chiudi | stampa

Raccolta di poesie di Pietro Menditto
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Elenco delle somiglianze

La parentela tra i bambini

che giocano con la sabbia

e il vento che lo fa con la polvere;

questi paralleli della vita,

la carezza dell’innocenza,

il crimine elegante della corrida,

l’elenco delle somiglianze,

mi tengono impegnato

durante la tua assenza,

nella penombra delle mie stanze.

 

L’uomo alto e corpulento

che abita poco lontano,

che incontro con una frequenza

da numeri primi, è un’urna

che contiene le ceneri di mio padre

e di alcuni stretti affini.

 

La signora del quarto piano

che a tavola dopo il terzo bicchiere

litiga furente col figlio divorziato

nasconde tutto il risentimento

di mia madre, mai vomitato.

 

Mia nonna che nutriva di pietà

uomini e animali a distanza

immobile su una sedia

è la signora anziana

del palazzo di fronte

morta di sorda inedia.

 

E quel vecchio magrebino,

che passa di domenica, al mattino,

il venditore di tappeti,

con gli occhi un po’ velati,

all’apparenza per niente scaltro,

è mio nonno che chiuse il suo negozio

per gestire quello di un altro.

 

E quell’altro, quello pelato,

fermo all’angolo che segue

con lo sguardo macchine e passanti

finché non scompaiono,

girando la testa come un periscopio

è mio zio che premorì a mia zia

che premorì e basta, evitando il manicomio.

 

E le merde di cane che costellano la piazza

sono alcuni miei compagni delle elementari

e quelle che segnano i marciapiedi

alcuni del liceo e tutte queste

insieme ad altre specie di escrementi

compongono l’intero collegio dei docenti.

 

Tutto questo, dicevo, mi tiene un po’

occupato durante la tua assenza,

che non so capire.

 

In questo elenco, dimenticavo,

tu sei la primavera,

quella che tarda a venire.

*

Un ricordo della fine

Mi sono ricordato all’improvviso

che circa vent’anni fa scrissi una poesia d’amore

in cui l’amore come è normale non veniva nominato.

Ricordo anche che la poesia era dedicata, come è normale,

a una donna inesistente, come è per tutte le poesie d’amore.

Per il resto non ricordo una sola parola di quella poesia

ma di me mi ricordo – come fossi all’improvviso

distolto da tutto il resto, come cercassi disperatamente

carta e penna e un angolo adatto per mettermi a scriverla.

Ma, ripeto, non ricordo una sola parola di quelle che scrissi.

Quando l’ebbi finita, la poesia, la soddisfazione fu enorme.

Dalla regione sconosciuta era arrivato il fantasma

e mi aveva ordinato di usare l’inchiostro

per i geroglifici del buio, per il miracolo dell’epifania

su uno scadente foglio di quaderno.

Circa vent’anni fa l’amore mi fece visita

assumendo una delle sue infinite e incredibili forme

per poi tornare nella regione sconosciuta

per tramutarsi in circa vent’anni in un ricordo vuoto.

E la novità è che ora guardo quel vuoto come si guarda una tomba,

una fossa in un campo di morti che percorro in silenzio

e quel vuoto mi strugge come una morte precoce, come un’estate

sulla quale indugi ancora il cadavere dell’inverno,

come tutte le vite che il tempo ha ingoiato

e disperate chiamano nel vento, nell’ora più malinconica del giorno,

nel presentimento della fine di tutto, che l’amore stesso

è un ricordo della fine che cresce negli anni

e viene a posarsi su noi come cala la sera,

come sommessamente muore una primavera.

 

*

Fino a quando?

Fin dove il dove attende

la piaga purulenta e infame

la spina nella carne

e i passi che non contano più

dopo i cari addii ogni giorno

che il principe comanda…

 

Fin dove attende il contrario –

si dice – di questo trampolante

cammino di trincea e i cari volti

dispaiono per l’unico volto

fossile di rinunce antiche.

 

Fin dove urta l’onda millenaria assillante

del silenzio nel silenzio più fondo che è l’attesa.

Là dove si tende senza sapere

in questo viaggio meschino

adorno di parole esauste e pause massacranti.

 

Ma la via interroga se pure non ti volti

e mostra l’inanellarsi dei tempi

in un suffragio esperto di commiati.

 

Pure ogni volta si fa l’oblio cura del

rammemorare l’infinito disperso

nell’uguale vacuità dei giorni.

 

Fino a quando? Fino a quando?

*

Ed io non so se questo stupore

Questa mattina di trent’anni dopo

è una mattina di cinquant’anni fa.

 

Quel rettangolo di luce è lo stesso che allora

fu ritagliato da una finestra che non c’è più.

 

Sono appena un po’ più di quella finestra.

 

Nel vuoto invulnerabile l’invisibile sangue

scorre sulle alte pareti del silenzio.

 

Una volta scrissi:

Erro nel pallore vago e tu

splendente fato del dio…

E’ che stanotte vento mi vuole

nello sghembo cimento della veglia

nella frotta diseguale dei cani…

 

Ed io non so se questo stupore è il mio

o è del mondo che lo va scrivendo

sulla mia anima attonita.

*

Epochè

Per la prima volta da un po’

i ricordi tacciono in filari di salici che nessun

vento muove.

Ciò che sta accadendo è inchiostro che si secca al

solo pensarci.

 

Quando siamo a questo punto

il deserto si spazientisce alla nostra ombra

e la valigia dei trucchi risulta un inutile bagaglio.

 

Quello che sta accadendo mi evita uccidendomi

e un insano plebiscito per il perdono aleggia

sulle acque stagnanti.

 

Altri portano la remissione

su lettisterni preparati apposta per questo momento senza fine.

 

Cosa ne sarà del mio cane assolto in una radura

degli anni settanta? Ogni urna è una galassia troppo grande

per ceneri che sanno l’urlo che fa la porta sui cardini quando

il guardiano annoiato si interroga sul perpetuo e l’eterno.

 

Finché tutto continua ad odorare della sua presenza instancabile.

*

Due colombi

 

Due colombi, uno bianco l’altro nero,

coi lombi acrobati sullo sbrecciato cornicione

appaiono inquieto l’uno, l’altro altero.

 

Come per una richiesta disattesa è l’emozione

che turba a un tratto il nero inelegante

e fanno estranei un tratto breve ma appaiati

poi divisi la coda si danno in un istante,

per affari che non saranno certo concordati.

 

Due colombi, non due di quei falchi rapaci,

due emblemi disposti in piena luce, comunque

figura di tutto che gli animi fa esser capaci,

nel mondo di sopra, di sotto, e quindi ovunque.

 

E tu pensi a ciò che è concavo e al convesso

e non è certo detto sia poi convesso il bianco

e nero il concavo nel caro piccolo consesso.

 

Le parti furono decise molto prima al banco

e ogni colore si fa solo in universo, e manco.

*

Sbando nella legge estatica

Sbando nella legge estatica

nella gloria fisica della metafisica.

Siedo a tavola come se

il tutto accaduto non fosse

che il niente accaduto.

Qualcuno parlerà di cose che

come meteoriti hanno colmato

il vuoto della mattinata, novità fatte

di spirito umiliato in futile divenire.

I bambini leveranno al cielo

le spoglie monche dei loro eroi

e ripeteremo non il nome ma il noi,

pronome dell’invisibile camuffato in carne

al barbecue dei giorni sempre uguali.

Le nuvole avranno i loro esegeti

la meteoropatia i suoi poeti

la scienza le sue subparticelle

i giornali la loro querelle

i mistici il pane supersustanziale.

E tutto sarà iniziato nel punto

della noia, come è normale

perché il dubbio da statico

divenga da quel punto immortale.

*

Ma allora cos’è

Tu dici forse non è vero niente.

Nessuno degli evangelisti

fu sincero con la gente.

Alla croce appesero

tre delinquenti e le belle novelle

le scrissero quattro molto eloquenti.

 

Forse è stata tutta una truffa,

un’opera che nel migliore dei casi

è stata poco tragica e molto buffa.

Tutto fu inventato e Paolo

li superò tutti, il massimo tintore

che di uno qualunque fece il Salvatore.

 

Ma allora cos’è quello che alcuni sentono

per esempio in una strada infesta e vuota

sotto un sole che dardeggia la testa

nella canicola, nell’aria immota?

 

Cos’è quella che pare l’unica salvezza

nell’ora che riassume di tutti la fanciullezza,

quella certezza che se qualcosa deve accadere

l’unica è dare la propria vita al prossimo

e il paradiso è tutto in questo assurdo vedere?

*

Assenza di ispirazione

La poesia è magnifica.

Si regge da sola, corolla

senza gambo, sospesi cerchi

concentrici con al centro

un’essenza ineffabile

catturata in un momento

di rara grazia. Le parole venute

prima al labbro e poi alla penna

come un respiro puro e adorno di un’aria

di luna che si consumava nello spazio

siderale in una sera di un inverno

di un anno in cui procedevo

prossimo a un nirvana.

Gli a capo sono decisi

con la cura di chi da maestro

pota un bonsai millenario.

Le parole fluiscono l’una

nell’altra e sembrano essere state create

per questa destinazione,

per la felicità di questo approdo.

A volte, anzi sempre, sono così le rose:

foglie che stringono foglie e si aprono

guardando nello stesso punto magico del cielo.

Sono così talora i giardini, una pausa

nel mondo, celeste che si fa terrestre

perché ciò che sta sopra sappiamo

è come ciò che sotto si strugge nel suo desiderio.

Non c’è che dire, la poesia è memorabile,

peccato che non mi sia venuta, che non abbia

potuto fissarla sul foglio, donartela come acqua sorgiva

nel cavo delle mani che non l’hanno trattenuta.

 

*

La spazzola

   Dunque qualcosa resta

   che abbiamo condiviso:

   la spazzola

   che ci pettinava entrambi.

 

   Non riuscivo mai a trovarla,

   la lasciavi nei posti più impensati.

   Era un tuo gioco sottile, l’adorabile

   strategia che mi faceva imbestialire.

   Oggi so cosa volevi dire:

   io tu e lei siamo uno in tre,

   se trovi lei trovi anche me.

 

   Adesso rintracciarla non è più

   un problema: un’altra donna,

   un’altra scena. Ma l’altra sopporta,

   rassegnata; evita di sfiorarla anche

   solo con un dito: sa che nessuno

   può separare ciò che una spazzola

   un giorno ha unito.

 

   Qualcosa, dunque, resta

   che abbiamo condiviso,

   che per fortuna è muta.

 

   Se mi ci metto, posso tentare

   di contare tutte le volte

   che non ti ho capita.

 

   Perciò mi siedo qui,

   uno tra gli imbelli,

   su un tavolo allineo,

   uno ad uno, i tuoi capelli.

 

*

Gli occhi certamente

Gli occhi certamente, e il naso

e la bocca e come i capelli

ti coprono e scoprono le orecchie

e come tutto questo insieme

flagra in un silenzio – mentre parli –

che è quello dietro la poesia

e la fa essere nel concerto

che ogni volta si rinnova

e altro silenzio produce

in me che scorro dalla tua faccia

al seno che ha vita propria

ed esubera in onde che mi tolgono l’aria.

Poi gli occhi scendono alla vita

alla vita aggrappandosi e cercano

di indovinare l’ombelico e ancora

il tesoro morbido e caldo

del centro del mondo

che celi come non fosse il solo perché

di quello che scrivo, silenzio

dietro il silenzio, muto animale pulsante

nella sua tana d’oro buio e sanguinante.

E tutto questo, ogni volta, so

che si tramuterà nella tua assenza,

nel vuoto che percorrerò senza fiatare

percorrendo con un dito i tuoi infiniti contorni

fino al momento che ti rivedrò,

finché il miracolo non si ripeterà,

finché finalmente tu non riappari, non ritorni.

*

Il fornaio con cui mi ubriaco

Il fornaio con cui mi ubriaco

tiene in massimo conto il rispettare

e l’essere rispettato.

 

Mi dà del Lei e salutando

accenna un inchino

perché sono un impiegato.

 

Tra quelli che bevono

appartiene agli apollinei

che conoscono la distanza

e l’arte della danza immobile.

 

Se ne sta infatti ritto

in un punto sacro dell’osteria

nella posa nobile

di chi serve solo se stesso.

 

Non posso dire di averlo visto

una sola volta alzare il calice.

 

Quando sarà chiamato

si presenterà al cospetto del capo

ben pettinato.

*

La moltitudine

 

                                                             

       

   La moltitudine che all'alba appena  

   al luogo si dirige dove lavorando

   sconta incomprensibile l’antica pena,

   raccoglie andando come catarro in gola

   quella che è stata la sua vita fino ad ora.

 

   Quando è giusto il peso del secreto ribollente

   e pronto al getto, dritto in un angolo lo sputa

   dove un altro popolo reietto la sera precedente

   vomitò suo spesso malto per disgrazia ricevuta.

 

   Il basalto l'acido composto velenoso erode,

   veloce la terra buca e si dispone infine fermo

   facendosi rugiada sui campi incolti dell'inferno.

 

   Nel suo sonno Satana che quasi tutto vede

   contento in un sorriso soddisfatto pensa,

   dischiudendo fascinosi gli occhi saettanti:

   "Non ancora ch'io mi levi è tempo:

    l'opera    mia    tanto    è    avanti! "

 

*

Due polveri

Se la realtà mi nega la sua calda confidenza

dandomi del ‘Lei’ altera e nemmeno il ‘tu’

di chi non mi vede mi fa trasalire, dove troverò

la forza per tendere

                                un brandello di coscienza al cielo?

 

Una volta trascinavo la carcassa del mio sepolcro

come un trofeo di guerra e ingannavo candidi fogli

con su scritti i motti della mia risentita beatitudine.

 

E se tutto questo aveva un prezzo lo pagavo in contanti

senza sapere da dove venissero quei denari luccicanti.

 

Ora una voce che mormora da un abisso inaridito

e rimbalza sui fianchi di taglienti scogliere

mi dice che fuori corso ormai è la mia vita:

ha preso l’ambio il puledro  per una deriva inaspettata,

per una rotta segnata da un dio che non mantiene.

 

‘Sistema le tue cose’ – ripete , con la monotonia

dell’esercizio di uno studente di violino – nel quaderno

è scritto un distico che ha poco di sublime, e ricorda.

 

Ricorda il suono misterioso delle maschere cadute

dai visi amati ogni serata amica; la stagione che

tra litanie di infiniti bardi mesta vanità attingeva

succingendo la sua purpurea veste pudica;

il commiato crudele di corpi divenuti ombre

che sciolsero le sillabe di un testo reso indecifrabile.

 

L’essere testimone di tutto questo non ti ha fatto eletto.

Oh, non avrai tu il salterio che riscatta il tempo!

 

Betsabea è fuggita col suo sposo quando ha letto

la brama nell’ardore dei tuoi occhi e tu sei rimasto solo

tra le colonne inattingibili del tempio

e alle tue spalle sgorga eterno il tuono

                                                       dagli inferi dell’arca.

 

Ma esso pure, lo sai, ha in sorte

una promessa di rovina e fuoco vasto.

Tra due polveri ti è dato scegliere soltanto:

sabbia di deserto o cenere d’olocausto.

 

 

*

Da lontano

Ormai il ricordo che si aggira da troppo tempo

come una fiera intorno alle mie macerie,

l’afrore del suo fiato caldo che mi investe

a tratti – sbuffi di vapore di una locomotiva di carne –

mi rinfacciano la mia disfatta, la nostra.

 

Ho spostato tutto nella casa dove sopravvivo.

Le foto nelle cornici hanno conosciuto esodi imprevisti.

Adesso mi guardi da un luogo più elevato

e nulla toglie che non ci abbia azzeccato.

Forse dove vivi adesso l’aria è più fina,

ti svegliano i muggiti delle vacche o, più

teneri, i belati degli agnelli.

 

Noi due ci si siamo amati.

L’impronta delle labbra, della lingua, del velluto della pelle,

della cieca tenerezza tra le gambe, del modo in cui pronunciavi

il mio nome in certi momenti … 

E quell’altra – terrore profondo senza lingua -, dell’anima buia,

da dove occhi muti dal fondo della vertigine reclamavano

un riscatto che non capivi, che doveva crescere con uno sforzo

fatto di veglie in cui l’amore aveva solo una parte,

                                                    sono una cella troppo stretta …

           Occhi dal fondo delle viscere che imploravano di risorgere

                                                                                   sotto il sole.

 

Tutto questo continua a bruciare, lava che gorgoglia

sul fondo del vulcano che solo da lontano si può dire spento.

Ecco, da lontano una volta puoi cadere dentro il vulcano.

Da lontano c’è questo senso che non so definire,

fatto di una pietà che si vergogna di essere tale

e di un orgoglio che fa di tutto per farsi giustificare.

 

E’ una ferita nel tempo. Proprio così, il tempo sanguina

e siamo stati noi a ferirlo, trascurandolo come

fosse invulnerabile, come noi credevamo di essere.

 

Poi, per caso, come ora sta accadendo, solo perché

guardi in una direzione qualunque, e anche il giorno

mostra senza vergogna la sua ferita – il giorno stesso ferita –,

realizzi che sei in un abisso di silenzio e anche tu

– che svegliano muggiti o belati – ti trovi lì e tutto quello

che è successo è così stupido che non c’è una spiegazione.

Probabilmente esistono forze che devono fare

uno sporco lavoro e porsi di traverso. Ciò dovrebbe

rientrare nella logica dell’economia universale.

Ma tu sai che quella non è la polvere dei tomi che preferisco.

 

Finirà tutto questo? Ti rivedrò? Mi terrai di nuovo la mano?

E’ tutto così lontano. Da lontano ti scrivo. Da lontano sono dentro

il vulcano. Da lontano anche tu, credo, vuoi capire il prima, il poi.

 

Raccogliamo tutto quello che abbiamo disperso

                                                                   perché quello siamo noi.

 

*

Il ritratto

 

 

  

A mia madre

   C'è un ritratto di te a vent'anni

   che io non posso guardare.

 

   Sul mobile, nel soggiorno,

   sul mobile che incastona il televisore,

   c’è un ritratto di te a vent’anni

   che io non so dire.

 

   Certo, in esso ti protendi,

   sorridi, come pretese il fotografo;

   sei già china su tuo marito, su noi…

   Ma tutto questo non è niente

   di quello che riesco a sentire.

 

   Ogni volta il ritratto

   esce dalla cornice

   scivola in me

   prende il posto della ragione

   diventa un mare di tenerezza…

 

   C’è un ritratto di te a vent’anni

   in cui chiedi perdono della tua bellezza.

 

                                                        (1990)

 

*

Alighieri 3192

Sertaca, 98/179/3192

  

   Carissimo amico,

   riscontro con un poco di ritardo

   per motivi dipendenti

   dalla mia nolontà

   la tua del 13.29.3192

   con un ineffabile piacere.

   Come vanno le cose?

   Alla grande!

   La grigia eminenza del noùmeno

   le consiglia né più né meno che

   come una donna pilastrodellacasa;

   il mio spirito guida

   non ha mai preso la patente e

   l’angelo custode non guarisce

   dalla malattia del sonno.

 

   La poesia? Beh, quella, se possibile,

   va peggio ancora.

   Forse non è più tempo

   perché ogni volta che li rileggo

   i miei versi, sono proprio questo:

   un bollettino del tempo.

   Vento, cielo, sole, luna, pioggia,

   caldo, freddo, una assurda sincrasia

   per la meteorologia.

 

   Per il resto, che dirti? L’amore?

   Come sempre va e viene: sceglie

   le sue vittime come meglio gli conviene.

  

   Di solito mi lascia in pace, a volte

   bussa tardi ma io non ci bado:

   vuole raccontarmi dei vicini,

   di come sognano un incesto

   di primo o di secondo grado.

 

   Ricordi i vecchi tempi?

   Una bevuta, un brivido e le parole

   si spogliavano di tutti i loro sensi

   perché noi le colmassimo del nostro,

   racimoli della pietra caduta

   dalla bisaccia del Soffiatore,

   ma era oro che chiamava a corte

   Beatrici e Laure, e pure donne vere

   al di là del principio del sapere

   e di quello della scuola normale,

   salvato dalla mondiglia filosofale.

 

   Oh, a proposito.

   Ho incontrato l’Alighieri

   proprio l’altrieri,

   ma non ricordo dove.

   Portava al guinzaglio

   le cifre dallo 0 al 9

   e così mi apostrofò:

 

   O tu che ancora in questa pena vivi

   col sembiante di un che non dà conto

   forse perché la fola di che scrivi            3

 

   t’illude che diman sarìa racconto.

   Se un poco ti fe’ alunno mia statura

   dinne a le genti come son pentito            6

 

   d’ognuno avere preso la misura

   per poi straziarlo male in infinito.

   Di tutte cose l’omo è una mistura            9

 

   e grande fallo fu salir lo soglio

   per essere dottor tra saia e lana

   arte che fu la mia e più non voglio.        12

 

   Se pura fosse l’acqua che in Toscana

   passa per Fiorenza e ha nome d’Arno

   in essa me risciacquerei superbo            15

 

   per scrivere parol, non Verbo indarno.  16

 

   Poi continuò in suo latino

   riconoscendo il suo errore:

   non è detto che ad una lingua

   debba necessariamente

   corrispondere una nazione.

   La lingua può esaltare e così ti frega.

   Lo dicono i picciotti di Trinacria,

   lo confermano ronde in vera Lega.

 

   Adesso devo lasciarti.

   Perché vedi: sei tu che tuo

   malgrado ascolti e vedi

   e ciò che non vedi senti,

   a molti inesplicati

   ti fai muto, ad altri mostri

   intartariti i denti.

 

   Tale è il quadro che si mostra

   e non si mostra

   la conclusione che devi trarre

   di necessità dura.

   La totalità è fatta di contrasto

   che in sé s’incastra;

   unico il riso per chi

   s’immutria in sua rancura.

 

   Scrivi quando vuoi.

 

   Qui mi sento molto solo.

 

   Circola carta straccia

   invece della poesia.

 

   C’è un nuovo Nobel:

   quello per l’eutanasia.

 

*

La mia vicina ero io

 

I

 

Nel giorno meraviglioso

le due vicine, l’anziana e la giovane

si svegliarono di buon mattino.

 

Nel loro cuore c’era gratitudine

ma segretamente anche un rimprovero

per la rarità di quel dono di luce

che legittimava illazioni

sulla prodigalità dell’onnipotenza.

 

Ma, nonostante questo, quello che

si presentava così radioso era un giorno

tutto da godere.

 

La luce non sembrava provenire dal sole

ma fiorita nel corso della notte,

tale era la terrestre intimità che

suscitava nelle persone e circolava

inchinandosi in saluti equanimi

a tutte le creature.

 

L’anziana trascorreva le sue giornate

spiando la giovane e senza concedersi pause.

Anche quando si cibava sedeva davanti alla finestra

del soggiorno dalla quale, masticando lentamente,

non si perdeva un solo gesto della ragazza.

 

Nel giorno meraviglioso, quindi,

tutto procedeva come sempre.

La vecchia si era accomodata al suo posto

e spiava ogni movimento della giovane

inquadrata dalle numerose finestre

tutte a portata d’occhio dell’anziana.

 

Questa, pertanto, la vide alzarsi, la vicina,

raggiungere lentamente la cucina,

prepararsi una gran quantità di caffè

e berlo come fosse acqua, e poi Via!

con i lavori di casa.

 

L’anziana guardava e la giovane

era guardata mentre ritirava i panni

asciutti e stendeva quelli appena tolti

dalla lavatrice; sbatteva i tappeti; 

passava l’aspirapolvere per tutta la casa;

dava la cera ai pavimenti e, lo dico adesso,

faceva tutte queste cose cantando

un vecchio successo degli anni ’60.

 

Non c’era che dire: l’allegria con cui

attendeva ai lavori domestici era sicuramente

un segno di buona salute, ottima anzi.

 

Così si fece ora di pranzo e la vecchia

si accinse al pasto senza mai distogliere

lo sguardo da quello che faceva la vicina.

 

Il giorno era al culmine della sua radiosa armonia;

gli uccelli cantavano così forte che sembrava

volessero avvisare gli uomini di qualcosa o

semplicemente non reggevano quell’aria

così elettrica, rarefatta, quel gas così puro

che si insinuava veloce nei loro minuscoli polmoni.

