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Vieni a Fuorigrotta
Una volta volevi solo mille lire ed oggi vuoi partire; ma dove vai di preciso tu che sei di Treviso? Te ne vai a Capracotta? Se tu cerchi l’iniquità la parata di mediocrità lo scolo della civiltà vieni a Fuorigrotta[i]. E la figlia brucia dalla voglia e la mamma le toglie la foglia ed ancheggia piuttosto tracagnotta occasione ghiotta(?); tutto questo bailamme di buche senza strade di scavi con le guade binari senza tram vetrine poco glam. Dov’è questa roba qua? Solo a Fuorigrotta. Il politico t’offre la pagnotta il seguace scuce una piotta sotto il naso della poliziotta che saluta la donnola bigotta. Dove trovi questa gente qua di straccioni vestiti da pascià di cretini bevuti sul sofà e cretine con il cincillà? Tutta a Fuorigrotta. La partita contro complotta e riempie lo stadio di masse in assedio incitanti giusto da un’oretta l’attaccante che non dà la botta; e lui in casa rinchiuso la faccia crollata caduta a pera cotta come Pellico recluso ma meno patriota inebetito aspetta che si tolga dai maroni la marmaglia di beoni buoni solo a pelar la gatta e gli lasci la strada tutta libera e vuota per la ghiotta serata un poco galeotta ed invece c’è coda giù fino alla grotta, e lo chiama incazzata la povera Carlotta. Dov’è questa melma qua? Proprio a Fuorigrotta. Il suono della mattina, driiin! Scendo presto per arrivare prima alla serra degli stronzi ondeggianti come bonzi nella saletta dell’ASL, perché oltre cinquanta il medico non canta e chi pianta pretesto è fuori dal contesto e scoppia una manfrina che ognun deve ballar se esente vuole andar. Io sì mi rompo il pacco proprio mi si sfarina ma da qui non mi stacco, debbo risanare un guaio che no, non ho creato e invece mi riguarda in questo immondezzaio. Ma dal muro di lato una tipa mi guarda con l’occhio rapito mi arpiona maliarda ed a maglia uncina. Poi al braccio agganciata la scintilla è scoccata e la frittata è fatta in quel di Fuorigrotta. Quest’incrocio più cieco del mio stesso intestino quando svolto e ci sbuco dalla fine del Pendino. Sulla strada che sale e cresce su dal viale tutto mi può capitare, perfino il vecchio pazzo che fila come un razzo. Io con molta prudenza per la scarsa visione comincio a spuntare; se scende l’affluenza m’infilo piano piano e con circospezione, ché un altro maiale risalendo da Agnano mi può scaraventare detto fatto nel pino. Basterebbe un semaforo a sbrogliare il casino un rimedio mammifero per dire al cittadino di averci la coscienza. Si è avvertito il Comune del pericolo immane ma non ha provveduto; neppure un vigilino a dettare precedenza e lo stesso Prefetto ne sa pure di meno e l’incrocio fa schifo da togliere il fiato. Dopo mesi di protesta e giare di veleno al quadrivio fottuto non hanno mandato nemmeno una marmotta. E sicuro il difetto causerà la botta qui a Fuorigrotta. E la moglie beve tè di foglie il maritino brulica di voglie ed accoglie un’ucrainotta vivace e poliglotta nella sua villetta dietro Via Arlotta a bere una coppetta della sciampagnotta e morde la caciotta della ragazzotta da noi a Fuorigrotta. Son tornate le cicale sulla Via Terracina polacche e nigeriane, son circa una dozzina. Macchinando le incontri allo spiazzo di benzina, fanno anche gli sconti a chi in auto s’avvicina. È una vista carnale brada come la Pampa, vacche d’esportazione esperte nella samba. Ah ma che confusione che problema bestiale! Ed a chi la racconti che sei uno neutrale e che se rallenti lo fai per una pompa ma solo di benzina? Nel cuore della notte c’è così tanta vita che non ci pare vero che sia attecchita accanto al Cimitero pieno di ossa rotte. È un gran capogiro il fisico sballotta inizi a stare male ma non ti disperare, puoi sempre peggiorare se entri all’Ospedale San Paolo che ti adotta in zona Fuorigrotta. Mamme con la spesa pensilina del bus fissano la palina con grugni da blues. Nonni coi cateteri non si reggono più sorretti da ex veneri venute dall’ex Urss. I raga coi berretti le raga con l’Ipod si smicciano furbetti sognan di fare upload. Una