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DA prove per atto unico
I luoghi dei labirinti
I labirinti sono affollatissime vie. Sono luoghi d’incontri e prigionie. I labirinti sono nodi insolubili allegorie dei più profondi affetti.
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Chi mi venne in sogno stanotte sapendo che ero sul punto di morire? Cercò di salvarmi ma le mani ricadevano e il corpo riprendeva la postura della vita nel grembo. Gemeva il gomitolo – come per nascere – gemeva. Il filo nascosto che mi avrebbe tirato via da quell’inferno non fu mai trovato.
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Mi sono assentata. Sono stata – anche per me stessa – introvabile. E non chiedermi dove sono stata. – Non lo so – Neppure adesso che cerco di capire come fa l’anima a smarrirsi. È il castigo dei labirinti il contrappasso dell’amore smisurato per la vita – il confino negli abissi –
~45~
Tutto è cominciato col dover andare nel buio. Un ammaestramento a discernere nel nulla un cammino possibile. L’Anima ha passi pesanti – porta in salvo un bambino tra le braccia – L’Anima è femmina e conosce il parto. L’Anima è piena di pesi perciò sprofonda – pur avendo ali –
~46~
Ti avrò percorso come una pianura dalla paura inseguita o appena da lei scampata. Non avrò dolore del ritorno non avrò pensiero. Il tragico è la follia che non vede il suo principio.
~47~
Destarsi nello stupore che altra vita è il sonno – più dolorosa e senza pace – Non riposa nel buio la stanchezza ma per una strana bizzarria a quella aggiunge altra fatica. Ed è come avere il doppio degli anni costringere il cuore al saliscendi di muri a picco sul mondo allenarsi a immaginare che cadere oltre può essere infine una fine migliore.
~48~
A chi hai dato ragione che non sa nulla delle nostre pene? Quale notte contiene tutte le albe promesse? Anch’esse furono recluse ed è passato il tempo di nascere. L’orrore narrato / più di chi lo vive ferisce fino all’osso. Ciò che sfinisce è lo sfioramento del dubbio che sia la barbarie a cessare prima della vita.
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Così profondamente / o più lieve come una foglia erosa la cui filigrana in trasparenza d’un gioiello costoso evoca la foggia. Come una pioggia leggera o certi veli di sposa tale e impalpabile cala la tristezza. Ed io vorrei a volte essermi madre darmi una carezza / smettere il rifiuto di un’attenzione / un gesto e persino di una bella parola sentire sul capo come un peso.
~50~
Di una gentilezza quasi colpevole del suo sembrare sentire su le antenne di chiocciola come una carezza e ridursi nel guscio ché un gesto amorevole può a volte anche spaventare – o semplicemente – deve farsi avvezzo il cuore a un altro modo di amare.
~51~
Dei gerani ridotti a scheletri piegati alcuni restano vivi e stretti alla lanterna forata che manda dal fregio luce arabescata. Una ciocca di fiori quasi schiusi un verde illuminato un’isola estiva il crudo inverno sfoggia come non avesse le altre piante ucciso e fosse gloria sua quel piccolo miraggio. Così agli umani basta uno sguardo luminoso un sorriso a fugare il sapere doloroso d’essere sospesi al caso.
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Che nessuno si ricordi / di questa porta. Una cosa / anche / vuole star sola non cigolare più non vedersi attraversata lasciare imbrunire la maniglia restituire passaggi lavare impronte con la polvere che ha bendato il respiro accecato in bocca le parole che avremmo potuto ancora dire
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Una rilettura delle lettere a Lucilio di Seneca
Da una rilettura delle Lettere a Lucilio di Seneca (da La soglia e l’incontro)
Non è la misura dell’abbraccio la traccia che lascia dentro la strana matematica del cuore che non le parole calcola o il gesto ma l’onda dello sguardo che in fondo giunge e ritorna come una marea. Eppure una parola esiste che è lontana musica dei sensi che forse attraversa la tristezza prima di cogliere la mente che s’era per un attimo assentata.
A quella torna coi suoi conti sbagliati l’eccezione della regola esatta che non prevede la ragione.
“Orbene, che cosa è che rappresenta per l’uomo il supremo valore? La ragione: tutto il resto egli ha in comune con gli animali e con le piante”. (libro IX, lett. II)
L’opportunità del piangere o piuttosto l’impossibilità. Così fermo e bianco è il lago che si accoglie nel fondo – troppo oltre la bocca del vaso che vi attinge – Quella non è che negata dolcezza del diritto al pianto sapere persuaso il cuore al buio fitto del nascondimento. Passa nello sguardo ogni cosa e si fa nulla come il tutto che sai non ti appartiene.
Allora intero nel lago tu vuoi precipitare a quel pianto aderire con totale slancio.
“Noi cerchiamo colle lagrime di dar prova delle nostre pene, cerchiamo non il dolore ma di mettere in mostra il dolore”. (libro VII, lett. I)
È quasi giorno. La luce nomina le cose e serra l’altrove che in alto pone felicità e sapienza. O forse erano nel buio e lungamente in quello esercitai la mia pazienza. Altri mi lasciarono il passo che via – e non raggiungimento – mostrarono nel tempo. Mi guardo il viso da ben altre ombre attraversato e segni del nulla o poco che mani affaticate edificarono negli anni. Non so di quale umanità è parte questa vita che sempre l’avverso sentiero ha perseguito e pure con valore perso ogni contesa.