 

In quel giorno miracoloso fratelli che non

si parlavano da anni avrebbero stipulato

una pace duratura; figli alienati avrebbero

risparmiato i loro genitori; mannaie

sarebbero rimaste appese nel deposito

degli attrezzi; l’agnello e il lupo, come vide

il profeta, avrebbero bevuto alla stessa pozza

e dissetati avrebbero percorso lo stesso sentiero,

chiacchierando del più e del meno.

 

La vicina anziana, quindi, cominciò il suo pasto

e notò che la giovane invece di fare una pausa

adesso si era messa a lavare i vetri e dove non

arrivava si aiutava con una sedia o uno scaletto.

La vecchia aveva calcolato che comunque,

dopo aver lavato i vetri, la giovane vicina

non avrebbe avuto più niente da fare e poteva

fermarsi per mangiare un boccone.

 

C’era solo una cosa che suscitava un pizzico

di perplessità, che trapassava la coscienza

indurita dell’anziana ed era proprio il modo in cui

la vicina lavava i vetri. In realtà, sebbene questi

fossero quasi puliti, lei li strofinava con tale veemenza

da dare l’impressione di volerli attraversare. 

Ma questa fu solo una goccia che si andò subito

a perdere nell’anima spugnosa della vecchia.

 

Ma ecco! La giovane vicina, sempre cantando

quel successo degli anni ’60 aveva finito e sulla

veranda, nel punto migliore per l’osservazione

dell’anziana, c’è una sedia a dondolo con accanto

un piccolo tavolino di vimini cosparso di riviste.

 

Sorridente e appagata la giovane si siede,

distende le gambe, si stiracchia strizzando le palpebre,

allunga una mano verso il tavolino, rovista un po’ tra i giornali,,

impugna una pistola, infila la canna in bocca e preme il grilletto.

 

II

 

Gli inquirenti alla testimone:

 

- Signora, non ha per caso notato qualcosa di strano

  ultimamente nella sua vicina?

 

- No che non ho notato niente di strano! Che c’era da notare?

  Era tutto normale. Ma voi promettetemi che lo prenderete

  al più presto quel bastardo assassino che ha ucciso la mia

  giovane vicina.

 

- Ma, signora, non c’è stato un omicidio, la sua vicina si è

  suicidata e su questo non c’è alcun dubbio; ci sono tutte le prove,

  i testimoni e lei è la principale.

 

- E io vi ripeto che non si tratta di suicidio, ma di omicidio.

  Qualche delinquente deve essere entrato dal retro, lei deve

  averlo visto si è messa a urlare e quello, sicuramente alle

  prime armi, preso dal panico le ha sparato.

 

-  Signora, per l’ultima volta: la sua vicina si è suicidata.

 

- E io vi ripeto che non è possibile.

 

- Ci dica una buona volta perché non è possibile.

 

- Non è possibile perché in tal caso voi non stareste qui a parlare

  con questa vecchia in quanto quel colpo avrebbe ucciso anche me.

 

- Cosa vuol dire signora: avrebbe ucciso anche me?

 

- E’ proprio così, quel colpo ci avrebbe portato via insieme, perché

  la mia vicina, con cui non ho mai parlato, la mia vicina era parte

  di me, anzi era me, anzi la mia vicina ero io.

*

Cana

   Non fa altro che bere.

   Questo l’unico suo pensiero

   di mattina, pomeriggio

   e nelle notti severe.

 

   Ma quello che fai

   con metodo e rigore

   lo attraversa la passione,

   è un’altra forma dignitosa

   che può assumere l’amore.

 

   Non accetta consigli,

   sa che sono solo

   subdole consegne,

   surrogati dei figli non nati,

   solo rogne.

 

   Si gira maligno, e fa bene,

   a chi spaccia camuffate le sue pene

   in pelosa, ottriata saggezza.

 

   Se non lo sapete,

   conferisce una saviezza

   il distillato

   che liscia come il marmo

   il cuore di un alcolizzato.

 

   Il tempo che rimane immobile

   per i sobri è insopportabile.

   Loro che vanno, data la corda al corpo

   mentre l’anima pende spoglia

   al legno secco di un uomo morto.

 

   Vede l’arcobaleno

   attraverso il caleidoscopio del bicchiere

   sempre vittoriosamente pieno;

   del vuoto sposa gli estremi con mestiere

   nell’abbraccio prismatico alieno.

 

   Non chiedetegli mai perché lo faccia

   perché abbia sempre quel poker sulla faccia

   che vite convoca in permanenza

   in un assorto concilio di dèi.

 

   Vi risponderebbe un poeta più che divino:

   “Bevo per dimenticare l’acqua

    che alle mie nozze

    non fu mutata in vino”.

 

 

*

Su un verso di Pedro Blancuda

                                                                     Más  que  con  el  trabajo  de  su  ausencia

                                                                     nosotros  el  amor  hirió  con  su presencia

 

                                                                                                    Pedro Blancuda

                                                                                             La sangre de los amantes

                                                                             dalla raccolta El escándalo del amor

 

 

Io so che mi ami

perché ad ogni mia battuta

la tua risata non nasce dalla gola

ma sale ad essa umida del tuo sesso

bollente delle tue viscere

vibrante del sobbalzo che la mia voce

imprime al muscolo nel tuo petto.

 

Se vivesse cento vite

tuo marito non riuscirebbe

in un’impresa come questa.

 

Io so che mi ami

perché passi le tue notti sveglia

a pensarmi, a immaginare la tua vita

con me se ci fossimo incontrati

prima di rimanere ingolfati

nel traffico delle nostre famiglie.

 

Io lo so perché quando mi saluti

all’arrivo o al commiato

riesci sempre ad aggiungere

al gesto consentito

uno sfioramento leggero del mio braccio

o della nuca; a trattenere i tuoi occhi

nei miei per una frazione di tempo in più,

incalcolabile perfino dal più costoso

dei cronografi di tuo marito.

 

Io so che mi ami

perché a volte vuoi illuderti

che sia solo un capriccio

o la noia.

 

Io lo so dai tuoi lapsus

quando ci troviamo tutti riuniti,

quando devi dire un altro nome

e pronunci invece il mio.

 

E perché quando conti i tuoi figli

manca sempre quello

che somiglierebbe a noi due;

e quando prepari il caffè e lo servi

per il modo in cui mi dici:

questa è la tua tazzina.

 

E ancora lo so per il disappunto che mostri

quando arrivo inaspettato

e non hai avuto il tempo di farti bella per me.

 

E lo so anche da quel capodanno

affollato di larve tutte sfatte

quando scoccata la mezzanotte

al momento degli auguri notai

con quanta maestria trovasti

un posto sicuro di fronte a me;

perché in quella occasione

l’abbraccio era senza sospetto

e ti preparasti a riceverlo,

inarcandoti un po’, timida,

gli occhi chiusi, con le mani

giunte sul grembo ed io, io

non seppi approfittarne,

per andare un po’ oltre,

timido adolescente anch’io.

 

Io so che mi ami

perché quando tuo marito

digerisce frutti di mare

dimenandosi tra le tue gambe,

dietro le tue palpebre chiuse

vedi noi due su una spiaggia dorata

e me che ti accarezzo i capelli

e con un dito seguo la linea delle tue labbra.

 

Io lo so che mi ami

perché sai che se avessi incontrato me

nel tempo dovuto

non ti avrei tolto la verginità

ma avrei scambiato la mia con la tua.

 

Io so che ti amo

perché è la verità;

perché quest’amore è un solo

incessante urlo di disperata felicità.

*

Tutta la sua vita

Faccio visita a mia madre.

Ha l’Alzheimer.

 

Siede sul divano

nel salone dove

tornato mogano

dopo il restauro

irradia fiero a sfida

il suo silenzio

uno Schmidt & Dauber

del ’23.

 

I tasti ormai sono denti

che ballano negli alveoli

di una bocca che non riuscì

a trovare la sua melodia.

 

Prendo posto

accanto alla donna

cui devo l’enigma

della mia vita.

 

- Ciao mamma, mi riconosci? Chi sono io?

 

Esita; sorride indifesa e interrogativa

come per chiedere di non essere presa in giro.

Poi risponde decisa.

 

- Tu sei Domenico, sì Domenico, il figlio di Rachele.

 

- No mamma, non sono Domenico, sono il tuo primogenito, sono un altro, chi

  sono io?

 

- Sì, tu sei un altro, un altro!

 

- Volevo dire che sono un altro, cioè un’altra persona, con un suo nome. Qual è il 

   mio nome?

 

- Perché ti prendi gioco di me? Il tuo nome è Paolo, il fratello di mio marito.

 

- No mamma, io non sono Paolo, il fratello di tuo marito, mi chiamo diversamente.

 

- Allora ti chiami “diversamente”, è un bel nome “diversamente”.

 

Andiamo avanti così per un bel pezzo

e mi affibbia altri venti, trenta nomi,

tutti punti brillanti, mi accorgo, della

memoria rimescolata del suo passato.

 

Ma quando non ne posso più e comincio

a pensare di andarmene, dopo aver guardato

fisso davanti a sé per qualche secondo,

punta intensamente gli occhi nei miei

con una serietà che inquieta e con una

voce metallica che fa un po’ paura mi dice:

 

- Tu sei Pietro.

 

- Sì mamma, sono Pietro ma Pietro chi?

 

- Io ho molto sofferto per te ma adesso viene la fine.

 

- Quale fine?

 

- La fine di tutto.

 

Poi torna a fissare con gli occhi

socchiusi il vuoto davanti a sé.

 

Dopo tanti anni, la vecchiaia, la malattia,

chi può dirlo?, l’elenco infinito dei nomi

del suo passato e poi, alla fine di tutto, il mio,

la mia vecchia madre svanita ha trovato, mi illudo,

il modo per dirmi che sono stato tutta la sua vita.

*

La formula

 

   LA FORMULA

 

Egli afferra tutti

e non c’è chi afferri lui.

Sepher Zohar

Il fedele pastore

Ra’yà Mehemnà

III, 225a

 

   Povero Albert, alla fine che fine!

 

   Il cervello a fettine in giro per gli Stati

   Uniti da chissà quale formula finale

   e per un mondo anch’esso sempre a pezzi

   ma per l’antica scissione: quella sì originale!…

   E il resto cenere, naturalmente! Come a Hiroshima

   e Nagasaki, e come verbo transitivo il “nucleare”…

 

   E’ profondo, profondissimo; chi lo può trovare? [Eccl. VII, 24]

 

   Alla fine, qualsiasi impiegato degli States

   masticando chewing gum era più felice di te

   (allo stadio: la formula nel rugby, nel base ball;

   ma se non la vedi te la godi, bocca del glory hole,

   felicità delle nazioni, brivido delle costituzioni)

   lo sguardo di gallina che protegge le generazioni…

 

   E il giardiniere e il giardino coi suoi nanetti

   che collaborano all’inganno

   e la formula cercata che li ammanetti

   (ma anche tu eri giardiniere e giardino,

   Albert, non ci pensasti? Cosa ti impedì

   di sorprenderti al lavoro?)

 

  

   e tutti che dicono di crederci ma fingono

   e il sarcasmo delle mani di Escher,

   il prestigio con cui si autodipingono…

 

   Egli pose l’oscurità come suo nascondiglio[Sal., XVIII, 12].

 

   E gli stewards dell’Hilton freschi di muschio

   senza dubbi di sorta àlacri più di te con le cifre:

   qui dove Albert segnò la “E” va il beauty case

   di Madam de la Santé e dove il segno = prelude

   alla massa per “c2” non andrebbe male la cassa

   di Ser Cy quello ammalato che viene per svernare.

 

   E la terra era vuota e desolata [Gen. I, 2]

 

   E il consiglio di quell’altro, genio nuovo e buono

   di farla scoppiare a una certa distanza dal suolo

   la ragazza cannone con tutte mutante e zuoi panni

   così si sarebbero volatilizzate tante più mandorle

   sarebbero stati molto più memorabili i danni…

 

   Elia prese a dire: Tu sei uno e non rispetto a un numero

   [Zohar Chadash 55b-d Tiqquné Zohar]

 

   Povero Albert, non esiste la formula

   tanto cercata, la pietra dei filosofi.

   Quella dello scandalo sicuramente.

   Ma chi meglio di te doveva saperlo

   come funziona davvero la mente?

 

   La nube e la caligine è intorno a lui [Sal., XCVII, 2.]

 

   Forse tutto questo è cominciato quando Dio

   non ha più voluto, cercato, era annoiato

   e qualcosa allora ha iniziato a muoversi

   ma era ormai troppo tardi per ricostruire

   il processo; si poteva solo seguire la partita

   e godersi il gioco del compasso e della squadra.

 

   Ma per quelli come te sempre

   c’è qualcosa che non quadra.

   Dio non è il fazzoletto del prestidigitatore

   che lo infili con un dito nell’altra mano

   chiusa a pugno e poi lo tiri fuori all’infinito

   tra gli “ooooooh” del pubblico e i battimano.

 

   Dio “è” ed è proprio così che “è”.

   Infatti ad alcuni dona persino il genio

   ma il resto ama tenerlo solo per sé.

 

*

Il calendario

   Scendo al secondo piano del plesso

   che ospita una parte degli uffici,

   nel vuoto lasciato dalla Ragioneria

   trasferita ad altra sede,

   per fumarne una in pace.

 

   In una delle stanze evacuate

   - nel silenzio che protesta una passata

   gloria di stampanti ad aghi e fervore

   di àlacri impiegati - alla parete nuda,

   quasi al centro,

                     un calendario.

 

   Mi avvicino.

 

   Pende a un chiodo

   storto, arrugginito.

   Ha solo l’ultimo foglio

   col mese di dicembre.

   Uno di quei calendari delle ditte

   che si aggiudicarono un appalto

   e dispensarono mazzette ad alcuni,

   effemeridi ad altri.

   Uno di quelli semplici,

   a due colonne, con i feriali

   in nero e i festivi in rosso,

   come è normale.

 

   Ma qualcuno vi ha scritto qualcosa,

   sui righi per l’agenda accanto ai giorni,

   in stampatello maiuscolo, con mano

   incerta, non avvezza alla scrittura.

 

   Un operaio, forse, o uno dei

   facchini spossati dal trasloco

   che faceva una pausa rubata,

   dopo un panino con la frittata.

 

   Prima di andarsene, l’uomo

   volle graffire ciò che sentiva

                           su quel murale.

   Tutta la saggezza che può

   attingere un qualsiasi animale:

       

           QUESTO ANNO

           NON CI POTRA’

          PIU’ FARE MALE.

 

                                    (riproposta)

*

Auguri

Auguri di tanta salute, grande prosperità e infinita ispirazione a tutti gli amici di La Recherche.

 

Pietro

*

Santa Lucia

Di’ un cortese silenzio a questa luce fredda,

a questo frusto impero di reperti noti,

nel giorno che vuote alla vergine

lasciarono le orbite

a colmarsi della ridda

dell'antico buio, dei penosi voti.

Resta alla finestra che non luce,

un solo dito non levare: nulla

più risponde all'indice nell'aria immota,

la tua ottava resterà per sempre muta.

I sonagli delle rime belli, i  compìti  giri

sotto le volte armoniche

disturbano il letargo dei vampiri,

le pubescenze oscene ai pipistrelli.

Fissa senza dolore la lastra

che tramontana lustra, schermo

che deraglia da questo nostro male.

Sorpassa l'astro, transita il suo scherno,

e piove solo lame – ghiaccio che non fonde –

la stella indifferente di Natale.

Non fare che il ricordo di te fanciullo

ti assalga all'ampio davanzale,

anch'esso diaccio, alla vanità della spelonca,

al fiato supposto di un asino e di un bue,

al pargolo Narciso, nato, cresciuto, ucciso…

Nemmeno ascolta la lingua che risale,

- dimentica! - che ti parlò identica

nel mese che il chicco macera,

che di te ancora parla, tu tradotto

a una partita domenicale, ma rapito

sopra i voli alti della sfera,

a piangere le facce delle case

dipinte del vivente sole

( come in croce ) e più su ancora

drappeggiarsi le colline

del liquore di quella stessa luce.

Ma sta’ nell'ombra vera

che è tutto quanto resta

della festa annunciata,

della disfatta promessa e poi sepolta.

Sta’ nell'unica posa, invulnerabile,

nell'intermittenza delle finte stelle

che desquamano la pelle. E ascolta!

Con pazienza animale, ascolta ( tu mondo )

declinare la digestione dell'immane,

insaziato intestino di questo im-mondo.

Augura al sole di partirsi con l'ipocrita

calore dall'incline zodiaco e sfarsi

in mille miliardi di faville.

E che tutto questo basti

a toccare l'alba di domani,

del vero oscuri o adombrati intrighi,

a cernere martirio e noia,

stretti o sciolti gli ombelichi,

con o senza pane, vino ed emozione.

E scorda pure la poesia che cominciasti,

col cantico del grillo, il ruggito del leone:

La polvere dei treni che immortali /

rese le case intorno alla stazione…

 

                                                         (1986)

 

 

 

 

 

*

La donna del poeta

Nell’età che il tempo cessa

e accorato stagna nell’abbraccio

di una ardente assoluzione

orfano di me stesso

più di tutto odio ed amo

di lei l’agra compagnia.

 

Morte è la donna mia

che dall’inizio con tanti altri

mi tradisce e a me giammai riesce

di perdonarle il segreto vanto

che mi ha donato, d’aver fatto me beato

di quell’amore che per darsi non è dato.

 

                                                      (1974)

*

Amo gennaio

Amo Gennaio. non la sua grave promessa.

Amo il mese famulo dell'anno,

il pallido reduce del solstizio.

Amo l'umile usciere dell'inizio

che con la sua, con ciò che gli rimase,

fece degne ad altri undici le case.

Amo il mese che un prodigio

di silenzio onora, amo l'ora

per tutte le ore serrate

come l'ala calda dell'uccello

che serba occulta la favilla

che incendierà l'Estate.

Venero l'avo che mi fece erede

dell'intatta differenza di ogni dio,

che consola chi non conforta fede,

venero il maestro muto dell'oblìo.

E per come passa e scompare,

per come se ne va composto e senza affanno,

ancora di più mi piace e stringe,

per il disgusto delle maschere che finge

nell'orgia illusa Carnevale in danno,

di come l'accolta sua ebbra dipinge

le favole ritrite che comporranno un anno.

*

La forza del destino

Nel piccolo giardino tuo padre

allevava rose scarlatte

ma la megera del secondo piano

con la candeggina

regolarmente gliele bruciava.

Lui non poté nulla all’INA Casa

e così prese a nascondere le lacrime

nel piccolo soggiorno.

 

Io, talvolta, cercando il posacenere

nella penombra lo scoprivo -

le braccia al soffitto levate,

una smorfia la faccia -

imprecare a bassa voce in veneto:

un bambino che non capiva.

 

Un piccolo giardino,

rose scarlatte bruciate dal veleno,

il pianto del padre bambino:

nel rione popolare era in scena

la forza del destino.

 

*

Testamento di un fumatore

Mettete una stecca
della mia marca preferita
sotto le mie dita
giunte sull’addome
quando il momento sarà venuto.

Mi raccomando: quelle senza filtro
come senza filtri avrò vissuto.
Basterà per essere contento.

Perché l’attesa continuerà,
ne sono certo. Mi ha fatto esperto
la vita, quello che resta
ancora giocherà l’eterna sua partita.

E come ho lasciato scritto
non in una bara ma su un dritto
cumulo di legna, un’ara alta e degna
d’ardere, come negli anni sono arso.

Così mi piacerà d’essere scomparso.
Mentre altri infiniti polmoni
mi aspireranno io aspirerò con loro;
bruciando con le mie bionde,
trasformerò le nuvole di fumo
in delfini ruzzanti tra le onde.

Cenere e solo cenere è tutto l’oro
che mi riuscì di accumulare
mentre morte mi aspirava forte
tra le sue labbra stretto e l’essere
mio imperfetto non sapeva
cosa gli toglieva il cielo
mentre solitario bruciava,
la mente chi acerrimo e perché
ciecamente lo consumava.

                             

*

Al mio cane Fado

Non credevo di poter scrivere di te

anzi, di poter ancora scrivere.

Sognando una torta di mele degli anni '70

la vita scorreva ancora tra le mie sponde brulle

indifferente.

                       

                        Ma a volte concludi che se non le cose,

gli scorporati creduti assenti puoi nominare senza errore

o colpe flagranti perché con la stravaganza di un satellite

poligamo scelgono l'ora sfuggente e per te reinterpretano

(che non credevi di poterlo più tentare) la luce impenetrante

del faro imperturbabile.

                        Credo che proprio la luce sia madre della polvere,

il fallimento della sua cosmica pietà, o di questa l'ultimo senso, se polvere era

                       

                         Due che cercavano un ricorso a un tribunale

soppresso e non sapevano che le loro aure si congiungevano

intanto nel cerchio magico per la tua evocazione e così tra le

dita la molla arcana infilò il rettangolo dove sopravvivevi…

                       

                         E quindi sei apparso, o non tu, la tua proiezione siderea

dall'evanescente pennello o alito che sul nudo vetro di sempre

fa comparire le terribili tenere impronte che da qualche parte in me

macerano, lottizzano il fegato dopo aver sezionato l'aulica pompa.

                         Pertanto, anche se sono sempre di più i meno e per fortuna

in rialzo i crimini contro l'unanimità, adesso sono qui assorto all'eco della retina

di un tuo pintore che non sapeva quello che fotografava.

                        

                         Ecco che nell'unica foto (l'ultima di un rullino

da completare sono certo), intrusa in un mazzo già troppo scomposto

da dimenticate ricerche, di attimi che ingialliscono al sole extragalattico degli album, mi appari come se il flash soffio di vento improvviso avesse vorticato a ventaglio il tuo vello di sabbia intorno al centro focale dell'irriverente tartufo.

                          

                         Perso il negativo, spero distrutto, anche questa è immortalità sull'olimpo della mia tanto attuale calvizie.

 

                         Non so nemmeno con quale terra adesso si mescoli il miele della tua cenere, mio levriero, del colore che se ne avesse uno sarebbe quello di una dissipata adolescenza nel sole. La mia ignoranza mi autorizza a venerare il tuo spirito. Dico spirito non la torbida anima intasata che il catechismo ti nega, poiché ulula ancora sulle nude interiora del mondo che in tua vece abito, in questo volgere divisato, diviso, resto zero delle cose ultime.

                

                         Perché levassi la testa alla luna preannunciando la pece ribollente, l'inizio impercettibile dei cataclismi a piè dei pilastri dell'impermanenza – i cosiddetti fondamenti – mi sono chiesto per infinite sieste commosse dalla tua assenza.

                        

                         Ora so che il circolo si chiude, si tiene un mondo bene o male, bastando un astro e se gli fa eco un cane.

                        

                         L'odore del tuo mantello, di boschi prossimi a una Thule, si plasmava ai serpenti d'aria… medusa che resuscitava…

 

                         Rotolarti estasiato nelle feci disseminate da un gregge appena trascorso, negli escrementi fumanti delle sapienti vacche retrograde poteva appagarti del tutto e alla fine ne eri disfatto, sfinito come nemmeno una donna che ha appena partorito.

                        

                          Figlio di un tappeto volante e della mia infanzia tetraplegica nella tua veglia sorvegliavi le rapide della mia reverie, nel tuo sonno avevi ancora fremiti per me.

            

                         Quello che tu sapevi io presagivo, come può un'ombra separata dal corpo.

                         Tu freccia scagliata negli ombelichi palpitanti di quei giorni, di quel tempo interrogato in fermaimmagini vibranti attraversati da una striscia tecnicamente non eliminabile e tra corrucci veementi.

                         

                          Quello che io e te sentimmo lo ululammo irosi ai quattro cardini e agli ottantaquattromila insegnamenti.

 

 

 

*

Se venisse la morte

Ora, se venisse la morte ora,

sarebbe come una primavera.

Intatta è la vita, eppure approdata

alla confusa doppiezza del bivio.

Se lei giungesse adesso, qui intorno,

con la tristezza che merita perdono,

siederei nella brezza dell'ultimo

giorno, come nel principio

del primo mattino, a rimestare

la cenere mia, un piccolo mucchio

raccolto ai miei piedi, assetato

di un segno sottile, di una minuta

                          memoria sbiadita.

