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Raccolta di poesie di Giuseppe Nutini
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Vieni a Fuorigrotta

Una volta volevi

solo mille lire

ed oggi vuoi partire;

ma dove vai di preciso

tu che sei di Treviso?

Te ne vai a Capracotta?

Se tu cerchi l’iniquità

la parata di mediocrità

lo scolo della civiltà

vieni a Fuorigrotta[i].

 

E la figlia

brucia dalla voglia

e la mamma

le toglie la foglia

ed ancheggia

piuttosto tracagnotta

occasione ghiotta(?);

tutto questo bailamme

di buche senza strade

di scavi con le guade

binari senza tram

vetrine poco glam.

Dov’è questa roba qua?

Solo a Fuorigrotta.  

 

Il politico t’offre la pagnotta

il seguace scuce una piotta

sotto il naso della poliziotta

che saluta la donnola bigotta.

Dove trovi questa gente qua

di straccioni vestiti da pascià

di cretini bevuti sul sofà

e cretine con il cincillà?

Tutta a Fuorigrotta.

 

La partita contro complotta

e riempie lo stadio

di masse in assedio

incitanti

giusto da un’oretta

l’attaccante

che non dà la botta;

e lui in casa rinchiuso

la faccia crollata

caduta a pera cotta

come Pellico recluso

ma meno patriota

inebetito aspetta

che si tolga dai maroni

la marmaglia di beoni

buoni solo a pelar la gatta

e gli lasci la strada

tutta libera e vuota

per la ghiotta serata

un poco galeotta

ed invece c’è coda

giù fino alla grotta,

e lo chiama incazzata

la povera Carlotta. 

Dov’è questa melma qua?

Proprio a Fuorigrotta.

 

Il suono della mattina,

driiin! Scendo presto

per arrivare prima

alla serra degli stronzi

ondeggianti come bonzi

nella saletta dell’ASL,

perché oltre cinquanta

il medico non canta

e chi pianta pretesto

è fuori dal contesto

e scoppia una manfrina

che ognun deve ballar

se esente vuole andar.

Io sì mi rompo il pacco

proprio mi si sfarina

ma da qui non mi stacco,

debbo risanare un guaio

che no, non ho creato

e invece mi riguarda

in questo immondezzaio.

Ma dal muro di lato  

una tipa mi guarda

con l’occhio rapito

mi arpiona maliarda

ed a maglia uncina.

Poi al braccio agganciata

la scintilla è scoccata

e la frittata è fatta

in quel di Fuorigrotta.

 

Quest’incrocio più cieco

del mio stesso intestino

quando svolto e ci sbuco

dalla fine del Pendino.

Sulla strada che sale

e cresce su dal viale

tutto mi può capitare,

perfino il vecchio pazzo

che fila come un razzo.

Io con molta prudenza

per la scarsa visione

comincio a spuntare;

se scende l’affluenza

m’infilo piano piano

e con circospezione,

ché un altro maiale

risalendo da Agnano

mi può scaraventare

detto fatto nel pino.

Basterebbe un semaforo

a sbrogliare il casino

un rimedio mammifero

per dire al cittadino

di averci la coscienza.

Si è avvertito il Comune

del pericolo immane

ma non ha provveduto;

neppure un vigilino

a dettare precedenza

e lo stesso Prefetto

ne sa pure di meno

e l’incrocio fa schifo

da togliere il fiato.

Dopo mesi di protesta

e giare di veleno

al quadrivio fottuto

non hanno mandato

nemmeno una marmotta.

E sicuro il difetto

causerà la botta

qui a Fuorigrotta.

 

E la moglie

beve tè di foglie

il maritino

brulica di voglie

ed accoglie

un’ucrainotta

vivace e poliglotta

nella sua villetta

dietro Via Arlotta

a bere una coppetta

della sciampagnotta

e morde la caciotta

della ragazzotta

da noi a Fuorigrotta.

 

Son tornate le cicale

sulla Via Terracina

polacche e nigeriane,

son circa una dozzina.

