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Raccolta di poesie di Nicolò Errico
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

La Guerra

La notte scende
di minuto in minuto
per la scala
che s’allontana dal giorno.

Mamma mi stringe
come le tenebre gelide
avvolgono Baghdad.

Un fischio.
Spariscono per sempre
i miei vicini.

Un altro.
L’altalena
con cui gioco la domenica
si fonde
in un incendio tuonante.

Aeroplanini di carta
sopra di noi
che lasciano polvere
decidono del domani.
Del Nostro domani.
Macchine stritolatrici,
guidate da uomini-robot,
cancellano la campana
che avevo disegnato sull’asfalto.
Il loro lento e triste ritmo
ha il suono della morte.
Uomini, irrobustiti dalla Tecnica,
ci chiamano a raccolta.
Non guardo quegli automi senz’anima
ma fisso negli occhi velati, gelidi
Omar,
un mio compagno di scuola
che l’anima l’aveva.
Riverso sulla strada sbriciolata
ricopre col suo sangue
la campana che avevo disegnato.

Non capirò mai, Omar,
qual’era la tua colpa.
Né riesco a vedere, Omar,
bandiere di pace
dietro questi cieli di fuoco.
Non posso comprendere, amico mio,
nemmeno le “buone” intenzioni
degli uomini-macchina.

La culla della vita, Omar,
trabocca di morte.
La mezzaluna fertile
affronta la sua carestia.

Solo di una cosa sono certa, Omar:
non sarò mai più bambina.


*

L’Industria

Alzati.
E’ ora di andare.
Prendi il tram
e trapassa la città
che trema alla brina
del primo mattino.
Cammina,
con gli occhi rossi
ed assonnati, mentre
il freddo ti taglia
a pezzettini le dita
callose ed inerti.
Deserti di cemento
ti circondano e ti guardano
i casermoni abbandonati,
ti dicono “Ferma!”
ma è troppo tardi.

Eccola. Immobile.
La fabbrica che ti fissa.
Le ciminiere rigurgitano
fiumi di fumi nel cielo,
tra le nuvole impolverate,
incatramate dei sospiri
affaticati e di sudore.
Mettiti al lavoro ancora
con la Macchina,
che tiranneggia sui tuoi tempi
senza darti tregua
né soddisfazione alcuna.
Troneggia tranciando
sbarre di ferro fuso
incandescente.
Lo sai.
L’Inferno brucia e ristagna
di vapori metallici.

Trangugia quel saporaccio
chimico e terribile
e fa’ tutto questo
per pochi spiccioli ma bada!
Trattieni le tue proteste!
Poiché senza preavviso, domani
potresti non aver da mangiare
né la solita fuliggine
né un pezzo di pane.

*

Il Consumo

                         
Nel mondo di materia
l’animo si dissolve
e l’arteria della vita stessa
avvizzisce e più non nutre
Lo sguardo si spegne e muore
ridotto a guardare sbarrato
le cose che gli han fatto desiderare
ma che mai ha amato.

E amare, e l’amore, dov’è?
Non c’è nemmeno dolore
in un mondo di materia
senza colore.
Muore ogni sentimento
nell’uomo qualunque,
ovunque scontento.
E non sento
le grida umane
e le gesta vane, e belle
dell’umanità, inerte e disfatta.
Stanca è la gente
nelle industrie
che strozzano, strangolano
spiriti non più liberi,
incatenati dal bisogno.
Consumiamo noi stessi
illuminati non più
dalla Ragione
ma accecati dal lume
della televisione.
Sotto la pioggia
non aspettiamo più l’arcobaleno…
Osceno è questo spettacolo,
eppur lo tolleriamo.

Abbiamo velato
con la necessità
un intero mondo
di cose inutili.

*

Sala d’Attesa

Siamo tutti qui ammassati
in una vita rumorosa
dove parole vuote echeggiano
cadendo nel niente,
dove parlano gli scheletri
ma non gli spiriti.
Crediamo tutti, convinti pure,
di plasmare noi la vita
ma purtroppo io vedo
un’intera triste umanità
seduta in una sala d’attesa,
inconscia di ciò che aspetta
sulla soglia della fine.
Poi un toc toc alla porta, leggero
precede l’orrendo infermiere
dalla divisa nera e scura
che a sé ci chiama uno per uno.
Chi gli sorride, chi lo maledice
chi stupefatto, chi rassegnato
lasciamo il posticino caro
ed un altro lo prende.
Mi domando allora
chi si nasconda dietro la porta,
chi è che manda il temuto infermiere
solo per, felice dell’attesa conclusa,
poterlo abbracciare piangendo
e stringerlo, gridando:
“Padre!”