buona mezzora è bella che passata il bus non affiora la gente esasperata. In fondo si fa viva la cosa lampeggiante, alla curva arriva ma è ancora distante. Un tipo alto sbotta ma dove cacchio eri? però è la camionetta rossa dei pompieri. Ormai è leggenda, l’amico Pippotto stava alla fermata ancora giovanotto doveva arrivare a Piazzale Tecchio a furia d’aspettare c'è arrivato vecchio. Corriamo all’impazzata sulla terra che smotta molle come ricotta quaggiù a Fuorigrotta. Scarafaggi grossi come anacardi escono dai fossi alla sera tardi nel caldo termale c’inseguono testardi da Piazza San Vitale a Via Leopardi. La strada del poeta mette tanta pena molto fioca e cheta la luce sulla scena; steso sul portone dell’Immacolata dorme un anacoreta la faccia congelata. Dentro la stazione di Campi Flegrei altri nei cartoni a terra come Achei. Molte curve cieche ritorta si disegna dopo le paninoteche tutta Via Campegna, marciapiede stretto proprio inesistente il pedone poveretto rischia l’accidente. Il vecchio Sferisterio vicino alla grotta sarà un battistero oppure una gargotta? Domanda Fuorigrotta. La musica d’estate percuote le vetrate famiglie risvegliate da feste scellerate e quante clacsonate rotonde ingorgate frullano la calotta, in giro poi mappate di auto scoperchiate di targhe rovesciate di imposte oscurate e case grattugiate. Ed è tutto caducità dentro Fuorigrotta. Perfino Viale Augusto preteso boulevard solo meno angusto ma squallido bazar. Goffe casalinghe con laceri foulard si sentono bislunghe come le fiamminghe tele di Rembrandt. Fasulli cavalieri lenti scure da sole grevi faccendieri sputan nelle aiole ed aprono concorso per girar sul dorso la bella tabaccaia; vorrebbero cosarla e giurano di farlo ma non esiste merlo per quella civaia. Sfrecciano motorini da fianco a fianco un padre di bambini è diventato bianco quando una Fandango gli sfiora i piccolini. Ci sentiamo inermi anche sul selciato noi restiamo fermi e loro a perdifiato a tutto gas e armi nelle giubbe da ras. I cordoli divelti coi tondini all'aria stupidi risvolti di rabbia proletaria e poi altri cascami di triste fatiscenza a stento riassorbiti dai poveri stilemi di Italia mondiale passato coloniale Mostra d’Oltremare; ma giri il Piazzale e sfumano quei miti e per non sbagliare ritornano i patemi della marcescenza. Cambia l’aria, gira la girotta piove forte ed il fango fiotta l’acqua nera tutto infagotta e la luce elettrica interrotta. Dove trovi questa varietà di intuizioni senza verità di guasconi mezzi baccalà di gibigiane tutte voluttà? Vieni, vieni, vieni, vieni, vieni, vieni, vieni, vieni, vieni a Fuorigrotta.
[i] Quartiere (in)ameno della città di Napoli.
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La tenerezza - prima di tutto -
Dammi il fiore tieniti il frutto[1] e pazienza se sbaglio di brutto la tenerezza prima di tutto. Tipi loschi ci hanno distrutto affettandoci come prosciutto la tenerezza prima di tutto. Vanno via le vedove a lutto dopo avere pianto a dirotto la tenerezza prima di tutto. R.: Ogni cosa sarà più semplice l’amarezza verrà superata e mai più piangerà il salice se lo cinge la nostra risata. Ogni giovane al suo debutto in ginocchio prega il suo putto la tenerezza prima di tutto. Una dieta a base di strutto ti rimpingua il fisico sdutto la tenerezza prima di tutto. Gli spropositi del farabutto son propositi senza costrutto la tenerezza prima di tutto. R.: Sì sarebbe tutto più semplice a chiusura della serata se girassimo il nostro pollice verso l’alta volta stellata. La repubblica dell’usufrutto digerita dal suono di un rutto la tenerezza prima di tutto. La gallina sul fieno asciutto torce e preme il suo ovidutto la tenerezza prima di tutto. Oltre il mare salvo dal flutto lascia dietro un mondo distrutto la tenerezza prima di tutto. R.: Ma sarebbe tutto più semplice e l’Italia rappattumata se noi chiudessimo il vertice con un’ allegria ritrovata. (Ad lib.: la tenerezza prima di tutto, la tenerezza prima di tutto, la tenerezza…)
[1] Canzoncina stramba in cerca di musicista (jazz) per nascere a pieno.