“È cosa grata avere qualche contrarietà da vincere, ed esercitare così la pazienza”. (libro VII, lett. II)
Non credevo di tanto attraversare virtù perseguire che forza crescesse in volontà e tenacia. Forse il caso o Fortuna che dici questa corsa a ostacoli allestiva perché giungessi quasi sul traguardo a cadere sul filo del sorpasso. Ora guardo il sasso che mèta e valore è divenuto e non comprendo ragione dello sforzo.
“Non per caso giungi alla virtù. E non senza grande sforzo si riesce a comprendere il valore e la finalità”. (libro IX, lett. II)
È necessario l’andare. E dove? In quale strana maniera senza luce nell’incerto e la fatica del passo che non vuole. Come arrivare a comprendere che non è previsto pentimento e avanzare nel tempo è conto irreversibile e pagato? Così ogni vita splende e si arrende sotto l’occhio del sole senza capire fino in fondo che vivere è un morire anestetico e l’ora appartiene al tempo.
“Compagni, è necessario andare in un luogo dal quale non è necessario ritornare” (discorso tenuto da un generale romano, nel mandare i soldati ad occupare una posizione alla quale dovevano giungere attraversando un grande esercito nemico). (libro X, lett. II)
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Diari inediti 2014
DIARI INEDITI 2014
Con il tuo nome dimenticato al mio gemello imposto alla sordità che si raddoppia nel chiamare a vuoto ora mi rivolgo per quanto dura il tempo che ti cerca dove non fosti tra gente che non conobbi. Mi aiuta foglio a foglio a misurare l'eternità un profondo calendario. Per quanto straniero e pietrificato dice ogni nome ma non il tuo nel mio sigillato. Il nostro “Fortunato” e “Benedetto” amore a cui s'intreccia una terrosa sorte. 18/02/14
Ogni virgola, ogni respiro, nulla di ciò che ho scritto mi è restato dentro - Mi ha solo attraversato per divenire sangue e spargersi nel rigo in forma di segno.
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Quando divenni parola vidi radice e volo incarnarsi nel più semplice suono. E fumo, sole, nuvola prendere possesso del cielo e avanzare sulle vocali angeliche finché l'equivoco del vero restituì il colore in grado di splendere nel buio.
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I vuoti parlano coi loro due occhi scavati nell'insipienza.
I simulacri hanno casa al cospetto della nostra casa. Hanno occhi a forma di rosoni arco-baleneggianti. Ci guardano / li guardiamo giorno e notte. La veglia degli spiriti bisbiglianti benedice i fiori che mordono prima di morire la mano che li accudisce. Luglio 14
Edeltraud mi disse in tedesco un troppo calmo addio e il nome – il suo diritto al nome - cancellò per sempre dal suo corpo. Il nome dimenticato che non volle essere ricordato. Il disperso nome con le cifre urlanti sommessa cenere ricoprì la goccia. Passò il guardiano. Sopra l'urna vuota vide i fiori in volo dietro il nome in fuga.
Il giardino che non vedemmo ci castigò tra i banchi di una scuola. Tutta la sera mi corteggiò un bambino dalla voce cangiante. Ho paura – disse – tienimi le mani. Prese le mie e se le strinse al viso. Dimmi che un ballo almeno faremo un giorno insieme. Il vino saliva nei bicchieri la ragazza nell'angolo che mi guardò il bracciale ne versava con piangevole riso. Il bambino tirato via dal padre ripetutamente lo sguardo volto all'indietro Prometti – implorava – prometti. Luglio 14
Non dire musica / non lo è la mano uncinata che spaventa gli uccelli barcollanti. Non è carezza non è parola confortevole non è mattino l'inizio ad anello che riporta il cuore alla sua notte. Le ore in cammino passeranno al setaccio i dolori dei dolenti inverni i peccati dei giorni innocenti e diranno / lamentevoli e false che abbiamo meritato febbre e falce. 12/9/14
Con mutezza e calce avrai sigillato la pietra della collera. Alla notte / non serviranno candele intorno ai segreti andrà il silenzio a vuoto. Vi saranno piantagioni di figli dallo sguardo umido di pace. Quando l'estate soffia il buio gufante popolato di reliquie prenderà alloggio nella cera. Bianca sorgerà la luce dei sepolti nella scorza della follia nell'ora della nostra sorte dei barbagianni / delle civette e di altro che sia. 13/9/14
In apparenza / sono stato in vita. In realtà ho solo amministrato la mia nemica immagine. In apparenza / ho avuto occhi per decifrare tutte le assurde indicazioni dei vivi. In realtà / non vidi che esistenze vegetali e sepolti parlanti nelle parole che accolsi in tutte le mie anime assetate. 14/9/14
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La parola prosciugata
La parola prosciugata
Purché sia la gioia: la profondità della gioia. Deve farsi spillo, essere trafittura. Sottile ed essenziale. Tale la parola prosciugata fino al suono. E ancora prosciugata, fino all’assenza del suono. Perché meditativo e intimo è il luogo che origina la folgore. Brace
che ancora non conosci cenere vita origliata / deformata argilla riconosciuta / trascorsa non dimenticata. Fedele al rosso che torni / che non parli che mi frastorni col tuo silenzio Irripetibile la miracolosità del battito – eppure possibile –
Una parola – la sola che ti trapassa – Troppo in alto per... Sono io ancora. Dimentica splendi ignora.