Se venisse la morte, ora, saprei

già come fare: serve intera la vita

a informarci del fatto.

La morte è la serva di tutti, di tutto.

Se il commiato è concesso

è solo perché da allora

in vece nostra lei deve dar conto,

con silenzio profondo, del vuoto

di prima, di adesso, di sempre,

di tutta l'assenza del mondo.

*

Pellegrine di sé stesse

Ceduto il sangue al cielo

per dire: sanguina un tramonto,

lo sfacelo silenzioso dell'incendio

che la nostra tiepida rovina

peserà sulla stadera

dell'ultima dubbiosa sera

 

E la voce, la voce a un vento

che querula soltanto

l'infamia muta del silenzio.

E quindi l'innocenza

ad una flatulenta primavera

e confidenza al piombo di Saturno

che lontano la esilia a sfarsi

nel deserto dove grava

per il sole un'ombra sua

incisa di defisse.

     

Perché dunque meravigli?

Le anime nostre sole

che asfissia un gorgo

d'echi di sé stesse,

le domande non placate

dopo essersi cercate

assetate pellegrine di sé stesse?

 

                                     (primi anni '80)

 

*

Il sogno che feci

 

Questo è il sogno che feci verso l’alba,

al termine di una notte senza stelle

e con la luna che altrove si preparava

alle nuove fasi del suo vecchio ciclo.

 

Ero bambino, due o tre anni, in braccio

a mia madre e sedevamo nella sala d’aspetto

di uno studio medico e c’erano almeno un’altra

ventina di bambini di quell’età, tutti maschi

e ognuno era in braccio a sua madre.

 

Lo specialista che ci doveva visitare

era anche colui che aveva ingravidato

di noi le nostre madri – eravamo piccoli

ma questa consapevolezza stringeva

i cuori di tutti noi con l’altra: che quel

medico era anche lo stesso che aveva

preso il parto.

 

La sala d’attesa era in penombra

e tutti tacevano – una ventina di bambini

piccoli che non piangevano. Ma, attraverso

la finestra, dalla strada giungeva come

la recitazione di un rosario in una lingua

che non conoscevamo e così, senza alzarci

per guardare – hanno di queste economie

i sogni – sapevamo che quel mormorio era

prodotto dalle bocche di uomini barbuti che

in fila per tre procedevano lenti

ognuno leggendo da un grosso volume.

Questi vestivano di nero, con cappelli neri

e avevano la coda, una coda nera e pelosa.

Noi bambini sapevamo anche che in qualche

modo quegli uomini avevano a che fare con

lo specialista che ci doveva visitare.

 

Ma quello che di più mi colpiva nel sogno

era lo sguardo delle madri.

Io non ho studiato ma ricordo che una volta

in un’altra sala d’aspetto tra le riviste

per ingannare l’attesa ce n’era una d’arte

medievale con tante illustrazioni di madonne

con in braccio il figlio e mi sorprese molto

che ognuna di quelle madonne guardasse altrove,

che nessuna posasse lo sguardo sulla sua creatura.

 

Spesso in televisione danno film in cui

la polizia scientifica con il laser riesce

a individuare la traiettoria dei proiettili;

quel raggio rosso può dirti con precisione

la direzione che un colpo ha seguito.

Dico questo, perché se dagli occhi delle nostre

madri in quella sala fossero partiti raggi,

questi non si sarebbero incontrati.

Però nel sogno sapevamo, voglio dire,

tutti noi bambini sapevamo, che le madri

guardavano tutte nella stessa direzione.

 

Arrivato il suo turno ogni madre col suo

bambino entrava nello studio e dopo un po’

ne usciva da sola con lo stesso sguardo

di quando era entrata. Sembrava che per

ognuna nulla fosse cambiato.

 

Quello che feci quando fu il nostro turno

non lo avevo proprio sospettato. Convinsi

mia madre a lasciarmi andare da solo.

 

Così entrai nello studio quasi completamente

al buio. Dopo un po’ mi abituai a quella

oscurità e cominciai a intravedere una sagoma,

poi la luce cominciò ad aumentare sempre

più velocemente; lo specialista, che era seduto

su una scrivania, con un balzo fu a terra e veniva

verso di me distendendo le braccia ma questo

mostro in camice aveva un solo occhio in mezzo

alla fronte e per giunta senza pupilla…

 

Mi svegliai urlando. Mi calmai e cercai di riprendermi

del tutto. Albeggiava. Nella stanza accanto, mia madre,

ormai quasi completamente cieca, seguiva il rosario alla radio

e in strada – questa volta dovetti affacciarmi per saperlo –

non c’erano uomini barbuti salmodianti vestiti di nero

che in fila per tre procedevano lenti ognuno leggendo

da un grosso volume, e tutti con una coda nera e pelosa.

Probabilmente erano rimasti nel sogno a vivere di quel sogno.

 

Dopo un po’ cercai una penna, tolsi dalla parete

l’immagine di una madonna che guardava altrove

con in braccio un bambino con un solo occhio in

mezzo alla fronte e sul retro presi nota di tutto questo.

*

Bambini a colazione

Il temporale si allontanava

con gli ultimi colpi di coda

come uno che ha fatto la sua sfuriata

e mentre se ne va ripassa a mente

quello che ha detto

e ogni tanto si ferma, voltandosi indietro

per mandare qualche ultima minaccia,

ultimatum, avvertimento, prima di richiudersi

la porta alle spalle e scomparire.

 

Noi ce ne stavamo in silenzio a letto

che è un’azione pesante

perché più lo nutri il silenzio

più questo ingrassa e il suo peso

diventa intollerabile

se non sei macrosplancnico come lui.

 

Il problema era che lo avevamo fatto

già alcune volte e non restava che

riposare sull’oblìo degli orgasmi

che d’oblìo sono fatti a garanzia

della loro fattoriale moltiplicazione.

 

La stanza però era giusta e così la casa

e venivamo da una mattina di merda

da una situazione di merda, in una città di merda,

tanto per fermarci alla storia più recente,

e la realtà mostrava nocche e muscoli superbi

contro le nostre  schiene disfatte

o più in generale le nostre disfatte.

 

In questi casi sempre si fuma un po’

e dopo un po’ ci si interroga

sul perché delle sigarette e si conclude

che è più facile  smettere un amore che il vizio

e si vuole stare male e tossire da perdere gli occhi

perché quella  casa che sogni da una vita

l’ha comprata uno che mangia bambini a colazione.

 

Anche quella che è con te c’ha i suoi problemi

e li vede sullo schermo del soffitto 

su cui scorrono come divi dell’accanimento

e sotto la sua pelle la cellulite sta avendo il suo

progressivo trionfo e le rughe non dovrebbero

accampare diritti vista la non vissuta giovinezza.

 

Qualcosa quindi si dovrebbe, potrebbe fare.

Mangiare bambini a colazione, p.es., rapinare

uno diventato ricco e famoso anche se o forse perché

canta con la voce di un’anatra e pagarsi una beauty farm…

 

Ma stanze come questa sono fatte apposta

per mantenere lo status quo.

Sono a buon mercato, sotto la finestra

hanno una sedia, un tavolino dall’unico cassetto

istoriato coi ‘ricordo’ di quelli di passaggio;

uno è persino scritto in un alfabeto fatto di

asterischi e forse della stanza ne parla bene.

Stanze come questa alle pareti esibiscono

le opere di tizi che nella sua  infinita fantasia

la morte elesse giovinetti per coglierli alla fine

nell’estrema  estenuazione del delirio d’essere artisti

e possiedono, se la sai vedere, la dignità di chi

per contrasto svergogna alto nel tribunale del cielo

il disonore di tutto il resto.

 

Stanze come questa sopravvivono al cataclisma

di ogni giorno e sono abitate dall’indispensabile.

Un tizio, una tizia e la visita di un temporale che

fa tanto rumore perché non ha niente da dire, perché

di stanze come questa non sopporta il silenzio e il fatto

che qualcuno le possa abitare senza lamentarsi.

 

Così ci massaggiammo un po’ la schiena

a vicenda, immaginammo di fare una doccia,

ne fumammo un’altra e con cautela lo facemmo

un’altra volta mentre dalla finestra il preistorico

odore della terra bagnata ci riportava a un altro

dopo-temporale come questo, ma dell’infanzia,

ormai sepolto sotto l’oblio nostro e quello del mondo intero.

*

Così un minuto prima mi infastidì la morte

Fa' presto - disse - ho i secondi contati.

Va bene scrivere gli ultimi versi scontati

ma fra poco scoppieranno le bombe

e l’ultimo degli attentati mi porgerà

molto, molto più di un’ecatombe.

Temo il tempo più di voi,

che per me lo temete, e sono guai

se quelli saltano in aria

senza il mio aiuto, non si può

ripetere la scena e sono stata scema

a concederti un minuto.

Senza di me nessuno può vivere

perché senza di me nessuno può morire

e me ne sto qui ad aspettare.

Io non sono un animale e tu non sei Orfeo

sbrigati e facciamola finita, le strofe falle più corte.

 

Così un minuto prima mi infastidì la morte.

*

Provvidenza

Non era vita la mia.

Percosso con metodo da bambino,

il miracolo di crescere senza una festa

a dispetto di quei colpi sulla testa.

Di nascosto un frate

mi insegnò a leggere, lui e io

e qualche pezzetto comprensibile di Dio.

Troppo presto dovetti lavorare

ed erano chilometri sotto il sole ansiosi

andare e venire tra serpenti velenosi.

In mezzo le ossa scricchiolavano

sotto ore di piombo fuso, fino al giorno…

Fino al giorno che l’albero segato

finì sulla mia gola e chissà perché

mentre quello premeva spietato

il  senso mi attraversava di una nuova

confidenza: sulla corteccia prima di andarmene

mi sembrò di leggere la parola “Provvidenza”.

*

Il gaio il saio il marinaio

E' pregno il mare

solo del nostro sale

e le vele dal caso sperse

sui flutti disabitati

nutrono il grido

altissimo del silenzio.

 

Fondammo a riva un villaggio

                                        [deserto

perché lo Spirito ama

le indesiderabili

                                        [dimore

l’anima il corpo, l’anima quello.

E’ bello dal simile

compiacersi nel diverso

disperdere in un inverso

pelago il Verbo.

 

Ma se d’improvviso disserri

la porta d’inverno

alla casa sul mare

alle pareti il ricordo

del sole è una tela.

Conosci allora come

dei viventi un’eco

che si strugge lontano

e della morte puoi

piangere per la morte.

Ma questo in tre soli lo sanno:

il gaio il saio il marinaio.

 

 

 

 

*

Un colore che non muore mai

Va in ufficio con un abito di lino blu.

Una collega gli ha detto che il blu è un colore che non muore mai.

 

E’ il quinto ufficio in ventidue anni. Ha speso gli ultimi spiccioli di conoscenze per ottenere il trasferimento e per ora le cose vanno bene.

 

E’ un assessorato senza assessore, per il momento. La vacatio giova a più d’uno. Qualcuno studia, altri fanno politica al telefono. C’è una che dopo aver lavorato sodo per anni al suo avanzamento si è vista soffiare l’incarico da una tipa davvero scaltra che si gode l’altrui  raccolto. In compenso le è concesso di non fare nulla.

Arriva tardi,  un po’ impettita, per lo più legge il giornale, recrimina e spesso gli racconta del matrimonio di una figlia, di quello imminente dell’altra, delle spese che l’hanno  svenata,  del marito di cui si innamorò la morte.

Non conosce la grandezza del regno che le è stato donato.

 

Lui ha lasciato l’ultimo ufficio perché l’invisibile capocomico lo aveva scritturato per una farsa in cui faceva la parte del terzo incomodo.

 

Ad alcune impiegate di qui piace, di quel piacere che non morirà mai in un letto o forse si annoiano soltanto.

 

Non hanno quasi nulla da fare.

 

Come la maggior parte, fingono di essere vive.

Passano ore al telefono, chiamano i figli a scuola, un’amica, leggono spazzatura, invidiano ad alta voce qualche collega pensionata.

Standosene sulle sue lui le costringe a chiamarlo con una scusa. Loro gli offrono un caffè, gli chiedono dei suoi matrimoni, se è ancora in contatto con la sua ex e, nel caso, se la sua attuale moglie lo sa.

 

L’ufficio di adesso è all’ultimo piano di un palazzo storico sul corso centrale della città.

C’è un lungo corridoio con un bagno alla fine. A metà, un passaggio in penombra apre su due sudice rampe di scale che portano alla terrazza, grande cinque o sei volte il suo appartamento in fitto. Ci va spesso a fumare e porta sempre con sé una penna e un po’ di carta per scrivere.

 

Si è in alto, a un’altezza condivisa da altre altezze, di colonne impavide d’aria, di infinite terrazze, che l’intensa luce impallidisce, di tornei di nuvole  bianche come spuma da barba e uccelli che scelgono padroni il prossimo atterraggio, una base per le future ebbrezze …

 

Le altezze si godono in silenzio la loro aristocrazia.

Sono ironiche, con stile, quando non sono sarcastiche, con classe.

 

Di sotto, il mondo brulica di vite mediocri e una di queste indossa un abito di lino blu,

                               un colore che non muore mai.

*

Si immaginò la morte

Un colore che non somiglia a nessun altro

come lo stendi davanti alla platea innumere?

Il mondo vuole l’immagine del cerchio

la somiglianza del giro a vuoto per gridare ‘dio’

sulla testa dei vicini, per i patti coi lontani.

 

Un colore che non somiglia a nessun altro

non si può partorire, arroventa l’alfabeto

fino a fonderne le lettere del tutto, in tutto.

Un colore che non somiglia a nessun altro

                 a niente somiglia.

 

Perciò si immaginò la morte

come uno sparecchiare la tavola.

Il pranzo o l’ultima cena sono finiti.

In alcuni piatti non è rimasto nulla,

in altri affiorano bocconi frastagliati,

i bicchieri e le bottiglie sono svuotati,

le fette di pane mutile a caso

e un senso di disfatta o di fine delle ostilità

si è impadronito della scena.

 

Si immaginò la morte come quelle mani

che si infilano tra le teste di chi ha finito,

leste decise e serpentine e, sopra, facce

severe e contegnose da musicanti

che suonano per l’ennesima volta

un pezzo logoro del loro repertorio…

Quelle mani che piombano tra le teste

dei commensali e non badano a nessuno,

solo a liberare la tovaglia che poi sarà scossa

per ripulirla dalle molliche e poi come un sudario

sarà lavata e profumata per il prossimo

pranzo o la cena che non sazierà.

 

E alla fine si immaginò la malinconia

di chi deve alzarsi per chissà dove e prende

dalla tovaglia prima che sia levata

ancora qualche briciola e la tiene tra i denti

e poi la biascica piano mentre nella sua mente

si affollano i quadri di tutti i pranzi e le cene

che prima di quell’ultima volta non lo hanno

saziato e invece di riempirlo lo hanno svuotato

perché così ci si deve sentire dopo ogni esistenza

dopo la farsa sfinita di ogni sopravvivenza.

*

Ti ho portato dei fiori -sulla tomba di mio padre-

Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?

[...] Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me

Giovanni, XIV, 10-11

 

   Ti ho portato dei fiori e chi li ha scelti

   - non io che non tollero i mucchi -

   mi ha garantito che sono i più giusti.

 

   Uno dei miei miserabili trucchi,

   un colpo segreto, mentre senza il coraggio

   di un Pater mi accingo a passare

   una minuzia di tempo dove la stagione cerne,

   declinando, le tue, le sue ceneri, trasmuta il sorriso

   del teschio dietro un marmo di cui posso

                                                              [contare i pori.

 

   E’quest’ ultima luce, il suo immoto ansimo

                                                                    [polveroso.

 

   La luce ha ancora qualcosa da dire a quest’ora,

   il meglio della sua sapienza quando muore

   e va a posarsi su quello che resta di una cosa.

 

   La vita che dividemmo, come è giusto, ci divise,

   e questo non è poi diverso da uno di quei silenzi.

 

   Che io avessi terrore di te era normale

   ma che tu ne avessi di me era il mistero,

   la quadratura del nostro male.

 

   Cos’è che adesso mi fa sentire la tua mano

   sulla mia testa, confusa più d’allora?

   A che serve questa pietà sterile di pianto?

   Per una vita cercai un canto

   che frantumasse il ghiaccio e nient’altro

   adunai che gli scomposti gesti di un muto,

   i resti di un desolato, insipiente amore.

 

   Trovai un muro e lo chiamai:

                                                     [il mio assoluto.

 

   Come un bambino povero monta su un copertone

   e con la bocca pietoso imita il rombo di un motore.

 

                                                                     (riproposta)

*

Axis mundi

 

Il cicaleccio su Atlantide dura ancora

e tutte queste porcherie sotto il carro dell’ignoto.

Chi stira così bene i piccioni?

 

La leggenda si liscia la barba

unta dai nostri polpastrelli

bruciati dallo sfogliare le pagine

della grommosa rivelazione.

Allo scoccare della mezzanotte

ha gonfiato i palloncini delle anime

e non le resta che attendere

l’afflosciamento nelle ventiquattro ore.

Intanto inganna l’attesa leggendo il futuro

nei fondi degli autodafé.

 

Anche oggi il big bang

avrà le sue proiezioni infinitesimali

negli infiniti orgasmi

silenziati nelle cieche viscere planetarie.

 

Il vecchio impazzito sulla teologia

grida la sua apostasia

chiamando impronte

quello che altri definisce disegno.

 

Da qui sopra la città è perfetta

nel suo calcolato disordine;

sabbia un tempo bagnata

colata da una mano accidiosa

a levare un’umida babele

poco lontano da una logorata battigia.

 

Tutte queste porcherie e solo

per oltraggiare senza saperlo

la consegna del tempo carceriere

che lascia fare

perché sembra

non essere più d’accordo

col datore delle ore.

 

La donna discinta

che esce sul balcone

all’ultimo piano

apparentemente per stendere panni

ma con la speranza di essere guardata

sta chiedendo dei massimi sistemi

e allo stesso modo

l’allarme che da un’ora

non smette di singhiozzare,

l’abbaiare ininterrotto di un cane

disturbato dal divenire

e quelli che davanti ai bar

fanno la sentinella alla scempiata

inedia dell’ombra loro desertica.

 

La radio gracchia che Elena

non è stata ancora liberata.

Scoppia di salute la guerra

e pure la lonza della dialettica.

Faville del fuoco su cui siamo seduti

vengono scambiate in cielo

per segni di un’imminente salvezza

e l’ultimo filosofo

(o l’ultimo dei filosofi)

dalla sua macie e senza più naso

appollaiato sulle comode spalle

di Platone e di Tommaso

alla fine di una anoressente scepsi

pontifica che vista dall’alto

non da così vicino

la vicenda del lupo e dell’agnello

è buona anche per l’ovino.

Visto che funziona in quel certo modo

la cosa deve essere necessariamente ben fatta.

 

Ogni volta che prendiamo una sigaretta

agitiamo un po’ il pacchetto,

contiamo quelle che restano,

per regolarci.

Non possiamo fare lo stesso la mattina

quando ci alziamo

coi giorni, coi giri

che ci restano ancora da percorrere

intorno all’asse del mondo

mai pago, mai in calore,

ebbro di un qualsiasi amore

per spiantarsi dalla sua fossa senza radici

e muovere qualche passo con noi,

per riscaldarci, per fumarne una in compagnia.

*

La corrida

Accadde a un fanciullo

dopo la corrida

lo sconfitto toro

scoprire dimezzato

appeso all'asta

della folla inferocita.

 

Così, pensò il fanciullo,

ad ogni vita

l'eguale dovrà

pure accadere

che uno contento

vi pianti la sua lama

e dello squartamento

lasci ai demoni il piacere.

 


*

E’ tutto quello che ricordo

Da Settembre ero io di Ostman Fuss Reiter, (Neuhaus 1920-Weissenstein 1954)

 

I

 

E’ tutto quello che ricordo di quel tempo:

il battito del mio stesso cuore mi feriva.

 

Veniva ognuno con in tasca la combinazione

                                                                  [vincente.

Fossero parole ispirate o cifre

tradotte da dissepolte clavicole, la faccia

diceva tutta l’elezione che parava il carnevale

                                                     [della loro agonia.

E i loro figli crescevano

invincibili come nomadi che assediano

regni sedentari per tenerne lo scettro promesso.

Ammazzavano altri figli distratti dalla perplessità,

resi inermi dalla astuta strategia dell’amore,

perché anche l’amore ha da lottare per la sua

sopravvivenza e scava languido - mentre finge

di morire - trappole per teneri cerbiatti.

 

Se me lo chiedi, non so risponderti altro.

E’ tutto quello che ricordo di quel tempo:

il battito del mio stesso cuore mi feriva.

 

Provai rancore per Dio mentre era vivo,

e lo stesso continuai a sentire dopo la sua morte

ed anche questa, conclusi, è una forma dell’eterno.

In quel rancore mi avvolgevo e nella nicchia

che Lui lasciò – perché Dio se muore non lascia resti –

fingevo di dormire e respiravo rancore e

gli animali non si avvicinavano: quelli feroci

mi osservavano da lontano, con contenuto ardore,

                                                        [come per imparare…

 

I battiti del mio stesso cuore mi ferivano

e Settembre ero io, una delle vesti di Lei, opaca,

che con metodo fermentava graduale oppio

a narcotizzare le radici ingenue del mondo

descritto nel volume delle foglie d’autunno.

Il mese che gli altri undici temono, il nove,

lanterna alla pena della vana trasmutazione,

cifra del vagito e della muta esalazione.

Aprile, il suo speculare, dai subitanei

corrucci, l’antesignano della gloria solare,

leva lento la luce che dorerà tutte le cose

che l’inverno ha franto e ogni frammento

                                                    [all’altro si risalderà.

Ma Settembre… Annuncio finale, più calvo

d’ottobre, marcisce la perla, ne fa polvere

che va persa nei ghiacciati cunicoli dei mondi.

 

II

 

Allora non precipitai io nel silenzio,

fu lui a sprofondare in me.

L’afasia dell’acqua trovò una acconcia valle

per insegnare l’arte dell’affogamento e dimostrò

che il liquido è l’idiozia vincente dell’assoluto,

la sua forma naturale: trova un vuoto e lo riempie…

 

A voi della mia stessa stirpe odissea

l’offerta di quella fine perché infine ricordai

in un punto stellare che vaniva

la sorella endura alle inospiti plaghe del Nord

sui carri gravi della nostra notte cieca d’astri.

Razza che il deserto piegò

e gli diede un nome – votata al dio vento

che passa tra i fiori - ; razza che altre

attraversarono mischiando la loro ventura

alla sua; ospite razza, quale una grotta

del primo mattino ti facesti pozzo che

aduna naufragi di sangue dai quattro

cardinali; razza che ad altre innumeri

ti ammogliasti nel fremito latteo

di intraducibili orgasmi – ricordai

l’attesa profonda nel sonno

dell’ululato, la sua curva, dapprincipio

esitante, modulazione salire dalle viscere

che alle corde tese della gola levarono

il celibato di un’estasi marina ai soli…

 

Poi l’ultima domanda fu per Lei cui si inchinò la luce.

Soffiava un vento caldo che si era inebriato di corpi

senza legge e ben disposto per qualsiasi inizio o fine.

 

Càlati, le dissi, su me non come

il velluto della notte su un giardino

fiorito di fontane che cantillano

distici di freschezza; non come

un crepuscolo distilla preziose

le stille lucenti di Vespero, ma con quello

che della tua carne ha fatto

per tutto questo giorno il sole

sul mio nome che ti pervade

come un vento perso

nel labirinto di riarse grotte

che il tuo desiderio perenne scava.

Poi tienimi in te per il tempo

dell’antico patto e partoriscimi infine

come una pura sillaba d’infinito.

 

Ma non era più quello il tempo

di una preghiera di tal nome.

Si alzò un vento fresco,

di quella freschezza che dischiude porte

al feretro e all’appagato mormorio

di liberati congiunti. Credete che a torto

fu detto il basso uguale all’alto e l’alto

al basso?

