I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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Con formazione dell’ossido
Affollato di osanna e di congetture terrificanti il presente è frenato dalle remore più ventose. Come uno squalo senza alcun dubbio non conviene stare su pini (un uomo a pancia in su fa la fronda al letto e le sue braccia sembrano ramoscelli mentre il tronco ad ogni finestra libera le branchie dai denti). Ma che porta l’anima nel tascapane? Per fragilità naturale la prudenza è a salve una salva mirata nelle grazie di esperti angeli - che fanno bene, pure nel guazzabuglio di sè. Siamo moltiplicati per i piani come le case abusive, illeciti fino a sera, poi ci consegniamo per legge allo schermo. La gioia, così colpita, mette subbuglio nei turpiloqui. Comunque ci ricoveriamo nella fibra ottica che arriva alle fibre naturali e le fredda: che altro vuoi si veda oltre il muscolo del gelo nella solitudine dei fiocchi?
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Chautauqua del viavai
Il giorno viene a dosso con il tremito delle pietre: saliscendi da vecchio detto terremotto. I lampioni si piegano al metro necessario per scansare i marciapiedi e spingono altro come chi siede sulla molla compressa delle sospensioni, a ruota. Vi ritrovo lì gambe di ferro dritte però a rovescio tanto da ritenere che sia la terra le belle anche dalle quali uscite in forza alla luce dov’è giusto incamminarsi a cottimo in quanto ricordo.
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In un posto grande un giorno
Il mio mondo, guardate, non è così grande come il vostro. È minuto, perché non ci vuole molto tempo per girarlo tutto. Saranno 8 strade, non tanto lunghe, sapete; bastano quattro passi da un capo all’altro, tanto non occorre il visto per metterlo in luce. Due piazze e qualche vicolo cieco a modo di calendario. Neppure tanti palazzi, pochi portoni forse solo un cortile che va scomparendo - se non è già sparito perché mancano i parcheggi ed occorre adattarsi come meglio possibile sul posto grande un giorno. Godo un po’ dei locali quanto basta ad innalzare l’orizzonte senza rubare spazio alle stelle. Pies: auguri ovunque siate e con chiunque stiate.
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Trattativa per il futuro
Le dita spinte a contare non hanno numeri sufficienti per indicare chi cadrà prima di arrivare alle stelle. Per questo i giorni vengono uno dietro l’altro infilati a misura di anno luce. Per molto meno la grazia delle farfalle imperla lo sguardo ma l’ipnosi vera nasce dalle ali che ormai si tengono quasi a memoria. Ne troveremo altrove? Il mio inferno è saperlo ora che non ci arrivo.
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Sono illeso in genere
Non amo le differenze: sono vapori, sublimazioni in genere. Tu diresti ancoraggi che si sciolgono lungo le memorie del secolo scorso porto di secoli a vela e moli di ideali per aria. Io dico nuvole, dissimili in quanto aspetto ma se contassero le molecole le capacità sarebbero identiche. Stanno dentro contumelie, accusa la finestra, nata rivolta all'ovest. E può farlo, perché il vetro non è che conservi la trasparenza come cura le diversità con desinenze di riflesso. Un brutto a fare questo. E il suono riprodotto in effetti si spiega con notazioni che sono per loro già nelle more libertà curata dalle spine.
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Giuramanti alla luna
Ti giuro: non sei sola. Al tuo fianco un fianco aperto viene porto e ormeggiano gli occhi come tenessero in cima una voce: “Olà, dammi corda! Lega due navicelle a un palmo come anello." Un nodo semplice e vano che mi abiti a lungo. Ti giuro che non parlo a vuoto. Che ascolto il tuo respiro farsi netto, poi lordo il tuo silenzio con “sei splendida” mentre appari coperta sul ventre ma trapeli con un raggio monco.
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Per via dell’età
Sono coetaneo del boom - un boom scontato. Scomparso già prima di incontrarlo - uno spettro di latte, metalli, talismani. Crebbero in seno a tre guerre - spettri con catene di produzione. Andavano contro l’onda - i figli dei fiori. E provocarono l’uragano dei colori - era il momento del vento nuovo. Si annodavano le vecchie foglie con un fiocco di luce - da non crederci. Chi aveva in mente lo spauracchio delle rivoluzioni protesse il suo orticello e nessuno lo beccò se non a tarda sera - quando il piombo fiorì. Io avevo una finestra per fare quello che mi pareva sufficiente: piantare sopra le nuvole una tenda celeste - e gli occhi come picchetti. Non l'ha ancora strappata la mano della tormenta. Non la passerà liscia in questo secolo. Ma basta una brezza a rendere arroganti i vascelli. Per loro è come se dal fasciame schizzassero via i chiodi per fissare le nuove rotte. Tuttavia la calafatura dell’età benedice la pancia della vela che fa schiumare il vecchio sulle creste dei giovani.
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I capelli si fanno vecchi prima dei piedi
Non di tanto tempo - di un pelo appena. C’è una formula che lo spiega - relativamente alla gravità del pettine. Per lo stesso principio invecchiano quasi subito i pensieri che volano - leali all’idea che per la terra occorre parlare da terra. I fringuelli invecchiano meno delle aquile, ma le aquile sembrano le loro lancette. Le radici segnano il metro con le barbe - allungate per tempo. E gli uomini tendono allo spazio che nulla calpesta - invecchiando senza cautele. Il cuore, che è un nanosecondo più vicino alla pensione di quanto non lo sia il fringuello, batte ancora i piedi.
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Ierofania personale
E mi lasciò l’angelo la sua forma - dall'indice. Mi dedicò un’arca alla base del naso - segno di silenzio. Non parlò per farlo - per farlo fu più chiaro. Perché io non ascoltassi quale demonio a parlarne a mia volta - per saperne di più. Ma che avrei potuto raccontare del chiarore lasciato? Difatti non chiedo altro.
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L’arma che mi spunta
Esco sempre con l'arma che mi spunta dal cortile. Una strana faccenda, questa, finché non trovai quel posto a turno. Solo l’ascella del fabbricato sormonta ad est un pelo di strada; e non c’è condòmino che possa evitare via Palestro se vuole trovarsi al centro dove la mira aspetta. Aspetto un sintomo di via, poi il tossicchiare cupo colpisce il finestrino. Pam! Un riflesso stolido, la corbelleria del vetro che si maschera con quel che mostra mentre l’essere trasparente scarrozza il panorama in un colpo annotta. Non c’è minaccia in questa ostensione: grilletto sotto il piede destro e tra le mani il proiettile. La punto in ogni direzione, ma è un'arma e devo stare attento ad esibirla perché fa presto a diventare bersaglio del peggiore commento. Oh, un'arma dà coraggio per settedecimi, quel che avanza per intero sono extension di genere, grandeur du mâle. Ma va bene così: se rincuora, pompa.
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Guardando dal baco della serratura
Il ghiaccio in cima che nemmeno uno stecco lo terrebbe su, figurarsi l’aria calda che resta nell’ombra e soffia sul fuoco, sbriciolando il gelo con il riferimento ai passatempo. Il ghiacciaio soffre l’afa come me e te e precipita per via del mare. Sa che lascia la stella per la clavelina, lo stambecco per il tonno e trova lo scandaglio dove portava il rampino. Sa che nessuna rete di pentimenti comuni lo farà riemergere fino lassù, seppure, cotto a vapore, nevica. In questo andirivieni di mutazioni affrettate, c'è la posta in gioco. Bussa più volte il clima; e alla domanda chi è? risponde con la naturalezza sgominata dagli uomini.