Tu ghiaccio / tu ala torre ascesa con tutte le sue alate pietre. Troppo rovente il fiato troppo tenero il giglio! Oh, mai del tutto fuggita, nel nome dei lasciati – a mia insaputa – ti invoco fino alla supplica.
Orgoglioso silenzio e maledetto inoltre che graffia dagli occhi la gioia. L’abbandonato scrive parole di vetro. Già si feriscono i fiori che sognavano di nascere e sono germogli impiccati al gioco dell’inverno
Questi versi per te sono un inno sconvolto. Io devo sostare nella mia ferita. Altrove esulta la notizia della tua fortuna. Musa oscurata io non sono una che annuncia primizie a chi è profeta del dire.
Arma che fu la sua luce nebbia ormai che più non ferisce e tuttavia patisce una morte più viva intermittente mai definitiva.
Io ti chiamo benché non ne abbia diritto a motivo del vuoto e della illusoria libertà perché le benedizioni del Dio degli eserciti hanno devastato il perimetro dei confini delle mura delle mie certezze.
Alba / dove la luce imbianca. A questa si fonde la luce degli occhi. L’anima vi riconosce il tempo quello bloccato / il prigioniero coi suoi nodi di catene alle caviglie. Niente vive – niente fugge. È pulviscolo: trapassa le maglie della rete. Tutto l’umano dolore non ha senso. È polvere / solo polvere sospesa nella luce.
Volgiti. La notte è smisurata ma cresce la falce della luna. Taci delle nefandezze – saranno lavate – Mi danno del voi. Perché lo permettete? – dicono – A me che sono fraterna delle meraviglie regali che ignoro la palude e l’alito di morte dei lazzari non risuscitati. Non tracciare cammini che io non farò. L’infanzia non cessa d’essere dimora e tomba. Le parole tornano ai righi i suoni al silenzio. Non chiamarmi più. Mi si è troppo avvinghiata addosso la vita.
Non tornano che i fuggiti. Non si arresta che l’andare in obbedienza al movimento. Partire è già incontro. Ma dove il richiamo? dove la fonte dell’eco? Volgersi alla nascita – ricongiungere il cerchio – Attuare l’unica perfezione concessa alla vita.
Non c’è definizione per la forma né immobilità. L’ombra si allontana dal suo chiodo la sua nudità è una viola dalle note sinuose. Già dispensatrice di carezze e per sempre disposta all’incontro accorda l’anima al ritmo della continuità – certa del germe che da sempre in qualche luogo vigila il respiro – Se tace è un lago felice del suo abisso.
Appartengo alla mia mutilazione come l’esilio al luogo della nascita. Esploro il lutto e la ragione dimentico di nascere. Conosco l’imposizione – che è la legge della tua mancanza – il disuso della lingua di cui sei custode e carceriera. Ma esiste una cerniera dalle labbra fredde. Lì si origina il tutto come nel dormire il sogno.
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La finzione della gioia
La finzione della gioia
Prologo
Claudicante, sola, ubriaca, folle. Ferita, ignorata, esposta alla caduta è colei che dall’ombra è irrimediabilmente scissa. Non temere le folgori – mi dice – hanno i bagliori del vero. Luminose ferite apre la gioia nell’abisso. Così puoi vedere per un attimo nel fondo splendere la perla. Cantala piano, scagliala a distanza. Nel buio dell’indifferenza, prima o poi splenderà.
Annuncio
Sarebbe tornata la gioia. Con archi e corni le soglie ne furono informate e per sempre fu chiara la lingua dell’abisso. Conosceva la dimora delle parole ne pronunciava il senso. Sprigionava nei labirinti cornucopie di luce perché si riconoscessero e insieme danzassero tutte le armonie. Celebrava sponsali, scioglieva legami uncinati e con braccia tonanti benediceva nati e nascenti. Le righe fluivano come immagini dietro il buio dei ciechi. Ogni grido riconobbe la sua bocca. Le labbra a forma di bacio intonarono inni di festa.
Modulazione
Io ti riconosco mia promessa attraversare l’estate con il canto in gola e di vocali piumate prolungare il giorno. Il nume che ha messo la sapienza al sommo dei luoghi elevati ti segnò la fronte.
Volo
Con rumore d’acqua spiegò alte le ali. Ebbe l’azzurro rami di cristallo bocca sonora la fonte dell’abisso e alveo la pietra. In concentrici anelli raccolse i giri della morte. Finché li stringe in pugno non v’è chiave che disserri le sue porte.
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Poema dellaltrove
Poema dell’altrove
Prologo
Fummo nella dimenticanza di noi stessi eterni. Una lontananza incalcolabile definì la percezione dello spazio. L’inganno futuro non parve più inaccessibile. La Ragione e la Musa scelsero templi dalle soglie ardenti. Ne delimitarono lo spazio oracolare. Avvenne il trionfo, nonostante i divieti. Nel cerchio purissimo, nel punto glorioso, l’Io e l’Eternità dialogarono a lungo.
Scena della vestizione (con voce fuori campo)
Eleusi mi addestrò alla morte.