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Il dispaccio di Ems
(le guerre nascono dai malintesi) Se saputo avessi che potessi e dovessi e senza compromessi contro me marciassi affinché non osassi di riprovare a dire tutto quel che dissi cosicché sapessi che più non potessi e non più dovessi e neanche lo volessi né lo vagheggiassi e mi vergognassi di non aver sinossi mentale né sintassi e che ti consultassi prima di spiegare il giro dei tuoi passi e non ti confondessi nel novero dei fessi benché già sapessi che non intendessi e non immaginassi che te la prendessi o che determinassi di farti incavolare e che intervenissi severa e mi punissi con colpi così grossi sebbene non volessi che cara la pagassi e non desiderassi che male ne subissi malgrado ti pregassi che ci rinunciassi e ti scongiurassi che bene riflettessi per farti fermare prima che perdessi anch’io i miei riflessi e l’ira raggiungessi ma infine tu scegliesti che dovessi e potessi, probabilmente noi due non ci saremmo distrutti.
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Ll’acchiappamierule
[’o scugnizzo s’addiverte] ’Nu cacambrello ’e mierulo me ’nguaja ’e matenate. S’appoja chistu cantatore ’ncopp’’a petturata, schiara ’a vucella, abboffa ’e ppenne, attacc’a cantà. Ennò, l’adda fernì! E i’ saccio che putesse fà. Metto ’na trentina ’e mulliche ’nzuppate a vino ’a for’’o barcone m’’o tiro pe’ dint’’a fenesta, attacco ’o cupierchio d’’o cesso a ’nu spavo fino e po’, annascuso aret’’o muro, m’’o ’ncatasto. Quann’’o mierulo vene a ll’urdema mullechella ’ncopp’’o cesso, tir’’o filo e cade ’int’’a canesta. Mmiezo affugato comme pò cantà ’o capatosta? ’Nfuso t’arreduco cantatore: capa, coda e scelle!
--------------------------------------------------------------------------------------------- L’acchiappamerli [lo scugnizzo si diverte] Uno scocciatore di merlo mi rovina le mattine. Si appoggia questo cantatore sul parapetto, rischiara la voce, gonfia le piume, inizia a cantare. Ennò, deve smetterla! Ed io so cosa potrei fare. Metto una trentina di molliche intrise nel vino dal balcone me lo attiro di qua dalla finestra, lego il coperchio del water ad uno spago fino e poi, nascosto dietro il muro, io lo incastro. Quando il merlo arriva all’ultima mollichina sopra il water, tiro il filo e cade nel canestro. Mezzo affogato come può cantare il capatosta? Zuppo ti riduco cantatore: testa, co
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Era meglio andare a Melfi
Ho chiesto all’oracolo di Delfi che razza di vita prediligo donde provengo e dirigo e ’Sia così gentile: che stipendio avrò?’ e, nella luce effusa, dietro la nuca il tremolio quieto d’indaci golfi dalle latebre la Pizia s’eresse e senza indugio profetò: ”Chicca, o che seno!”. Dal verdetto anagrammato su cui fiorirono scommesse in ogni ellenico caseggiato il fatidico senso oggi sbuca: ”Che cacchio ne so!”.
