso.
Quale invidia
così a lungo ti aveva allontanato.
Quale peso ebbe per te il saluto
che l’amica soleva
prima di andare
stretta la vita con un braccio
la bocca accostare all’orecchio
Non sperare
- dicendo -
che a lungo ti lascio.
5
Hai messo al mio grido
un recinto di spinose corde.
Cosa vuole da me
la tua dannata morte.
Che io canti la sua allegria
senza lacci ai piedi
portandomi al braccio
la sua cappa bruna.
Che sia
una
la nodosa vita
che la danzi sulle spade
regalmente in bilico.
Che non mostri il gran peso
che mi porto dietro
che trovi molle la pietra.
Per udirmi cantare
hai voluto il mio grido segregare
e un silenzio allestire
grave come la fine.
6
Metti una musica.
Rachmaninov se vuoi.
Tutto è così immobile
eccetto la memoria
che tormenta le cose.
Chi ha detto che amano il silenzio.
La scacchiera di Praga ha nostalgia delle torri
- una tromba ne struggeva la vertigine
agli occhi elevati dei passanti -
Era di coralli e ambra l’Odigitria Signora coronata
- il volto bruno segnato dalle spade -
la sera che il sole di Polonia scendeva sul ritorno
durato il tempo di un rimorso.
7

*

Dimora delle altezze

DIMORA DELLE ALTEZZE






Sospesi avanti al suo respiro
intenerite sfide.
- Portami oltre.
Sarò il canto che annuncia
alte sfolgoranti porte -
Ma egli avanzò
scostandomi col braccio.
Da quel giorno
il lembo gualcito
del mio spazioso sogno
premo sulla bocca
e ricaccio il pianto.



Quando non ti vedo
dormo nell’acqua.
- Il mondo passa
e il sole
sopra di me -
Sogno il tempo in cui ero
e non sapevo d’essere
l’adempimento di un disegno.
Ora che so
considero i doni
e li annovero nei segni.
La lingua dei padri mi genera
e mi uccide.
L’ascolto.
Vi innesto la mia e attendo il frutto.
I doni sono calici
colmi dell’acqua in cui dormo
quando non ti vedo.




Il nulla è.
Ma tu puoi colmarlo
e l’incompiuto si fa spinoso dono.
Orli di braci le tue labbra
e mani rapaci del mio domani.
E tuttavia sul ponte
- troppo avanti
per tornare indietro -
alta la fronte
dalla parola in cui ho creduto
spero di essere accolto.








Non mi cingere il fianco.
Non vi è lo spirito avvezzo.
All’abbraccio solare
- quasi sonoro il pulsare delle vene -
alle tue stanze ariose
ho destinato il mio rifiuto.






Mi ricorderò della vita.
Sarà di un vuoto irreparabile
e fredda
l’eternità.
Inesorabile mi assalirà l’infanzia.
I fiori che non avrò colto
non mi riconosceranno.
Mi avvolgeranno le speziate foglie
Di un’età che non fu verde.
Mai.

*

Dimora della folle insonnia

DIMORA DELLA FOLLE INSONNIA
I.
Non ti chiedo di amarmi
- estatico e mite il filo di parole
inattuabili che alimentano
il segreto fiume del sogno –
Rapisci le caste ore delle selve
- cappe dissolute coprono i fiori -
Versa nelle pupille l’indaco
e il verde di intatte collane.
II.
Si aggira estatico nel bosco delle case.
Non vede, non comprende,
solo aspira un appena percettibile odore
- il nespolo fiorisce nella imminente neve -
Lui ne beve il polline ferito.
Gemono le note
le braccia ascoltano le forme amate.
Il furto dello stupore
lo rende folle e intemerato.
III.
Amasti più di lei la Musa.
Fosti l’amante del rifiuto
la sentinella
delle sue palpebre chiuse.
Le tue lenti non la riconobbero.
Chi ha rubato il senso dei discorsi
e profanato le sue profondità?
Chi ha percosso le margherite?
Quali labbra frequentasti
che dissetano l’oblio?
Almeno la uccidesti con gentilezza?
Può dirlo l’occhio arroventato
che frequenta le altezze
della folle insonnia.
IV.
Non parlare. Scrivi.
Piccoli segni lascia divenire
ciò che non ha voce.
Con occhi tardivi leggi l’universo.
La storta quercia
che si abbraccia le radici
le puntiformi tra le secche foglie.
Voglio in questo letto dormire
essere cosa tra le tante
inanimate e spente.
Sentire inquieto il vento
ed esprimere il sonno
un suo discorso lieto.
V.
Sedeva dirimpetto al sasso
- ne scrutava la prigione – Un passo
persino udiva, fuor di ragione.
Avanzare e ritrarsi fino a sparire.
Gridare: C’è qualcuno?
Può darsi.
VI.
Che ampia casa è la follia!
Non l’anima. Sanguina il laccio
dei calzari. Il guanto a rete
le sue lacerazioni considera
con assoluta mestizia.
Ma il laccio spezzare non può
la perfezione.
Il verso ammalato ha preso appunti.
Non frequenterà le tue finestre
Musa delle altezze e dei fatali inganni.