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Diluita la forma in gioco
Non ho dolori che giustifichino un malessere e il rigo, che normalmente si accavalla sopra piagature e stilemi, va alzando il gomito con licenza di spalla mentre un indice imbottiglia il firmamento in segni da terra. Prendiamo il tempo e nello stesso tempio un dio in breve coglie l'attimo. Il tempio è uno, solo se non è finito lo spazio percorso a velocità ubiqua: in quanto divino, inspiegabilmente. Per questo gli stiamo dietro, o appena partiti riceviamo la punzonatura in acqua. Ci tocca un vento leggiero che continuamente volta pagina in vero sfoglia. Ma tu capisci in che modo doni sollievo?
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Discorso sulla fame d’entendre
Oggi è venuta fame ad un’ora insolita. La fame, intesa come razzia dei valori più bassi dell’orizzonte, ma sopra il campanile normanno, dio degli stormi, sparuto nella sagoma di un rapace meccanico, tiene lontano la frotta di rondini e di turisti come mai fino a mo (questo mo è un’ora cruciale, una identità che distanzia le costole dalla lingua). Dura da digerire in tal modo, eh? Convengo che la poesia si collochi altrove… L’estro non è del corpo rimasto a terra, tuttavia il pensiero è più rapido della parola di un’incollatura. Ed allora ecco manifestarsi più alto il sole inchiodato ad uno zenit strumentale dai beoni. Prende la marmaglia nel mezzo proprio come la solitudine del fulcro modifica lo stato della leva. Così non va, quindi mi levo. Eccola qui: la fame è venuta all’appuntamento. Piena di speranza che lo zenit sia una doccia, per altro, della quale si apprezza la finezza del fresco nello scroscio che preme sui pori con il tocco della goccia. Sia benedetta la fame di sapere. Sfogliavo sul web i quotidiani a suon di mo lo saprò. Una edicola elettrica con strilli pieni di illuminazioni ripetute. In questo senso, un cimitero di notizie piene di pareri; e più di uno urlava: “Ignorante!” e giù un pernacchio da far tremare il video… Ma lui, lui, il dio degli stormi, lui sa che trovare risposte è ingoiare rospi stando bocconi nel fango.
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Ecco la goccia
Alle quattro del pomeriggio basta moltiplicare per due quel che viene per avere una sera con più porte. Ogni porta è naturalmente chi so e chi trovo. In giro a secondo le lancette. Farne parte è umano finché si dà corda, oltre tutto chissà. Il buio maggiore viene dall'universo che da est si svela e, fine lavoro, la vista dal colle mostra il dorso del coccodrillo costiero. Salerno è la sua bocca con tante case a denti stretti. E tanta carie si fa strada. Il buio minore è la speranza con la quale chiedo soccorso alla voluta di fumo, di volta in volta. “Fatti nuvola!” Le urlo da lugliatico con l'afa che pelle diventa liquida bava come per una fresca concessione all’ecce stilla, della quale si disse che diede a sorte quest'homo.
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Litotipia del mandorlo
Ad agosto è colto ed a settembre ignora che ne sarà del latte dopo la riduzione del seme ad una compressa poltiglia buona per gli impacchi sulla punta dell’insetto. E similmente ama ama ama la fioritura detta in precedenza. Rimanere bambini a pendolo tra nuove primavere e quelle che declinano nella polpa dovrebbe essere l’argomento del momento ma se si asciuga il sogno, riposare ovvia. E tu bianca comparsa nel risveglio, le guance sottratte alle gemme, gemme inalberate per tanto poco in un alfabeto sfacciato, malizioso, sciolto nel ramo da una linfa visionaria: sembra arte, ma ad arte il vento le accusa di aver messo in fretta i denti. E si sente terso.
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Si battono con fini
Ci difende un confine sorvolato da sortilegi del cosmo a velocità di fuoco, a pieni polmoni. Propagandano piccole lampare infettive - che chiamare batteri è dar loro la nostra origine a mala pena. Di questi tempi passano idee vuote sotto la cappa di mondi venuti alla luce per delazione di forze oscure. Chiedo un’isola che s’incagli a riva ad onta del tirreno congenito, o balcone, su cui traverso gli immondi stellati da uomini laddove il sole snocciola a pappardella le sue visioni. Ed io sempre più sono un clandestino d’amare come chi è messo sul mio stesso piano: siamo tasti e poco altro ci rende strumenti oltre le note in calce.
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Fatti in là
Ricavo un antro nello specchio prima del letargo inappellabile, come tutti del resto in questo tratto che sempre più approssima a brutto muso la sagoma delle arcate dentali e più vicino è, rifletto al confine delle date, ai santi apostrofi del pensiero perso, ai licheni e alla cenere che li apprende, proprio mentre l’atmosfera incarna un nuovo scompartimento di ferie. Molti lì dentro si stringeranno all’onda, altri alla medica e alla stella, qualcuno cadrà nell’incontinenza dei germi e forse solo cento faranno posto ai seguenti venti. Ma ti ricordo come eravamo: lungimiranti fino al naso, più in là brevilinei, volitivi dalla sera in poi, con la lingua che faceva spazio ad altri mondi che si dicono agli intimi; e qui e adesso non ne rispettiamo il metro.
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Il salto di vino
Lo riteneva un segnale risoluto, una rappresentanza viva e personale come l’ombra e l’impronta. La pelle è una sacca nell’aria, si disse, in cui finiscono organi competenti: sapeva anche questo mentre lo faceva. Ma di essere bianco o essere nero, alla polvere che indossa il respiro e infine cerca ricambio nel sole, che importa? Poiché niente è bianco e nessuno è nero, piuttosto tutti tinte tenere, o pressappoco, lascerò che si interroghino fino al crogiolo sulla tentazione dello spirito: quello che, attenzione!, va sotto ribolle. Per millemila secondi misurò le gocce e millemila tra vasi a fiori ad ora.
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Le due sul molo
Quando ci arriviamo Dobbiamo confessare che siamo il possibile Siamo il miracoloso, la vera meraviglia di questo mondo. Maya Angelou da “Una coraggiosa e sorprendente verità"
Magari il porto turistico è un bel posto per barcamenarsi. Magari lì non costa. Ed è noto il calmiere dell’onda diffuso dalla sua altezza quando si avventa e i natanti ne tengono conto e sembrano piastrelle smosse ai piedi del promontorio. Sono le due. Si direbbe oltretutto che qui stiamo ad aspettare un treno. Quelli così veloci da portarti qui prima che io ti veda. Se non ci fosse la pacatezza del pomeriggio, che cala l’amo nella sera e abbocca il fresco con l’argento alle calcagna, come insabbiare la paura di perderci? Era la tua mano un sollievo e scoperta riva nella mia mano. La stessa mano in apnea nel sudore adesso, tra millemila esempi che a memoria si muovono. Parlano di fare mente locale nella marea.
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Nessuno ama la tempesta
La tempesta scatena la sua rabbia naturale. Entra da una finestra a rombo spalancata, da un punto cardinale tanto ampio che avverti tracimare il vetro nonostante la sua lucidità. Tempesta che aggroviglia le emozioni al coperto, convoglia i toni e li staziona in noi. E, se ci fai caso, rimanerne fuori è tenersi dentro l’insegnamento più efficace della furia diffuso dai banchi del cielo. Se cadessero quelle gocce nere dai larghi calamai che chiamare nuvole fa specie, maturerebbe la meraviglia per come tracciano le verticali che in seguito scopri fiumi e oceani. La sciarada del vento sembra far ricorso alle sillabe d’acqua per una soluzione che faccia luce.
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Giovane a venire
Prendo dal caffè una parte da lattante che schiuma almeno un dito ed una ad occhi serrati, con le palpebre al limite. Esco dal seminario di creative writing dichiaratamente zolla rivoltata: la parola è un vomere tirato da buoi, un testo è lo stagno in cui le mie papere somigliano ad ogni altra vita con i dovuti lustri. Ma la scrittura, ullallà!... Scrivere riporta l’impeto dei sensi ai bianchi di scuola - che poi: siamo tutti corolle in cinta allo stame giusto? Prato, sì, prato al verde, pieno di corrimano delle formiche con l’umore di spillare borbottii, e nel silenzio dei tuffi secolari la sera distribuisce l’atmosfera come fosse stato visto violare.