 

Allora non sentii più i battiti del mio cuore

e quelli di qualsiasi altro cuore nel mondo

                                                       che fu di Dio;

niente poté più ferirmi da allora

e non ci fu più sangue, non fui più del sangue io.

 

 


*

Per questa luce

                                                                                                                                                   

   Coperto intero è il cielo

    sopra le nostre teste rare.

 

    Non c’è un solo focolare

    che raccolga la cenere

 

    per arrendersi a quello,

    cospargersene il capo.

 

    Ma all’orizzonte intorno

    si arresta l’orlo delle nubi.

 

    E’ da lì che essa giunge

    come compressa la luce

 

    che all’occhio non fa male,

    d’un ammansito amico sole

 

    da un velo materno, solidale

    sotto la coltre nera dei nimbi.

 

    E pare che fluendo annunci

    non lieti preludi estivi ma:

 

    è per me, per questa luce

    che dal buio voi siete vivi.

 

 


*

Quest’osso

Quest’osso non è appuntito alle estremità

quindi non doveva acuminato penetrare

                                             qualcuno o qualcosa.

 

Quest’osso non è tagliente quindi non doveva

mozzare scuoiare ferire sgozzare una gola d’uomo

                                                   o d’altro animale.

 

Quest’osso non presenta tacche lungo la sua lunghezza

per segnare un progresso qualsiasi, un ciclo mensile,

fasi lunari; nemmeno ha un foro per infilarvi un filo

                                e farne un ago per cucire le pelli.

 

Quest’osso non è abbastanza grande da poter essere usato

come la mascella d’asino che rese il braccio di Sansone

                                      vincitore contro mille filistei.

 

Non è neppure un osso di seppia, consumato dalla risacca.

Qualcuno centinaia di migliaia di anni fa lo rese liscio col palmo e con le dita.

 

Quest’osso lo levigò, a furia di carezze, - e forse è solo

un’illazione la mia – chi ancora non sapeva parlare e volle

fare una poesia.


*

Come è potente l’amore

Perché cercarti?

Sei tutta dentro me.

 

E anche questa presunzione

è la tua.

 

Sfoglio un libro

sistemo un centro tavola

sposto un vaso

mi sbarbo

mi tocco

mi pento

dico una preghiera

al dio dell’amore

mi spacco in due, infine,

col cuore che non sa scegliere

tra un’angina e la fine.

 

Cos’altro c’è da fare

di più importante

con mani che sono le tue?

 

Tu sei dentro me da allora.

 

Dalla finestra giunge corretto

dalla nafta il profumo del mare

che così è proprio perfetto

per lacerarti il petto

contenendo tutti gli addii

e tutte le partenze amare.

 

Non chiedermi come

possa rendere conto

di una vita come questa.

 

Perché nessuno mi cerca.

Sul lavoro sono stato

rimpiazzato

da un giovane impiegato.

 

I pochi amici non si accorgono

nemmeno quali di noi siano vivi

oppure morti e continuano

a mescolare nel retro di un bar

il mazzo delle possibilità, delle sorti.

 

Non pago affitto, non sono afflitto.

 

Ma come è potente l’amore!

 

Non mando odore.

 

Non sono vivo non sono morto.

 

E’ uno stato nuovo di cui non so

                              [spiegare il perché.

 

Quelle rare volte che esco

                              [ti chiedono di me.

 

 


*

Il muro

Non era per un classico segreto taciuto

il silenzio che ti faceva interrogare

la mia bocca serrata.

 

Non potevo parlarti del muro

che chiudeva il vicolo,

che lo faceva cieco.

 

Era un muro come tanti, grezzo,

senza intonaco, alzato da un furore

separatista o confine di due

proprietà acrimoniose, o più semplicemente

quello che restava del paradiso.

 

Lo lisciavo con il palmo della mano,

con un dito su lui disegnavo

improbabili ghirigori e un po’

cedeva della sua polvere, a volte un pugno di terra.

A suo modo, con piccoli cedimenti afasici

manifestava la sua impotenza a trattare del destino.

 

Non è un argomento interessante un  muro

in fondo a un vicolo ma esso si frapponeva

tra me e le parole gioiose, gli spruzzi salati

della marina, una corsa trafelata sulla rena.

 

Non potevo parlartene senza turbarti,

senza che tu a tua volta non percorressi

il vicolo fino a lui, fino al suo odore

di tufo umido, di vita che succhia

l’ultima goccia della sua radice,

no, non potevo farlo

senza che anche tu muta ti chiedessi

finalmente perché fosse tanto difficile

dire: ti voglio bene.

 


*

Sciogli i capelli - Abbracciammo la colonna

Sciogli i capelli a quest’ora.

Poi scuoti la testa

come fa la donna che ha sciolto i capelli,

di qua, di là, indietro…

 

Per un momento non guardi

coi tuoi occhi verdi

che la vastità

in cui mi perdi.

 

***

Abbracciammo la colonna.

Tra noi due il mondo

un cilindro di marmo

e stringemmo

più forte che potemmo

fra le rovine del tempio

di Giove Blando

la sibilla sillabando dal sacello

“Andrai ritornerai non morirai nel bello”.


*

Con parole trasparenti

Quando il sangue si fa liquore

Da esso cose ed esseri riemersi

Prendono grondanti la via d’occidente

Senza voltarsi e senza una parola pretendono

Il poema del loro silenzio e del loro dissolvimento.

 

Chiama questo: teatro del ricordo del sangue

E del suo nascondimento.

 

Fallo con parole trasparenti.

 

Con parole trasparenti di’ quel silenzio;

 

Con parole trasparenti dì frammenti di cristallo

Sottile come un’anima che cinge il velo del suo destino.

 

Parole trasparenti

Come tutte le parole furono volute

Anche quelle scoccate

All’urlo e all’invettiva e ai sordi gorgoglii

Dei meandri dove ristagna il tempo

A umettare rive che non sanno

Che farsene dell’attesa e usano la speranza

Per nascondere le impronte di un’eresia

Sorta nella livida accidia dei mattini.

 

Trasparenti nomenclature allinea

Lungo i muri che separano eden da eden,

Menzogna da menzogna, vita irripetibile

Da noia con la falce solenne e bevi i sorsi

Dell’inedia di cui è fatta la compagnia del porco

Quotidiano e sonnolento.

 

Fallo con parole trasparenti.

 

Con parole trasparenti di’ quel silenzio;

 

Con esse sciogli il patto con chi si nasconde apparendo.


*

Decimo comandamento

 

  

   Dirai ai tuoi figli che quando tuo marito

   ebbro di fortuna e sazio di carne

   mi uccise confondendomi col tramonto

   fu un atto dovuto.

 

   Le cartilagini erano già impresse da un collaudato

   destino e le membrane mai divenute palinsesti.

 

   La gente del posto era così abituata

   ai cieli di sangue di quella terra infame

   da scambiarli per teloni

   gettati sulla carne che i camion

   portavano ai depositi.

 

   Mi misi in testa di portarti via ai tuoi

   e non riuscivi a capire come l’eterno

   crepuscolo nei tuoi occhi

   potesse essere dimenticato

   per un profilo riemerso

   da combusti ricordi, sciamanti

   come da un disturbato alveare

   durante una visita a un cimitero occidentale.

 

   Ma io avevo parole di sangue caldo

   come i mattoni del muro maestro

   calcinato dall’ira perseverante del leone estivo

   e i parti e gli aborti e l’aver procurato

   vita e morti come acqua sorgiva dal grembo

   non poteva salvarti dall’alito in rivincita

   di scoperchiati sepolcri –

 

   sghembi nel mondo i figli uscivano dal tuo ventre

   torniti pipistrelli, come da una grotta

   grondante buio e seme di decreti.

 

   A loro curiosi della mia morte

   come di ogni luogo incantato

   dirai che di notte vedevi tra i campi

   intorno alla vostra casa aggirarsi un’ombra di luce

   avvoltolata espandersi raggomitolarsi tra i lampi

   diventare un punto ingigantirsi volare via improvvisa

   nuvola fola minaccia esorbitante veleno

   alle radici di tutto che mai sarebbe stato mosto

   bollente per un convivio di lemuri di paglia

   a chiudere il giorno biblico agghindato in salmi.

 

   Che poi essa ritornava dallo zenit alla vostra casa

   tu diventavi la casa e quella cosa stringeva

   in vita te e i muri e scendeva superba in cantina

   e slegava i nodi e svitava tutte le viti e tutta la vita

   e scuoteva i pilastri e la terra e l’acqua e l’aria

   ed era fuoco che s’era messo in cattedra, e altre cose     

   del genere.

 

   Ma poi essi si faranno più pressanti e alla tua lingua

   verrà in soccorso il fiato monotono del tempo narrante

   ed essi non acquietati vedranno finalmente la madre

   e le sue mani alla carne silenziosa e al carnefice

   cantante e l’ombelico arcaico del giorno consueto

   secco di polvere di rovine felici di una morte solare.

 

   Non l’avrai detto, ma anche loro sapranno infine

 

   che anche tu volevi salvare qualcosa di quello

   che nella quinta stagione mi fece danzare su un filo d’ombra

   nella ardente freschezza del crepuscolo, ma solo qualcosa,

   non più di tanto, quello che a una madre tocca salvare,

   il passaggio, ma in cosa consistesse quel passaggio

   era al di là delle labbra umide del tuo prosperoso destino.

 

   Così la cosa fu risolta in un sol colpo con un colpo solo

   e dalla voce del fanciullo chiamata: il cielo che cade

   e dalla pietra confortata in memorabile oblìo.

 

   Ora i tuoi figli hanno scoperto dove sono sepolto

   e spesso vengono a trovarmi confidandomi i loro silenzi

   mentre ignota tra le braccia stringono

   l’eco sapiente del tuo grembo vuoto.

 


*

Cosa delle cose

In fila per il riscatto

memorie e cose

nel simposio sordo dell’estate

 

e i morti pure che sentono

ancora sotto il piede

la trama bruciante di queste tenebre

 

chiedono soccorso alla persona sbagliata.

 

Perché non entrano cose supplichevoli

nella spoglia secca del Verbo

– Cosa delle cose –

che il polo solare dardeggia

a evocare l’indifferenza geometrica

del ritorno, nelle volute della spira.

 

Ammantata del passato la morte

ha scippato lo scettro all’eternità

perché possiamo empi adorarla

e il Tu è ormai un insensato Questo.

 

Tutto questo si proietta – spezzoni di akasha –

sulla parete di una stanza in penombra

e maestri bipolari ancora all’immanente circo

tentati nel deserto dal mostro sensuale

scuotono la sabbia dalle piaghe dei piedi

mentre si leva il dubbio sulle loro teste

come una nebbia o un’afa

che incontra l’altra,

celeste, pandemica.

 

Eppure non c’è guerra manifesta

ma la testa si interroga comunque.

E’ una domanda invisibile fino

al punto che un uncino sormonta.

 

La disputa mercantile degli uccelli

non è meno esibita ai nostri occhi

e siamo tra peccato e ignoranza

secondo i testi all’inseguimento del capro.

 

E’ una corrente, vibra, a volte sembra

avere un contenuto ma ne siamo dissuasi,

non è chi siamo, da dove veniamo

ma perché è così dolce così atroce

il nulla che non riusciamo a colmare.

 

Il bambino trovato morto

dimenticato dal padre nell’auto

dicono abbia lasciato un biglietto:

dopo qualche ora non riusciva

a rassegnarsi a quell’abbandono

e pensò che fosse una punizione.

Di certo aveva mancato

e ne chiedeva il perdono.

Ma era stata la sua sorellina

a convincerlo a gustare una sigaretta

dal pacchetto del padre

lasciato sul comodino

ingrommato del sedimento

di logori sogni senza futuro.

                                        (riproposta)

 

 

 


*

Un prezzo fu fissato

Fisso sul davanzale

dove lo portò la fame

guardingo il colombo

pregustava la lattuga

che l’ava aveva scelto

per la vecchia tartaruga.

 

Anche alla sazietà del puro

un prezzo fu fissato

e furon cerca, paura e fuga.


*

Il rito mesto dell’allegria

Ai suoi piedi l’ultima parola

si fa cenere, inadempiuta.

Poesia, veste spessa di verità

quella che lei di sé vogliosa smette.

Il passato è l’ultimo

orgoglio che resta

che in due versi hai rifuso

nella grazia di un mattino

credendoti chino alle stagioni

per un enigma

che è meglio non tentare.

Questa stagione, dici,

segna un passo diverso

le ombre si allungano diverse

alle pendici…

Ma la luce pallida che torna

sa esserti crudele,

mostrarti quante strade

può fallire la poesia

svanendoti stupito tra le mani

il rito mesto dell’allegria.

 

                                  (primi anni settanta)


*

Sotto il blu delle antiche stelle

Tu chiedi cosa potrebbe

salvarci se non la vita un giorno.

 

Siamo sotto il blu delle antiche stelle

in un rione d’Italia

due punti fermi

a chiusura dei discorsi diurni.

 

Quando la bocca tace senti

le invocazioni mute dei sensi.

 

Ecco, faremo di corsa le scale fino al letto

e la gioia sarà che in altre case

qui intorno, quelle che accese

le luci ancora hanno

ragazze inconsapevoli

come noi

nude si addormenteranno.

                                        (primi anni '70)


*

Rosa Crux

Spesso ricordo amaro gli anni

che si annunciava primavera

in un vento sapido di mute guarigioni.

Le altre stagioni, rivali lamentose

e sconfitte a misurare lo scontento,

matrone immutriate in ceppi,

larve che languivano in prigioni.

Gemello il mio del forte suo trionfo,

fanciullo per quel poco che ne seppi

di un'età che fu breve come un tonfo.

Non udivo voci nell'avara solitudine

ma stilai sul biblico silenzio leggendario

confidente e fiero la colorata moltitudine

delle parole dolci di un mio umile diario.

E tutto io mi diedi a una speranza allora

vestita degli stracci che dei miei odorosi

panni fecero le ruote affilate del destino.

Nulla accadde o il Nulla accadde

e il vento sapido variò supino

nel piombo in cui fusi furono gli anni.

Ma io attendevo, e attendere sapeva

un cuore mio gentile e un po’ romantico,

che l'opera dei danni mutasse infine in luce,

la luce ancora in voce e in cantico

fiorisse poi la Rosa nel mezzo della Croce.


*

La tiepida strada

Saremo insieme, nei marmi

macchiati di cere colate

lave di ceri, sozzure dei cimiteri…

Vasi di bronzo

urtati dal vento nelle sere

avranno disperso i petali secchi

come il sangue nelle nicchie

delle perdute primavere

                                        quando

quel dolore avrà dilavato guance

sciolto lo scontento.

Solo la vita verde della lucertola

ricondurrà nostalgie

nei meriggi

quando saranno finite

le litanie dell’oggi

tetre e l’alito dolce del mosto

traverserà le pietre.

La tiepida strada d’ottobre

ci avrà condotti

alle case dei morti

inutili e sepolti

quando non sembrerà più

la frase che dicesti ardita

la morte è un istante

che dura una vita.

                                  (primi anni '70)


*

Fassi l’apotema raggio

E' cruccio all'apotema farsi del cerchio raggio.

                                E chi può dir la pena d'una che se pur fosse

solco al circolo radiante con sì gran vantaggio,

eguali avrebbe dimensioni qualsiansi le mosse?

Ma pur tentare deve chi mutar vuole l'intorno

a cangiar sua essenza in medesima apparenza.

E allora fissar il pentagòno giorno dopo giorno

con ferma volontà a edificar la sua differenza.

Cieco vuole il potere poter del cieco suo volere

e se cinque restan gli acri a sorte sua gabella,

muta la reietta linea e fassene di croce stella.

E sì come stella sé slontana nel celeste spazio,

punto si fa, punto che dilata ormai ch'è sazio,

e raggio a vasto cerchio è or sì apotema bella.


*

Vintage

Vana è la rosa
per chi ormai ha deciso.

Nel velluto che le porgi

vede solo una cosa

che una lama ha reciso.

 

Vana è pur ogni parola

al suo ultimo decreto,

la ragion che vuol d’allora

l’amato rinverdir segreto.

 

E disgustoso trova il succo

che con te le piacque bere,

e chiama adesso un trucco

ciò che gridò piacere.

 

Così farla ora devi sicura,

certo che serena ormai può dirsi,

il tuo essere per lei bene si oscura,

conta solo quel che resta per finirsi.

 

Libera di scegliersi il suo bene

può volger gli occhi suoi rubati al cielo

ovunque un vento la conduca senza pene,

ovunque il cuore che scoprì del velo

certo sia di non trovare più catene.

 

Ma se la vita sua dovesse

in un attimo percosso dal dolore

aver bisogno solo in quel momento

di me lontano col perduto amore,

volgersi potrà al mio esilio in firmamento

dove brillo senza la sua compagnia

luce solo a lei che un dì fu un po’ anche mia.

 


*

Settembre

Tu, vita desolata di settembre
tutto si decide nella valva del tuo sole
che d'estate ha stanchezza, crollo silente
e solo d'un solstizio...

A quelli che amano i morti
doni una sterile unione
consolandoli
d'un abbraccio senza comunione,
ma in te forse tutto è morte
cadavere che si riscuote
per dirci che è quiete
il sogno suo odierno.

E c'è nell'aria un senso
un flusso d'arida luce
che non è ancora inverno
mentre t'ascoltiamo
fanciulli a uno straniero compagno,
Settembre, ansioso mestruo dell'anno.

*

Sotto il cielo della luna

Credetemi,

sotto il cielo della luna

lui chiamava salvezza

quel procedere fidente

brancolante ascesi

in un buio dimenticato.

 

Sopra, la ghiaccia

volta circense

percorsa dal perenne errore

di patetiche nuvole informi

disperata mimesi d’infinito

e sotto la berciante fauna bieca

nel torbido plancton dei giorni.

 

Non erano folate d’angeli custodi

ma le risate grasse dei padroni della terra

al piombare goffo del ragazzo nella vita

lui che credeva d’essere un giunco

e che una stella lassù portasse il suo nome.

 

Cristo gli era in ogni istante

profumo della novità del nove

e il suo un volto sempre irriso

dal crasso popolo delle vetrine

lui sempre sotto lo stesso cielo

volto alle sei impettite direzioni

del terrifico nome plurigemino.

 

Alla fine la diaspora dei clown

il crollo delle gabbie

intorno a incottite criniere

il calice della rancura e parole

cadute dalle chimere

dei sogni velenose

sulla lastra rovente del mattino

da che dispersa al colmo

fu la fedeltà di un bracco

il berretto da capitano

e una ingrommata pipa

contro il fato scempio

d’una balena albina

e il gioco di morgana della vita

una ressa sulle dune, a ordire il circo
cieco
del plagio inane di se stessa.

 

 


*

Semplicemente vero - Rap

perché rifiutò dall'inizio il suo dono per servire il fratello muto sfortunato a battere i morse della Legge incognita nel torace asfissiato tra le spire

 

perché fu sempre lo stesso nel frammento dell'Oscuro nel dialogo di Platone nell'abbraccio di Nietzsche  in quello della  chiesa matrigna e del suo dottore al nitrito di dolore del Pegaso imbrigliato nella città taurina magica si fa per dire

 

perché nel deserto seccò immediatamente la nostra fama

e ci fece capire che eravamo niente se qualcosa aveva

agito completamente su noi e lo adorammo quanto bastava

 

perché stabilì un'ebbrezza tra il libro da copiare e l'amanuense

e gli fece trascrivere quello per cui non erano ammesse licenze

 

perché così è quando appare, cioè sempre ( puoi chiamarla ‘natura’)

e nelle dimensioni che non caverà dal buco nero tutta la fisica più pura

 

perché il sole scoppierà e lui non ne ricaverà una sola bruciatura

 

perché quando vestimmo nostro padre morto col cuore spaccato

lui lo unse e poi lo benedisse con l'assolo del suo silenzio spietato

 

perché prima che lo pensassimo lui ci aveva già pensato

 

perché scioglie i nodi scorsoi dei nostri ombelichi

e poi li fa suonare come i flauti dei satiri antichi

 

perché nonostante lui resta sempre cicuta la più venduta

 

perché continua a chiedersi con quella sua inaudita costanza

sudando sangue a cosa sia uguale il simbolo dell'uguaglianza

 

perché erompe come le radici degli alberi da sotto il bitume

e urla che il sesso non ha sesso e non è un fatto di costume

 

perché sa che Plotino è il cazzo lungo affilato di Platone

 

perché sa che Atlandide non è una leggenda, una illusione

e che se ci fosse ancora avrebbe un suo prezzo d'ingresso

e le pagheremmo il canone di un'esoticissima televisione

 

perché sa che la Gnosi abita le fogne e le periferie e le usa

e i numeri non sortiscono a caso e il boomerang è Pitagora

prima che al mercato nero di Giza trovasse la sua ipotenusa

 

perché può fare matematica senza fare numerologia

e può anche fare l'inverso senza sentirne nostalgia

 

perché è vinto solo se è convinto come mai prima d'allora

e si fa spezzare da chi crede di esserlo e non lo è ancora

 

perché scrive versi in angoli bui e poi li critica  severo

come se non li avesse scritti lui e in galera di sé dà il meglio

e scioglie quasi tutti i lacchè e libero un po’ davvero

s'annoia e cerca sull'elenco del telefono il numero del boia

 

perché dialettico quanto basta passa tra le teste

del pater e della familia a volo e compie un miracolo

a volte di nebbia cristallina che può fare di tanti uno solo

 

perché brucia tutte le immagini precedenti di sé

 

perché talvolta a Stoccolma ha la meglio anche se…

 

perché sa perdonare essendo il per e il donare

e ha certo più di cinque stimmate da storicizzare

 

perché sembra egoista e pretende il tuo posto con una certa spocchia

ma dopo che lo ha occupato ti fa sedere sulle sue calde ginocchia

 

perché non prese mai una laurea ma è l'unico onnipresente usciere

che consente a chiunque di entrare dove quello che è può farlo diventare

 

perché accarezza la barba del monaco e la testa rasata del bonzo

ed è il pane quotidiano di entrambi e per lui non esistono strambi

 

perché ordina ai libri giusti di farsi scegliere dagli adolescenti dubbiosi

 

perché ama il popolo ma essendo intelligente si guarda bene dalla gente

 

perché lascia che sia suo fratello muto a giacere con le donne più belle

dopo averle affascinate con le frasi più suadenti che intessono le stelle

 

perché a lui da maestro vero tutto si può dire che abbia detto già

e si illumina ascoltandoci come se rivelassimo una mai detta verità

 

perché in lui tutto è stato detto ma tutto è ancora da dire

 

perché siede da solo nei parlamenti quando tutti sono al mare

e fa la sentinella ai decreti del sapere e a quelli dell'amore

 

perché è la prima e l'ultima immagine sulle retine dei kamikaze

e sa che sotto le medaglie dell'imperatore batte il cuore dell'ultimo barbone

 

perché sa che lo spirito è quella cosa che incontrando la materia con onore perde la testa e che la materia solo in presenza di quel signore

organizza nei dettagli la sua più orgiastica festa e sa pure che la materia è quel puntino nero su cui si regge in equilibrio l'universo intero

 

perché nel mare duetta con la commozione e sulla vetta è nudo

come la croce abbandonata da chi non è più perduto

 

perché è presente con la luce del giorno e nel buio del sogno

 

perché è coperto di antiche cicatrici che conoscono solo i suoi amici

 

perché fortunatamente gli manca qualcosa

 

perché porta una rosa del colore più adatto ad ogni pura immanenza

 

perché sa che la trascendenza è fatta coi detriti della nostra esistenza

 

perché le ha provate e le prova tutte e il suo alito non è il migliore

 

perché si emancipa continuamente da sé stesso e porta dentro con disinvoltura (il segreto suo più grande)  pilastri delle piramidi più perenni, d'una pietra più dura

 

perché suo fratello il cuore ha battuto all'inizio sette colpi per dirgli quanto fosse contento e sa che morte non esiste e perciò non muore perché circola con e in ogni tempo

 

perché sa vedere ed è la prima nostra lingua che tutti dobbiamo ricordare

 

perché è veramente libero in quanto sa che libero non è ma sicuramente

 

leggero

 

e allora se non è in catene, eppure libero non è, noi chiamiamolo

                                                                                                       semplicemente vero.