Non fu necessario giungere, piuttosto liberarsi e semplicemente essere.
Mi concesse la dea una vestale esperta di misteri.
Dimenticare. E vedere, udire unicamente il tutto.
È come sfilarsi una collana – disse – E mi tolse anelli bracciali e corpetto.
Non più indefinita e inquieta la suprema dimora.
Ma la veste invasata di vita, sulla pelle tessuta e cucita non fu dato strapparla.
La libertà, in tutta la sua ampiezza, violava l’involucro della carne.
Incollerita mi cacciò dall’Ade. E me ne andai come da una festa, sfilandomi adagio la collana.
La stillante tenerezza vide la sua pietà inondare il corpo delle cose.
Scena del commiato
Euclès, prenditi cura di me. Dal ricordo della vita difendimi e dalla trenodia dei lamenti. Il ruvido signore ha ghermito la mia veste azzurra. Presto, prima che si spezzi il volo. Più presto, che non sorga il giorno dopo la paziente luna. Prima che sia l’ultima questa – rosa dalle cento foglie – al tuo pallore affine. PPP
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ELEMENTI (ovvero le stagioni della vita)
ELEMENTI (ovvero le stagioni della vita)
Infanzia – Inverno - ACQUA
Fui del segno dell’acqua e ne conobbi il fondo. Fui pietra e sale mi annegò e mi pianse il mare. Il nostro mare d’erba alta che al passo vandalo adagiava letti di fiori inaspriti dalle grida.
Poi fu spenta la vita. Non c’è nave che porti -mi dicevo- dove il quieto tuo esistere mi chiama né mare appagato del suo moto che specchi immune la tua ronda notturna di colori.
Così mi strangolò la sciarpa del Liri e scordò il riso delle sue sorgenti. La neve entrava dai vetri rotti e il gelo mi marchiò le mani.
Hanno ascoltato le tue mani: chi più diritto ha avuto di me? Cosa mi hanno detto le sue mani che io non ho capito?
E’ scritto nel fondo, ma tu parli oscuro, mio elemento inquieto: non ti corrisponde la chiarezza. “Acqua penetra nelle mie grotte buie. Rotola, schianta, fammi levigata e pura più di una segreta perla.” Perché l'amore ha con il gelo inciso il delicato frutto della vita.
Adolescenza – Primavera – ARIA
Poi venne la stagione tellurica. L'infanzia sulle gambe svettanti restava a guardare e le bocche si nutrivano di vento. L'aria sonora/ lo stesso canto da sempre gonfiava le nostre piume. La smania il rito del corteggiamento a mezz'aria le ruote dei pavoni.
Il vento fatto di nulla spogliava le mimose spargeva uccelli/ seminava/ sfrondava poi tornava/ quieto/ come da una corsa il cane/ sguinzagliato.
Perdemmo la memoria/ la cognizione del futuro/ e dell'essere sacri a gli dei. L'attimo nitriva impennato. Sotto gli zoccoli levati/ incoscienti e felici conoscemmo l'eternità. Il canto nelle gole spalancate/ nell'ora dell'ombra a picco/ correva al richiamo cieco e diritto dell'adescamento.
Dalle case anguste/ appena appena si vedeva il cielo/ i voli tagliavano le ciglia/ quando il fiuto del verde al grano spigato ci condusse muti e bendati.
Scoprimmo i mesi dai nomi favolosi e ci perdemmo infine “nel tempo in cui la rosa descrive ai sensi/ la sua carne odorosa”
Giovinezza – Estate - FUOCO
L’estate duttile nel piombo dell’asfalto fondeva sigilli di zoccoli legnosi quando la donna che rapì al bersaglio il centro partorì la luce che galoppa.
Con mani affascinate la portò nel vento le diede zampe e scatto di puledra perché vincesse nella corsa il tempo e i capelli dell’acqua avesse come briglie.
Poi da sotto le infantili pietre traesse il suono di conchiglia che aveva un tempo per gioco sepolto e dalla città che più non esiste fuggisse con artigli di canto appesi alla criniera.
Lontano fuggisse - lei - la sconosciuta la straniera dell’Orsa - già tesoro di molte albe –
Maturità – Autunno – TERRA
E' grembo/ e madre/ e donna sa che spesso si fugge – complici gli incontri - ma sempre / e soli / a lei si torna.
Così ci si apparta dalla vita / col dirsi a mente che tutto finisce/ e quel che è stato per lo più non conta. Così le mani scordano gli abbracci gli occhi la carezza dei volti e già l'addio/ dallo sguardo lungo ci lascia sull'orlo del forse e del mai.
Il giorno oggi è di poco più breve ma nel sangue è il tempo di ieri e dall'anima la luce in silenzio si separa.
Conosco i segreti della terra la vita che perisce/ le sue resurrezioni i tradimenti/ le promesse/ le separazioni. Ciò che passa passa sul corpo con ruote di carro e tu / alba / sorgi già orfana del mio respiro.