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Fino alla noia
E che io possa vivere a lungo per ammirare quanto bene le tue poesie accendono il fuoco. Dylan Thomas
Passiamoci sopra. O l’una o l’altro. Bacche sul mare, finché possibile fuorviare il rancore dalla pupilla. Trabocca e ciglia dove rugano i giorni con lingue sostanziali, somigliandoci sempre più all’aspetto che dovremmo ricordare. Mi credi? Le pagine non bastano a spiegarmi. Non ci sono parole o sono Temistocle nella gola e prendono posizione con oltre molte lettere di cordoglio. Chi le ha battute tutte? In una volta la timidezza fa da chiave. Prendi i me, prendi tutti i me. Sono cose cui dare fiducia in te. E riceverne. Grazie per la confidenza, ma torniamo a lei. Siamo, diciamoci la verità, come uccelli che mutano le penne e le abbandonano per altre sfere. La poesia è difficile. Tocco il tasto solitudine con il dito salvavita: l’indice del motore di ricerca. Uguale per tutti. Di solito, le bocche nell’aria si concedono ossigeno, la mia asciuga i panni sporchi che si levano in famiglia. Dal terrazzo vedo la terra che si consuma mentre Nina mestola l’aria col panno unto. Mestola non è vocabolariato, e nemmeno vocabolariato lo è. S'inventa l'inesistente mia sorella, celebre imprecazione del luogo. Il prezzo degli affetti è volgare. Questa rissa mortifica i cortili: discorso vecchio: sono gli stessi luoghi in cui si sollevava/solleva l’avambraccio di Cesare, opponendo la stola allo strazio della lama con vento? Così gli imperi si disfano, andando a ritroso, dopo qualche generazione di sventurati. La cattiva notizia è che attraversiamo la ferita del male con un fraseggio incapace. Passiamoci sopra: la lingua audace porta mano a mano le cose alla bocca.
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Per poterci stare
"Non è ancora possibile affermare perché i calabroni visitano i fiori già sperimentati da altri insetti, ma potrebbe darsi che ritengano la presenza di un altro calabrone un'efficiente scorciatoia per il successo." da lescienze.it Riposami. Il braccio sotto il capo di modo che il sonno sia retto mentre curva l’ombra il primo sogno disponibile e sguscia un calabrone tra due gambi visitati. Il celebre magnete del nettare attrae oltre le spine chi passa a vie di ratto. Il calabrone si sforza e stantuffa spiegando le ali in un modo che l’ombra riflette, tuttavia gli elicotteri, imitatori di razza, dimostrano che il veleno è nell’aria. È un’ammissione cui pensare: l’ospite entra da una macchia - o ricordo o spina o batterio - e si adegua a tal punto che diventa noi per il numero delle sue repliche. Lo dico da ospite. Lo dico da mondo consumato in un mondo di sole parole, ma non c’è verso che mi abitui alla sua dinamica. Sogno davvero di girare al largo dagli anni che mi diedero i Pesci? Oggi è un parapetto dal quale mi affaccio e il fondo, che mi alza, a stento legge. Sono il comandante dell' onda sull'onda. Scia nella scia inattaccabile. Seduta stante, l’anima fa quadrato. Da qui l'approdo ci salda. Del comandante si perde traccia ed è sbagliato credere che l’orma resti sul litorale: lascia una lisca limata dalla raspa della risacca, ma conta aver attraversato tanto con un guscio di voce.
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Il reduce
Ci salvammo a stento. Benché quasi tutti le sparassero a salve. Meglio in saluti che gli alberi le poiane le tigri le megattere e tutta quella vita possibile gettata al vento. Sparavano ben poco per la verità, ma in numero superiore a parole. Colpivano in modo sistematico, tant'è che sostituirono le aste e, moltiplicandosi, ottennero di dividerci in cortili. Non funzionò. Sfuggii al limine del divino. Se ne trova menzione in testi sontuosi con gli indici che prevedono la direzione dei passi - nei bei tomi, o nella mens sana in torpore sano, la parola sazia a stento. A lungo, però, gli stenti fecero da trincea salvandomi dalle cariche e dalle bandiere. Non morii per ostensione. Acquattato nella buona condotta, sostituii il salmo con alcuni composti a distanza. E vennero profusi come sorrisi aperti meno di lenti stretti, ma più efficienti di altri raccoglitori diversi. Credimi: furono date parole anche a vuoto e mutando la lingua qualcuno saliva senza apparire altro.
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Horror vacui, M
Il vuoto ha perso il passo e non si muove foglia dove il vento non coglie. Da giorni qualche anima fa fatica a restare nei vestiti. Da giorni, ovunque non pare il posto giusto, ma mi richiami dal calendario immane. Porto fiori al tuo ritratto? Ritratta, sarebbe magnifico. Ricadresti a me. Al cielo non guasterebbe un soffio in più. Non così altrove: dovrei sollevare il marmo per ridarti la volta del respiro, però il profumo avvertirebbe gli organi che tornare è l’idea fissa dell'amato gene per il bene amaro. Allora penso a te che scorri nella radice opportuna. Che mi avevi detto? Mi consumo; e tremavi: vaga fiammella che ancora metto a fuoco.
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Tableau vivant
Ha saputo vedere il bosco in un solo ceduo - vedeva lontano, con altro senso, a lungo andare. Ha esaltato il temperamento dell’universo da fenomeno a corrimano. Questo è quello che tace nel caos e non è ancora ammutolito per intero. Questo è quello che ti serve, scrisse. Dov’è dunque il boscaiolo, mi chiedo? Il rude speranzoso è stato il peggiore ufficio di collocamento di forza lavoro, naturalmente. Compito ingrato il suo: rispondere al telefono intanto che innaffia il suo alto piano. Perciò è rimasto fuori, dal mondo dei piantagrane che lo irritano con la pratica dell’autocertificazione. Una burocrazia di pergamene sommerge i chiarimenti: in pratica, la luce che passa dall’inchiostro in veste di gomma. E carte stupefacenti, da millenni, gli costano un oppio della testa: la pietra dava più tavole talvolta.
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Colto senza ragione
Voglio solo parlare semplicemente: chiedo questa grazia. Giorgos Seferis Per bontà orografica qui il clima prende ordini dal maestrale fino alle 17. A quell’ora il golfo schiuma il suo plissée. Se vuoi avere un oceano, slaccia la cinta dei monti, affonda un'isola, scosta il braccio del vecchio continente, e lascia calare sullo sfondo i rossi su dozzine di dettagli. Case diventano occhi per occhi di gatto. Ma alle 20 resta la luce sopravvissuta, teneramente sparsa da ritrovi particolari. Dentro di me lo spirito rimasto fagocizza lo spirito passato per quel meccanismo atavico che copre i lasciti con l’oscuro. Tuttavia generoso perché insieme scompare il tempo perso. Il traffico è sporadico e si può fermare piú a lungo l'attimo. Si contiene senza fatica ai semafori che contano i secondi secondo la loro tabella e ne danno consapevolezza ai non vedenti con un esile bip di fretta. Chi può vedere la luce è abilitato all’ascolto di coloro che sono nel buio. Ci sono venti che non durano a lungo ma più del metallo che fiorisce ruggine sulle maglie del recinto di una ex fabbrica marzotto. Ehi! Un gatto abita quel cortile, si struscia, solleva la coda e mostra il culo che culo non è ma papavero cupo. Sbeffeggia? Gli parlo nonostante il rumore di fondo: insegna come essere con una lingua sola isola a turno.