Macchinando le incontri

allo spiazzo di benzina,

fanno anche gli sconti

a chi in auto s’avvicina.

È una vista carnale

brada come la Pampa,

vacche d’esportazione

esperte nella samba.

Ah ma che confusione

che problema bestiale!

Ed a chi la racconti

che sei uno neutrale

e che se rallenti

lo fai per una pompa

ma solo di benzina?

Nel cuore della notte

c’è così tanta vita

che non ci pare vero

che sia attecchita

accanto al Cimitero

pieno di ossa rotte.

È un gran capogiro

il fisico sballotta

inizi a stare male

ma non ti disperare,

puoi sempre peggiorare

se entri all’Ospedale

San Paolo che ti adotta

in zona Fuorigrotta.

 

Mamme con la spesa

pensilina del bus

fissano la palina

con grugni da blues.

Nonni coi cateteri

non si reggono più

sorretti da ex veneri

venute dall’ex Urss.

I raga coi berretti

le raga con l’Ipod

si smicciano furbetti

sognan di fare upload.

Una buona mezzora

è bella che passata

il bus non affiora

la gente esasperata.

In fondo si fa viva

la cosa lampeggiante,

alla curva arriva

ma è ancora distante.

Un tipo alto sbotta

ma dove cacchio eri?

però è la camionetta

rossa dei pompieri.

Ormai è leggenda,

l’amico Pippotto

stava alla fermata

ancora giovanotto

doveva arrivare

a Piazzale Tecchio

a furia d’aspettare

c'è arrivato vecchio.

Corriamo all’impazzata

sulla terra che smotta

molle come ricotta

quaggiù a Fuorigrotta.

 

Scarafaggi grossi

come anacardi

escono dai fossi

alla sera tardi

nel caldo termale

c’inseguono testardi

da Piazza San Vitale

a Via Leopardi.

La strada del poeta

mette tanta pena

molto fioca e cheta  

la luce sulla scena;

steso sul portone

dell’Immacolata

dorme un anacoreta

la faccia congelata.

Dentro la stazione

di Campi Fle­grei

altri nei cartoni

a terra come Achei.

Molte curve cieche

ritorta si disegna

dopo le paninoteche

tutta Via Campegna,

marciapiede stretto

proprio inesistente

il pedone poveretto

rischia l’accidente.

Il vecchio Sferisterio

vicino alla grotta

sarà un battistero

oppure una gargotta?

Domanda Fuorigrotta.

 

La musica d’estate

percuote le vetrate

famiglie risvegliate

da feste scellerate

e quante clacsonate

rotonde ingorgate

frullano la calotta,

in giro poi mappate

di auto scoperchiate

di targhe rovesciate

di imposte oscurate

e case grattugiate.

Ed è tutto caducità  

dentro Fuorigrotta.  

 

Perfino Viale Augusto

preteso boulevard

solo meno angusto

ma squallido bazar.

Goffe casalinghe

con laceri foulard

si sentono bislunghe

come le fiamminghe

tele di Rembrandt.

Fasulli cavalieri

lenti scure da sole

grevi faccendieri

sputan nelle aiole

ed aprono concorso

per girar sul dorso

la bella tabaccaia;

vorrebbero cosarla

e giurano di farlo

ma non esiste merlo

per quella civaia.

Sfrecciano motorini

da fianco a fianco

un padre di bambini

è diventato bianco

quando una Fandango

gli sfiora i piccolini.

Ci sentiamo inermi

anche sul selciato

noi restiamo fermi

e loro a perdifiato

a tutto gas e armi

nelle giubbe da ras.

I cordoli divelti

coi tondini all'aria

stupidi risvolti

di rabbia proletaria

e poi altri cascami

di triste fatiscenza

a stento riassorbiti

dai poveri stilemi

di Italia mondiale

passato coloniale

Mostra d’Oltremare;

ma giri il Piazzale

e sfumano quei miti

e per non sbagliare

ritornano i patemi

della marcescenza.