Ma “ il brindisi è rosso/ e il tramonto dai rubini a goccia pende dai lobi delle finestre a fiori”
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Astuzia delle fonti
ASTUZIA DELLE FONTI
E se fosse quel frammento di vero la saetta che incide le sorgenti? * Promessa che mai più sognerai stretti sogni e buie soglie, perse le catene della luce, a precipizio nei mentali pozzi. * Tradito il gesto, spezzato il fuoco del ritorno, quella soltanto, parola l’ogni tenerezza, resta fuori dal dubbio la sola evidente certezza. * Sarà ancora puro il giorno, purché ignaro della falce. Papavero assetato nel rogo delle spighe, viva ferita, bacio mai più prodigo di colpe. Mai più segreto. * Non ho mai incontrato il tuo pensiero. Non aveva, quando mi sovvenne, lasciato impronte. Chi ha moltiplicato il delitto della distanza? * Da questa brama al respiro del progetto. Folle! L’impotenza non calcolasti. L’onnipotenza non cessa di assalire la nostra fragilità. * Non sopporta libertà, chi di libertà non ha più sete. Estingui il sogno. Non è generoso consolare la spina. E morse sul dito la perla di sangue che sapeva di rubino. * Verrà, mano sul fianco, con sublime altezza ripiegata nello sguardo. Crederai trascorsa la sponda della notte, distante l’edera tenace, Ma dove il fuoco che arresterà la tenebra? * Il corso del pianto è celato nelle mani, quello delle parole dalle mani sgorga e tradisce il tuo segreto. Anima, che hai di spine il letto. * Crollerà nelle ali il vento. Il volo non più essenziale sarà ridicolo e disperato. Persisterà un dolore così smarrito che dovremo indicargli dove andare. * Apprende a volare alla scuola del vento, ma dubita che mai presso i Troni poserà stanche le ali. * Ho cercato di Lei e creduto su labbra scarlatte di scorgerne il riso. La dove di lei si ragionava erano vesti discinte e mani prodighe di anelli. Oh, meschina la coppa che al suo nome non brinda! * In questo sogno di aver dimora concedimi: Al modo delle gazze avere alto il nido e alle trecce del vento aggrovigliate. Ora, prima che mi tradisca il tempo. Prima che mi detesti la bellezza triste di ciò che poteva e non è stato. La peonia splende nel mio cranio. rallegra alla morte il suo trofeo. * La veglia si adegua al suo diamante. Splende e va in frantumi. Perfetto e costante è il battito che si desta nell’improbabile luce. * Non v’è attesa per chi solo l’andare conosce e il disgiungere. Cos’è la carezza seguita dal rifiuto? Un buco nel petto dove passano come in un ago i fili che non faranno mai un legame tessuto in mille nodi. * La memoria non si volge indietro. Morde il futuro e vi si aggrappa. E’ un morto che da solo non se ne vuole andare. * Chi paga i vostri concerti? Forse la fame pigolante che vi sgrida le piume. Chi al poeta i suoi deliri? La febbre, l’impervia tenerezza che preserva dall’infamia. Sillabe aperte, avventurose concertano la partitura delle cose. * A quale luce ho aperto gli occhi stamani? Chi mi difenderà dalla morte altrui? Sul perno della resa ruota con fermezza la mia desolazione. L’inseguita bellezza, la sua categoria. Intollerabile l’eccesso, ferito il paradosso. * Le promesse hanno nomi ingiustamente lunghi. Scritti nel più disabitato silenzio. * Inclemente è la veglia: Rapida volge la dinamica del sogno. Ossessiva ma non ribelle scava nel fango degli anni. L’acqua che lambiva la gola allenta al respiro la morsa. * Il silenzio è una melagrana acerba dove le parole sperano di crescere. O forse è un grido che ha perso l’acuto e si esprime per assenza. E’ un frutto di scarlatto dolore. * Gli anelli spergiuri pagano le cicatrici del profondo. Emergenza è vivere per gli uomini che hanno scritto e affisso con uncini da beccaio frasi elementari che sanguinano.
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Il rito delle fughe
IL RITO DELLE FUGHE
Poi dalla congiura degli opposti guarì il poeta. Vide - senza fremito - avanzare nello specchio del tempo il passo ancora lieve. Ma l’occhio tradiva il languore. Con dignità - malgrado le ferite - fissava l’istante da attraversare. Prive di senso le ragioni ma realizzò la morte nel supplizio del respiro che più non sapeva d’infinito.
Non trasalire - mia estranea - Non diversa è la spina del canto. Ciò che pensi da tempo in me si versa. Strali sono le parole ed hanno la mia inermità ferito a morte.
Irreprensibile è la consuetudine - ecco il giorno mi divora - Non ancora è tempo: dormono le viole con le piccole bocche ancora chiuse. Non stringere troppo le ciglia lascia un piccolo varco se l’anima volesse un poco uscire. Perché “Io me ne vado come l’ombra quando s’allunga”.
Ospiti mai stanchi delle insonni attese - prodighi di segreti tradimenti - non mi portaste fra le braccia oltre le soglie dei conviti. Non diceste parole che avrei gradito udire né tratteneste a lungo la mano nel saluto. Con tale indifferenza mi lasciaste andare. Eppure vi aspetto - non vi stupite - Ancora.
Dove vuoi che vada? Prima che ti dica “andiamo” mi chiedi dove andrò. Sulle torri regali attenderò la Musa. Avrò monili e vesti di nobile fattura. A lei la mano già nel vuoto pendula e amica. A lei sola perdono le fughe immemori. Unica - lei - erede del ritorno.