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Prova del suono
Puoi non crederci, ma mi sento a brandelli. Mi sento tante voci con la mia come rotta. Sono lontane dal mio percorso e nemmeno sanno di aver lasciato ceneri del bivacco. Come in un accampamento si affollano all’ingresso e non posso fermarle. Al limite, mi apposto. Sono a pezzi. Sono reduci, in attesa di scomparire. Puntualmente trattenute dall’anomalia del polso che si batte contro le misure dell’orologio. Ora, quest’ora, è una carezza, non dura, eppure ne sento la forza esplosiva, contenuta del manrovescio, te ne rendi conto? Le voci leniscono la decadenza del tempo - in questo modo mi prendo cura dello sfinimento. Penso al mondo come una cattedra davanti la lavagna: qualcuno detta e su di me scrive e cancella: una violenza inimmaginabile! Penso al mondo che si scopre e lascia noi a fargli da ordinatori, come se un soffio possa riaggiustare la sua capigliatura aborigena. Siamo voci? Disperse nell’aria per trovare sostegno? Siamo aquiloni? E se poi l’aquilone sbanda e taglia la corda, la corda si divide in due: cosa trattiene e cosa lascia andare! Un esercizio ambiguo di legamenti al dipartimento della roccia e della goccia con quell’ansia di penetrazione congenita nel torace e altrove, confezionati dal sole che monta in calore se il suo raggio si posa su certe curve, come dicono. Ma è il petto la cassa più battuta dal tempo. E si risentono del presente ad una voce - le voci rimanendo a cenni.
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Come trovo l’alba
L’alba è comparsa. Sai quando appare? Come esce dal buio questo fantasma quotidiano? L’alba ha spirito da vendere a chi ha sorrisi in tutto il corpo, ma è una successione di contorni soffusi: le anime variegate mentre si formano incontro. Si formano pur non avendo forma, non è divino? L’alba è quella donna che libera i capelli, quindi ingarbuglia le dita per farne trecce, le annida sulla nuca con forcine lunghe, come denti da latte che celebrano lo stridore, ne fa un toupée - biondo netto, preciso con striature squillanti... Non è divino? Lei li portava leggeri ed era nel vetro il silicio che taglia a segmenti il maschio raggio. Entrava da destra, lì in fondo, dove la porta è tra due colline: a destra, fronte a nord, tra due caseggiati, due alte guardie piene di cordoni lucenti. Finestre, finestre delle quali aperture è sinonimo di giorno pieno, superata l’aurora, da cittadina di rilievo, col buon caffè che prende piede ovunque. Un gorgoglio da cucina in fermento, dal becco della moka, così lo spirito prende gusto dal nome. Infine, con un tripudio di convenuti intorno, si dà un senso. Lei esattamente non c’era - esattamente misericordiosa, intendo -, giacché per essere è giunta alla finestra. E gioca coi corpuscoli della luce dimostrando che il raggio può mettere mano sui corpi per misurare l’anima a chiunque. Io, rintronato adesso più dal vuoto che dal traffico, sono in tempo, troppo a lungo per un poco.
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Piccolo mondo infido
Dato il congegno di protezione, la chiave più ovvia è liberare il pensiero come riflesso dalla fonte. Sono anch’io un virus e che lo sappia o no, l’universo mi ospita con cura. Il rapporto di similitudine con la minaccia attuale è uno a chissà quando - si può vedere il tasso in una proiezione del bosco. Direi della misura, ma mancano indizi, giacché le ombre gettate dalle stelle non fanno scintille ma buchi neri. E di questi si osserva solo l’ultimo orizzonte: l’evento dilatazione in corso. Le cellule saranno pianetini, immagino; e intere nebulose girano in questa forma che sono. Ci sono nane rosse nelle vene, plasma e orbite sussidiarie fanno il resto. Sono un universo in cui i virus hanno atteggiamenti da uomo. Infidi, speculatori, assassini e distruttori fino a demolire la loro abitazione perché gli ospitali diano spazio agli immobili.
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Baba Jagà
Proprio stasera il battito è impazzito. E non è da te, cuore in saldo. Se hai tanta voglia d’aria, ti cedo a un corpo forestale. Allora, che? Un motore deficiente: lo stomaco. Il mio guarda avanti, oltre la cintura: il temibile orizzonte del vino e del piatto. Una locomotiva a stantuffo vaporizza il centro del torace. Contiene una salita, un vicolo cieco, un vero budello; ed è una vela, una vela alle prese con un uragano, schiocca più di una notte in bianco al buio. Strano come la speranza si riduca a un suono d’allarme che scemi i pensieri. Il battito è nello strumento con un numero di petali invalidi a primavera. Dovrei cercare insetti romantici, ma ascolto soltanto un cicaleccio apotropaico che lo misura a rotta di balle. Vorrei un filosofo, adesso; o un esperto d’anime. No, non l’estremo untore. Ho coscienza che il suono modifichi il tempo: me lo allunghi e lo esasperi sul lenzuolo trasformandolo in garza ladra tra le pieghe in tensione. Cinque ore in codice giallo, trasposizione cromatica di un pronto soccorso privo di fuori e circa mille fantasmi appassionati di nuove figure. Dureranno meno del virus sul vetro, ma contagiano un fiasco divino; in un modo o nell'altro la preghiera ci rende soli. Scioglie uno spettro, ma le catene non spariscono così facilmente. Tirano, tirano, tirano. Rinfocolano l’unico pensiero che fa il mestiere di uomo nero. Che cosa è la paura? Ah, mistero! Sembra abbia il respiro della salvezza. Se non fosse chiaro, la paura mi ha messo gli occhi addosso, per fortuna.
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Virando controvento
Se galleggiare è vivere ondeggiando, preferisco interpretare lo scoglio come posto di blocco in questo mare che traffica inutilmente sale sulle rotte dei mercanti del banale. Flottare? Pfuiii! Mi piace la clausura nel convento dei pesci. E più vanno in profondità, più sono eremo. Sarei così un chiostro eroso e consunto, debilitato ma sano fino in fondo. Ai piedi della darsena o, magari, in un seno che mi lasci di sasso. E se il leviatano viene da levante col subdolo mezzo di un eee-tcì! o uno smackk! io vorrei sentirmi la compieta della spiaggia sulla quale si frange - o, come pare venire da questa immensa rena: nelle tue mani affido il mio spirito, alleluia, alleluia, alleluia: tu esisti da te.
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Come viene all’oca la pelle d’uomo
Corro sulle pietre; e le smusso non volendo altro che carezzare la terra il più tardi possibile. Tardi è per l’ora, per il qua qua qua nel mio cortile. Anche fuori: ovunque l’oscurità abbagli, la notte coglie le foglie con buona voglia. Io, un ramo di come. Sono le due a.m. continuamente, per amore di l’una e l’altro in pieno corso, la mia acqua fa i conti con i galleggianti. Molti di questi invitano ad un’esca di scena. Qualcuno è un verme, ma sostanzialmente l’umanità è un’opera a ciclo aperto. Dichiaro che scrivo solo perché sono pennuto. E scrivo sapendo che non m’innalza affatto: le ali affrontano le aie per liberare il cielo dall’ingombro dei volanti, ma sono ottimi manubri per l’equilibrio in terra. In teoria, certi voli raggiungono altezze eccitanti; quindi: o la testa tra le nuvole o dentro sogni. In quest’aria che lascia fare a cuor leggero viene la pelle d’uomo. E viene sia la terra che l’acqua come pompieri all’inferno. Ecco il fuoco. Arriva il fuoco senza fiamma: lo strepitìo mette il contagio all’opera. A questo punto, entro di diritto nella fisiognomica con il vezzo eterno. Si dice che nulla duri per sempre. La pelle, ad esempio, perché muta parla del tempo? Sono palmata: vuol dire che l'acqua è un deserto? Starnazzare: com'è che ci fu dato un solo verbo? Sappiamo che non è vero, sappiamo che ne abbiamo ma la coniugazione misura a mala pena i toni. So della costruzione dell’Universo con la faccia tosta di un Botto solerte e, più precisamente, la luce è cinica con la lanterna: tanta fatica per qualche bagliore nell'immensa tenebra, per dirla in breve.