*

Geta, lamento #SaveAshrafFayadh

Fratello, è davvero così?
Amare chi ti è vicino, onestamente,
ti fa odiare ancora di più?
Non so, non capisco...
Roma non vale il tuo delitto,
ignora la politica, distrutta
deve essere e scongiurata
se divide i figli e li uccide.
Non sarebbe un qualche miracolo
fratello mio, mia carne,
se mai più, dico, dovessimo
indossare armature arrugginite
e brandire armi insanguinate?
Se riscuotessimo gloria eterna
superando i nemici
senza il bisogno dell’estinzione
non sarebbe un onore più grande?
Vivere senza rimpianti, liberi
da governi terreni e lotte di potere
nella pace serena e solidale
di una riscoperta umanità...
Ma tu che hai la spada, fratello,
bagnata del mio (nostro!) sangue
non vorrai capirlo per molto tempo
e così i tuoi sudditi, così gli umani.
Dunque, Caracalla, continua pure
ma non gridare “Geta!”, il mio nome,
quando affonderai in un lago rosso purpureo
ricoperto delle viscere sprecate
del tuo popolo, i Romani.

*

L’Epoca del Terrore

Grida alla nuova invasione
l’Europa dei muri,
si levano le preghiere dell’occidente
che vede spaventato alle sue porte
eserciti senza armi o bandiere,
fiumi disperati di uomini.
Risorti Savonarola incitano
le masse, profetizzando rovina
dai pulpiti di partito
mentre l’oriente gronda sangue
come ai tempi tristi in cui civiltà
per prima importammo e poi democrazia.
Delle ferite sono state aperte allora
rammendate con poca cura
le abbandonammo alla cancrena.
Di che vi stupite dunque?
La mezzaluna fertile poco a poco
divorata diviene sterile
sotto le bombe e l’iprite impietosa
e nella culla della vita antica
nulla nasce se non l’odio futuro.
Il moderno Rinascimento è finito
con tutti i buoni propositi, amici,
morti a Kobane e a Misurata,
battaglie nascoste dall’indifferenza.
Nella carne degli innocenti
è scolpita con la morte
la nostra grande colpa, sappiate,
con la sua giusta sentenza.

*

Ad un’Amante

Ti copri d’un buio velo,
cara madre che vacilli
violentata da mani potenti.
Usa quella brava bandiera
per proteggerti dal gelo
che trascina la sera,
magari asciugati quella lacrimuccia
che scivola sul volto tumefatto
e consolati col ricordo di figli
come foglie in autunno caduti
presso le radici raggrinzite
di un tronco ora monco.

Fossi io il tuo amante
non risparmierei una carezza
per la tua bellezza sfiorita.
Bacerei quel volto deluso
e stanco, assaporando
il soave sapore dell’alloro antico.
In tanti t’hanno sedotta,
ingannata con fatue promesse
e ogni volta ci credevi.
Canterei a te una nenia
per farti riaddormentare in visioni
gloriose e promesse di conquiste
a cui la tua gente costringevi:
tutto per soddisfare i bisogni
di uomini che troppo volevano
senza saper sognare.
Caddero intere città e battaglioni
tra i tuoi verdi seni, come colli,
nelle tue valli, voluttuose.
Ma faremo sempre questo per te,
Italia, madre umiliata e vorace amante
assetata di sangue, mai di rose.

 

*

La Nostra Guerra

A Kobane giacciono gli eroi
eppure nessuno di voi
si rende conto che le sorti umane
si sono decise a Kobane.