  

Cambia l’aria, gira la girotta

piove forte ed il fango fiotta

l’acqua nera tutto infagotta

e la luce elettrica interrotta.

Dove trovi questa varietà

di intuizioni senza verità

di guasconi mezzi baccalà

di gibigiane tutte voluttà?

Vieni, vieni, vieni, vieni,

vieni, vieni, vieni, vieni,

vieni a Fuorigrotta.

 


[i] Quartiere (in)ameno della città di Napoli.

 

*

La tenerezza - prima di tutto -

Dammi il fiore tieniti il frutto[1]

e pazienza se sbaglio di brutto

la tenerezza prima di tutto.

 

Tipi loschi ci hanno distrutto

affettandoci come prosciutto

la tenerezza prima di tutto.

 

Vanno via le vedove a lutto

dopo avere pianto a dirotto

la tenerezza prima di tutto.

 

R.:  Ogni cosa sarà più semplice

l’amarezza verrà superata 

e mai più piangerà il salice

se lo cinge la nostra risata.

 

Ogni giovane al suo debutto

in ginocchio prega il suo putto

la tenerezza prima di tutto.

 

Una dieta a base di strutto

ti rimpingua il fisico sdutto

la tenerezza prima di tutto.

 

Gli spropositi del farabutto

son propositi senza costrutto

la tenerezza prima di tutto.

 

R.:  Sì sarebbe tutto più semplice

a chiusura della serata

se girassimo il nostro pollice

verso l’alta volta stellata.

 

La repubblica dell’usufrutto

digerita dal suono di un rutto 

la tenerezza prima di tutto.

 

La gallina sul fieno asciutto  

torce e preme il suo ovidutto

la tenerezza prima di tutto.

 

Oltre il mare salvo dal flutto   

lascia dietro un mondo distrutto

la tenerezza prima di tutto.

 

R.: Ma sarebbe tutto più semplice    

e l’Italia rappattumata

se noi chiudessimo il vertice

con un’ allegria ritrovata.

 

(Ad lib.: la tenerezza prima di tutto,

                 la tenerezza prima di tutto,

                 la tenerezza…)



[1] Canzoncina stramba in cerca di musicista (jazz) per nascere a pieno. 

*

Il dispaccio di Ems

(le guerre nascono dai malintesi)

                       

Se saputo avessi

che potessi e dovessi

e senza compromessi

contro me marciassi

affinché non osassi

di riprovare a dire

tutto quel che dissi

cosicché sapessi

che più non potessi

e non più dovessi

e neanche lo volessi

né lo vagheggiassi

e mi vergognassi

di non aver sinossi

mentale né sintassi

e che ti consultassi

prima di spiegare

il giro dei tuoi passi

e non ti confondessi

nel novero dei fessi

benché già sapessi

che non intendessi

e non immaginassi

che te la prendessi

o che determinassi

di farti incavolare

e che intervenissi

severa e mi punissi

con colpi così grossi

sebbene non volessi

che cara la pagassi

e non desiderassi

che male ne subissi

malgrado ti pregassi

che ci rinunciassi

e ti scongiurassi

che bene riflettessi

per farti fermare

prima che perdessi

anch’io i miei riflessi  

e l’ira raggiungessi

ma infine tu scegliesti

che dovessi e potessi,

probabilmente noi due

non ci saremmo distrutti.

*

Ll’acchiappamierule

 

[’o scugnizzo s’addiverte]

 

’Nu cacambrello ’e mierulo me ’nguaja ’e matenate.

S’appoja chistu cantatore ’ncopp’’a petturata,

schiara ’a vucella, abboffa ’e ppenne, attacc’a cantà.

Ennò, l’adda fernì! E i’ saccio che putesse fà.

 

Metto ’na trentina ’e mulliche ’nzuppate a vino

’a for’’o barcone m’’o tiro pe’ dint’’a fenesta,

attacco ’o cupierchio d’’o cesso a ’nu spavo fino

e po’, annascuso aret’’o muro, m’’o ’ncatasto.