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Come viene la pelle d’oca
Nel padiglione del laboratorio le antenne contano le formiche diviso due. Ma qualcosa le moltiplica per la regina. Una trasmissione netta, penso binaria, assegna gli indirizzi con il gusto del posto. Così i tassisti si combinano come imenotteri e in viaggio seguono corsie usurate, ma indiscusse, agevolate dai segnali degli elettrodotti da tastiera. Non c’è il sole tra questi. Anche la polvere ricorda una cordigliera in fin di vita. Le cose stanno così: nell’universo corrono più formiche che innumerevoli corpi, eppure solo i tassisti guidano veramente per i passeggeri, sicché il tassametro segni il valore che non si perde ancora. Quest’ultima notizia somiglia alla prima data, e la pelle muta. Si impunta.
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Con tutta la forza che ci fonda
La distanza tra l’ape e me è abissale già a salve. La saluto ora che si perde, e direi che avanzo nel soliloquio. Ma la distanza non è nelle ali che ci misurano nei salti. Talvolta in alto. Come copula dell’aereo. Salta agli occhi questo divario inumano, certo, ma insufficiente a tenerci lontani. Insetto meno di me, ha ragione dell’impero del vento, poco attore ma tanta scena. E non è ancora abbastanza. Cosa manca allora? Sono convinto che la distanza stia tutta nella cura maniacale di diffondere i petali, possederne l’alfabeto e imbrattarsi dei contenuti: l’ape coltiva il linguaggio efficiente, invece io - e con me il potere, l’epica e i sentimenti - trovo comprensibile un linguaggio solo nell’aria viziata. All’aperto mi colloco tra i semi incoscienti. Coltivo la loro stravaganza: quella nettezza, quella diversità di infilarsi nella terra in altre parole.
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Chiara testimonianza in vita
Alla luce del sole il profilo greve è l’unica valuta su cui conta il tuo stato per il dovuto. Sei insoluto: che speravi? Altre domande salgono a galla e stanno bocconi. Come un mare tra i denti? L’ombra sull’acqua convince uno o due risposte a stare fresche. Cannizzi che inquinano. Tu sai che ogni morso riduce il biasimo della fame, e per questo, ovunque, la denutrizione avanza. Dio butta un occhio alle bocche che non mancano e dà una mano a chi le usa ancora. Un’ombra è un esempio curioso della sua chiara testimonianza. L’ultima che si mantiene è una raccolta di punti premio, un borsellino di risparmi finché potrai spenderti. Non sopravvivere coi resti.
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Non fare che passi
Scavo detriti perché ogni storia è un alveo che tracima fonti senza tregua - quel che raccogli dal calendario è il residuo delle date - e scopro che ogni gesto di passaggio perdutamente adultera. Così l’uva matura zuccheri fino a seccarsene. Una farfalla frequenta il glicine per sporcarsi. L’amore sta a lungo nel corpo per includerne un altro. È un oceano il pavimento quando sollecita il piede. Lo inquadra e scatta cento orme in sequenza ma nessuna fretta porta ad affondare: emerge una sinuosità adattativa che ci tiene a galla. Questa similitudine è migliore delle pinne se navighi in cattive acque. Ma non giustifica la congettura che un altro secolo è passato di qui ed io con lui padre di questa traccia. Darsi da fare altro è una sollecitudine che muove solo aria. Come scriverlo senza dilaniare le carte? Non sono capace di amare i solitari, eppure metto mano alle labbra.
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Costolatura del battito
Dietro le bandiere si spostano le montagne; e dove arrivano le vette si piantano bandiere - ci sono catene che non smettono di legarsi. Ma tu che puoi toglierci l’urlo in pieno sonno dacci oggi l’armonia che intona lune e soli. Oh mamma! o-oh! e-eh! Cantava da dio. Lo davano per morto, ed era morto, ma ci dava dentro con un bel sentimento. Era un crooner dietro la patina celeste tra l’acquasantiera delle nuvole e l’ombrello di ceri che non vedono e non si sentono. Roca, sofferta, incendiata, la voce arrivava al fondo della notte dove sedeva di guardia per il suo regno e il pane quotidiano. Quella notte la riflessione della luna era il più lucido vincolo al sole. Qualcuno diceva “si distende sul mare quello che sta in cielo: se l’anima è a strappo, l’effetto ci toglierà il fiato”. A questo punto l’uomo batte sul tasto canc, sicché la frase “farò meglio domani” è già diventata pura intenzione. Oh mamma! o-oh! e-eh!, cantava; e noi dietro come i luoghi che appaiono nel nome dei santi simili a boe che legano al porto ogni essere scafato se, navigando, ha seguito una stella. Così niente resta nel panorama passando per il vetro, tranne la pagina densa e disordinata che le voci indirizzano all’occhio. Il cantante non scrive quel che canta bene - lo ha già fatto meglio la boa, la stella, l'ombra - o dal basso verrà chiesta un'altra riflessione. Oh mamma! o-oh! e-eh! La notte piena e la maglia ubriaca hanno un tono confidenziale: intimità vocale che ti rende splendente. Il sottile velo del vetro tra noi amanti copre la prima amata: il buio appare alla punta del dito non le lune e i soli come indicato.
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L’orologio è stato
Ti interroga sulla vita: come non dargli corda? Suona ora dal quadrante numeroso uno sciame di tictac, nettare allo stesso tempo. E per sette sere di seguito percorse da un capo all’altro del contegno perso, tumefatto da lancette: ore e ore in un alveare di cemento - la regina assente. Passo in tempo, ma vado a momenti. Non è argomento da prendere con le molle. Un collo di bottiglia a perdita d’occhio, la finestra. La fronte è un calderone, avverte il nulla pungente aguzzino della mattonella, frustato il pavimento, sommesso il gemito. Non bussare oggi, non bussare dubbio. Il nulla - non è per qualcosa - è per niente comodo; io ho letto di noi, del resto, della fuga, del cielo, dei santarelli; il nulla ha regole che non speri di mantenere in vita, né ai polsi, né alle costole. Esalta l’incoscienza dell’universo: gli occhi da stella sono uno schianto a vederli adesso. Dov’era il caos, rimaniamo svegli. Noi, non la mosca, non il cefalo, non la rosa né il pappafico a pensarci bene: tutti nello stesso calderone con coscienza o senza. Il creatore, se c’è, non sa di averne fatto parte: l’opera sarà completata in seguito dai suoi aiutanti prediletti: noi, l’acqua, il vento, il fuoco, il cinemascope. La casa fa da coperchio alla via così. Il pavimento ci chiude tra falesie segrete, neppure erose dall’onda sospetta. Onda? Ombra? Amor mio? Sei tu quello che mi batte in petto con un soffio congenito.
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Non mi toccano altre terre
Saranno anni che il vento controlla le tentazioni delle vele. Ne viene a capo dando loro una pancia. Un apprendistato da porto. I marinai sanno che il sartiame è una guêpière della bella randa - e l’avvolgono. Tu osservi che un triangolo di stoffa ben portato ha un effetto di spinta naturale fino alla calma che isola - è nell’amo che il naufrago vede sostegno. Si dirà: è questo l’attimo bitorzoluto. È il momento questo delle propaggini nude e delle scaramucce sotto coperta. Ho uno sterno fatto a chiglia, due scalmi sotto le ascelle, una poppa da atleta, muscoli legnosi: sono un battello in secca - o, almeno, verrò a capo con la pancia, ma sono il vento il cui soffio è la mente del golfo come si dice - e guarda cadere le braccia che portano pioggia: niente liquida il cielo più del mare che generò.