Se non fossi del tempo la ritrosa gemma potrei nelle tue ubiquità stabilire tragitti moltiplicare mutamenti che tanto inquietano il rito delle fughe. Ma cosa insegui? La tua smodata febbre vede più grande il rischio d’assoluto.
Quale destinazione aveva il tuo sorriso caduto in questo presagio di spavento. Ho pregato - non so se abbastanza - perché potesse l’Eternità degnarsi di volgere a me la sua pudica luce. Tre volte ogni sera ho contato le perle dei misteri.
Io non saprò per quali vie mi giungerà la vostra voce ma so dove l’aspetto. Ogni impaurito palpito ne annuncia l’evento.
E venne mentre i gigli dalle schiuse braccia guardavano la pioggia risalire agli occhi. Parole - mi disse - inadatte e scialbe. Io sognavo follemente che al vedermi sorgessero dai rovi repentine rose.
Quale dispetto hai creduto di farmi? Io di te mi rallegro. Non guardarmi attraverso il tuo precario slancio. Non è marginale la conquista.
Da quale parte stai? Dovrei guardare dov’è sorta questa luna smisurata. Ma non è questo che intendi. Non il luogo né la temporalità danno il senso alla sfida. Dunque l’altitudine sovrasta il volo ed è indefinibile la vertigine. Sto dov’è lecito chiedersi che sia il viola mortifero di un viso dopo il pianto.
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Dimora del ballo superstite
DIMORA DEL BALLO SUPERSTITE
Noi eravamo le unghie tenerissime. Bocche di passero per chiamarti. Indefinite salivano armonie alle festive mani. Al nostro trasalire volgevi altrove i perigliosi occhi. Quando non ti cercammo più attraversavi il buio - quanti anni di buio - per allarmarci il sonno.
Inchiodavo legni. Lente rotazioni scandiva il tempo. Cresceva nelle corte vesti il magro significato di un fiore triste. In molti rivi spandeva il suo vino la promessa. Procedeva sulle impaurite vie di un mai svelato disegno. Nella bottega allentavo morse sui gemelli legni. Stringevo nei pugni trucioli odorosi chiamati ciascuno per nome.
Come se non fosse entro una pellicola trascorso il teatro degli anni. Nel sangue penetrato il morire di un ballo superstite e stanco. Il luogo felice tradito dal tempo noi dall’attesa.
Mi chiamò - ma bassa aveva la voce - come dettata da un malore. Brevi scale e avanti a me una bimba dal corpo di cera. La stringevo - era leggera e fredda - Sentivo spezzarsi le ali di carta o ghiaccio o vetro. Come un amore postumo e maligno vedevo cappelli e fiori deridere il saluto.
La mia Amica funesta mi chiamò dall’ombra. Brune aveva le vesti e in capo un velo. Per non vederla chiusi il timore dietro le ciglia. Ma poi in mente mi tornava il canto che ogni passo con lei segnò il cammino. - Lasciami un poco seguitare il volo - E mi sorrise - o parve - nell’indulgenza simile a una madre che lascia il figlio un po’ più tempo al gioco.
Escogita una forza che cede. Versa nell’invisibile il suo segreto. Così spera di crescere la diletta, figura minuta, che ancora durante il passo di calpestare le stelle si rifiuta. A saltelli procede, la dolente, sui tasti del tempo a piedi nudi. La musica che nasce è una ferita che l’anima nutre. E castiga.
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Dimora delle banderuole
DIMORA DELLE BANDERUOLE
Notte i tuoi diamanti incrinano il vetro degli occhi. Così frante e aguzze vedo le luci che mi sento parte dell’ombra inaudita e grigia dove iniziano a vivere i poeti. Come in certe notti d’affanno - perso il senso del tempo - una che non sa chi è e dove va con le sue carte inutili e gelose.
Non indosserete il mio sorriso. Nei vostri cappelli in un’eterna vacanza svagano i pensieri. Intorno al mio smarrito esilio ruotate altere le fulgide raggiere. Torna al suo fuoco la notte un diadema di braci mi si appronta. Destinato al canto. Prima di me sepolto.
Saremo fraterni. Anche nel delitto. Torbidi nell’adorazione generosi nel sospetto. Ci difenderemo dall’amore lo precederemo nella corsa. Saremo inaccessibili. Contro il divorante amore furenti e ilari.
Il cielo non è un luogo dove alto risiede il puro concetto d’infinito.
E’ una lingua alleggerita dal senso - corriva e proterva - Una cintura di suoni adorna la sua vocalità. Promette naufragi di grazie poi cala sugli occhi la sciabola del suo ventaglio e nell’andare le spalle ti volta.
Senza di me i tuoi fiori non sono forse morti? A chi porti le rose? Quali soglie ancora trovi accoglienti? Le mie per te sono lame taglienti che io passo la vita ad affilare.
Lasciala andare - è mutevole e avversa - Cerchi di tenerezza risparmiale. Che nobile prigionia potrebbe mai più dolce fare il suo canto?
Hanno portato via la gioia radiosa e beata si è lasciata condurre. Altrove poserà lo sguardo consolatore. Qui ha lasciato l’ombra. Il sasso e la disarmonia chiuderanno il varco.