 

                                                                                       

 

 


*

Se sangue doveva Essere

C'eri prima e ci sei adesso.

Quello che è successo

dopo la tua morte

conta poco. Per l'uomo

e per il topo che inciampano

nelle tue sparse membra

- mutilato Osiride - non i lampi

nell'iride di gioie avare

e il tedio nemmeno

che fiacca al tramonto il mare.

Se sangue doveva Essere,

secco o a fiotti, che sangue sia

e inchiostro, nero inchiostro

                                   alla poesia.


*

Nella stessa acqua

Attesi qualche anno prima di farlo

da quando avevamo iniziato a farlo.

 

Perché quando lo facevamo

c’era come un’ombra che non capivo,

un’ombra che scompariva

nella sazietà del dopo.

 

La verità che si svela velandosi

mi era sempre sembrata

un meschino espediente da teatro.

 

Ma, del resto, perché il vero

non dovrebbe essere piccolo

per i piccoli, immenso per i celesti?

 

Così quella volta, nel tempo dovuto,

quando sentii che il piacere

dalle viscere dell’ignoto

saliva alle nostre

prossimo a dispiegare del tutto le sue ali

nella luce buia intorno al nostro amplesso

                                                               seppi

che dovevo chiamarti col nome di tua madre

e che tu mi avresti risposto

chiamandomi col nome di tuo padre.

 

E fu proprio questo quello che accadde.

 

Allora le ali furono completamente aperte

e il volo che prima si interrompeva alle pendici

guardò fiero dal cielo il picco più alto dell’Eden.

 

Il tempo aveva scelto per noi

un’ansa nel suo fiume

e da quella volta ci bagnammo

sempre in quella stessa acqua,

sangue dissepolto che si era

evocato, trionfante, per revocarci.

 

 


*

Corro sotto il sole

Corro sotto il sole

con 40 gradi all’ombra.

E’ il 15 luglio del 2007,

sono le 13 e pochi minuti.

Hugo von Hoffmansthal

morì an einem Schlaganfall

als er zur Beerdigung seines

Sohnes aufbrechen wollte

nel 1929 in questo stesso giorno.


Siamo solo noi due, io e il sole,

e non sappiamo niente l’uno

dell’altro e nemmeno Hugo

sa niente di noi e di tutto il resto.

Nemmeno ci è dato sapere

cosa ci facciamo così sospesi,

uniti da incommensurabili raggi.

 

Ma il mio sudore

dà un senso

al suo cieco calore,

questo a sua volta

dà un senso

al mio disperato amore,

mentre al colmo dello sforzo

decido di fermarmi un po’

con le braccia levate

e di adorarlo il sole

perché bisogna affrettarsi:

mancano solo pochi

miliardi di anni alla sua,

alla mia estinzione.


*

Quest’inferno

Saremo all'inferno
e lì ci ricorderemo

di qualcosa che abbiamo fatto

e che non dovevamo fare

e ce ne faremo le nostre ragioni.

 

Ma quest’inferno di adesso,

quest’inferno da smemorati

è la più raffinata delle punizioni.

 

Sapere che stiamo espiando

perché qualcosa dobbiamo

pure aver commesso

e non poterci ricordare cosa

per uno speciale contrappasso

deciso nel cielo più esterno…

 

Quello di adesso ha molto da insegnare

a quell’altro e ad ogni altro inferno.


*

Non verrai

Non verrai.

Non varrà la somma delle attese

delle invocazioni mute

il ragionar sperando

lo sperare razionalizzando

i pentacoli sui fogli

la magia domestica dei soli.

I passeri lasceranno

i rami più alti

anch’essi esausti

piccoli angeli disorientati

e il buio si impadronirà

della mia inettitudine.

Così si estenuerà in silenzi

la mia torrida estate

a misurare la tua assenza

nell’incalcolabile distanza

da una stanza all’altra

del confino del perdente

nel semivuoto appartamento;

io nel corridoio

                         [decombente

la sola voce giungendo regolare

di una vecchia affondata nel suo letto,

annaspando nell’aria, demente,

i suoi rimproveri ai parenti ingrati

fino al fondo della notte inclemente

ad accertarsi che tutti si siano ritirati

che ogni porta sia stata ben serrata.


*

Radia un lucore il geco

Radia un lucore il geco

 

Radia un lucore il geco

nella penombra della stanza,

nella quietata notte estiva

che pare umetti la tua fronte

pura e quella del tuo sonno.

Sono certo del tuo,

il sogno del figlio che non nacque.

' Così a me piacque' portava

a firma la calce del decreto

e noi ce ne facemmo

una ragione sfamata di silenzi.

Dura un buio di confuse presenze,

concitate e mi strania in un suo

gorgo dove una faida si strema

di anfibie chimere.

E il geco, la nobile creatura

che abita la luce, gonfia

impercettibili vene ai molli

fianchi di un baldacchino

d'ombre intorno al nostro letto;

nella notte estiva trascorsa

dal cuore assente che non batté nel sole,

che non si addormentò stringendo

nella mano la stella del dio marino,

né quella del suo primo mattino.

La mano che non poté tessere

una storia di minime dolcezze

ai nostri occhi inteneriti né un nido

inestimabile a un tesoro di conchiglie.

Tu dormi e sogni e anche le tue labbra

dischiudi al rosario di ciò che fu negato:

' i tuoi piccoli panni non asciugheranno

al sole della mirabile stagione;

l'iride tua non trasalirà al transito

scomposto del ramarro

nella foresta del basilico;

da una barchetta il tuo grido

non ci avvertirà che in cielo appare

e sghembo si abbandona

il precipite gabbiano

nella estatica rotta'.

Tu dormi e vedi la tua mano tendere

il cibo ad una bocca che scompare.

Ma può l'amore una ferocia

tale che un'anima redima

prima che essa viva.

 

Sia la tua, assente, la sorte

di chi è salvo nudo del sudario,

quella di un re che ebbe il suo regno

in un piccolo giardino oltremondano,

in un cielo che non ha Calvario.


Tu dormi, io ascolto la presenza

viva che sollecita un tuo ansimo

improvviso; colgo sul viso che contrae

la domanda di oggi, d'allora,

la visione che in sogno ti opprime

e per tutte le ombre  due dita

astrali levo che sfiorano il tuo,

il capo della nostra creatura,

del sauro gentile, e un lembo,

solo un lembo, ma infinito, di paura.                                                                                                                                                                                                                                                     

 

 

 

 


*

Alla penna

Scivola sulla carta quella punta e dispensa il nero più commovente del più riuscito arcobaleno e la mano è timorosa. Se avessero occhi le dita si volterebbero a guardarla per chiederle se l’hanno capita, se è proprio così che devono tenere lo strumento nobile della scrittura, ma non possono ed eseguono. Quella che prima era musica descritta guardando il cielo, cantata mentre nasceva, adesso deve farsi parola, parole giuste che dicano l’indicibile che sei e il cuore è fermo nella licenza di una sospensione d’amore e terrore. E il fruscio sul foglio...
    E come morbida, lubrica, lasciva  scivola a pattinare traducendo in volute notizie dall’orgoglioso Nulla e… chissà se è questo che volevo dire o la lingua mi ha preso la mano e guida la penna e fa quello che vuole. Ma questa penna è come un coraggio domato che nel silenzio mi asseconda e dove devo fermarmi mi fa fermare e dove più veloce devo imprimere significati prende un galoppo di vittoria struggente che si esalta ad ogni a capo. Scriviamo per non essere descritti e questo foglio che per la penna indomabile di me si imbeve –  non importa con quanta arte – della mia vita è una parte che resterà se non per sempre per questo momento umile come la semplice scenografia in cui un uomo sta lottando con l’oblio, l’unica vera morte, per fermare un poco di quel nulla che è lui; il momento che vive stringendo quello stilo che lo racchiude tutto, bambino, adolescente, giovane innamorato, adulto deluso ma vivo di e per tutto questo.
    Penna, scettro domestico, mio prolungamento, fallo pudico e ragionatore mai semplice esecutore; quello che sono, che penso, che non sono, che non penso ottengono la tua muta approvazione o il pudico diniego dalla soggezione che non ti priva della corona di vergine regina risoluta. Penna che mi aspetti, mai servile e ti scappucci e mostri una lingua d’oro regale, stilo di Merlino che si fa stile nella nera eleganza che riflette il vero meglio di ogni veritiero specchio, ancora una volta appaga questo silenzio che la notte intatto ha ceduto all’alba e dirigi la sinfonia di questo giorno scritta con il nero succo della perla nera che nelle tue viscere si scioglie e si fa seme che germoglierà sul bianco della semplice libertà della carta un po’ della mia, della nostra esistenza, stelo che hai rinunciato ai tuoi petali per ornarsi, a dire la vita, di quelli delle mie, delle nostre povere dita.


*

Assenza

La casa dove attendere confinava con il giardino.

 

All’orizzonte morbide ombre fasciavano

i fianchi remissivi delle colline, come pepli.

Ricordo in gola la nostalgia, il suo cordoglio.

 

Una gioia occulta asfissiava gli uccelli.

 

Sebbene non fosse ancora divenuto il passato

quel tempo prendeva posto con orgoglio

al passaggio del suo trionfo sentimentale.

 

Ora è l’unico bene tra le cortine di questi

sordidi silenzi ritti intorno alla pietà attonita

alla cura che stenta si leva sulla mistica rovina.

 

Torturare il tempo al suo muro germano

non servì che a ebeti suffragi d’oche, alle loiche

favole, all’ebbro pathos delle parabole.

 

Prova a dire il numero di quest’anno innumerabile

a chiamare luce la lisa seta rivoltata della stagione

che frecciava orgasmi a deviare alle rondini le rotte.

Trova nella notte la forma che sia martire del giorno.

 

Non tu, ma il desiderio di te mi ha ispirato

una bibbia dai fogli immacolati.

In questo vuoto dove vigoreggia acuto il male

giro intorno alla stalattite della tua assenza

come uno senza più anima, eppure un animale.


*

Sazia del suo lucido alfabeto

Sazia del suo lucido alfabeto

                dorme

l’erba che non abbiamo calpestato.

 

Solo la pancia dei quadrupedi

riconosce i morbidi sentieri

che conducono alla sorgente.

 

Noi di quelli ci siamo nutriti

ma col fumo volava via

rinnegata la loro sapienza.

 

Il trono pertanto è solo

un sedile in una sala d’attesa

messo lì per non stancarci.

 

I suicidi ci implorano

intanto di non piangere.

Sembra dicano: Non c’è nulla

che abbia a che fare col male.

Guardate, siamo solo uccelli

che spiccano un facile volo

da un davanzale.

 

Fino al giorno che sentiremo

su per le scale concitata levarsi

la lingua straniera incalzante

di chi è venuto a deportarci.

 

 


*

Osiride è un dio nero

Gli occhi non fecero in tempo

ad abituarsi al buio – occorse una vita –

che pesante infierì la tenebra.

Così finalmente potesti gridare :”Ve l’avevo detto,

come è buia la luce, come è nera,

involucro che non dice, stretta che si fa

cornice”. Parente di quel nero

il silenzio apparecchiò parole

per dire/non dire, ignorando

suggerire.

Per aver rifiutato panieri di lasciva accidia

fui condannato ai celesti muri

di questa cella terrestre.

Tu non sei diverso, figlio.

Eri già distante, allora, mentre il resto

della scolaresca batteva sui timpani

idioti della festa imminente

i tuoi occhi irridevano alle quinte logore,

alla tana del serpente.

Adesso per un attimo siamo alla riva

qui deposti dal delirio infallibile della memoria

lontani dal fiato asfissiante della gente

e tu mi tieni per mano, me, tuo padre,

e osserviamo l’acqua che davanti a noi

forma le cascate fragorose

che inghiottono ogni voce,

ogni superbo assolo, le furie irose.

 


*

Alba nox

Alba corrotta

che il fervido

non plausibile assolo

d’un ignoto pennuto

accoglie trionfante,

boriosa ti vanti eppure clandestina

inizi un giorno che non avrà

memoria più d’un breve temporale.

All’ombra del  mondo

mentre s’agghinda il male e prestigia

i suoi miracoli il bene

s’appresta al suo niello nelle ore

l’antica pietosa illusione.

Solitudine è attendere

l’apprensione sorella

nella tua voce che numera

di sorde megere i visibìli

dal fondo dell’anima scarnita

e il notturno cordoglio della vita.

Davanti alla statua della tua assenza

io stesso statua

mentre è famelico della sua coda il mondo

seguo i contorni del tormento

che già mi avanza e il mistero

preistorico della distanza che spazio

e tempo affratella.

Forse perché fosse il pensiero

fu fatto quello, allo stesso modo

ebbe un’ombra il bello.

Ma ricercare è invano;

tra l’abbraccio e la fuga vigoreggia

una domanda identica e il tempo sostiene

una terra che non dimentica.

 

 


*

Riemersa

 

Da dove è riemersa la tua figura

più di una volta nobile e snella?

 

Forse da dove come Cariddi e Scilla

rampanti si scontrano lo spazio e il tempo?

 

E sembri muta chiedermi come trasmuti

in uno sbaraglio la mia sera, se lo stesso ti penso,

se pure disseccato il mio cuore ancora ti spera.

 

Tu sai, noi sapemmo, che speranza è un

guardare fidi all’orizzonte credendo s’alzi

l’astro, il volto spasimato, eppure conosci

del miraggio cieco il giudizio che ne ho dato.

 

Io non spero né dispero. Sono dove spira

non la mente il sentimento, arde quello

che mi tocca e fa di me un povero contento.

 

Non ti chiedo, o riemersa, del profondo

che ti occulta mentre più io non attendo,

e mena dell’ultima sua inezia gloria il mondo.

 

La vita è solo scaglie d’una serpe vile

che dopo che t’ha morso lenta poi s’abbiscia

sul cottimo saziato delle sue infiaccate spire.

 

Dai tali circondato e poi dai quali

eterni come frusti fogli di giornali

ormai provetto ho appreso l’arte

protetto di starmene in disparte.

 

I tuoi occhi come un tempo,

gli occhi supplichevoli di bene …

 

Quello che in mezzo vi si pose

non mi riuscì di battezzargli un nome.

 

Perché riemersa in queste ore

a chiedere lo stesso, il fiato che allora

già non ti rispose, tu riemersa, ma da dove?

 

Credo che a te accanto rassegnato

abbia scelto di restare anche l’amore.

 

 (riproposta)


*

Dio della mia adolescenza

 

Dio della mia adolescenza

il tuo cadavere galleggia ancora

nel cielo del solstizio.

 

Il sole ammalato di dicembre

non può nasconderti per molto

e le tue membra gonfie

ogni tanto fanno capolino.

 

Per troppo tempo il mare

ti ha nutrito del suo sale

e la tua vendetta è stata

trattenere la sua acqua

come un oscuro seme

per partorirgli un tormento

nel cielo delle illuse beatitudini.

 

Dio della mia adolescenza

il tuo silenzio si affaticò

invano alle mie tempie

quando credevo di poterti

raggiungere a piedi

tamburellando con dita

entusiaste e ironiche

fianchi di cattedrali

illuse di parafrasarti.

 

Sotto le tue palpebre calate

furono archiviate l’estate di quell’anno

e quella di quell’altro ancora

e la ruminazione burocratica del tempo

e la necessità della rosa e della spina

e tutto quanto potei esibire e posso

della antica, sabbiosa confidenza.

 

Dio della mia adolescenza

ti abbassasti troppo ai frantumi

che ti sfuggirono di mano.

Non aspettava altro il mare

che pescare per vendetta -

e fu un attimo - la perplessità

del vecchio occhio al nuovo brulicare.

 

Ci sono gioie che non si devono dire

che nel sonno, che il sonno stesso

deve tessere con sete di silenzio.

Per questo anch’io taccio il resto

e la vita che fiorì orgogliosa

sui nostri diversi tumuli.

 

La gioia che ti riservasti

fu la stessa che ti uccise:

creare un mondo sotto le stelle

guardando l’opposto cardinale,

come un bambino si lancia confidente

una palla dietro le piccole spalle.

 

Dio della mia adolescenza

va’ nel sole, consumati,

dove io stesso mi consumo,

dove ogni preghiera,

ogni lamentazione è incenerita.

 

Facciamola finita,

vecchio dei giorni ormai trascorsi.

Io sono stanco di trascinare

il tuo cadavere per il mondo,

di rispondere ogni volta

che non so chi sei,

di aggiungere menzogna a dolore,

di dovermi difendere ogni momento

                                            dall’amore.

 

 (riproposta)

 

 

 

 


*

Pasqua degli oleandri

 

   Certi che poi si ritroveranno

   in una dimensione senza gravità

   o  perché semplicemente non lo

   sanno, sono sereni, benedetti

   dai nuovi modelli di utilitarie.

 

   Si guardano il palmo della mano

   e scavano più profonda di una trincea

   la linea della vita e poi l’allungano

   col più affilato degli inganni.

 

   Funzionano bene i reni e forti

   come mai le reni e le mogli devote

   incinte di una giocata a caratura.

 

   Anche quest’anno a Pasqua

   faranno a gara per sgozzare

   l’agnello, ma le parti saranno

   cambiate sul più bello, dopo

   una disputa che avrà del sacro.

 

   Le anziane puliranno il sangue

   i giovani lo berranno ma i più

   esperti, con voci impastate

   dal vino, lo giudicheranno.

 

   L’espiazione anticipata del capro

   farà felice il capo, e il prete, alla

   fine del pranzo, biascicando

   Si iniquitates observaveris,

   Domine, Domine quis substinebit?

   rutterà senza avanzo.

 

   Ma noi preghiamo per l’adolescente

   chiuso a chiave nella sua stanza, per

   la sua Pasqua senza sangue, l’adolescente

   che mastica foglie di oleandro, e taglia

   la corda agli impiccati e con un temperino

   cava i proiettili dal cuore dei fucilati.

 

   Preghiamo per lui che ha il palmo della

   mano senza una sola linea perché lo zodiaco

   volle essere reticente sul suo conto, e recluse

   il ricamo raffinato del suo destino nella forra

                                                 [d’un buco nero.

 

   Preghiamo per pregare, come ama la pietà,

   non per ottenere, ma perché non offuscato

   dai venti siderali un canto si levi a lenirgli

                                                 [una parte dei mali.

 

   E vedano i suoi occhi prima della maturità

   la pena che per se stessa piange la vergine

                                                 [cieca della Verità.

 

_________________________

 

   Si iniquitates observaveris, Domine, Domine

   quis substinebit? Salmo 130 (129) De profundis

 

   “Se consideri le colpe, Signore, Signore

   chi potrà sussistere?”

 

                                                            (riproposta)


*

Davanti ai cancelli

Seduti ai tavolini di marmo

nel grembo di una data banale

tutti ormai sapevano che il tempo

è un dubbio condiviso dalle cose

ma ognuno ordinava una bibita diversa

e l’estate andandosene lasciava una scia

di schiuma gialla e salata come labbra di affogati.

Non c’era uno straccio di problema

e questo infastidiva

i teologi del pomeriggio

che con un tirso disegnavano ostinati sulla sabbia

rami di presunte genealogie.

Scusa se non ti parlo d’amore

ma non riesco a trovarlo

con quel suo vizio di ficcarsi

in ogni possibile orifizio.

Il fatto è che tutto dipende

dalla supremazia del commiato

il vero signore dell’attimo e della

perpetuità.  Non puoi sconfiggerlo

con la diplomatica gentilezza

di un principe di terre apriche

avvezzo alle rinunce.

 

La notte scorsa devo averti sognata,

stamattina il cuscino era pieno di tuoi capelli.

 

 


*

Povere parole

Oh, non avervi più

povere parole strette alle brame

contorte della morte,

non potervi più come rotoli di pane

disporre in sacrificio al prossimo

per risorgere l’eloquenza del mattino…

Io non lo so se è vero

ma questo è sangue che si può bere

carne che si può mangiare…

Restate anche nel letargo

che vi fa mute, come il cielo livido

della via triste che esilia i poveri

perché risorgerete

ognuna viva come un sonaglio,

come sangue e  carne

e il bianco del lenzuolo

che avvolgeva il figlio.


*

La malinconia degli agrumi

 

  

  


   La malinconia degli agrumi
   sepolta nel cupo giardino d'inverno
   spande la pena del suo acre lamento,

   soffre sospesa un esoterico decreto.

 

   Stilla il loro succo e umettano lento

   il suo segreto le labbra secche della morte.

   Sedulo un merlo fanatico le fa corte

   che a zampe pari fiero s’approssima

   al cospetto delle tre carte della sorte.

 

   Non sarà un caso

   che un sentore di carnevale

   preceda il tripudio del Natale.

   E’ il giorno più breve dell’anno

   e non varrà in tale deserto

   la pompa boriosa degli sbandieratori

   a inorgoglire la larva del mondo

   che solo può il vanto del serto

   acrimonioso di queste ore d’accidia.

 

   Dio aspetta il fasto d’un nuovo nome

   vittorioso ma il poeta non è un teologo,

   e il suo è un impero realistico e vanitoso.

 

   E’ lo zodiaco più ermetico del cerchio,

   ghiaccio che prese fatidico forma

   nel rapprendersi in un teschio

   che ride agli anni che verranno,

   al trionfo penoso degli imperterriti

   scavatori di polvere provvisoria

   presa per ori ed è qui tutta la gloria

   di questo intridersi vano di giorni

   che fasciano anime di vento,

   disfarsi stento di fiati anonimi

   alle pretese della memoria.

 

   Braccia che levano al cielo

   neonati i frutti marci

   che compongono la storia.


                              (riproposta) 


*

Paradigma del tempo

Scelse quattro cardinali

l'aracnide silenzioso.

Invisibile, veloce, lento,

in arte e volontà brillò

                    operoso,

l'adunco paradigma del Tempo.

Così tra i tomi di Aristotele

e quelli di Platone, il pipal di Gotama

e la croce del Salvatore, lieve tessé

la sua ferrea trama il ragno.

Sapremo mai se fu bisogno, saggezza

      o solo sete di guadagno?


*

La casa

                                                                                                                              AUmberto Saba 

La casa                                                                                 

 

Ti diventa familiare

una casa che ti è

due volte estranea

perché casa tua non è.

 

Un altro crede possederla

che mensilmente riceve

la testa del tuo stipendio

e alla fine quel risentimento

che prova il conduttore

finisci per non considerarlo

più solo come un dispendio.

 

Accampati, un po’ nomadi

senti te,  i rassegnati famigliari

e l’affetto che non guarda

clausole e contratti cresciuto

è negli anni a dismisura.

Riconosci il dentro e il fuori

vecchi amici, crepe nei muri,

tra gli embrici umili steli di natura.

 

Anche la paura dopo un po’

è svanita dello sfratto

e da quella ti accorgi ormai

d’esserti lontanato, distratto.

 

O dimora imprevista

che trovai in un giorno

di sole glorioso, all’ultimo

piano del nostro destino

come scrissi alla gente altrove

in essa ho sentito e sento

anch’esso estraneo per dolore

ma come egli stesso indigente

t’ama fratello trepido l’amore.


(riproposta) 


*

Quello che mi sarebbe piaciuto

   Quello che mi sarebbe piaciuto.

 

   Non:

   lei ha una faccia conosciuta,

   dove l’ho già vista?

 

   Oppure:

   c’è qualcosa in lei

   che non mi è nuovo,

   di cosa si occupa?

   Ci hanno presentati in occasione

   di un incontro di lavoro?

   O forse a una festa?

 

   Essere sopravvissuti

   alla giovinezza non è poco.

   Ma la mia faccia a mia insaputa

   è diventata familiare ad altri

   sopravvissuti che mi assillano

   con domande di questo tipo.

 

   E’ questo lo strano

   destino di un solitario,

   una bassa vendetta

   della solitudine stessa

   da me coltivata con residui

   di lei – sapete, come quelli

   che nel deserto estinguono

   la sete col proprio sudore, oppure…

 

   Mi sarebbe piaciuto che mi

   dicessero: la sua faccia mi mette

   terribilmente a disagio, sembra

   quella di uno che viene da un posto

   dove non abita nessuno.

   E gli occhi, gli occhi poi un fuoco

   contengono che dopo aver tutto

   incenerito pare abbia realizzato

   che non essendo acqua

 

  

  

   la sua opera resterà incompiuta.