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Prima di saperlo
Penso a te come circondata di nudi. Che perdono gli abiti propri ed alla tua presenza si rivestono di conoscenza che resta. Gli oggetti sono investiti di te. Questo luogo ha la tua identità. Le date, ad esempio, vengono da numeri ripetuti e si ricordano per gesti. Così piena la mimica del calendario fa la fronda di luci in città e lungo la strada pezzi di Natale normalmente si alleano alle ruggini dei rami e provocano memorie che si riducono in me - è piccolo questo me quando non ne prendi parte! Più si avvicina un uomo all’inverno e più ferocemente trattiene la foglia che mantenne il pensiero alla chioma. Ora so: intorno alle radici gira voce che i frutti dell’ultima stagione cadano da un cielo irripetibile. Prima di saperlo, chiedevo da non crederci.
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Per parlarti ad ora
L’udito accompagna le parole più ascoltate con una nota consunta, le più belle sono stazzonate. Tutte dal lavabo della gola alla scorreria al sole. Pericolosa: mentre si asciugano dell’umido, restano appese. Ai tuoi occhi sembrano camicie con i polsini risvoltati, ma sono tute da lavoro con le alette sollevate. Hai saputo di me che le stiro. Ne stiro molte, e tante - troppe - metto a ferro e fuoco. Quando poi ferro e fuoco sono mente e cuore il territorio che va in cenere è questo foglio - o il mio quando passeggio nei tuoi silenzi.
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Come mostro in tempo
L’attrazione è una turbolenza del sangue che scuote i sensi mentre volano parole dagli occhi aperti. Una fuga come un’altra. In un posto aereo. Un contagio a vista per il modo con cui mischia le parti. Questo è inesprimibile con una metafora, però è vero che il rospo e la principessa non si attrarranno mai. Perderanno entrambi e lo stagno manterrà le distanze. L’uno nello specchio che lo trattiene, l’altra respinta dal brutto mosso. Che bacio si vede se un'ondata irresponsabile agita ogni riflessione? Guarda noi: come ci tocca l’affronto. Della principessa paludi dieci decimi di sembianza e lisci capelli. E sono poco di te. Poi, nessun’altra pelle sostiene la pelle meglio delle tue carni avvolte. Per quanto mi riguarda, sia la bocca matura che il cuore folle si mostrano in tempo.
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Da che parte il mai avuto
Che cosa manca nel sacco del giorno? C’è luce che non dà modo di amarla e stracci che non si asciugano come furono cuciti atti per dare una forma alla festa che dentro si tiene. Anche così, non pensare che sia meglio l’oroscopo dettato da chi vede le stelle con lenti lenti allineamenti che non ci prendono. Il mattino dopo la corsa delle nuvole rilascia visioni che la notte considera gettoni nelle mani di un croupier. Uno di noi disse, all’amore perso: oh perso amore! L’altro capì dell’altro. Chi dei due ha l’anima più eccentrica? Dici di te: ho visto, e non occorre aggiungere altro: la vita va di fretta e tu, prima che poi, vuoterai il sacco in terra. Che male c’è osservo.
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Il vecchio senti mento ancora
Che chiedere all’amore maturo? Torna sui tuoi passi al punto in cui non lasciavi orme; le pedate erano a mezza aria sullo sterno ottuso. L’amore è più largo di tutte le bocche che incontra. Marquez racconta che in un angolo del mondo accade all’improvviso per una volta. E non è piatto, e per niente infinito. In questo angolo tu non vieni più. Hai fatto posto ad altro e quindi posso trattenerti soltanto lo stretto necessario nel sogno e nel bicchiere. Nel tempo come momento sottratto c’è l’ultimo bacio con la luna storta. Mio desiderio deluso, che ti aspetti? Devo alla profondità della solitudine la mancata chiaroveggenza del vertice che impone di sporgersi sul precipizio per sapere il punto dov’è: è dove tu manchi ed io suppongo viva un certo me che perde luce.
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L’affondo
L’aria si è svuotata delle tue spalle. Poco altro può reggere il confronto. Alle tue spalle la circospezione dello sguardo crea dissonanza tra le cose residenti e l’ampiezza del vuoto. Non più la chiglia del naso, non il cilindro della gola, non il contagio della voce. Diverso è il disappunto della soglia: come traguardo; pertanto, sei vincitrice attraversandola per il mondo. Vorrei la stessa ansia che ti allena. Mi privo del carattere se vuoi. Non bacio la vocale sulla bocca, non uso il labiale sul seno, né il morso tamburello sulla schiena. Se gli occhi fossero fuori rotta io sbanderei e dovrei agire subito sui vani che ricordo cosicché il cuore sfegatato non affondi negli assenti.
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In nome e per conto di LUCA
To last universal common ancestor (LUCA) I La fonte è il dato in comune. Dopo, lo spartiacque del nome aumenta la portata della mutazione. Siamo il delta del fiume dei morti? Io sono sicuro di aver trasformato i morti in forza; e da morto manterrò in vita chissà quanti elementi. C’è un monòmero tra i miei avi: una tessera del mosaico come figuro. Figura il tempo necessario in forma. Anche di millepiedi. O di trifoglio. È indipendente da me. È una scala o un ascensore in funzione. Funziona da dio quando prova i vestiti nel suo camerino all’oscuro. Che parte interpreta? Chi lo osserva con attenzione ne diventa l’automa. Non ho saputo scrivere quest’ultima parola come libertà del luogo. II Chi diavolo mi ha messo la carne intorno? Non sapeva che è la scusa della polvere per abusare del verbo dell’argilla? Posati. Per ogni dove ha scritto come andare fino all’osso. Sono una bottiglia con una rotta. Un galleggiante di vetro con lo spirito giusto. Questa forma è inutile se affondi. Ha percorso tanta strada tra luna e sole. La mente era vigile soprattutto negli incroci, per quanto la rotatoria del cuore disciplini il traffico degli stimoli nelle strade ottuse. Ho un corpo intessuto di vicoli ciechi e sono una città boriosa con più luci artificiali che illuminazioni spontanee. Eppure, l’illuminazione prende la foglia che bestemmia e zoppica in volo e si avventa e si avvita come un'ala sola, poi si rialza all’ordine del giorno.
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In seguito al lontano
Il polpo trovò la sua polpa consistente e potè mettere al mondo i polpastrelli. Alzandosi da terra, l’aria - meno nota dell’onda - gelava gli strumenti a fiato. Fu l’astro d’oriente a fare il nembo in mille pezzi sulle nascite incessanti che vestivano verde l’argilla e la silice, mentre per loro si dovette aspettare un collo intero un polso un dito un voto perfino la borsa di madreperla. L’acqua si intestò ogni maternità occorresse per rendere utili le fontanelle, mentre l’oceano era percorso da brividi dovuti ai continenti che andavano facendosi paesi. Ondate di gelosia sulle traversate accordarono i meravigliosi generi nascenti alle nuore miracolose lasciate a terra. Si separavano le famiglie meno dei viaggi o del piacere in quel senso. In seguito fu dimostrato che sulla roccia si poteva edificare la residenza di un tale ministero e, come un ben servito, vi scrissero le leggi più pesanti dell’universo capaci di dare un tetto anche alle stelle. Cominciava così la favola che ha dettato la vena, prima che le penne scoprissero che da sole non farebbero il volo.