Sarai per dormire. Dormi. L’azzurro sarà intenso o pallido - senza che tu lo voglia - La soglia sfiorerà la gioia o la corte del pianto. E tutto - senza che tu lo voglia - La parola sarà cedevole non amica. Impietrirà e tu la lascerai impietrire. Ti sanguinerà la bocca - tanto ti costerà parlare - Proclamerà se stessa - senza che tu lo voglia - Inutilmente ne sarai sconvolto.
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Dimora delle spade
DIMORA DELLE SPADE 1 Non dormire. E’ il giorno che passa. Una volta per l’ultima volta. Ascoltalo. Arrestalo. Guardalo negli occhi. Riconoscilo. E’ il tuo tempo. Non lasciarlo andare senza una parola. Io sono colei che ama tutte le tue fibre che le ascolta cantare come un pianoforte. Ecco la faretra in spalla esco per incontrarti. Non passare senza sfiorarmi. Sono colei che se l’ignori sguaina lo strale. 2 Le parole sono calamite che tolgono agli occhi la ragione del divergere. Di notte le inseguo. Sosto Cammino. Se le perdo rincorro a perdifiato stampelle tristi e ubriachi destrieri. Sotto le torri commuovo guardiani che non mi aprono. Poi divento piccola . Mi commisero mi abbraccio. Mi soccorrono i morti che non si rassegnano. Poi mi lascio in quel buio e torno indietro. La distanza è una palpebra che mi scaglia nel sole delle forme. 3 Cosa ti scrissi un giorno che non ricordo. Le parole aprivano varchi in attesa sentieri di vita sospesa. Annunciò tre volte il gallo l’alba dalle banderuole. E vennero dai pioli sconnessi dell’io i camminanti tre volte battendo sull’uscio. L’amore ha il cuore duro spranga sferza. A volte sul tamburo del sangue richiama la dispersa mente. L’amore spacca l’interezza. Dura persino la tenerezza. 4 Hai fatto il nido nelle mie ferite nel mio diurno spazio. Tuttavia per la neve benedicente delle margherite ti ringrazio. Per il breve dialogo che l’insidia e la fiducia hanno in me intrapreso. Quale invidia così a lungo ti aveva allontanato. Quale peso ebbe per te il saluto che l’amica soleva prima di andare stretta la vita con un braccio la bocca accostare all’orecchio Non sperare - dicendo - che a lungo ti lascio. 5 Hai messo al mio grido un recinto di spinose corde. Cosa vuole da me la tua dannata morte. Che io canti la sua allegria senza lacci ai piedi portandomi al braccio la sua cappa bruna. Che sia una la nodosa vita che la danzi sulle spade regalmente in bilico. Che non mostri il gran peso che mi porto dietro che trovi molle la pietra. Per udirmi cantare hai voluto il mio grido segregare e un silenzio allestire grave come la fine. 6 Metti una musica. Rachmaninov se vuoi. Tutto è così immobile eccetto la memoria che tormenta le cose. Chi ha detto che amano il silenzio. La scacchiera di Praga ha nostalgia delle torri - una tromba ne struggeva la vertigine agli occhi elevati dei passanti - Era di coralli e ambra l’Odigitria Signora coronata - il volto bruno segnato dalle spade - la sera che il sole di Polonia scendeva sul ritorno durato il tempo di un rimorso. 7
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Dimora delle altezze
DIMORA DELLE ALTEZZE
Sospesi avanti al suo respiro intenerite sfide. - Portami oltre. Sarò il canto che annuncia alte sfolgoranti porte - Ma egli avanzò scostandomi col braccio. Da quel giorno il lembo gualcito del mio spazioso sogno premo sulla bocca e ricaccio il pianto.
Quando non ti vedo dormo nell’acqua. - Il mondo passa e il sole sopra di me - Sogno il tempo in cui ero e non sapevo d’essere l’adempimento di un disegno. Ora che so considero i doni e li annovero nei segni. La lingua dei padri mi genera e mi uccide. L’ascolto. Vi innesto la mia e attendo il frutto. I doni sono calici colmi dell’acqua in cui dormo quando non ti vedo.
Il nulla è. Ma tu puoi colmarlo e l’incompiuto si fa spinoso dono. Orli di braci le tue labbra e mani rapaci del mio domani. E tuttavia sul ponte - troppo avanti per tornare indietro - alta la fronte dalla parola in cui ho creduto spero di essere accolto.
Non mi cingere il fianco. Non vi è lo spirito avvezzo. All’abbraccio solare - quasi sonoro il pulsare delle vene - alle tue stanze ariose ho destinato il mio rifiuto.
Mi ricorderò della vita. Sarà di un vuoto irreparabile e fredda l’eternità. Inesorabile mi assalirà l’infanzia. I fiori che non avrò colto non mi riconosceranno. Mi avvolgeranno le speziate foglie Di un’età che non fu verde. Mai.