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Di media bellezza
Una tipa di media bellezza da portare giù ad Acitrezza dove tira sempre la brezza ed il mare porta freschezza risalirsene poi nella piazza dove una fontana ci spruzza abbracciato a questa ragazza sarà un cantico di dolcezza. Sulla rena granosa e grezza pescatori riparan la rezza una sterna marina svolazza un vocione grida Santuzza! lui che esce dalla carrozza e traversa svelto la piazza il più piccolo dalla terrazza ride e dice con vera gaiezza papu miu tunnau, matruzza! Questa tipa di media bellezza
me la porto giù ad Acitrezza a provare insieme l’ebbrezza di svignarcela dalla munnezza che ci ha bombardati di puzza butteremo al vento l’asprezza di convivere con la schifezza della nostra città tanto sozza che il fiato da anni ci spezza. Nella baia che d’alghe olezza
ci godiamo la grande finezza di un menù davvero di razza pasta e sarde e souté di cozza la frittura di pesce che frizza il bianchino la gola accarezza e cassate di gran morbidezza sullo sfondo l’antica fortezza di tra i tavoli il mare marezza. Qui l’antidoto della cupezza
è un cielo d’azzurra purezza un lettuccio per la tenerezza su cui stare in tutta mollezza sillabando con mite lentezza la grammatica della pienezza ci godiamo la balda prodezza di riprenderci la giovinezza e sul resto ci passo la pezza.
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Astronomia
Disse ’stasera vedrai le stelle’ ma come e quali non precisò; lei sentì vibrare tutta la pelle e stanca d’aspettare lo baciò. Lassù, nella specola in soffitta, sbirciando gli astri più lontani salirono un rombo di marmitta e otto colpi d’una scacciacani. Per lui segno provvidenziale di chiudere bene l’abbaino srotolare il soffice stuoino imbandire ostriche e caviale. Tuffandoci dentro i lamponi si scolò più di qualche calice e inventava le costellazioni, ’vedi’ le disse ’quella è il Salice’. Lei, inesperta di astronomia, si fidò ma le parve strano; poi all’orecchio sentì ’bugia’, lui, disteso, porgeva la mano. Si sfilò svelta il corpettino avvertendo un caldo tormento ma, svaccato sul tappetino, l’astronomo era già sonnolento. Provò a pizzicargli la faccia, spruzzarci dello spumante; del risveglio nessuna traccia: il sonno astrale era pesante. Lei tossì, starnutì, immusonì per l’ennesima notte in bianco; l’astronomo si girò sul fianco e sul turgido seno si assopì. La scarognata guardò in alto domandando ai siderali spazi di evitarle che cotanti strazi la prendessero tutti d’assalto. Lei da sempre la tipa focosa con la fissa per i raffinati; chissà ora in che nebulosa sparivano gli ardori sperati. Si levò a sedere sconfortata; trovò a tentoni calze e gonna sentendosi come una donna alla fine della mascherata. Provò a pensare che in fondo sono giri di walzer del mondo ma anche quanto fosse fessa a credere in ogni promessa. Nella penombra del sottotetto sciabolava un lontano fanale; andò ad aprire l’anta a soffietto e se le guardò... dal cannocchiale.
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Al Giusto Destinatario
Il biglietto in cui Ti ho sempre scritto: ”sono nel giusto, lo faccio perché è giusto” andava spedito a Te, non agli acquatti fecali di banditori a quattro zampe, né alla Terra come direzione corretta per la regione ferrosa del solidarismo. Non agli abachi di mezze cifre forzate a fare solo totali e mai una somma; né all’isola calva dai cannoni spaccati puntati qua a tirare bussole di cartone. Andava spedito a Te, Giusto Destinatario che Sei l’Esperto di segni e calligrafie, che Sei Chi Distingue il pari dal dispari, il grano dal loglio, il petalo dalle bucce, il cane dalle iene, la perla dalle biglie; a Te, che Sei Chi Dà Capitolo in Voce, anche se cariata lorda guasta putrida anche se scialba agra avida come la nostra. Hanno detto di mandarlo a Te il biglietto: Te lo invio con tutto lo slancio che occorre ai più abili lanciatori di boomerang. Ricevilo nella Tua Casa a larghe colonne ora che i fianchi sudano, Aprilo e Leggilo con gli occhiali d’oro e il Sorriso che affiora, ora che i fianchi sudano e il polso croscia nello sforzo che occorre al mio braccio. Leggilo e Richiudilo, se Sarai soddisfatto Rispediscilo col timbro delle Poste Regie e la Tua firma che Brilla dentro la busta. Dicono che Rispondi presto, che Ti piace chi ha cercato il giusto e non il Destinatario che Sta sul monte e Cura e Stende ad orlo i ventagli verdi e le bacche rosse della Vite tra rupi artigliate e smerigli di abetaie. Dalla Tua Cima scende chiara la possibilità che quello che lanciavo in avanti o in basso o sulle teste fasciate dalle pergamene, andava scagliato in Alto, oltre la diga delle grandi rocce che trattengono il Cielo: all’indirizzo esatto del Giusto Destinatario. Potrai tardare, ma quale attesa ritarda? La mia è fiduciosa: per quell’Ampiezza che Hai Voluto mostrarci nell’ora limpida prima che ce ne ritornassimo a valle. Guardiamo ancora il Tuo Arco da qui, le mani stese a visiera sopra gli occhi.