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Paradigmi di autovalutazione
Un uomo è solo nella misura in cui pensando ad altro nessun altro lo consola; di solito una porta chiosa. Un uomo è vuoto nella misura in cui il pensiero parla da terra; di solito la parola quota. Un uomo è immaturo nella misura in cui chiede una mano abbracciando l’idea di possederla; di solito la porta aperta. Un uomo è debole nella misura in cui la lingua è un nervo a fior di pelle; di solito il muscolo tace. Un uomo è vile nella misura in cui il fegato si riduce a palle; di solito controlla il fianco. Da uomo ho fondate ragioni per curare la manutenzione dei miei congegni.
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Esito nella passeggiata
Camminare allunga la portata dell’orologio mentre il polso della prima ora non è più. Guardarsi intorno è terribile perchè non sei compreso. È vero, però, che gli occhi vanno a fuoco lenti, lenti spesse e volentieri. Ovunque li poggi restano a fissarsi ma ritornano lucidi. Domani appare come dovuto torna sole. Da un lato spiaggia che scivola nella clessidra fino a farsi fottuta; dall’altro, strada che fila via subito. Ma è bello il chiasso dei motori furiosi, anche se è l'ingranaggio che consuma il mondo. Intanto i miei passi cadono come uccelli che a mezzo volo se la fanno a piedi. Piombano sulla terra per niente rotta. Così, trovando ancora tempo nel cammino, entro nei tuoi occhi per cercare una poesia. Non la cerco in me, perché non c’è. C’è una lanterna analfabeta che impara la luce come tu me la lasci vedere: da barlumi. Prendo parte dei tuoi rifiuti. Questo il cammino fatto, forse la giusta cura. E che tu ci creda o meno, sono un bruco nei solchi del tuo campo visivo. Dove ognuno si pianta, senza dubbio, nel verso che ha già pagato sull’unghia.
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Congedo del riccio
Il contegno è necessario. Ma non è una posa l’aplomb del bosco quando si celebra il ritorno del sonno. Il bosco calmo è messo a nudo per il più antico rito di abbassare la febbre di stagione. Il bosco, che se ne sta andando a dormire, finge di preparare la sveglia. A me piace rintanare a novembre. Nel legno come sottoterra dormire è un poco morire. Sì, la durata non coincide, ma rende l'idea. Fateci caso: Lazzaro è l’unico ad alzare un dito. Quanti Lazzaro conosci? Nessuno, ma tanti sono nei racconti e ne escono vivi. Questo suggerisce in realtà di aggomitolarsi con la mente in un libro. La mente è un polpo, un ragno, una televisione. È sveglia e pone domande di rinvenimento al sangue che la mantiene. Gli aculei sono una copertura. La nostra naturale finzione. Rannicchiati rispondiamo male, come quando aggrottati manca la luce, ma distesi non ce la caviamo meglio. Lo sa bene la volpe che ci orina addosso; non offende, chiede di abbassare le difese. Quante Nazioni si voltano e non si rivoltano? Quante tane sono invase dai cingoli? Quanti colpi bussano? Penso sia il sonno a scioglierci per intero: il gelo della veglia al fuoco ci intona al tronco. Gli inverni che verranno si accorciano indosso.
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Tirata per i capelli
Eravamo in testa. Con uno scarto bruciante la ciocca ricadde come un arco costituzionale a disagio sulla moneta, glabra al centro. Perché no? Rifletteva il cielo annerendo o si copriva. Tocca ad ognuno cadere. Impariamo solo così facendo il bavero e la pochette. Non è abbastanza sapere che aria tira, ma è sufficiente poter contare sul capo. Già... Il capo! Qualcuno lo avverta che Dio è qui… E si traveste a stento. La stessa anima tiene conto dell’apparenza, ma in buona sostanza è presa dai capelli la sua legittima conoscenza. Come ogni radice, il bulbo paga la debolezza dell’essere. Su, gente! Cerchiamo la carezza a dita aperte. Questo il nostro manifesto, così che il cattivo pensiero lasci il vuoto e con buona cura si abbandoni la permanente ansia di darci un taglio.
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Dialogo tra le claveline
Muoviamoci in sincronia nel flusso e nel riflusso, amiche. Mie, loro. Non siate dure, ma resistenti. Così è la storia sommersa quando parla di voi. Quanto più corta è l’onda tanto più il movimento spazza il palco marino. Sul fondale c’è tensione. La fanghiglia si solleva e rivoluziona l’armonia, la platea non ci sta, ma resta muto il branco di pesci. La trasparenza richiede quiete, ma la violenza nel torbido trova i suoi canoni maschili. Eppure, deturpate siamo divine. Poseidone lo dice. Non interviene perché se lo facesse perderebbe appeal tra i suoi sgherri, maschi anche loro. Le chiglie hanno un rapido sollevarsi. Pupille nella darsena che ci osservano. A scena aperta. Muoviamoci in sincronia, ripete la prima. La sorella accanto, lo ribadisce e prosegue. L’oriente propone un complesso di strumenti Danzate con me. Quando le onde assaltano il molo, noi a mezza acqua facciamoci valere. Siamo uno spettacolo della natura, non snaturiamoci.
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Monologo del cefalo
Era sopra di me a distanza di voce. L’onda un ostacolo all’ascolto dall’alto. Non so quanto alto, certo diverse lingue. Dall'alto è un riferimento terrestre caduto dal cielo. Ma il cielo per noi è fine che fa acqua da tutte le parti. Prima, lo ricordo, le claveline danzavano immaginandosi braccia per insegnare flessuosità ai moli. Poi questi preferirono l’esercizio che fermava le ondate. Poiché mi insinuavo in quell’armonia come uno spettatore che cerca posto in platea, non mi meragliò sentire: “Ti prenderò, dannato pesce!”, e: “Sei scaltro, ma tra un po’ sarai fritto!”, oppure: “Stai solo allungando il destino di una pinna appena.” Parole simili nel nostro mondo attirano più dell’esca. E noi siamo cibo che va di bocca in bocca in crescendo. Come una diceria, sostengo. Diciamo - per questo - che la natura è presa in giro ma rifratta: una bella immagine spezzata in diversi punti: la ferocia, il ghigno, la menzogna, e via via di peggio. Più comunemente rumore di fondo sempre in onda. In fondo, ognuno di noi ha in mente un oceano calmo agitato dallo spirito necessario a lasciarlo in pace. Una vastità ridotta a nugolo dalla perdita di significato delle cose quando le abbandoni. Dal mio punto di vista il cielo è a stretto contatto con la fine peggiore ma non la contiene. La contiene la terra che però ci consegna a nuovi verbi; potrei dire volare, oppure fiorisco, perfino di striscio. Ma, ci giurerei, andrà in fumo come dice il tizio sopra di me. Vorrei che a saperne fossero cefali e claveline. Farei un salto di qualità potendo conservare coscienza delle scaglie o mantere insieme elementi con molte attrazioni del genere.
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Non chiamatemi
Ho parlato ai pesci all’aria aperta perché gli uccelli erano già all’erta e non è possibile raggiungerli a voce. Succede quando le mani diventano foce dei pensieri. E i gesti correnti. La testa si sgombra tanto che le parole non affondano e vanno oltre il fenomeno ottico del letto. Ho parlato ai pesci in modo corretto, io sento. Senza mettere l’amo al posto del bene. Perché per bene intendo rispetto e per amo evito pene. Così succede e succederà la bonaccia per queste vele con la chiglia vocale. I pesci - con la testa già immersa nell’inquinamento - si agitavano tanto da sembrare angeli nel vetro. Come se dal vetro potessero mostrarci che non sono assuefatti al silenzio. Ma che mostro dall’essere trasparente? La falsità è una maschera di bellezza o di sopravvivenza. Per l’umano e la belva. I pesci ascoltano? No, ma sentono quello che li accosta alle padelle e si lanciano a nuoto le bocche serrate. I pesci sono riuniti nel grande ordine delle maree, in cui pure la plastica discinta si isola, circondata da cattivi esempi. Chiederò ai sedici petali della rosa che vengano correnti dall’abisso dei venti cosicché almeno la loro accoglienza li tenga al riparo dall’esca: don't call me Ishmael.