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Dimora della folle insonnia
DIMORA DELLA FOLLE INSONNIA I. Non ti chiedo di amarmi - estatico e mite il filo di parole inattuabili che alimentano il segreto fiume del sogno – Rapisci le caste ore delle selve - cappe dissolute coprono i fiori - Versa nelle pupille l’indaco e il verde di intatte collane. II. Si aggira estatico nel bosco delle case. Non vede, non comprende, solo aspira un appena percettibile odore - il nespolo fiorisce nella imminente neve - Lui ne beve il polline ferito. Gemono le note le braccia ascoltano le forme amate. Il furto dello stupore lo rende folle e intemerato. III. Amasti più di lei la Musa. Fosti l’amante del rifiuto la sentinella delle sue palpebre chiuse. Le tue lenti non la riconobbero. Chi ha rubato il senso dei discorsi e profanato le sue profondità? Chi ha percosso le margherite? Quali labbra frequentasti che dissetano l’oblio? Almeno la uccidesti con gentilezza? Può dirlo l’occhio arroventato che frequenta le altezze della folle insonnia. IV. Non parlare. Scrivi. Piccoli segni lascia divenire ciò che non ha voce. Con occhi tardivi leggi l’universo. La storta quercia che si abbraccia le radici le puntiformi tra le secche foglie. Voglio in questo letto dormire essere cosa tra le tante inanimate e spente. Sentire inquieto il vento ed esprimere il sonno un suo discorso lieto. V. Sedeva dirimpetto al sasso - ne scrutava la prigione – Un passo persino udiva, fuor di ragione. Avanzare e ritrarsi fino a sparire. Gridare: C’è qualcuno? Può darsi. VI. Che ampia casa è la follia! Non l’anima. Sanguina il laccio dei calzari. Il guanto a rete le sue lacerazioni considera con assoluta mestizia. Ma il laccio spezzare non può la perfezione. Il verso ammalato ha preso appunti. Non frequenterà le tue finestre Musa delle altezze e dei fatali inganni.
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trilogia del nome
TRILOGIA DEL NOME “Il nome inseparabile volle ancora molte albe. Molte sugli occhi spargere corolle allucinate” I
Le afflizioni sono fiori che il cielo ha privato dell’acqua. Conosce il mio nome - mi dico - Mi chiamerà nella tristezza. Si ricorderà che corrisponde al tempo del pianto la durata della gioia perché l’antico e l’ignoto inesorabilmente coincidono. Calma è l’attesa eppure arde con ferocia una passione insonne assecondata fino al tradimento. Se mi addormento mi nascono ali - il nero mare sorvolo e il dorso muschioso della terra – Abbandono la povertà delle parole la tensione della conoscenza la sua distanza dimentico. Nel polso batte la febbre profonda della verità purificata.
Purché il silenzio. E la solitudine. E le ceneri di tutte le tragedie.
II
Sii Mary - ma prima l’assenza di Mary – arte del nome che non ti appartenne. Così profondamente altro così lontana ragione di essere. Potente Assenza medicina e ricchezza di chi senza nome vaga nella caligine dei nomi. Mary, assoluzione di tutte le colpe, riapparsa nel diaframma-innocenza oltre la polvere – dopo la caduta. Acqua rifatta limpida - vita incredibile – Scampata a tutti gli uncini del roveto. Mary orfana e cane da riporto - lacrima indiscussa – scalpello che misura la durezza. Ignorando che solo un nome non fossi ti ho portata con me nell’obbedienza. Ma tu eri altro. Forse il poema che non è stato scritto.
Mary, non essere sottomessa. Non pensarmi, Mary. Guai a te se mi pensi.
III
Il bambino /era femmina. Strappò i capelli alla bambola di gesso e al giglio - come ti viene in mente di fiorire – disse. Le mani sono delicate e l’erba non cresce in questo deserto che dicono si chiami amore. Il nido / dove si abbevera la serpe - mia pietosa madre - mi abbraccia con spire di veleno. L’altra - la prima - dorme. Non la svegliare / figlio. Non dirle che ti uccide e vuole che la chiami madre Lascia in pace la terra / non scavare.
Il brindisi è rosso e la sera dai rubini a goccia pende dai lobi delle finestre a fiori.
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Trilogia dellanello
Trilogia dell’anello
I
Voce rapita - porfirogenita voce - perno di sapienza su cui ruota con sollecitudine antica la spirale dei misteri.
Egiziaca voce - porta genuflessa sulle rampe delle segregazioni - Voce guardami. Ti sono amica. Tra la mia anima e il mondo la tua soglia. Tra la tua soglia e il sole il dominio dell’ombra.
Non distogliermi da te. Non addomesticarmi. Da sola al tuo cuore mi consegno.
Provo commozione per l’attimo gioisco del respiro se appena arrivo a immaginarti.
II
Non dirò della gemma incastonata nella grazia né della luce che spartisce il tempo e allude al filo del ritorno.
Non lo dirò che devo - anche se non voglio - volgere lo sguardo al principio che spande le nostre primavere ai tristi risvegli nei mattini affatto misteriosi al soffio che separa dal ramo la foglia o dalla vita la voglia di guardare il sole.
Da troppo in alto - o dal profondo - tutto questo viene a compiersi improvviso. - Preciso il cerchio generato dal centro – Di quel centro dirò inciso nella leggerezza.
III
Sii anello e stringimi nella danza. Così ci sorprenda stretti lo sguardo di Dio.
Sii aria e appartienimi due volte.
Oggi alla mia stagione orfana sei mancato come al morente l’ultimo respiro.
Sii - solo per me - reliquia del giardini bui fuoco minimo di un inverno disperato.
Di più - sii pensiero - ché non debba mai fuori di me cercarti.
Ma sogno non potrai diventare. Lì la nemica si è scavato un letto - a dispetto dimora nella scarsa pace -
Ti uccide in me la parassita si prende la mia sola ragione di vita.
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