(Castelpetroso, Ago08)
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Galassia Speranza
(Anni luce, fatevi mesi !)
I Suoi non erano versi, Signor Bloch, ma la Speranza la sapeva cantare. Su queste coste non hanno fatto toc, troppa natura accerchia, troppo mare. Ed eccoci nel teppismo culturale che subiamo da schiavi lusingati d’avere (si spera) legni esentasse ville plurime e leggi basse basse. Allora (si spara), quel Fascismo non dev’essere stato tanto male! A distanza d’anni, sessanta andati, spari diversi, beh, suonano uguale. Forzati dall’ottimismo governale, abbiamo risuscitato il Leviatano che eccelle a coprirci di vergogna: naviga a svista, senza portolano, ma per i pochi immuni dal baccano è un fetore che porta nella fogna. Signor Bloch, Lei ha scritto, lontano dalle pire dove bruciò la Sua gente: ”l’importante è imparare a sperare, la speranza non rinuncia perché desidera avere successo di per sé invece che fallire. Vuole uomini che si gettino nel nuovo che si va formando, a cui essi stessi appartengono”. Ed io credo, credo strenuamente che la speranza non è pari a niente, è un principio, non un accidente, la speranza non è un maggiordomo, è sempre sobria ed è sconvolgente. La speranza, signor Presidente, è la Dea discesa in un uomo salito da equatori ”abbronzati”: il primo africano d’Occidente che regna e tutti ci ha collegati. Al Cairo ha detto che non importa il nome del proprio Dio: suoi figli siamo e dobbiamo aprire la porta a Irene, ultima Dea, che ci scorta con i suoi più comprensivi consigli al pelagico ’Noi’ dopo i tragici ’io’. Pace ha detto, Presidente, non guerra ed Abbraccio ha detto, non tritolo sganciato sul seno di Madre Terra dal Suo misero amico bombarolo. ”Lo sperare allarga gli uomini, non si sazia mai di sapere cosa li fa tendere a uno scopo e cosa all’esterno può essergli alleato”, ha scritto ancora il Signor Bloch. Ma gli elmi ammaccati d’Occidente non vedono che il vento è girato e neanche Lei, grigio Presidente, in altri laidi giochi impegnato; nella Certosa, ascetica poco, ci rotocalca lo squallido fuoco che Le prende di godere il mondo, fino alle foci della Garonna, da Lei ridotto al tondo abusato cotto e mangiato di culi di donna sopra il Suo batacchio venerato. Io credo che Lei senta il momento di un bis applaudito del Ventennio: il popolo teleipnotizzato dovrà decidere se il Parlamento potrà tirare un altro decennio o presto dovrà essere congedato con rossoneri drappi e Orogatto come s’usa nella Sua azienda, che rileverà tutti con contratto: mille postille e tempo determinato. E saprà chiudere l’intera faccenda poggiando il Suo discutibile mento al di sopra dei poteri dello Stato e del Mal Paese, da Lei tramutato in un gregge di capre belanti e tutte le famiglie, suoi dipendenti, si specchieranno nello sgomento di sentirsi dopo anni (ma non tanti) un’orda collaudata di dementi. Ma, vede, Le resiste una differenza: tra Lei sazio e molti che non sono e non è, creda, pura coincidenza che non la veda dentro il frastuono che scroscia dalle Sue televisioni; ma già spigano internaute visioni su come rovesciarLa giù dal trono. La Speranza allarga, diceva Bloch, dall’altra parte, serve buone carte sta con i digiuni e veste da cuoco, è un croupier che fa un altro gioco dove a vincere sono i perduti che tante volte sono stati fottuti. La speranza cancella ogni reato e cerca con noi il nuovo scopo, è la divina prescienza del dopo: disegna per noi un tenue filato, per i suoi amici sopravvissuti, mostrandoci dopo quest’inverno chi è, all’esterno, quell’alleato.