 

Quann’’o mierulo vene a ll’urdema mullechella

’ncopp’’o cesso, tir’’o filo e cade ’int’’a canesta.

Mmiezo affugato comme pò cantà ’o capatosta?

’Nfuso t’arreduco cantatore: capa, coda e scelle!

 

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L’acchiappamerli

[lo scugnizzo si diverte]

 

Uno scocciatore di merlo mi rovina le mattine.

Si appoggia questo cantatore sul parapetto,

rischiara la voce, gonfia le piume, inizia a cantare.

Ennò, deve smetterla! Ed io so cosa potrei fare.

 

Metto una trentina di molliche intrise nel vino

dal balcone me lo attiro di qua dalla finestra,

lego il coperchio del water ad uno spago fino

e poi, nascosto dietro il muro, io lo incastro.

 

Quando il merlo arriva all’ultima mollichina

sopra il water, tiro il filo e cade nel canestro.

Mezzo affogato come può cantare il capatosta?

Zuppo ti riduco cantatore: testa, co

*

Era meglio andare a Melfi

Ho chiesto all’oracolo di Delfi

che razza di vita prediligo

donde provengo e dirigo

e ’Sia così gentile: che stipendio avrò?’

e, nella luce effusa, dietro la nuca

il tremolio quieto d’indaci golfi

dalle latebre la Pizia s’eresse

e senza indugio profetò:

”Chicca, o che seno!”.

Dal verdetto anagrammato

su cui fiorirono scommesse

in ogni ellenico caseggiato 

il fatidico senso oggi sbuca:

”Che cacchio ne so!”.

*

Di media bellezza

Una tipa di media bellezza

da portare giù ad Acitrezza

dove tira sempre la brezza

ed il mare porta freschezza

risalirsene poi nella piazza

dove una fontana ci spruzza

abbracciato a questa ragazza

sarà un cantico di dolcezza.
 

Sulla rena granosa e grezza

pescatori riparan la rezza

una sterna marina svolazza

un vocione grida Santuzza!

lui che esce dalla carrozza

e traversa svelto la piazza

il più piccolo dalla terrazza

ride e dice con vera gaiezza
papu miu tunnau, matruzza!


Questa tipa di media bellezza

me la porto giù ad Acitrezza

a provare insieme l’ebbrezza

di svignarcela dalla munnezza

che ci ha bombardati di puzza

butteremo al vento l’asprezza

di convivere con la schifezza

della nostra città tanto sozza

che il fiato da anni ci spezza.


Nella baia che d’alghe olezza

ci godiamo la grande finezza

di un menù davvero di razza

pasta e sarde e souté di cozza

la frittura di pesce che frizza

il bianchino la gola accarezza

e cassate di gran morbidezza

sullo sfondo l’antica fortezza

di tra i tavoli il mare marezza.


Qui l’antidoto della cupezza

è un cielo d’azzurra purezza

un lettuccio per la tenerezza

su cui stare in tutta mollezza

sillabando con mite lentezza

la grammatica della pienezza

ci godiamo la balda prodezza

di riprenderci la giovinezza

e sul resto ci passo la pezza.