 

   E invece come è strana la gente,

   di te sa quello che le racconta

   la segretaria loquace, insonne,

   che la tua ombra nasconde,

                                 [il dèmone incustode.

 

   Questo è un altro aspetto

   del tempo multistrato;

   non essere uno, nessuno

   o centomila ma l’esperimento

   segretato di una camarilla

   di pazzi, inopinatamente

   svelato dal tradimento di una.

 

   E poi. E poi di nuovo,

   sempre con nuovo interesse:

   lei ha una faccia conosciuta,

   dove l’ho già vista?

 

   No. Non era precisamente

   questo che mi sarebbe piaciuto

   che la gente mi chiedesse.

 


*

La costellazione del piccione




Il piccione che ieri apriva le ali
riuscendo soltanto a strusciarle sul cotto

con uno sfregamento, un attrito di carta sul secco

da aquilone schiacciato da folate maligne,

rumore di stecco che dita segaligne

usano per incidere il vuoto in terra,

il piccione che picchiava sulle mattonelle

col becco…

 

Mentre penso che se fondata

è la reincarnazione siamo condannati

all’inattualità, salita la sudicia rampa

che porta alla sconfinata terrazza

di uno dei palazzi più grandi della città

lo vedo che sente ancora più prossima la fine.

 

Gonfio, il piumaggio variegato

dalla libertà sulle altane e nel basso cielo

sopra l’interdizione urbana,

col passo del gambero si ritira in un angolo

dietro l’ultima porta socchiusa

della gabbia delle scale quasi marcia.

Sente la morte come un mal di pancia

e strizza le palpebre, arretrando.

La vita lo sta lasciando come un maturo escremento

e la mia presenza lo disturba

mentre viene officiato

il rito mesto di un commiato senza fama.

 

Domani alla stessa ora lo troverò stecchito

come un ghiacciato guanto imbottito

che il ferro finale non è riuscito a stirare.

E’ una mattina qualunque, di un ottobre qualunque

che non potrebbe essere celebrato che nella

cabala vana di un soffiatore disperato.

Un piccione sta morendo perché il tempo

ha gridato più forte nel suo cuore, lo ha

allargato per fare posto al signore del ghiaccio

e io ne descrivo la morte con parole senza futuro,

con una pietà dubbiosa mentre una vespa,

una vespa scatta a destra e a sinistra

di fronte al muro sbiadito

precisa come il carrello

di una macchina da scrivere, cercando

chissà che e ogni tanto si blocca per un secondo

come se sul muro leggesse qualcosa di interessante,

se non parole finite una sapida sillaba

che merita una sosta o forse

la vespa con la punta sottile, invisibile

di un trapano disegna sul muro un alfabeto stellare,

una costellazione astrale mentre io so

che se le unissi con linee immaginarie

le stelle altere

null’altro avrebbero da raccontare

in un angolo celeste

che una fine insignificante,

la tacita ma universale decomposizione,

del povero principe di una solitaria terrazza.


*

Ficco sempre un errore

 



Ficco sempre un errore
in ogni cosa che faccio.

 

Il primo che ricordo

fu in una versione di latino

in prima media, per il resto perfetta.

 

Attesi che il professore terminasse

di elogiarmi davanti a tutta la classe

invidiosa – i duri si voltavano a guardarmi

lanciandomi occhiate minacciose – e poi

mi alzai con la mia copia del compito in mano,

mi diressi alla cattedra e perfezionai la mia

versione da vero pervertito facendo notare

al professore l’errore che gli era sfuggito

durante la correzione.

 

In seguito non mi è più capitato

che qualcuno non si accorgesse

delle mie preterizioni.

Dopo non molto gli interessati

mi agitavano in faccia il mio fallo

per meritate punizioni.

 

Senza accorgermene

ficco sempre un errore

in ogni cosa che faccio.

 

Forse sono un alieno

esiliato qui per qualche motivo

e vengo da un mondo

dove non si fanno errori

e non voglio che qualcuno

cominci a sospettare.

 

O forse voglio solo provare gli altri

regalandogli il biglietto vincente

che li conduca a me facendoli sentire

superiori, giudici, inquisitori.

 

Gli do quello che vogliono,

gli regalo una distrazione

dalla loro trave. Per un motivo

che non so ho questa specie di bontà

soave, questa voglia sadica di regali,

dono agli altri mie pagliuzze d’oro

perché le agitino davanti a me,

credendolo il mio fallo,

trasformandolo quasi sempre nel loro.


*

La mia quasi innocua follia



 

La mia quasi innocua follia
non so somigliarla che a una casa

- quella che non è mia e comunque

mai lo sarà – con tante stanze ma

separate e ognuna in uno straniero

paese. Io ne abito, come è normale,

una alla volta, come un curioso e

inquieto viaggiatore. E’ tra quei

muri che si consuma il tempo

del mio segreto dolore.

Voi che mi amate in quelle stanze

mi cercate, senza trovarmi, vi sembro

sempre assente. Ma nella casa della

mia follia che è la casa della mia mente

soffia instancabile un vento portentoso,

un padrone senza pietà, che mi spinge

e travolge lontano dalla prossimità.

Dovrei lasciare una traccia, dei bigliettini

perché possiate agevolmente trovarmi.

Ma forse solo a questo serve ad ogni

nuova partenza ogni povera poesia

che lascio in ogni stanza della mia

quasi innocente, nomade follia.


*

La conseguenza di sé

Quello che provo per te

seduta sul picco che contraria

altezze incoronate…

altezze blasonate a trovare una via di scampo

facendosi elette di una accattivante leggenda…

 

Per te ho trascurato l’estate.

Sono arrivato a credere il mare

l’illusione di un adolescente perverso,

le sue calde correnti lascive

narranti la perdizione

vincente dei disperati

un inganno cantante

il preludio di un oscuro trapasso.

 

Per te il gelo acerbo

di una fallita primavera –

quello che a metà mattina

percorre i corridoi di un ospedale

e va a posarsi sulle ginocchia di un condannato,

fardello di esplicate sentenze ieratiche –

è divenuto un refolo

innocuo per lo starnuto

di un cucciolo dormiente.

 

Parte dal centro delle viscere

e va a coagularsi

a qualche metro da me

quella cosa

pendolo palpitante-battito-profumo-

sapore-consapevolezza-cecità corposa-

morte sensuale-assenso diniego in sé -

di ogni cosa

a levitare

corolla di una rosa

nocciolo pervadente

inattingibile perché

se ne è pregno il mondo

altro non mi è dovuto…

 

Ma io non avevo desiderato

un’altra cosa

desiderando te.

 

Mai avrei immaginato incontrando te

che tu fossi solo colei

su cui si sarebbe schiantata

la conseguenza di sé.

 

 


*

Le tue mani


Una donna non se ne accorge

se uno le mangia le mani senza pietà

perché il carnivoro

predilige la polpa

dove affondare la sua

sbavante cecità,

non la trasparenza della pelle

dove leggere la trama segreta

delle rotte del sangue, scorgere

il battito lieve di ammiccamenti

pulsanti e così ogni donna

le mani dimentica, ignora

le sue come tu adesso le tue

mentre le sto masticando

e ne faccio poltiglia

perché non riesco a dire

quello che vorrei dire

sulla lunghezza delle dita

un po’ ingrossate dal lavoro,

un po’ arrossate dai detersivi

e dalla vergogna di quello che hanno fatto

a uno più fortunato; sul quel po’ di nero

sotto le unghie che sono il lascito

d’un peccato; dita che battono

la pelle tesa del tamburo dei cuori

che hanno bruciato,

che hanno impastato nella placenta

bollente la sostanza confusa dei figli

e fatto e rifatto gli uomini

che ti hanno presa come conigli.

E a me invece prepari solo un caffè

con grazia veloce e consumata maestria

e nel mentre sono bagnate come il fradicio

desiderio di ogni volta che le ho sognate

perdendo la via.

Le mani che hanno l’odore del giorno

che le ha pregate di stringerlo

in vita per allungargliela e

dei luoghi segreti dove sono apparse veloci

come snelli, sotterranei animali,

sauri curiosi trotterellanti

in cunicoli che si affacciano nelle tane

occhiuti per una frazione di secondo

e poi scompaiono veloci come sono venuti.

Se si infilassero dove dico io quelle mani,

se una solo di loro afferrasse quella parte

di me da dove l’anima chiede di uscire

e prima piano e poi forte con carezze

e strette e pause sapienti e svogliatezze

maestre mi consolasse in un attimo

di una vita, diventerei lo zampillo

di me che schizza fino al cielo

con le tue dita che mi tengono in vita

                                          ben stretta la vita.

 


*

La distanza da colmare tra insipienza e oggetto


La distanza da colmare tra insipienza e oggetto
e adolescenza si nutre ancora del mio sonno.

Si abbassano vanamente le palpebre sulle ore ruminate.

 

Il torneo delle mai acconce parole non cessa

di giostrare sulla mia testa.

Risoluti avvoltoi saturano la galleria odorosa

       profumata di buccheri che una stupefatta tomba

rivela discinta dalla luce improvvisa e ora la morte

è una polvere che il vento seduce,

questo l’ingenuo che in braccio la conduce

a varcare soglie che ci sono vietate per…

 

Prima o poi sarà impossibile anche pensarti.

La sostanza riempirà i cunicoli con la necessità

illustrata che trapassa lenti e fronti spesse

e appaga e paga e semina il lunedì la mèsse

domenicale.

 

Prima o poi sarò io a non dire più io,

sarai tu a non dire più tu e santi in bilico

sugli acri rebbi di concordi calendari

sulla apocalisse ventura.

 

Il sole sta tramando il giorno

dietro le quinte di una notte irresoluta

e prima, all’occidente, il ragazzo credette

che un’ingenua fronte potesse stupire il tramonto.

Lui che col sole cresceva e tramontava

e di notte diventava la sua anima

malinconica ai raggi deserti…

 

Il ragazzo percorse quelle trincee

baciando i cadaveri freddi di suo padre

lambendo i piedi di quelli di sua madre

assunta in cieli lumeggiati di biacca

i cieli assorti nell’albagìa della separazione

ammantati di un lutto sbiadito dalla perplessità

un tempo vi covava il tempo le sue sorprese ermetiche

 

il sapone spalmato sull’albero della cuccagna

e la marmellata sulla fetta di pane


*

Qualcosa

Il mal di testa che mi perseguita da una vita,

e l’essermi arenato in una depressione

lungo disteso davanti ai salmi della pubblicità

è solo il ricordo anodino dell’eternità

che non posso condividere

fino a quando un paio di forbici

non realizzeranno il corto circuito

ai rintocchi fatali in un pomeriggio domenicale

con le strade bagnate di una pioggia vergognosa.

 

Vorrei che la lettura di questa premessa

fosse la terapia per ripulire lo specchio

e ricominciare daccapo davanti al maestro

immobile con la bacchetta levata

come nella speranza di far fuori una mosca.

 

A volte uso i ricordi come arcani ma il responso

è vago come ogni verità non macchiata di sangue.

 

Qualcosa che fu sepolto dalla sua stessa ombra

qualcosa che i bambini non videro giocando a nascondino

una larva che ha cambiato come era giusto

ogni volta che era necessario

la sua biancheria intima

sta grattando contro la porta fatiscente di questa poesia

e vuole dire la sua mentre la stagione

rimpiange la sua adolescenza e la prossima è già in ceppi

tra le butterate stelle, le squadernate e idiotiche geometrie.

 

In quanto a te, ti ha fatta Dio, per me. Tu giri intorno

al mio incidente e mi proteggi dall’alito pestilenziale

della vita in fieri, dai ruggiti famelici dei topi.

 


*

Canzonetta

Il desiderio genera metamorfosi

trasforma spietato uomini e cose.

 

Adesso sono un cane smagrito

che annusa avido l’aria

come un poeta smarrito

il refolo suo d’infinito.

 

Che ci faccio in mezzo a queste rose

che la mia zampa non può cogliere

per comporne una assortita collana

alla tua assenza, divertita sovrana?

 

Quando troveranno la mia carcassa

chi crederà che un tempo

vi batteva un cuore

che suonava la grancassa

di un impossibile amore?

 

Il tempo come sempre

aggiusterà tutte le cose.

Farà crescere cespugli

di fresche e aulenti rose,

plasmerà alla vanità

un nuovo percussivo cuore,

per l’oscuro naufragio

di un altro dannato,

irrevocabile amore.


*

Il libro non trovato

La scheda di consultazione in bella vista

compilata secondo normativa

e soprattutto la collocazione,

come da catalogo, dritta, non corsiva

con chiara grafia, in stampatello

( sarà respinta quella non conforme

alle indicazioni di cui sopra ).

 

Accurata la ricerca

nella penombra delle sale

austere ed ordinate. I commessi

lucidi e solerti, esperti con indici

allenati a separare opuscoli da volumi

rilegati; diligenza ed esperienza

e memoria visiva adoperate,

scalando scale a trocciola,

verso quote di alti plutei

( i più temuti il 30 e il 6 ).

 

E tutto corrisponde: armadio,

palchetto, numero a catena,

ma il libro è fuori scena.

Acerrimi riprovano a tentare

( sia caduto? ) dietro gli altri

allineati che rispondono

etichettati sull'attenti, in fila,

a una lettura nuova:

ma il richiesto consultando

non si trova.

 

E allargano, perplessi, lunghe braccia;

adducono, confusi, bellici eventi,

bombardamenti, il sisma

che trascinò di sotto le accessioni

negli scantinati, i libri nelle carriole

che li ricondussero rinfusi

nei mobili segati. Il volume che

pure ha un titolo, un rinomato autore,

i dati bibliografici, il notissimo editore,

la scheda che tutto questo prova...

 

Eppure il ricercato non si trova!

E per soprammercato

nessun registro documenta

un prestito, uno spostamento

( e poi dove dislocato? ),

un pasto di faune bieche

di antiche biblioteche, per troppa

sete l'esecrando furto ( incomprensibile )

del recipiente in forma

di una branca dello scibile.

Che fine  avrà mai fatto la compagine

di quelle inumidite pagine

legate al dorso forte del raro marocchino?

Nessuno lo sa dire.

 

Ma forse ciò che è stato scritto

è tutto da ridire.

Così si stenta a credere

che un libro troppo noto

sparendo abbia lasciato un largo

non colmabile, un guado, un varco,

un assoluto vuoto.

(riproposta)


*

Ventaglio

Meriggi delle sognanti riviere

dove antiche maestre di pastiere

nel salone sedute in circolo

della villa marina salsa di mare

con te smuovono l’aria secolare

del loro mistico, esoterico dire

che lento si leva fino all’orgia

scomposta dell’umido scomparire.

 

Strumento dell’arte innata della donna

che rapida sadicamente dietro di te si cela;

arduo tentare il marmo della colonna

che porta scolpita la voglia che appagò la mela.

 

Soffia allora come sapiente solletico

verso colei che pura dorme ignara

fa’ che assai le pruda e frenetico

il suo indice percorra la parte cara;

dischiudi quindi cauto le valve

della sua recondita conchiglia

fammi adornare della perla

preziosa che dentro vi sfavilla.

 

Ventaglio odore ferino di serraglio

afrore dell’ attesa di ansiose bestie

che accovacciate frenano l’estro

e battito binario, oscenità del due:

una donna pregna languida rinfresca

nella voglia la perversa sua duegna.

 

Ventaglio ancora nel silenzio

la tua essenza degna dell’assenzio;

il braccio che ti tiene teso

benedice il vuoto sottinteso.

 

Ala portatile dell’estate

ciglia vibratile di chi sogna

le cose che sono state

foglia d’autunno sconfitto

nei decori del tuo tessuto

che raccontano il sogno di un bambino

nato un giorno e mai più vissuto.

 

Ventaglio sublime nella mano ignota

mandi l’aria a un volto, ad una gota

arrossita di vergogna, agli occhi chiusi

                                                di chi sogna.

 

Ventaglio delle signore aperto e subito richiuso,

sesso dei preliminari; ventagli sensuali,

aperti nell’abbandono degli appagati estuari.

 

Scettro della stagione amica

sogno di un comando semplice e mite

ventaglio coi tuoi grani, spiga,

soffio silente e complice delle nostre vite.

(riproposta)


*

Rende immortali

Rende immortali.

 

Assicura la carriera,

 

i contatti umani.

 

Preserva dalle malattie.

 

Procura donne, piaceri

 

e musica e premi di giurie.

 

Insomma, è una cosa ambita.

 

E’ da consigliare ai giovani

 

un profondo disprezzo per la vita.


*

Stupidamente

Non ho mai tenuto un diario

e forse un altro da allora

lo sta tenendo per me.

Ma che importa. Altro non è un diario

che versare cotidie un po’ di nero

sull'innocenza di quel bianco

e ritenerlo un veramente vero;

infilare ombre di noi tra le pagine

e credere di riconoscerci, negri,

nell'affollata tenebra della voragine.

Non ho voluto mai raccogliere

figurine di me nudo existente

nel campionato ab aeterno vinto

dai Tre che corrono tutti-per-Uno.

Ho preferito sognare un povero nessuno,

un uomo senza nemmeno un sogno, stupida-

mente, perché era lui stesso un sogno.  


*

La venuta

Was this the face that launch’d thousand ships?

Christopher Marlowe, Tragical History of Doctor Faustus

 

 

 

Il giorno che per avventura sarà dato all'incessante turba delle ombre  incappare in questa memoria, quella potrebbe con stupore grande sentir pronunciare:

 

Eccolo di nuovo, il padrone della bellezza.

Armeggia con invisibili fili, spinge sottili asticelle

d'acciaio s i c u r a m e n t e  dietro gli zigomi della Venuta

e dietro le sue labbra – lì dà il meglio l'arte sottile del padrone –

che fa pulsare non come un cuore ma come se un cuore

dovesse da quelle apprendere l'arte della vita ritmica

che fa dell'universo un inavvertito, perenne battito...

 

     Tu sei la Venuta, da un luogo che la tua assenza rende ora più sacro, più diletto al sapiente trampoliere che tra sé e la terra pose la longilinea aristocrazia della snellezza.

 

     Ed ecco che il tuo viso mi appare ora come una appagata colomba; ma è un attimo, perché le conserte ali riapre e se potesse la luce rientrare in se stessa e rinnovata riuscire potrei dire: è a questo che sto assistendo.

 

     In quest'angolo di stazione ferroviaria da dietro un vetro io mi godo,  come milioni di commilitoni in altri schedari del mondo,  ciò che non mi spetta e aspetto che il barbiere mi chiami, mentre chiedi a uno della Polfer - dall'anima fino a prima di parlarti brizzolata e che si alza continuamente sulle punte dei piedi solo per avere gli occhi spenti all'altezza delle tue mandorle d'oriente - chissà quale destinazione in questa  terra che non ne ha più una da un pezzo, da quando nessuno di quelli che contavano avrebbe scommesso sul privilegio che certifica la sua, la nostra fine. ..

 

     Cos'altro posso fare se non trasecolare  allo svariare senza requie di pause e scrosci di luce che forse mai su una tavolozza combinò il caso o la severa  necessità cui a volte è demandato di tenerlo per mano,  mentre per un attimo mi ferisci avvedendoti della mia sagoma dietro i vetri appannati o più lontano guardi, dove vanamente  le nostre colline senza storia esibiscono i loro leziosi contorni,  come disegnate da uno scolaro desideroso del voto più alto...

 

     Il paesaggio intona la contrizione calvinista della mattina domenicale, delle ore che precedono lo sciamare disordinato delle malriuscite famiglie dalle chiese sature di incenso, noia e rassegnazione per le strade dove fumano cumuli di sterco deposti dagli stalloni impettiti della polizia urbana a cavallo  e i più indifesi degli adolescenti e degli anziani stanno chiedendosi se Dio nel suo settimo giorno non abbia riposato, ma piuttosto, abbassando le palpebre, lasciato che le sue mani  modellassero te - non come il figulaio l'argilla ma l'amante l'amata;  se Dio non abbia piuttosto soffiato sulle ceneri della fenice perché l'incalcolabile volo nei tuoi cieli, la tua inattingibile presenza ci smarrisse per sempre, oltre il tormento della tenerezza, oltre gli anni assegnati, di là dall'ermetico miele della tua bellezza.

 


*

Polvere

Sapete?

Non c’è commozione nell’eternità della polvere.

E il suo sarcasmo smisurato, contegnoso

come ogni vendetta motivata solo da se stessa

si manifesta nel travaglio senza riposo con cui

va posando su tutte le cose il suo lutto invincibile

che è il martirio del nostro.

 

Abbi pietà! – direte – la sua è la pena di ogni

perìbasi, di ogni ciclo penoso che nell’asfissìa

del ricongiungimento va componendosi senza

requie. Non la apparenta forse ai migratori

quest’umile andare intorno in ogni dove?

ai nomadi che inseguono la sedentaria eternità

essendone inseguiti? Non si può essere così

severi con chi da sempre abnegante rinunciò

a farsi di sé un’immagine.

 

Se lo fece fu perché su ogni immagine potesse

posarsi e pesare l’attesa inutile, la polverosa

ansia noiosa.

 

Guardate, ora una festa esplode nella,

sulla sorpresa notte nuda, vergine matrigna

alla prostituta e l’invitata, la festeggiata,

anzi, è la polvere…

Non quella che eravamo, ancora essendo

e in cui ritorneremo ma colei che respiriamo,

deserto in diaspora di sontuose tracotanze

che sazia padrona si aggira tra le sue stanze

galattiche e, vedendoci, polvere ci chiama,

sontuosa giammai ma supponente, noi proci

all’eternità, noi fingendo persino commozione

con sul volto lei che la nostra vince perché

è lei la polvere unigenita.

 

Per lei si aprì il teatro

                                      tra un firmamento

e un’aspersa folla muta.


*

Un poeta non è sempre poeta

 

Un poeta non è sempre poeta

come un pasticciere non è sempre

uno  prigioniero delle lecconerie.

 

Cosa sono allora i poeti

quando non scrivono

sotto il giogo dell’ispirazione?

 

Si schiarisce la voce la vecchia;

va a confessarsi; si inginocchia

sul legno e comincia a parlare.

 

Il prete non può credere

alla pornografia che quella

gli passa attraverso i fori

 

del confessionale. <<Ha provato piacere?>>

<<Sì, piacere e anche male che, come lei sa,

è l’ingrediente indispensabile per godere

e prima l’ho eccitato con la bocca non senza

essermi tolta prima la dentiera…>>

 

Una lunga pausa segue la confessione

dove mondi cozzano con mondi nel fresco

un po’ umido della chiesa in ombra;

il prete stravolto nell’abitacolo levati

gli occhi a un presumibile cielo;

 

la vecchia che ha fretta e tanta voglia …

Ma la guerra dei mondi non lascia tracce:

nessuno ha vinto, non c’è un quid che affiori

da chiudere in un recinto e il silenzio ingoia

tutto prima che la coscienza animi un fatto.

 

La vecchia quindi si alza per espiare

con le preghiere di rito, ma sente male

solo alle ginocchia e mentre prega

 

pensa al ragazzo che ha sedotto,

a quando lo rivedrà – lei col trucco

un po’ pesante e un negligé che

miracolosamente non si è ancora strappato.

 

Il ragazzo abita di fronte alla vecchia

e quando la va a trovare - portandole qualcosa

da parte del vicinato - fanno ripetutamente

tutte quelle porcherie.

 

Un poeta non è sempre poeta

come un pasticciere non è sempre

uno prigioniero delle pasticcerie.

 

Il ragazzo quando non fotte la vecchia

scrive magnifiche e struggenti poesie.


*

Negli anni può accadere

Negli anni può accadere (ma è così raro)

che sei a un davanzale e senti che un sogno

sta lì lì per colorirsi ai tuoi occhi di uomo

rimasto bambino; un sogno così bello,

sognato una notte ormai sepolta

coi corpi inariditi dei tuoi vecchi,

dei compagni che perdesti la penultima volta.

 

E senti che quel sogno sta lì lì per farsi

ricordare tutto come un misurato scroscio

dell'acqua di una pioggia buona;

come un passero pare voglia posarsi piano

sul ramo meno torto di un albero fiorito

ma all'ultimo momento, impreveduto, devìa

e non comprendi tu perché un così povero

miracolo non ci sia, una così povera

speranza  non abbia preso il suo colore

e, vinta, sia svanita; perché mai ami così tanto

quella sua scialba, monotona tinta nostra vita.