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Da occhi di smeraldo
(a ROZ)
Da occhi di smeraldo sgorgano i tuoi versi, da limpidi lampi di mare. Da seta che disseta e svela tondi frutti, due rose da sillabare. Da fianchi sodi zuppi di sale miele fortuna sgorga gioia saponata ghirlanda per la luna. Da sussurri d’incertezza poeta tu sei e donna ma non meno incanto vive tra blusa e gonna. Dai tuoi nidi di mare sono rondini due lampi di chiaro smeraldo. Fragori dell’ora nera ti hanno fatto tenaglia, ma quale lama taglia il balzo tuo pantera? Mani leggere e braccia forti liberano i tuoi versi onde che alla bonaccia strappano ogni barca. Dal tuo cuore di donna lo sguardo dolce s’apre su fiori visi strade visti dalla groppa della lepre. Dall’arco della schiena contro mare sul molo sentivo voglia piena di estasi tese al volo. Pochi soldi di ventre per sputare la rabbia di una donna troppo sola e stanca mentre ancora scende in gabbia. Sentili i gong di onde, chiedono ai tuoi versi di erodere le sponde. E il cuore cede al canto ed ai tornanti avversi. Occhi di smeraldo grondanti foglie morte, limpidi lampi di mare, siatemi ancora araldo portatemi a respirare dove il vento tira forte.
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Il mio sorriso non convince nessuno
Il mio sorriso non convince nessuno. Anche le pulci del barbone svolazzano davanti ai trenta soldatini bianchi come zuccheri.
Il mio sorriso non convince nessuno. Anche il postino mi squadra mentre sull’uscio firmo l’azzurra d’un plico inutile.
Il mio sorriso non convince nessuno. Anche la turista col foulard sbuffa di fastidio all’imbarco per Capri verso rasi di rese rosa.
Il mio sorriso non convince nessuno. La cassiera bruna forse ricambia ma conta che il resto sia giusto e paghi l’arrivederci.
Il mio sorriso non convince nessuno. Quello in blu fa tante domande proprio non si spiega un giovane a modo si mischia coi pezzenti.
Non convince nessuno il mio sorriso. Neanche il bimbo biondo che strattona la mamma lei mi brucia a sguardo e se lo tira via.
Il mio sorriso non convince nessuno. Questa vecchina spaurita parole e guance rotte scaccia gli spiriti dal letto gli grida di scomparire.
Il mio sorriso non convince nessuno. Un piccolo cane grigio mi annusa da vicino lecca la mano vuota e piscia sulla strada.
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Dolce trinità
(a Davide Pasquale Sigillo)
Io e D, nelle scarpe della domenica, calavamo verso il mare bercianti. Uomo donna figlia salivano uniti stretti insieme nella dolce trinità. La bimba, piccole braccia al collo, ebbe dal gigante un bacio devoto, la donna, occhi colmi di vera luce, piegò il viso a bordo del suo veliero. Poi passarono oltre, felici più di noi. Andammo al piano di sbuffi e scaglie, sbigottiti ma per altra incandescenza. Muti e scalzi tornammo alla pietra, invidiando all’ignota dolce trinità di calzare le scarpe della domenica.
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Il cuoco Angelino
Cuoco Angelino io non ti Lodo per come hai cucinato.
Era piccantino il tuo bel brodo ma, ahimè, è svaporato.
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Porto del ritorno
àncora mia, ché tragica essenza ha questo viaggiare sconsolato per me che fuggo da sempre fuggo la paure dell’uomo andando via solcando a scia i mari dell’assenza milioni di mille lacrime salate. Ed altri alti mari eterna bonaccia bruciati in faccia da nudificato sole. A te io ritorno e cura chiedo per questo cuore inaridito il tuo perdono, mulso per l’aedo, dalla carne della tua bocca bevo. La tua dolce rosa di rorido muschio è il porto a lungo cercato.
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