*

Astronomia

Disse ’stasera vedrai le stelle’
ma come e quali non precisò;
lei sentì vibrare tutta la pelle
e stanca d’aspettare lo baciò.
Lassù, nella specola in soffitta,
sbirciando gli astri più lontani
salirono un rombo di marmitta
e otto colpi d’una scacciacani.
Per lui segno provvidenziale
di chiudere bene l’abbaino
srotolare il soffice stuoino
imbandire ostriche e caviale.
Tuffandoci dentro i lamponi
si scolò più di qualche calice
e inventava le costellazioni,
’vedi’ le disse ’quella è il Salice’.
Lei, inesperta di astronomia,
si fidò ma le parve strano;
poi all’orecchio sentì ’bugia’, 
lui, disteso, porgeva la mano.
Si sfilò svelta il corpettino
avvertendo un caldo tormento
ma, svaccato sul tappetino,
l’astronomo era già sonnolento.
Provò a pizzicargli la faccia,
spruzzarci dello spumante;
del risveglio nessuna traccia:
il sonno astrale era pesante.
Lei tossì, starnutì, immusonì
per l’ennesima notte in bianco;
l’astronomo si girò sul fianco
e sul turgido seno si assopì.
La scarognata guardò in alto
domandando ai siderali spazi
di evitarle che cotanti strazi
la prendessero tutti d’assalto.
Lei da sempre la tipa focosa
con la fissa per i raffinati;
chissà ora in che nebulosa
sparivano gli ardori sperati.
Si levò a sedere sconfortata;
trovò a tentoni calze e gonna
sentendosi come una donna
alla fine della mascherata.
Provò a pensare che in fondo
sono giri di walzer del mondo 
ma anche quanto fosse fessa
a credere in ogni promessa.
Nella penombra del sottotetto
sciabolava un lontano fanale;
andò ad aprire l’anta a soffietto
e se le guardò... dal cannocchiale.

*

Al Giusto Destinatario

Il biglietto in cui Ti ho sempre scritto:
”sono nel giusto, lo faccio perché è giusto”
andava spedito a Te, non agli acquatti
fecali di banditori a quattro zampe,
né alla Terra come direzione corretta
per la regione ferrosa del solidarismo.
Non agli abachi di mezze cifre forzate
a fare solo totali e mai una somma;
né all’isola calva dai cannoni spaccati
puntati qua a tirare bussole di cartone.
Andava spedito a Te, Giusto Destinatario
che Sei l’Esperto di segni e calligrafie,
che Sei Chi Distingue il pari dal dispari,
il grano dal loglio, il petalo dalle bucce,
il cane dalle iene, la perla dalle biglie;
a Te, che Sei Chi Dà Capitolo in Voce,
anche se cariata lorda guasta putrida
anche se scialba agra avida come la nostra.
Hanno detto di mandarlo a Te il biglietto:
Te lo invio con tutto lo slancio che occorre
ai più abili lanciatori di boomerang.
Ricevilo nella Tua Casa a larghe colonne
ora che i fianchi sudano, Aprilo e Leggilo
con gli occhiali d’oro e il Sorriso che affiora,
ora che i fianchi sudano e il polso croscia
nello sforzo che occorre al mio braccio.
Leggilo e Richiudilo, se Sarai soddisfatto
Rispediscilo col timbro delle Poste Regie
e la Tua firma che Brilla dentro la busta.
Dicono che Rispondi presto, che Ti piace
chi ha cercato il giusto e non il Destinatario
che Sta sul monte e Cura e Stende ad orlo
i ventagli verdi e le bacche rosse della Vite
tra rupi artigliate e smerigli di abetaie.
Dalla Tua Cima scende chiara la possibilità
che quello che lanciavo in avanti o in basso
o sulle teste fasciate dalle pergamene,
andava scagliato in Alto, oltre la diga
delle grandi rocce che trattengono il Cielo:
all’indirizzo esatto del Giusto Destinatario.
Potrai tardare, ma quale attesa ritarda?
La mia è fiduciosa: per quell’Ampiezza
che Hai Voluto mostrarci nell’ora limpida
prima che ce ne ritornassimo a valle.
Guardiamo ancora il Tuo Arco da qui,
le mani stese a visiera sopra gli occhi.


(Castelpetroso, Ago08)

*

Galassia Speranza

(Anni luce, fatevi mesi !)