*

Gennaio, uno scrittore

Era gennaio e lo scrittore sedeva
al banco dei suoi pensieri
e con l’intelletto si perdeva
tra volti finti e tra volti veri.
Non sapeva più trovare l’ispirazione,
si sentiva povero e mal ridotto
poiché non trovava più l’emozione
per scrivere tutto di botto.
E pensava e pensava, lontano se n’andava
con inquieti desideri come vele
e il cuore ardente di lava bruciava
e tingeva di sangue le tele.
Stupide domande l’assillavano…
“Perché scrivo, cosa professo”
ma alla risposta non arrivavano:
cioè ch’era solo per se stesso.
Era per non abbandonarsi alla noia,
per non limitare il viaggio interiore,
era per trovare ovunque gioia,
ma soprattutto per vivere con ardore.
Attenti ai poeti, così v’avverto,
anime incerte, spiriti maledetti,
che mai nulla danno per certo.
Come fossero senzatetti,
vagano tra le vie del mondo
e girano, girano, girano,
perché quegl’occhi da vagabondo
tanto e troppo guardano e ammirano.

Così è gennaio, mia amata,
quante cose, quanta vita d’affrontare,
e tu fermo mi farai restare
di contro a quest’insolita mareggiata:
mia madre se ne va dal vecchio stato della Curia,
si trasferisce dal povero Nanni
e almeno lontan da me, in Liguria,
resteranno a far danni.
E lei, signorina, farà diciott’anni…
dunque si dovrà ballare in suo onore,
un brindisi, vestiti d’eleganza,
sorridenti e festosi in ogni colore
e con te mi getterò nella danza.
Signorina, che gran festa che sarà
!
Ridendo, mangiando ed infinitamente godendo
(e se farà ciò con Vinz, sappia, m’offendo)
entreremo nella maggiore età.
Ora sarà lei a scrivere la sua biografia,
tolta la degna penna ai suoi genitori,
subito con me lei verrà via
dentro al mondo con tutti gli onori.
E amori, odori, viaggi e tempeste
oh quante ne vedremo insieme
terre lontane, magnifiche, opulente feste
movendoci più veloci di una trireme.
Mi perdoni, son troppo frettoloso,
c’è tempo per ogni cosa,
per sfamarmi con te (sai che son goloso)
presso la tua candida rosa,
per far altro e altro tanto ancora,
per un bacio vero, per uno a stampo,
per lasciarci andare di ora in ora
in questo fiume, quello del tempo.

*

L’Abruzzo

Mare.
Il mare è il più bel ricordo
che porto dentro me.
Il suo è un nome gentile
ma allo stesso tempo imperiale,
un nome che non passa indifferente
come quello di un oceano:
Adriatico.
E c'è chi gli vive accanto,
chi naviga ogni giorno sulle sue acque
e torna la sera alla propria casa
per ripartire la mattina presto.
Sono gli uomini che hanno il mare dentro.
Oltre le sue lievi onde grigie e blu
una coperta di verdi colline si posa,
riscalda e avvolge l'Abruzzo.
Ma le colline vogliono di più
vogliono toccare il cielo celeste...
Così si slanciano come cavalli
in una corsa affannata verso le nuvole
e arrancano e si scavalcano e s'impennano
lottano l'una con l'altra accalcandosi.
Eppure, da una guerra così spietata
nascono i frutti più belli:
le montagne.
Montagne maestose, rifugio dei ribelli.
"Qui abitò Celestino V" vanta una
"Qui combatterono i partigiani" risponde l'altra.
E così i monti, le colline e il mare si raccontano
o grandi storie o magnifiche bellezze.

*

Un Monotono Caos

Vorrei sfiorare una nuvola
solo per poter dire se esiste.
Dirlo a te
e capiremo forse solo allora
che c'è qualcosa di reale
su questa spietata terra di illusioni.
Ho vissuto solo di profumo e odori,
cieco in un mondo grigio.
Decisi io di chiudere gli occhi
quando compresi la vera natura
di questa gente dal volto uguale,
che urla in un monotono caos
di invidie e complimenti.
Prima smisi di parlare,
una volta capito che nessuno ascoltava.
Smisi poi di udire
quando l'inutilità del rumore umano
invase anche i miei pochi sogni.
Infine non volli più vedere,
poiché ebbi paura:
paura di scoprire
che, anche io, ero come tutti.
Dimmi. Come si fugge
da questo gioco spietato?
Non ce la faccio.
Non riesco ad arrendermi
alla solitudine degli uomini,
a questa morte nera che avanza
nello spirito delle persone.
Vorrei volare allora,
e lasciare la terra
in cerca di risposte
tra il sole e la luna.
Sarebbe terribile, non trovi?,
se alla fine di questo clamore
non ve ne fosse alcuna.