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Raccolta di poesie di Niccolò Valtulini
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Sillabe

 

 

 

annodate le dita

del nostro resistere appesi a parole

grafemi e fonemi sdruciti

e ammainate le vele:

il buio quando si piega ha un attrito

viscoso, di nuche sui cuscini,

e c’è un accento di sonno

smosso nel nero,

l’enclitica impacciata dei tuoi passi

sono parole che risuonano sdrucciole

in un posto grande e vuoto

e noi siamo rimasti come esiliati

dal verbo e dalla sillaba,

nel dubbio

che precede ogni gesto,

nel barlume interrotto di pensiero

in cui l’elisione si compie inevitata -

e forse saremo soltanto

un modo di starcene schiusi alla notte

come lucciole

minuti e accolti nel suo palmo,

finalmente pronunciati

in un gerundio triste e infinito -

le nuvole di domani ci voltano le spalle,

il mondo è accaduto

a un passo da noi

*

Dissezione

 

 

Ora mi appresto con precisione

chirurgica a compiere la dissezione

ma tu guarda, guarda con attenzione:

questa la mannaia con cui qualcuno

ha travolto, scuoiato, questo lo scintillio 

di parole cui abbiamo creduto, queste

le poesie, messaggere di nulla,

queste le fragili teste, questa la brulla

terra di nessuno, intatta, questa la grazia 

e la pulizia della guerra, questa la mia

delusione assuefatta, il mio occhio storto

e offuscato: questo tempo 

non è che il cadavere dissepolto,

già morto, di molto tempo ch’è stato

e passato. Anche dopo la prova provante, 

dirimente, l’experimentum crucis, ancora 

tentenna la nostra mente, ancora

non capiamo, non abbiamo imparato.

Perciò guarda bene, manda a memoria,

non t’inganni la Storia, lo sciabordio

dei suoi anni, ricordati i danni

e la distruzione, ripeti la loro lezione.

*

( un poeta )

 

 

 

Se sarai bravo - e lo sarai - 

se saprai non essere schiavo

di te stesso o altri, potrai

forse un giorno anche tu

con l’ostinata tua arte

e le sue annerite indecifrabili carte

entrare per sempre a far parte

dei più grandi bugiardi

di tutti i tempi. Se guardi

il cielo da questa storta terra

di cenere smorta e smagrita,

dove la guerra pare infinita

e tu ti trascini e vivi

appena, cerchi un bene

qualsiasi e non lo trovi. 

Nulla che acquieti la pena.

Forse è per questo che scrivi

le tue assurde cantilene

per giorni segreti, più limpidi

e lieti, per cieli più vividi e nuovi.

*

(Kandinskij)

 
 
 
La geometrica, perfettamente falsa astrazione
di un quadro di Kandinskij 
dai colori variopinti
mi ricorda la confusa astrattezza
di ogni nostra ambizione
e davvero non c’è mai stata estasi né ascesi,
solo una grande tenerezza,
se non nella stanza la plastica arancione, 
e comprata in un negozio di cinesi
la verità dei girasoli finti
 

*

(oleandro)

 
 
 
a contarli gli anni spesi a un crocevia
sono quel nome spento che non torna,
la luce di ogni giorno che va via
e tracima tra il muro e l’oleandro:
sarà il buio del cuore che risillaba
l’effimero segreto della vita,
il gelo notturno di una rima,
in quest’oscuro respirare lento
di tende in piena luce, bagliori,
vetri accesi, bianca crudeltà 
di quadranti e calendari, tutta la viltà
del sogno che dirada, frasi nel buio
brancolanti, maceria di parola 
che non si ricuce:
 
sei la fiamma di un’insonnia breve
tra fiumi distanti di sguardi,
voce convocata che si estingue
tardi coi lumi di strada, 
scheletro di rami, notte e neve
 
 

*

(voce)