I Suoi non erano versi, Signor Bloch,
ma la Speranza la sapeva cantare.
Su queste coste non hanno fatto toc,
troppa natura accerchia, troppo mare.
Ed eccoci nel teppismo culturale
che subiamo da schiavi lusingati
d’avere (si spera) legni esentasse
ville plurime e leggi basse basse.
Allora (si spara), quel Fascismo
non dev’essere stato tanto male!
A distanza d’anni, sessanta andati,
spari diversi, beh, suonano uguale.
Forzati dall’ottimismo governale,
abbiamo risuscitato il Leviatano
che eccelle a coprirci di vergogna:
naviga a svista, senza portolano,
ma per i pochi immuni dal baccano
è un fetore che porta nella fogna.
Signor Bloch, Lei ha scritto, lontano
dalle pire dove bruciò la Sua gente:
”l’importante è imparare a sperare,
la speranza non rinuncia perché
desidera avere successo di per sé
invece che fallire. Vuole uomini che
si gettino nel nuovo che si va formando,
a cui essi stessi appartengono”.
Ed io credo, credo strenuamente
che la speranza non è pari a niente,
è un principio, non un accidente,
la speranza non è un maggiordomo,
è sempre sobria ed è sconvolgente.
La speranza, signor Presidente,
è la Dea discesa in un uomo
salito da equatori ”abbronzati”:
il primo africano d’Occidente
che regna e tutti ci ha collegati.
Al Cairo ha detto che non importa
il nome del proprio Dio: suoi figli
siamo e dobbiamo aprire la porta
a Irene, ultima Dea, che ci scorta
con i suoi più comprensivi consigli
al pelagico ’Noi’ dopo i tragici ’io’.
Pace ha detto, Presidente, non guerra
ed Abbraccio ha detto, non tritolo
sganciato sul seno di Madre Terra
dal Suo misero amico bombarolo.
”Lo sperare allarga gli uomini,
non si sazia mai di sapere cosa
li fa tendere a uno scopo e cosa
all’esterno può essergli alleato”,
ha scritto ancora il Signor Bloch.
Ma gli elmi ammaccati d’Occidente
non vedono che il vento è girato
e neanche Lei, grigio Presidente,
in altri laidi giochi impegnato;
nella Certosa, ascetica poco,
ci rotocalca lo squallido fuoco
che Le prende di godere il mondo,
fino alle foci della Garonna,
da Lei ridotto al tondo abusato
cotto e mangiato di culi di donna
sopra il Suo batacchio venerato.
Io credo che Lei senta il momento
di un bis applaudito del Ventennio:
il popolo teleipnotizzato
dovrà decidere se il Parlamento
potrà tirare un altro decennio
o presto dovrà essere congedato
con rossoneri drappi e Orogatto
come s’usa nella Sua azienda,
che rileverà tutti con contratto:
mille postille e tempo determinato.
E saprà chiudere l’intera faccenda
poggiando il Suo discutibile mento
al di sopra dei poteri dello Stato
e del Mal Paese, da Lei tramutato
in un gregge di capre belanti
e tutte le famiglie, suoi dipendenti,
si specchieranno nello sgomento
di sentirsi dopo anni (ma non tanti)
un’orda collaudata di dementi.
Ma, vede, Le resiste una differenza:
tra Lei sazio e molti che non sono
e non è, creda, pura coincidenza
che non la veda dentro il frastuono
che scroscia dalle Sue televisioni;
ma già spigano internaute visioni
su come rovesciarLa giù dal trono.
La Speranza allarga, diceva Bloch,
dall’altra parte, serve buone carte
sta con i digiuni e veste da cuoco,
è un croupier che fa un altro gioco
dove a vincere sono i perduti
che tante volte sono stati fottuti.
La speranza cancella ogni reato
e cerca con noi il nuovo scopo,
è la divina prescienza del dopo:
disegna per noi un tenue filato,
per i suoi amici sopravvissuti,
mostrandoci dopo quest’inverno
chi è, all’esterno, quell’alleato.