                                                         (anni '70)


*

Tra le doghe veneziane la luna

 (…alba d'un solo tenue velo paga

 alba che non troverà mai suo giorno

 nelle stazioni sue dolce indurita

insegna alle anime nostre la croce

e le delizie della nostra inutile vita…)

 

Tra le doghe veneziane la luna,

anima delle anime sospesa

sul germoglio della compiuta

dolcezza della sera…

Ad un alito freme e pare

che se un cane abbai all'aria

la slontani, navicella alla balìa

tormentosa di una varia

corrente serpentina.

Quello che sai fu già polvere

che seppellì i geroglifici del Libro

e Lei è una danza, così vicina…

Se tutto tace pare che il suo

fruscio con quello d'ogni fronda

in un solo innominato vento

confonda i superstiti

sogni della guerra.

Ognuno ha il suo posto

sotto la luna che vuol dire

ognuno non è di questa terra…

Così è la notte una sera delusa,

il giorno una disperata notte.

Ma tu, anima delle anime sospesa,

danza tra i raggi dei nostri occhi,

che nessuno dei mostri ti tocchi,

offesa potresti raccogliere il manto

e svanire con gli astri tuoi fedeli, 

smarrirci più che il tuo nettare…

Tu, anima delle anime sospese,                              

amaci e poi odiaci come tuoi figli,

come soltanto sa fare un immortale.

Io nulla conosco che un po’ ti somigli.

Và, poi  torna, come ci ha abituati il mare.                 

                                                                                  (anni  '70)


*

I poeti

Dopo che ebbe creato il mondo,

il Signore si concesse

un giorno di riposo,

e chisto è fatto risaputo,

sta scritto dint’’a Bibbia,

ma ci manca quacche ccosa.

 

Infatti, in quel giorno di riposo,

il nostro Creatore

andò in giro per il mondo,

insieme al braccio destro,

ad ammira’ le cose del creato,

pe’ controlla’ si quacche ccosa

nun fosse nata

o si nata fosse arruvinata.

 

Così passarono in rivista

piante ed animali,

quelli docili e i feroci,

acquatici, terrestri e con le ali;

scrutarono montagne e fiumi,

pianure ed acque, insomma

tutto ciò che lì viveva

dal giorno che vi nacque.

 

Poi fu ‘o mumento ‘e ll’uommene

che nunn’avevano aspetta’

Adamo ed Eva, principi della sfera;

nossignore, ll’uommene erano

già tanti e m’avita credere

se ve dico che fra l’uno e l’ato

erano già luntani, assaje distanti.

 

Il Signore e il suo aiutante,

visto che erano già tanti,

li divisero in gruppi

per poterli meglio controllare

e all’uopo, nel caso,

per divin decreto, scartare.

 

Allora controllarono i mercanti,

gli artigiani, i medici, i ruffiani,

gli impiegati, i lestofanti,

contadini, mariuoli, nullafacenti:

insomma, oneste creature e malamente

che già fissavano l’uocchie

alla lor vita futura,

col consenso del Creatore, lì presente.

 

Così, di gruppo in gruppo,

arrivarono alla fine,

addó ce steva gente

che subbeto se capiva

che erano diversi ‘a ll’ati:

pecchè erano sofferenti.

 

Chi ‘a into e chi ‘a fora

se capiva che purtava

ognuno nu dulore

e pure na paura:

che i facesse

continuà a vivere, ‘o Signore.

 

Ce ne steveno

brutti, deformi e zuoppe;

curti, sgraziati e strutti;

quaccuno, ca capa vascia,

s’estraniava, comme fa chi sape

ch’add’affunna’ pe’ forza ‘a nave.

 

Ce steveno i malinconici

e ‘nci’o lliggive ‘nfaccia;

i solitari; chilli che già sapevano

che duvevano paga’

pe’ puté avé n’abbraccio;

chilli che senza essere delinquenti,

avrebbero fatto suffrì madre e parenti,

pe’ chella scintilla di dolore universale

che nc’era rimasta dint’’o core,

quanno nce venetta l’ansia ‘e nce creà,

a nostro Signore.

 

Vedenno chesta strana gente

si rivolse l’aiutante al Creatore

che mai aveva visto così esitante,

cu ‘na luce nova dint’a’ ll’uocchie,

cu ‘na mano ncopp’’o core,

e ne dicette: “Maestro mio, forse

siete stanco e non sapete cosa fare

di questi qua; ma ascoltate, permettete,

forse l’avimmo truvate chilli ca nun servono

al Creato, scusate, ma ‘i putessemo scarta’…”.

 

Allora il Signore si voltò,

lo guardò severo in viso,

poi fece, da quando s’era fatto Creatore,

il suo più bel sorriso e ne dicette:

“Statte zitto, nun parlà, scordete

chello ch’’a ditto! Chisti figli ccà

so’ cosa mia, song’’i poeti, hann’’a fa i poesie!”.

                                                             (anni '70)


*

Un trailer di me

Me ne sto qui, confitto in questo presente

e fumo per lui, per tutto quello che è passato.

Quando la sigaretta finalmente ho terminato

a molla col pollice e col medio, abilmente,

tiro la cicca che schizza e mi precede atterrando

in un punto del futuro, lontano, finita, sfinita,

offrendogli un trailer di me, di quanto plausibile,

         potrà ancora dirsi, proponibile 'sta vita.


*

O mandarino ’e Natale

 

Io t’offre nu mandarino ‘e Natale

e tu me chiede : E’ doce o è acrigno?

Pecché si nunn’è doce, pe’ me nun vale:

Natale nun po’ essere maligno!

Forse hai ragione;

ma io manc’o saccio che d’è sta festa;

nunn’è facile ‘a pesà chell’ ca vene,

chello ca va, chello ca resta…

Però te voglio dicere: stu frutto giallo

tu mangialo ugualmente,

pure si è nu poco acievero;

stu frutto nato dint’o verde cupo

‘e nu ciardino ‘e vierno.

Pecché si Natale, comme tu dice,

fosse tutto doce,

nun fernesse ‘nt’a tristezza

‘e na Quaresima,

nun muresse

‘ncopp’e lacreme ‘e na Croce.

 

                                                             (2005) 


*

L’Altro

L'Altro ordina e confonde
lasxia intatto il disordine
la rinfusa quietanza quotidiana

imperterrito agisce l’immobile

                                          [motore.

 

Forse ironizza le quisquilie

che questo nuovo sole

                                    [bagna

della scontata luce stagionale.

 

L’Altro che altro ha da fare

dal fare che garbugli

semina distanze nelle stanze

nei cunicoli dell’insipienza

ha un’insolenza che calcina

                                [la tua ansia.

 

O troppo noto

ignoto che seduci

un’ombra a scorporarsi

                                        [intatta

tue son la noia et l’afflitione

et la ventura et onne altra maleditione.

 

                                             (anni ’90)

 

 


*

La Bestia

La scrittura concorde e consona

della domenica – potrebbe essere

una bisestile dell’acido febbraio –

descrive uno dei modi della Bestia.

 

Poni sia il riposo e la testa sua che

lenta gira a servire l’occhio cui segue

il danno. Tiene le cose già atterrate,

atterrite in dominio, in un cortile

in ombra si fa vento, vortica la carta

straccia, tallona e sgherro spintona

qualche incartapecorita foglia di gerani

sotto un muro, con quella larga coda,

agile e pesante stecca sulla tesa pelle

dell’orbe tamburo, lei molto eccelle.

 

Fuori, nella gloria del sole, la stessa

fa danzare chiome sonore, rulla alberi

alle radici, genuflette, fa serva una rosa.

 

Noi la rinominiamo mistici diversa cosa.

                                                              (anni '80)


*

Non più tacere

                                                                                 

 

Lo stesso canto degli uccelli a marzo

prima dell'alba è pena,

si fa nella matura luce sfarzo.

 

Ogni volta ci lascia, ogni volta ci lasciamo,

e di lui il vuoto si riempie. Ne segue l'anima

la scia, la pena del respiro che sappiamo.

 

Ci sarà un tempo che le giuste parole renda,

la parca eloquenza consona al momento

che quel silenzio indurito alla fine arrenda,

alla corolla di un abbraccio, a un bacio sbigottito

di fiorire in due bocche da così tanto amare

che mai pensarono di poterlo fare?

 

Ci sarà un tempo che il silenzio giusto sappia cogliere,

la dignitosa assenza della voce intrusa, che le parole

estingua al tacito avvinghiarsi, alla cieca stretta e pura

che fa luce del piacere e della luce lampo che t'incendia

                                                                                   [e dura?

 

Io dico che tempo è di questo il tempo:

che se silenzio pensi, parole mediti che vanno,

quello ti oltrepassa, e solo per questo si fa danno.

 

Ma lui con te vuole restare, se risponde alto alla sua legge amore.

Oltre sé va, con sé ti porta verso un complice, inaudito mare,

a una calda sabbia tenera, dove non più tacere, non più dire,

                                                                                 [più non morire.


*

Sanno

Sanno dove la volpe e la lepre
vanno a dormire
per stanarle senza stancarsi

nel doverle inseguire.

 

Sanno come sgozzare gli inermi agnelli

nettandosi il sangue dalle mani sui velli

dei capri esiliati nell'infausta orbita

del vuoto intorno a Babele,

                                  [alle sue buie mura.

 

Non è altro che questa

la loro profonda natura.

 

Sanno il mitico tallone pure

di ogni povero innocente

dove ognuno padrone la sua

freccia avvelenata scocca,

                                           [maledetta.

 

Fanno questo per sei giorni

e il settimo si rifanno la bocca

con un'ostia benedetta.

 


*

Vernice

Per un punto passano infinite rette,

ma in tutte le direzioni, non soltanto

sul piano di concentramento illuminato

dalla lampada azzurrata.

Allora attenti agli occhi, preservateli

dagli aculei! Potete sentirmi? Va tutto bene.

Va tutto bene. Vi voglio bene.

Lo stesso, quindi, vale per un ombelico.

Pertanto beato chi ne ha due, meglio se gemelli

e un'unica retta quindi sulla quale appollaiarsi

nello show garantito dell'ara parlante.

 

Qui invece si discorre o discute di chi ne ha uno

[l'argomento era parallelamente Il Caso, della necessità

non essendo quello dopo la sua morte per gas in Europa

orientale. Il Caso, concluse per tutti un tale con cattedra a Tapioca,

volle che un bottone restasse dove era caduto – nulla potendo

intemperie, pedate, perché trovavasi il citato per caso in una

commessura (quasi una trincea) che lo protesse dagli

spostamenti - . (Non potevano sapere essi che accortamente

lo avevo evitato per un anno , per la scienza tetraplegica

degli idioti che furono pagati in vece della mia diligenza-

venerazione per quell'occhio velato da una cataratta in

similpelle)].

                

                  Ma tornando a noi, quello che vide Euclide fu solo

un millimetro di ordinata vanità.

 

                  Ho sempre stazionato (pure praticando migrazioni

da monarca) tra il più e il meno (ma sempre! - repetita iuvant -

in ogni direzione). Per questo al quiz scelsi (pur proponendomi

solo busta 1, busta 2, busta 3) quella meno zero e mi dissero

che forse non avevo capito il disponibile ma io contestai e il

presentatore e il notaio e la trasmissione. Dissi che sostituivo

uno (vedi un po’ i numeri!) che all'ultimo momento si era illu-

minato. Ma non ci fu verso, o questi, se tali.

 

                  Le infinite rette, gli applausi con una mano sola, la busta

meno zero, il punto-ombelico all'infinito trafitto da infinite rette a for-

mare il riccio indefinito multiversale… Molti saranno chiamati ma

 

                  Quello che sento da sempre è l'odore che dà la vertigine

della vernice fresca con cui è continuamente frescata, rivestita, colo-

rata, addobbata, camuffata ogni mollica, mollecola.

                  Vernice fresca per le nostre casse da vivi e, come chiamarli/e?,

quegli/lle uccelli/e che sbattono contro la volta nascimentale del mio cranio

(essi/e vedono in trasparenza, vedono la trasparenza).

 

                  Allora… Allora chiude il libro delle Salme e mi dice: "Abbi fede !".

                  Ma se è proprio questa una fede! La certezza della vernice fresca,

su tutto di nuovo nuovamente e per sempre riverniciato, il davanti e il retro

della casa, l'interno e l'esterno del mio cranio e come chiamarli/e

quelle specie di uccelli/e che impattano continuamente contro la

c'era una volta della mia cupola/cranio e a questo sono stato chia-

mato e l'odore acre, inmeagente mi brucia le mucose che continua-

mente vengono riverniciate…

                 Vernice sempre nuova sugli oggetti della mia tenerezza che

invano tento di occultare nel freezer, in posti dove nemmeno il più

matricolato dei topi d'isolamento mi illudo riuscirebbe a scovarli e mentre

lo scrivo al computer pure il Norton si arrende e sventola un drappo bianco

inutile a dirlo, immediatamente imbrattato;

                  vernice freschissima sulle ceneri dei miei morti, sui figli

che io e mia moglie non abbiamo nemmeno potuto seppellire, ver-

nice sui vivi che incontro grondanti di colore, mi telefonano e dopo

un po’ si impaperano per i fili colanti di essa pure tra le loro labbra

dischiuse e Molti saranno chiamati ma…

 

                  Come deve essere tutto questo ad ascoltarlo pure posso

vederne un effetto in te che guardi di lato riverniciata alla fine di una

intervista su come intendete salvare una specie se non fosse per voi

in via di liberazione…

                  L'ultimo fotogramma fermato alla platea nauseante e unanime

di quelli che aspettano il sabato…

 

Chi ha fatto questo conosce la vernice e il modo di produrne in continuazione.          

 


*

Un film già visto

Prima di essere precipitati nel tempo

o, se vi piace, prima che cantasse il gallo,

io e mio padre, l’uno dell’altro all’insaputa,

ci infilammo di soppiatto senza fiato

dentro un cinema dove era iniziato

un film vietato ai minori di ogni età.

 

Durante l’intervallo, l’uno dell’altro

all’insaputa ci avvedemmo, ma fino alla fine

ugualmente vi assistemmo, perché all’uscita,

ignorandolo entrambi, l’uno vide l’altro

allontanarsi di soppiatto dalla sala.

 

Il resto è un silenzio noto (se si ignora

la stridula adunata del gallo caporale),

un classico fin troppo banale

da circostanziare.

 

Un film già visto da ambedue

due non se lo possono raccontare.


*

Pure talvolta prova

Pure talvolta prova o pare

una pietà mostrare

il dolore,

concede un armistizio

mentre di te fa strazio,

ma mai una tregua

dà amore e a perpetua

prova di te  fa scempio,

si nutre, giammai si sazia.


*

Due colombi

Due colombi, uno bianco l’altro nero,

coi lombi acrobati sullo sbrecciato cornicione

appaiono inquieto l’uno, l’altro altero.

 

Come per una richiesta disattesa è l’emozione

che turba a un tratto il nero inelegante

e fanno estranei un tratto breve ma appaiati

poi divisi la coda si danno in un istante,

per affari che non saranno certo concordati.

 

Due colombi, non due di quei falchi rapaci,

due emblemi disposti in piena luce, comunque

figura di tutto che gli animi fa esser capaci,

nel mondo di sopra, di sotto, e quindi ovunque.

 

E tu pensi a ciò che è concavo e al convesso

e non è certo detto sia poi convesso il bianco

e nero il concavo nel caro piccolo consesso.

 

Le parti furono decise molto prima al banco

e ogni colore si fa solo in universo, e manco.

 

                                                                    (1995)


*

Quello che vogliamo

Quello che vogliamo dire

(non quello che vogliamo)

è questa purezza del silenzio

e quell'attesa che in lui

con noi va disfacendosi.

 

Quello che  vogliamo

(non quello che vogliamo dire)

proprio quella purezza

traccia invisibile

sul margine del foglio.

 

Sul margine bianco

delle spiagge di pomice

del mare di ossidiane

tacqui la felicità che stride

dalle gole dei gabbiani.

 

Come fui  grato allora

( ma non c'eri tu, non potemmo

abbracciarci) al dio che ride,

alla divina cura che ignoto

pone nel cancellarci.

 

E fui sulla rena finissima

il vento, sul talco impresso

dal mio piede il vortice

che negò

la mia discreta esistenza.

 

Solo chi sa, allora appresi,

tacere al silenzio, la sua carne

trasmuterà in Essenza.

 

                                        (1990)


*

Gitani

Di noi è tutto vero.

Letto nelle lingue di fuoco del bivacco

che vedi dalla tua macchina in corsa

e il giorno dopo il ricordo t'ha disturbato.

 

E' vero il vero come è vero il falso, lo

sbagliato, il re cencioso di gioielli, il bimbo

nudo e scalzo; che ti priviamo dei sogni

tranquilli, che abbiamo svaligiato la casa

a te e a loro, ed è vero l'oro che ti abbiamo

tolto solo dopo che pende dal nostro collo,

stringe i nostri polsi, ci luccica agli anulari.

 

Stiamo tra gli angeli ribelli e quelli ordinari, 

prudenti come tutti i delinquenti,

e navighiamo senza rotta con le prue

taglienti dei nostri profili nobili

sulle sabbie mobili del vostro industrioso

                                                          divenire.

 

La nostra tribù non può morire,

perché non abbiamo il vostro cuore:

ha forse un cuore il vento, una passione,

un po’ d'amore il tempo inesistente,

                                            la vita negligente?

 

Siamo l'unica prova nel vuoto

che incolmabile è il vuoto.

Non ti dice nulla che noi togliamo

come il tempo, la morte, Dio tolgono?

Pensa di cosa siano privati i gitani, prova

una volta a immaginare il mondo senza

noi … Tranquillità: quale? Noi siamo

nella voragine dove tu potresti

inopinatamente finire (no, non ringraziare),

siamo le ossa che fanno pieno

il sepolcro sempre pronto ad inghiottire

uno che s'è un po’ distratto.

Tu, nella balìa del tempo, puoi giurare

oggi quello che sarai domani? Tu ci osservi

da una casa che credi sicura, noi siamo il popolo

del terremoto che da sempre dura, di cui non vi accorgete.

 

Se noi siamo di passaggio, voi allora, diteci, di cosa siete?

 

Di noi è tutto vero. E' vero il vero come è vero

il falso, il re d'oro cencioso, il bambino scalzo …

 

                                                                                   (2000)

 

 


*

L’EPPUR ALTROVE

Resta scritto
dentro un corpo di parole.

 

Non potendo essere detto

perché assolutamente Reale

la tentazione particolarizza

                             [l’Universale.

 

Così sbiadendo

chiede altro Nero,

altro Nome, un nuovo Come,

l’eppur Diverso, l’eppur Altrove.


*

L’UMILE DORMIRE

E' l'ora morta che ci ha vinto,

che già dorme il simile di ognuno

e sul viso porta, a farlo uno,

il suo proprio zodiaco dipinto.

E' così che ognuno è vivo,

nuda l'anima sul volto,

cresciuta ai mali suoi nodosa

come i rami contorti dell'ulivo.

E sognare non è più vogliosa

brama di perfetti desideri.

Certo solo una cosa vuole dire:

stare intatti fra gli spenti pensieri,

destini avvolti nell'umile dormire.

 

(1995)


*

MISS STIVALE

Tu non esisti, segni non lasci.
Fosse un rametto spezzato, lieve

un'impronta di piede scalzo

su una spiaggia di bianca pomice,

un alito che possa un po’ appannare

lo specchietto d'un portacipria.

La tua è l'eleganza sobria

del niente paludato in noia,

l'autosufficienza della deficienza

invulnerabile, della bellezza che ha

preferito al fascino l'animale,

il dubbio pelvico tra il diaframma

e la mitica, labirintica spirale;

all'essere qualcuna tra le tante

l'acclamata tua inapparenza

su uno schermo maxigigante.

Tua madre ti iscriverà al concorso

di miss Italia che già hai vinto

standotene sdraiata e tuo padre

ne sarà geloso, ti farà una scenata.

Ma il tuo ganzo invece orgoglioso,

griffato cretino da un piercing

e un orecchino, rilascerà interviste

sui tuoi gusti molto originali e la tele

e i giornali, la spazzatura calandrata

delle riviste si coloreranno della patina

sottile di chi sarà premiata perché

                                              non esiste.


*

GUARDAMI

Guardami ancora, solo una volta.

Fermati solo una volta, ancora,

come la prima volta all’improvviso

ti sei fermata – eppure avevi fretta –

quando mi hai visto – e ancora non so

cosa hai visto – e mentre tutto il resto

del tuo corpo si chiedeva perché

più non andassi, la tua testa

era verso di me voltata e nei tuoi occhi

brillava come una risposta inaspettata.

 

Guardami ancora una volta così,

non per il futuro, che non ci sarà,

guardami per il passato, la magia

compi di cancellarlo, fa di quel piombo

oro, solo con quegli occhi che perplessi

hanno riconosciuto in un lampo me,

lo sconosciuto, guardami una volta,

solo una volta ancora.

 

Fammi credere così che quello

che è accaduto davvero è accaduto,

volgi in luce quello che doveva essere

e non è stato, fallo per il passato

non per il futuro, perché così

– non ti sembri troppo – potrò

dire d’aver vissuto, che la mia vita

non è stata sprecata e questo solo

perché mentre correvi

(ma perché mai lo sapremo)

in un lampo ti sei fermata,

io più non ho respirato,

e tra la folla, con quegli occhi senza tempo,

tu senza capire, tu mi hai guardato.

 

                                                           (2001)


*

LA ROSA NEI ROVI

Sera di maggio

che parla il tuo

affabile gergo

e dai giardini rivela

gli orientali aliti.

 

Tu abiti dove

non si arresta il giorno,

l'incedere inesausto delle ore,

e rechi il messaggio, forse,

che nulla toglie

ai momenti che vivo

non districarli

- la rosa nei rovi -

 

Porti i tuoi riccioli al rosso

che il sole distende alla via

da voi gremita, ma non alzi

gli occhi: troppo lontano ardo.

 

Sul basalto il tuo passo 

col pendolo incide

un'identica trama.

 

                                        (1974)

 


*

ACQUA SALATA

Il mare di noi che ancora non parlavamo

era un cuore che si gonfiava impercettibilmente

sotto la nostra meraviglia e la ragione anche

per cui una volta sbucati dalle viscere

piangere non avremmo dovuto.

                                                               

Dimmi se il sale non ha quel sapore che il mare

avrebbe se non fosse quello che in realtà è

e se in un angolo del lido che frequentammo

                                                                bambini

l’alchimia ineffabile non lo trasformasse –

mescolandolo col sudore, l’acqua della doccia

del bagno in comune e con l’odore che hanno

gli uomini quando tornano ad essere tali –

dimmi se non era quello che ancora oggi

ci coglie in una distrazione, in una evasione

non cercata mentre passiamo da una azione

all’altra del nostro riempire tempo e modelli,

modelli e tempo.

       E’ proprio questa la rivincita che la vita felice

si prende con noi: non altro essere che ozio,

                                                       invincibile ozio.

      Al quale possiamo contrapporre

catene montuose di cartellini timbrati e le macabre

statistiche dei caduti sul lavoro senza scalfirlo,

                                                       l’imperturbabile.

 

Anche adesso che scrivi è una sola la speranza:

di non aver lavorato, non esserti distratto,

fatto invece una lode all’ozio tenace

che con l’acqua salata si disseta felice.

                                                    

                                                                     (2001)

 


*

KONZENTRATIONSLAGER

Vivere osservando la luce,

come sono le cose da questa

trasformandola trasformate e

pregando a volte che intervenga,

se non c'è, il vento.

Il resto è un inventario per altre vite,

altro inchiostro, differente silenzio.

 

Così pure la morte è un'ispettrice

imparziale delle risorse umane

per il suo ufficio dotata di una troppo

antiquata ridondante (eccedente il fine)

risorsa strumentale che oppone solo un visto

(tra l'altro previsto) dove una parte giura

Kalìfero, un'altra Gesù Cristo.

 

Talvolta mi è facile carbonizzare un ragno

con l'accendino non ricaricabile.