*

trilogia del nome


TRILOGIA DEL NOME
“Il nome inseparabile volle ancora molte albe.
Molte sugli occhi spargere corolle allucinate”
I

Le afflizioni sono fiori
che il cielo ha privato dell’acqua.
Conosce il mio nome - mi dico -
Mi chiamerà nella tristezza.
Si ricorderà
che corrisponde al tempo del pianto
la durata della gioia
perché l’antico e l’ignoto inesorabilmente coincidono.
Calma è l’attesa
eppure arde con ferocia una passione insonne
assecondata fino al tradimento.
Se mi addormento mi nascono ali
- il nero mare sorvolo
e il dorso muschioso della terra –
Abbandono la povertà delle parole
la tensione della conoscenza
la sua distanza dimentico.
Nel polso batte la febbre profonda della verità purificata.

Purché il silenzio. E la solitudine.
E le ceneri di tutte le tragedie.



II

Sii Mary - ma prima l’assenza di Mary –
arte del nome che non ti appartenne.
Così profondamente altro
così lontana ragione di essere.
Potente Assenza
medicina e ricchezza di chi senza nome
vaga nella caligine dei nomi.
Mary, assoluzione di tutte le colpe,
riapparsa nel diaframma-innocenza
oltre la polvere – dopo la caduta.
Acqua rifatta limpida - vita incredibile –
Scampata a tutti gli uncini del roveto.
Mary orfana e cane da riporto
- lacrima indiscussa – scalpello che misura la durezza.
Ignorando che solo un nome non fossi
ti ho portata con me nell’obbedienza.
Ma tu eri altro.
Forse il poema che non è stato scritto.

Mary, non essere sottomessa.
Non pensarmi, Mary.
Guai a te se mi pensi.




III

Il bambino /era femmina.
Strappò i capelli alla bambola di gesso
e al giglio
- come ti viene in mente di fiorire – disse.
Le mani sono delicate
e l’erba non cresce
in questo deserto
che dicono si chiami amore.
Il nido / dove si abbevera la serpe
- mia pietosa madre -
mi abbraccia con spire di veleno.
L’altra - la prima - dorme.
Non la svegliare / figlio.
Non dirle che ti uccide
e vuole che la chiami madre
Lascia in pace la terra / non scavare.

Il brindisi è rosso e la sera
dai rubini a goccia
pende dai lobi delle finestre a fiori.

*

Trilogia dell’anello




Trilogia dell’anello




I



Voce rapita - porfirogenita voce -
perno di sapienza
su cui ruota con sollecitudine antica
la spirale dei misteri.

Egiziaca voce  - porta genuflessa
sulle rampe delle segregazioni -
Voce guardami.
Ti sono amica.
Tra la mia anima e il mondo
la tua soglia.
Tra la tua soglia e il sole
il dominio dell’ombra.

Non distogliermi da te.
Non addomesticarmi.
Da sola al tuo cuore mi consegno.

Provo commozione per l’attimo
gioisco del respiro
se appena arrivo a immaginarti.






II



Non dirò della gemma
  incastonata nella grazia
né della luce che spartisce il tempo
e allude al filo del ritorno.

Non lo dirò che devo  
- anche se non voglio - 
volgere lo sguardo al principio
che spande le nostre primavere
ai tristi risvegli
nei mattini affatto misteriosi
al soffio
che separa dal ramo la foglia
o dalla vita
la voglia di guardare il sole.

Da troppo in alto
- o dal profondo -
tutto questo viene a compiersi improvviso.
 
 - Preciso il cerchio generato dal centro –
Di quel centro dirò
inciso nella leggerezza.





III




Sii anello
e stringimi nella danza.
Così ci sorprenda stretti lo sguardo di Dio.

Sii aria
e appartienimi due volte.

Oggi alla mia stagione orfana
sei mancato
come al morente l’ultimo respiro.

Sii  - solo per me -
reliquia del giardini bui
fuoco minimo di un inverno disperato.

Di più  - sii pensiero -
ché non debba mai fuori di me
 cercarti.

Ma sogno non potrai diventare.
Lì la nemica si è scavato un letto
 - a dispetto dimora nella scarsa pace -

Ti uccide in me la parassita
si prende la mia sola ragione
di vita.