*

Da occhi di smeraldo

(a ROZ)

Da occhi di smeraldo
sgorgano i tuoi versi,
da limpidi lampi di mare.
Da seta che disseta
e svela tondi frutti,
due rose da sillabare.
Da fianchi sodi zuppi
di sale miele fortuna
sgorga gioia saponata
ghirlanda per la luna.
Da sussurri d’incertezza
poeta tu sei e donna
ma non meno incanto
vive tra blusa e gonna.
Dai tuoi nidi di mare
sono rondini due lampi
di chiaro smeraldo.
Fragori dell’ora nera
ti hanno fatto tenaglia,
ma quale lama taglia
il balzo tuo pantera?
Mani leggere e braccia
forti liberano i tuoi versi
onde che alla bonaccia
strappano ogni barca.
Dal tuo cuore di donna
lo sguardo dolce s’apre
su fiori visi strade visti
dalla groppa della lepre.
Dall’arco della schiena
contro mare sul molo
sentivo voglia piena
di estasi tese al volo.
Pochi soldi di ventre
per sputare la rabbia
di una donna troppo
sola e stanca mentre
ancora scende in gabbia.
Sentili i gong di onde,
chiedono ai tuoi versi
di erodere le sponde.
E il cuore cede al canto
ed ai tornanti avversi.
Occhi di smeraldo
grondanti foglie morte,
limpidi lampi di mare,
siatemi ancora araldo
portatemi a respirare
dove il vento tira forte.

*

Il mio sorriso non convince nessuno

Il mio sorriso non convince nessuno.
Anche le pulci del barbone
svolazzano davanti
ai trenta soldatini
bianchi come zuccheri.

Il mio sorriso non convince nessuno.
Anche il postino mi squadra
mentre sull’uscio
firmo l’azzurra
d’un plico inutile.

Il mio sorriso non convince nessuno.
Anche la turista col foulard
sbuffa di fastidio
all’imbarco per Capri
verso rasi di rese rosa.

Il mio sorriso non convince nessuno.
La cassiera bruna forse
ricambia ma conta
che il resto sia giusto
e paghi l’arrivederci.

Il mio sorriso non convince nessuno.
Quello in blu fa tante domande
proprio non si spiega
un giovane a modo
si mischia coi pezzenti.

Non convince nessuno il mio sorriso.
Neanche il bimbo biondo
che strattona la mamma
lei mi brucia a sguardo
e se lo tira via.

Il mio sorriso non convince nessuno.
Questa vecchina spaurita
parole e guance rotte
scaccia gli spiriti dal letto
gli grida di scomparire.

Il mio sorriso non convince nessuno.
Un piccolo cane grigio
mi annusa da vicino
lecca la mano vuota
e piscia sulla strada.

*

Dolce trinità


(a Davide Pasquale Sigillo)

Io e D, nelle scarpe della domenica,
calavamo verso il mare bercianti.
Uomo donna figlia salivano uniti
stretti insieme nella dolce trinità.
La bimba, piccole braccia al collo,
ebbe dal gigante un bacio devoto,
la donna, occhi colmi di vera luce,
piegò il viso a bordo del suo veliero.
Poi passarono oltre, felici più di noi.
Andammo al piano di sbuffi e scaglie,
sbigottiti ma per altra incandescenza.
Muti e scalzi tornammo alla pietra,
invidiando all’ignota dolce trinità
di calzare le scarpe della domenica.

*

Il cuoco Angelino

Cuoco Angelino
io non ti Lodo
per come hai cucinato.

Era piccantino
il tuo bel brodo
ma, ahimè, è svaporato.

*

Porto del ritorno

àncora mia,
ché tragica essenza
ha questo viaggiare
sconsolato
per me
che fuggo
da sempre fuggo
la paure dell’uomo
andando via
solcando a scia
i mari dell’assenza
milioni di mille
lacrime salate.
Ed altri alti mari
eterna bonaccia
bruciati in faccia
da nudificato sole.
A te io ritorno
e cura chiedo
per questo
cuore inaridito
il tuo perdono,
mulso per l’aedo,
dalla carne
della tua bocca
bevo.
La tua dolce rosa
di rorido muschio
è il porto
a lungo
cercato.