Mi riesce soprattutto con quelli che

non hanno trovato di meglio che fare

della tela un compatto bozzolo

nell'angolo di una finestra che non viene aperta mai.

Alla fiamma regolata al massimo in precedenza,

all'ultima anfimissi, quello allunga delle otto le anteriori

apostrofandomi: "Kafka! " come un vecchio docente

o un prete le adunche falangi artritiche a benedire chissà chi,

autorizzato da chissà quale Pentecoste.

 

Non sono altrettanto bravo con le mosche,

essendo maestra del loro sterminio a volo

mia moglie, a non schiacciarle, a disseminarne

l'impiantito di loro integre, appena un'ala fuori posto

come un bigliettino da visita infilato di traverso

nelle costole o per la punta il biscotto tra le palle

del gelato accanto alla bandierina dello stato delle cose.

 

Del purtroppo fin sopra i capelli – ricordi i tempi belli? –

e dell'hig teach e delle subdole e-mail…

 

Eppure tutto torna, ritengo.

Il fanciullo alemanno che una tantum fu marchiato

a Röcken dall' Eins tuth Noth lo disse für ewig un po’

confusamente ma noi sappiamo che l'eterno ritorno

non è un mito, il mito (ciò su cui si tace, devesi tacere)

è l'eterno ritorno e il sindacato attori tra dilettanti

e professionisti fatturerà per sempre a nove zeri.

 

Era così eccitante quando c'erano le razze.

Incontravi gente in quantità e nemmeno un fratello

con cui dividere un'eredità. E c'era anche la libertà

di scegliere, di giudicare. L'operazione partita da Cartesio

sopra di lui si è ripiegata, come si abbassa il buon selvaggio

                                                                                  [ a livello.

Bastò non innaffiare più l'ordinata che a poco a poco

si afflosciò sull'ascissa e fu il trionfo del comfort uni-

versale-orizzontale-adimensionale e perciò globale, fratello.

 

Troveranno un'altra anfora a Qumran o nel tanfo di altra grotta

usata per commerci carnali che ci restituirà Vangeli a oltranza?

 

Ma la nuova novella è già in questa grotta detta DellaTolleranza

da tanto di quel tempo che il greco di cui si riferisce parla e vede

una sinossi a stelle e strisce, senza neanche un congiuntivo.

 

Chi ha fatto questo conosce l'iperbole e il modo di farne un preservativo.

 


*

HOR – EM – AKHET

Il tempo reale – quello che da se stesso

è dato, ma noi diciamo: ci è dato

il tempo, quindi, irreale, pare che voli

ma sta come suo emblema nel mantello

delle sue ali, nera aquila alta sui recinti

dei nostri illusi calendari e con un’indulgenza

li benedice magnanima che non si è incarnata,

per amore o per pudore, semplicemente.

 

Giocano i cuccioli di leone con il padre paziente,

con tenere unghie già aguzze si appendono alla

ospitale criniera, gli mordono la coda...

 

Ma la testa di Giza guarda da sempre altrove,

verso un orizzonte più alto delle loro moine

e talvolta contrae in uno scatto la polverosa

pelle del dorso per scacciare un insetto, intruso

della grandezza.

                          Fissa il punto lontano, il giusto

parallelo, nimbo che domina di luce e incinge

il mondo, al di sopra dei cuccioli, di se stessa.

 

Il Dio-Falco antico sfida con lo sguardo il nodo

sciolto-involto dell’ombelico, vede in sé la muta

leonessa, scruta la radice infinita, il tempo che fu

dato-negato, la vita della sua stessa vita.

 

                                                               (2000)


*

NESSUNA SA

Nessuno sa cosa veramente vede

quando il ricordo si compone

e su una parte di te,

dentro di te,

si accampa,

quella meraviglia nera

fatta di tutti i colori

di tutti gli odori

di tutti i sapori

di tutte le parole

di tutti gli sguardi

di tutto il non detto

di tutto quello che poteva

essere e non è stato

del tempo sbagliato

le braccia che si fermarono

all’ultimo momento

sospese nell’aria

perplessa che quello

che doveva essere non fosse…

 

Nessuno sa cosa veramente accade

quando il ricordo soffia

come sulle tombe un vento serale

ed è un ricordo del futuro

di ciò che saremo dopo non essere mai stati

per non esserci mai parlati, stretti,

annusati, baciati, leccati, succhiati,

                                                        penetrati…

 

annullati perché il tempo urli di piacere

                                    dopo averci cancellati.

                                                                   (2000)


*

FITTASI

Ancora una volta il solito oscuro

mestiere abusando della carta…

Può accadere che la verità ti prenda la mano

e in conclusione centri il cestino.

Un’altra cosa inutile.

Ma l’acqua spadaccina si difende come può

coi mulinelli e diverse profondità, gorghi effimeri

ma micidiali mentre il suo tempo inviolato la trascina

allo stile severo del mare.

                                        

                                          L’ampio scenario rigurgita

(anche qui gorghi) ed è mattina con tutto l’armamentario

barocco e lo shopping che con noi fanno tre ore divine

per chi sa fermarsi e chiedere l’ora del pianeta in ombra.

L’occhio clicca sull’es-temporaneo che durerà nell’angolo

in alto della camera da letto senza vista, allineato ma senza

segnatura di posizione con le altre immortali opere della mattina

giacché la notte non scrive ma è descritta alla luce del 18° Arcano

in quel caso romantico despota e più notabile degli altri ventuno,

frazioni federate di un più modesto giorno metafisico.

                                                                                  Fu in una come

questa che su una scialuppa blumarine da impiegati in mare aperto me

e mio padre rifletté il dorso pindarico di un delfino che ci sembrò antico

e me prese un desiderio di baciargli la pancia al di sopra dell’ombelico.

 

Chi ha fatto questo conosce il sale e il modo di nascondervi un mare.

 

                                                  La vita ordinata delle api…

ti verrebbe voglia di iniziare per confutare un pedissequo iniquo stato

della molteplicità con un livore inaudito che stigmatizzi definitivamente

la perversione che ha trasformato in una idea la legge selvatica, talvolta

(quando la neutralizzi con punte avvelenate di aggettivi squalificativi)

perfino tollerabile.

                                                  Ma la luce pallida che torna…

come avesti a scrivere negli anni che vedesti danzare il sole intorno

a Nostra Signora dei Lordi cancella tutto, usa come è a calcinare dopo

aver dipinto, dopo averti spinto a prendere qualcosa che sinteticamente

ti dilati ancora di più le pupille.

                                                  “…la luce pallida che torna…

ha domicilio (di nuovo ma, come si è dimostrato, anche in precedenza)

dove le porte erano aperte e prima con ombre credute lettere aveva scritto

per te, per la fiducia in una creduta memorabile mattina: FITTASI.

 

Chi ha fatto questo conosce la sabbia e il modo di farne un deserto.

 

                                                                                                         (2001)


*

MEMORIA I

Non perisce il corpo,

l'anima non esala,

illecito è lo spirito

al discorrere della storia:

ciò che muore è solo la memoria.

 

Sopravvivo per non aver dimenticato

i lemnischi delle onde dipanare sulla riva

il loro caldo interminato  intrico

e il sole del mio Tirreno tramontato

sulla casa di chi credetti un dio amico.

 

Oggi se mi chino a raccattare

una scoria di me, una quisquilia

indispensabile al cammino,

dalla testa mi cadono i ricordi,

lenti come i fuochi si consumano

nel cielo livido di una vigilia.

 

E così misero si fa il mistero, si estenua

della sua gloria di insegne stinte,

di memoria in memoria, in un suo

ciclo interminabile di quinte.

 

Io attendo nella noia dell'ombra mia

il mese che illude l'anno in una

giovinezza di puri incanti,

di metafisici mattini, che si strugge

il cielo alle sghembe fantasie,

alle stridule epigrafi dei gabbiani albini;

che il mare ricominci il canto

dalle gole misteriose dei delfini.

                                           (2002)


*

TEMPO

      -     Chiese: “Dimmi qualcosa del tempo”

 

-          Non esiste.

 

-          Hummh, banale.

 

-          E’ la più ingannevole delle carni.

 

-          Lo conosco. E’ il verso di una tua vecchia poesia che come le altre non ti pubblicheranno mai.

 

-          Senti, non sono S. Agostino, che comunque se la cavò elegantemente ma non risolutivamente.

 

-          Allora facciamola più semplice, dimmi di quel tempo che chiamiamo “passato”.

 

-          Il passato è carne putrefatta.

 

-          Non barare, è una variazione sul verso di prima.

 

-          Allora… allora… il passato galleggia.

 

-          Galleggia?

 

-          Sì, il passato galleggia.

 

-          Va bene, mi piace, il passato galleggia. Ma su cosa galleggia?

 

-          Sul futuro.

 

-          Sul futuro?

 

-          Certo, sul futuro.

 

-          In che senso?

 

-          Nel senso che quando pensiamo al passato dobbiamo appoggiarlo su qualcosa e siccome lo pensiamo nel presente per non rimanerne schiacciati dobbiamo appoggiarlo, parlando di tempo, sul futuro.

 

-          Bene, va’ avanti.

 

-          C’è poco da andare avanti, siamo già nel futuro.

 

-          E il futuro, allora?

 

-          Il futuro non esiste e non dirmi che è banale perché anche i bambini lo sanno.

 

-          D’accordo, allora il passato galleggia sul futuro. ma finisce qui?

 

-          Potrebbe.

 

-          Ma se il futuro non esiste come fa il passato a galleggiarvi sopra?

 

-          Il futuro non esiste perché quando lo pensiamo lo costruiamo con qualcosa che già possediamo saldamente e questo ne fa immediatamente un supporto, per così dire neutro, su cui poggiare il passato.

 

-          Prima hai toccato il presente di sfuggita.

 

-          Di sfuggita è un bel modo di dire. Il presente, se non lo hai ancora capito, è una spiaggia fatta di un passato che non è il nostro, dalla quale osserviamo il mare del futuro sul quale galleggia passato che in qualche modo ci appartiene.

 

-          E la malinconia?

 

-          E’ la pelle bruna della nostalgia che è quello che provano tutti questi pezzi che vorrebbero ricongiungersi perché credono di essere separati. Se uno sta attento e non supera questo momento evita di impazzire.

 

-          E la tragedia?

 

-          E’ tutto questo senza un rimedio.

 

-          Andiamo a bere qualcosa.

 

-          Andiamo.

 

                                                                                                                                  (2007)

 

 


*

TEOREMI

Spira un vento caldo

da dove un giorno siamo stati

(era un pomeriggio in cui naufragarono

acerrime sieste di catari, di camionisti irati).


Ciò nonostante il teorema è sempre valido

ad onta delle nostre care ceneri

                                                    [da ligi

famuli disperse nel mare davanti Scauri.

 

Ciò nonostante reggono i teoremi

mentre il vento caldo odora di provvisori

barbecues a rifocillare i ponti festivi,

                                                   [le corone anulari.

 

Il vento di scirocco, il vento del cambio

di guardia delle stagioni è quello di sempre

ma non si farà mai teorema, un riottoso fantasma.

Ciò che regge è ciò che ci finisce e galleggia

                                                   [sul nostro plasma.

 

Stelle senza luce i teoremi,

i vertici delle loro figure inchiodati

sul bianco supino delle carte, delle

profane sindoni, degli anonimi sudari.

 

I teoremi sono dimostrati

sui margini di ogni pagina

dei nostri ammucchiati diari.


*

DI SETTE NOTE

Non sai più come chiamarlo

ciò che non si fa chiamare.

 

La più grave arte dipingere

l’assenza. Pare che tua propria

essenza sia questa fatica del non c’è.

 

Ogni ora quindi ha il suo

misurato gesto, l’ottimo

intento al vuoto pieno di sé.

 

Ti tiene in vita un magro resto,

il tu negato che fa un po’ di te.

 

Comunque vita se mai sia piena

fedele per quel poco che lei può.

 

Ha sempre fame il cuore e pena,

di sette note sempre e solo il do.

 

                                          (2007)


*

NOI CHE MOLTIPLICANDOCI

Colui che dividendosi si moltiplica

e noi che moltiplicandoci ci dividiamo,

noi non ti tocchiamo.

La tua trasparenza un poco si colora

ogni volta che uno tende le corde in gola

per gridare che di te è perduto

e gli esce solo un rauco rantolo.

Pure, uno nato con la necessità
di uno starnuto su te si è coricato

e tu alla fine te ne sei scrollata

come di un umido asciugamano,

con un gesto insofferente, infingardo

                                  della mano.

Il troppo grande, l’indicibile, il sublime

in te si è abbassato. Tu lo gusti intero

e niente è vero, vissuto, se non l’hai

calpestato, col piede nudo

davanti a un altro che se ne sta lì

con l’onere vano di volerti amare,

come scempiato, ritto sul bagnasciuga

inseguendo il computo delle onde in mare.

Non mutano le stagioni nella tua perenne,

leggerissima insolenza.

Se ripeto che ti amo è perché

in qualche modo – inesplicabile – in te è calato

colui che dividendosi si moltiplica,

mentre noi, che moltiplicandoci ci dividiamo,

pur attraversandoti, noi non ti tocchiamo.

      

 

 

 


*

NELLE PAROLE IN CROCE

Nelle parole in croce può essere fine del mondo una "o"

( mais avec ou sans son ineffable, croisé, rond histoire?).

 

Che metafora che azzarda quel banale passatempo, però,

giallo che ab initio aspramente si rivela un grand noire

dove il Verbo inscena negli alvei-nicchie il suo autodafé,

nel crudo teatro che nudi levan gli assi a piombo di René.

 

Ma sempre del mondo può nelle suddette eponime prime

esser principio dei principi quell'umido geroglifico emme

e non è certo per onorare l'atavica usucapione delle rime

che qui tanto valga citare l'antonomastico Matusalemme.

 

Ma emme ed o danno senz'errore la semplice sillaba mo,

dal latino modo, che tronco è nel regionale idioma adesso.

Vuole forse dire che i soggetti a nome Fine e poi Principio

son fuori di quel tempo che severo il codice v'ha impresso?

Che passato, presente, futuro e, onore delle masse, participio

si dissolvono tutti e presto ad un tuo sguardo più indefesso?

 

Ancor più tragica apparirà, ahinoi, quest'altra conclusione:

che nascita e poi morte solo varrebbero a colmar lo spazio,

vuoto schermo della noia dove per suo spasso il Cruciatore

crea quelle caselle che sono suo diletto e nostro noto strazio.

 

                                                                                (anni ’90)

                                                                                            

       

 


*

MONSIEUR SILURO

Infine, del quanto non è questione

e seppure in lampi attinto il quale

non puoi comunque dirla soluzione,

   nulla di stabilmente sostanziale.


Quello che prima, dopotutto, è

                                    arcisicuro

   è l’infinito, perpetuo moto oscuro

o luminoso, abbacinante che esso sia

- tu vagante ottuso monsieur siluro.


Che sia salda la tua fede o proterva

                                               l’agnosia

così è se ti pare, buona rotta e così sia. 

                                               (anni '90)


*

LA BELLEZZA EBBE IN SORTE LA GUERRA

La bellezza ebbe in sorte la guerra

e l'innocente spasimo d'amore

e per altare un acceso tramonto

sulle esauste rovine del mondo.

 

Io ebbi in sorte la bellezza

ma non su me, su te

e il tempo con essa della guerra

e gli spasimi alti

delle veglie ininterrotte

e un altare tessuto

di acri silenzi ricamati

che tu mandi,

celebre tra questi fiori

da sacre tenebre vegliati.


*

SIAMO

Siamo ogni capello che abbiamo perso

ogni occasione che volemmo ignorare

ogni donna che abbiamo lasciato

ogni donna che ci ha fatto disperare.

 

Siamo la partita che non giocammo

quella che non ci fecero giocare

un pomeriggio senza nostro padre

e un paese straniero senza nostra madre.

 

Siamo il vuoto lasciato

dalla donna della nostra vita

ogni volta che reclama il nostro

immutato stupore

siamo tutto l'amore

che non ci è toccato

tutte le carezze che non abbiamo dato.

 

Siamo tutti i libri che comprammo

e non abbiamo letto – rassegnati ostaggi

della nostra ignoranza – siamo il libro

che non abbiamo scritto;

siamo il silenzio della nostra stanza

e l'impotenza di dire "ti amo"

siamo quello che non sappiamo

siamo tutto ma tutto quello che non siamo;

una primavera che non riesce a fiorire perché

anche l'inverno ha diritto di non voler morire.

 

Siamo i morti che non abbiamo pianto

e i vivi che non ci sono accanto

la morte che non ci toccò

ed anche quella che ci mancò

siamo ciò che abbiamo dimenticato

quello che in sogno abbiamo ricordato

e tutto quello che non ci fu rivelato;

siamo il vuoto in cui piombiamo

quando siamo pieni e non ce ne

ricordiamo che alla fine.

 

Siamo il pieno che non riconosce le rose

e le mangia con tutte le spine; siamo più di uno

siamo al minimo due cose, siamo sangue

che incontra il sangue di qualcuno e ne diffida

siamo la corrida di quei fiumi che dicono

una storia di cifre che non si combinano

sempre bene; siamo rincorsi da colui

che dicono divida, si metta per traverso.

 

Siamo in un verso di questi metri sfilacciati

siamo quelli che persero il pelo e presero il vizio

siamo più di una cosa e ciò sarebbe buono

se più di una cosa facesse almeno un uomo.

 

 

                                                              (2000)


*

IL TESTIMONE

"Non basta in un paio d'occhi
  aver riconosciuto

  due frutti del bosco sacro”.

 

Il Testimone

viene fatto accomodare

invitato a togliersi il cappello

obbligato a giurare

su un prolisso tomo

di autore immortale

con sufficienza ascoltato

dal giudice non creduto

trattato come un criminale

con formula dubitativa

lasciato libero di emigrare.

 

Così il Testimone salta

si acquatta sul davanzale

guarda davanti a sé il mare

riscalda un po’ le ali

e spicca un volo di vocali

verso i prossimi tribunali.

 

 


*

COME E’ NORMALE

Come è normale
sempre altrove ho vissuto
vincendo ogni volta il concorso
per un posto unico
  di illustre misconosciuto.  

Non ero alle funzioni logiche
e alle fisiologiche nemmeno,
a quelle dove sul più bello
nel bel mezzo di una festa 
               mi levai la testa
          invece del cappello.  

Così dei funerali uno
mi sarà certo condonato,
l’altro, perseverando contumacia, 
          infine perdonato.

                         (primi anni '90)

*

IN MORTE DI A. B.

Quando l'officiante avrà

estratto di prestigio dal cilindro

la ricompensa finale che ti aspetta

per averti assimilato alla carcassa

del nero morto di mosche e di fame,

a ogni anima che pia inghiotte e accetta;

quando la frusta teodicea avrà saturato

il tempio e di te sarà lo scempio ultimato,

io ti dimenticherò,

come non ti ho mai dimenticato.

 

Solo percorrerò l'ultima volta le strade

che assottigliavano la tua suola:

quelle che da via Battistessa portavano

alla scuola, via Tanucci, corso Giannone

o, se erano belli i tempi, via Turati,

via Alois, piazza Vanvitelli…

 

C'era un filo troppo corto, un nulla,

che non andava buttato, incomprensibile

e fu utilizzato, per te. Scese sul tuo giaciglio

come in altre case entra un raggio sensibile

di sole e posa sul viso confidente del figlio

illuminandone il sorriso.

 

In te si insinuò il  nylon celestiale

e il tuo passo, ogni tuo passo,

fu per noi lo scandalo, il rebus

del presentito assurdo oblio qui est in coelis,

che disegnò il taglio lupesco dei tuoi occhi,

forgiò la chiave che condannò alle pene

dell'inedia la tua fame del cosiddetto Bene.

 

Per questo io ti dimenticherò,

come ha fatto Dio:

non cresce salvezza memoria

che non possa dannare oblio.

 

Il filo per troppo tempo teso,

logorato si è diviso.

Nulla della tua vicenda d'ora

potrà dirci che l'arbitro fischia ancora

rigori che non esistono o punizioni

per svergognarlo alla moviola.

 

Angelo compagno di banco,

di un banco andato al macero

con tutti noi, Angelo perduto,

giocasti bene, ma l'arbitro era venduto.


*

CRONACA IN SETTEMBRE

«Ciò che sostiene la vita… è una piccola

corrente elettrica di luce mantenuta dal sole»

Albert Szent-Györgyi de Nagyrápolt

 

 

Cronaca in settembre

 

L’alba ha sgretolato il sogno in cui ha perdonato se stesso il perdono.

 

Si fa sghembo, scaleno il drappo logoro dell’anima.

 

O forse è questo groppo malato, senso di mute guarigioni percorso dalla fede di spettri resi tali dalla fede nella realtà.

 

Sazietà dello zodiaco e racconto della divisione dei giorni.

 

Come ogni anno settembre esibisce la sua verità che è solo rivelazione della sua malattia che è anche la nostra.

 

Pertanto, non sappiamo che farne del racimolato sfarzo in deliquio di uno che impegna le sue povere ossa per l’abito in affitto di una festa cui non è invitato.

 

Allora sorvoliamo le mutilazioni di questa pace, guerra rivoltata  in ipocrite rivendicazioni.

 

Abbandoniamo la conta e i numeri si distendano pure nella solitudine dell’indefinito.

 

Ora vedo un anagramma di me che attraversa nell’afa lento (di lei ebbe un tempo il talento) una piazza incandescente.

 

Dentro l’eterna tormenta metafisica calcinato socchiude gli occhi, si accosta a leggere musorno manifesti in decomposizione da cui sembra stranamente attratto – carcami al suo collo le tre età immolate, intenti all’ennesima inutile vaghezza di un euristico palinsesto –.

 

Alla fine, guardando indietro per l’ultima volta, scompare nel meconio di un bar.

 

All’improvviso cessa lo scirocco e le chiome meditano sul fermento delle ondulazioni.

 

Per farsi toccare il NULLA è diventato QUESTA E TUTTE LE ALTRE COSE, esibizionista che si

maschera per secondare  la sua lussuria illeso nell’orgia di un carnevale.

 

Ecco, finalmente sappiamo quanto sia disdicevole offrire salamelecchi a un nobilume che vanta i titoli fraudolenti del mistero.

 

Allora guardiamo oltre le incottite suture e al di là di ogni ragionevole sutra.

 

Guardiamo all’imbarazzo dell’inizio senza tempo. – Una fiamma oscura zampillò dal fremito dell’Infinito, nel Chiuso del suo Chiuso

 

Guardiamo a quello che non è il nostro tempo per poterci un giorno come giorno togliere il respiro.

 

Guardiamo all’aura del delirio, alla sua commossa premonizione.

 

Guardiamo il granello di senape, la sua elasticità banale.

 

Guardiamo il Bene e il Male che passeranno insieme il Natale.

 

 


*

RICORDARE

Quello che adesso ricordo

mentre l’ombra di qualcuno

incrocia, comprende la mia

è che ricordando

ricordo un ricordo qualunque

incolume per la grazia dell’Uno.

 

L’ombra in cui la nostra giace,

si smarrisce e muore,

pure è consolata dalla pace

                   di un eguale dolore.

 

Cerchiamo il memorabile

dove questo non ha dimore,

ma il bambino l’ha già trovato

nella fanfaluca che stringe in mano

nel sazio vuoto pomeridiano.

 

Guarda: immota è talvolta la tua vita

nella delizia dell’inconsapevolezza

e ad alcuni pure talvolta

quella prodiga l’eredità improvvisa

di un giardino di memorie.

 

E lì si aduna lenta

la fola di quelle

                           in un lacrimare

sospeso di storie

che invocano il giusto titolo

il nome fresco che a stento

leggi sul muro

                        dell’anima intenerito.

 

Quello che reclama il tempo

non è un’ingiuria di peccato

ma un perdono indifeso;

che si intrecci

una linea all’altra

e insieme si perdano a un indefinito

che s’abbeveri

all’offerta plausibile della sorgente.

 

La luce d’estate si libra una col vento adesso

sull’acquiescenza di esausti, sbandati pianeti

sulla distesa inebriante di quel negro mare;

i nostri anni va intanto seducendo il silenzio

del principio che ormai non può più parlare.

 

                                                                  (1977)