 
 
 
non ho versi o voce in cui riposi
la misura della luce seminata,
che conservi l’umiltà di un inchino
delle siepi al primo buio,
lo sgarbo triste dell’uomo
appoggiato a un muro in pieno cielo:
nessuna la sillaba, la parola in cui si celi
quest’ombra di vita che si tocca,
le mie vene, la sedia in paglia,
l’esagono della bottiglia, la caffettiera:
troppo presto è venuta questa sera,
e io non so più pronunciarla
 

*

(carta)

 
 
 
qui dove l’inverno è poca luce che si ostina
a un deserto di pagina imbiancata dallo sguardo
notturno resiste un germoglio di parola
come fiore di buio senza spine
e poca cosa che ti chiedo è il triste garbo 
tacendo se ti mendico un sorriso:
non ho altro, in quest’ora ammutolita della vita

*

(ombra)

 
 
 
sei stata per me
l’ombra serena che non torna,
l’ospite inatteso 
rimasto alla soglia, il verbo
che non si coniuga, il perdono
inascoltato, un tacere
di nuvole che vanno, un piovere
a scrosci
su terra scura, 
se ciò che di me sapeste
non fu che la scialbatura
 

*

(donna)

 

 

chi sa chi era il tacere della donna

venuta incontro

al buio del cammino

nel cuore e nel sangue del mio giorno

ad asciugarmi il volto...

 

*

(verso)

 

 

non tutto quel che siamo

fruttifica nel verso,

il resto è petalo bianco:

piovono in silenzio

poche sillabe

cadute da un ramo

*

(landay)

 
 
 
non è la rima “fiore-amore”
la più antica del mondo: è “cuore-dolore”
 

*

(siamo uomini...)

 
 
 
 
siamo uomini, siamo tanti
pezzi di carne e saliva
e arti rotolanti,
ma quando mi nomini
io so che fra tanti
hai scelto il mio nome
per consolarti
 
sono uomo, sono tanti
pezzi di carne e saliva
e arti rotolanti,
ma quando ti nomino
tu sai che fra tanti
ho scelto il tuo nome
per consolarmi  
 

*

(mani)

 
 
 
quanto il terrore negli occhi di allora,
immenso, a guardarti chinato il volto
e fredde come rami intrecciati al mio silenzio
alla domanda taciuta al fondo della gola
d’improvviso le tue mani hanno risposto:
 
non si muore senza preavviso 
 

*

(al fondo)

 
 
che cosa resta in fondo del sonno e di voi, 
dal ciglio o dal fondo sperduto degli anni:
solo questa logora coperta che tace,
quando ben altra notte è calata sugli occhi
e ha lavato via il buio degli anni
come a un catino sporco,
o morta verità che giace al fondo
 

*

(penombra)

 

 

 

c’è una luce che dispera

franata dall’ombra,

l’ombra di me

divisa dalla porta aperta,

dallo spiraglio

il tempo buono che ancora

non entra, rimane alla finestra

e i giorni spartiti

uno a uno

nel delirio infuocato della veglia

 

nel corridoio a mezza strada

all’avanzo di sole

ci sono panni lasciati

reduci

ad asciugarsi le membra,

all’angolo in cui mi scopro

e sono solo davvero:

non mi resta neppure me stesso

*

(madre)

 

 

sei tu, madre, che ho visto svanire

nel grigio degli occhi di tua madre?

sei tu, madre, che vedo morire

mentre piangi la tua morte di madre?

non lo so, infanzia, dove ti hanno sepolta,

cenotafio a lume spento,

o in qualche tomba vuota di nome:

non posso più calpestare il cortile

dov’è il gatto, e il grande aquilone

volato via, oltre il recinto...

*

(dita)

 
 
 
le dita dei morti hanno
il tocco lieve
dell’eterno, lasciato
tacendo nel partire,
carezza caduta
sui capelli, sono
treni che passano
città di nebbia,
squarciano il velo
in questo spazio di voce
in cui ti penso viva
nel sangue delle rime
nel gorgo della terra in cui
siamo scesi muti
con cuore
rastremato, muti
come chi ha saputo,
oltre quegli argini
ti ho vista venire
a noi gente
d’altre sponde