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Ad libitum
Venga il Patrono delle viti. Il ferramento dal tannino. A salvare il mio primitivo. Con la sua impossibile trasposizione dello spirito in salute. E sottolineo di questa reliquia il clima nella scrittura. La mano rimasta del tutto. Come direi a saggio e dotto vino. Il rosso è un congiuntivo in carne. Il bianco sofisticato comparve a Cana da un otre; e va otre per la fesseria della mia bocca. Per ora, ti invito a sopportare quest’acqua torva. In comprensibile ora. Il sole rosola, i pampini si slacciano, i novelli s’iniziano al freddo. È sobria la stella creativa, l’astro quando occorre - tranne, lo vediamo tutti, se si perde in nuvolaglia; e sarà tra poco l’ovvio di questa male detta. Allora discenda il Patrono con il dolce di vino in stile nuovo ed un miracolo sulla lingua ci porti. Non è più aprire porte in mente quanto moltiplicare lucernai per le visioni. Quest’organo ci vede? O Patrono. Vede noi da dentro oppure produce solo echi? Apre al cielo la sua casa di giada, risponde. Un pensiero custode, adesso citofono, poi teletrasporto, infine vuoto. Donaci uno spiraglio a tuo comodo, o tu! Graziaci con almeno il segno della comprensione! Quello della compassione sia con passione. Non sempre efficace tra dono e perdono. Tra bue e tue e mia e sia. Vieni ripetendo più sillabe che contano. Sui fondi piatti liberati saltano le voci a consumo (ad lib).
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In parte è tutto
Per quanto efficace sia la scomparsa mai completamente il sangue si annienta. In parte. Lo portiamo a zonzo finché passa. Annientare è tipico di un sistema degenerato in cui "dimentica" è una libertà vigilata. Tuttavia trascorso il tempo per ciò che matura il mancato raccolto rotola lungo la china. In parte del foglio. Se nell’inchiostro si scivola. Chi sono io per dirlo? Quello, in fondo. (NdA: in primissimo piano, il particolare diventa una distrazione dalla trama.) È tutto. È bene che il testo sia sottoposto a prova. Di tensione. Di interpretazione. Se può spezzare la voce. È messo alle corde lo stridore delle metonimie. Ossia: è un peccato ma non una colpa il punto. Una sincope, secondo me. Per grazia di dio ho fatto di peggio. Ad ogni modo retorica è una rosa non rosa. Eppure, la lucentezza della lettura è con senso diffuso. O anche con torto. In parte. Si prenda ad esempio l'autunno. Si insinua in estate per indicare dove risuscita il rosso. Lʼultima parola non è ancora venuta. Pochi lo avvertono, ma l’autore copre quel terribile evento con la dissolvenza nel lungo periodo. Tuttavia trascorso il periodo della rosa non rosa, tornerà lo stesso. In parte con senso. O anche con torno. Lo vedrò dalla zolla. In tal modo si libera il gelo, in parte adesso. È tutto.
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Vado a ripetizione
Le figure in memoria sono contrappesi. Fuori tempo, fuori misura, fuori posto. Fuori i nomi si tengono ai volti. Qualcuno viene a stento per la tremenda potatura della rivisitazione. Come panni stazzonati le labbra stirano vapori. Amarezza è la trama delle pieghe. Inquietudine le combina grosse. Quanto ho perso qui è sollievo altrove. Non riposo. Lasciatemi dire che la mente fa tutto da sola, anche perché gli occhi sono fattori della luce che attraversa il torpore del panorama senza metterlo a fuoco. Uno sguardo dalla finestra respira sul ventre della strada. Via via nel vetro c’è la distanza tra l’imbocco di oggi e lo sbocco di ieri. Notte nella residenza del dovere andare avanti: note che si lacerano sui se. Accomodati, dico ad uno con le mie fattezze: la figura viva è sacra per le sue cattive abitudini. Le cattive non cedono. Dalle buone ho preso la lezione delle candele. Piccole fiammelle, talmente intense da consumarsi in breve. Da quelle votive passa un fulmine d’amore. Fatto di voci leggere, talmente sottili da confondere i nomi in sorti. A ripetizione.
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Teoria di un vecchio andazzo
La convinzione è sostenuta. Fissa le parole come i cani che ascoltano se c’è da capire. E distinguono le sicure dagli scoppi. Dalla piega del viso. La piega fa molto quando il significato non fa breccia. Il tono è colore. Ossia il fiore: è un ordine delle piante. Quando dialogano cambiano aria. I vecchi sono in circolo, poco sangue ma tanta linfa. Uno parla al ritmo di quante ne ho passate quante ne ho viste che ne sai tu di quello che eccetera. Non necessariamente in successione, ma sullo stesso trono fatale. Non c’è futuro temuto che non somigli dannatamente al passato dimenticato. Questa convinzione è diffusa. Divaghiamo per altro. Come passeri sul filo a mezzaria. Fanno per aggrapparsi a volo, ma le ali non danno una mano. Le ali pesano un seme meglio delle carte. Ne sono stato testimone nei giorni del ramino, spillati al calendario. Arrivano in questo foglio come ogni sera. Dicono appiani tutto. Tutto si fonde piano: un rigo o la notte greve; e passi da lei a cose in un loop ideale tra candido e quijote. Questa convinzione è nata su due piedi e muore con la resa delle scarpe.
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Dell’uomo che non ho potuto
La fisicità è urtata dall’ombra. Spinta dall'ingorgo dei fotoni. A sua volta. Disegna quel che la mantiene. Con ragione. Per mettersi in luce serve un congegno brillante. Questo testo è a grandezza naturale ma talmente oscuro che puoi vedere figure solo a corto raggio. Sagome impagliate dello stesso imbalsamatore. Ma tu vedi solo la forma, non distingui simili pagliuzze. Piccola - è piccolissima, quasi null’altro è più sottile. Sono mattoncini per costruire a faccia vista. Vengono alla luce e dicono niente. Sei tu che li ordini a tuo modo e va bene così. Devi prendere luce luce luce. Altrove. Lo devi alla luce. Alla luce di questa cronaca al buio che ci tocca. Conserva ogni lumetto. Offrilo per averne ancora. Entra nella luminosa congestione di segni e libera il pensiero prima di doverlo. Diventa eterno per essere longevo: non puoi se non si muove un esercito dietro te. Guarda ogni cesare dalle truppe ferme. Guarda l’accampamento che si radica in una polla di terra. Sentinella! Guarda la cava ordinata da chi avrebbe dovuto mettersi in prosa. Ah la tensione umana per l’immortalità! Nella pietra, il tempo si getta nei minerali, sedimenta così il sapore di un gesto quotidiano: sa di quelli. Finché l'apparato tiene si dice adombra, poi il ritrovamento tocca l'ipotesi e suturiamo la conoscenza con un termine, come viene. In parole, opere e/o missioni.
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Il cortile superato dal corpo
(Il bullone infantile. E il perno su cui avvitava, nell’approssimazione di uno spazio apprendistato. Ricordo ero tale, o che altro significa animare il presente di una sembianza posseduta tra date capesante svuotate del mollusco rimasto. Oh, che bel bocconcino è stato!) Le ragazze avevano calamità inconsapevoli, delle quali si diceva, sognando anche. Ancora mi chiedo quale effetto ebbero le prime volte del nailon sotto le gonne dentro di loro. Che cosa le rendeva slanciate? L’abbandono dei calzini bianchi o il bianco bacio sulla scala A? A me capitò vicino l’albero di giuda, a bordo dell’aiuola con la forma a u e lì il tremore mi colse preannunciando addii a qualcosa di più minaccioso del cielo in penombra che spodesta un grande giorno. E a letto poi non c’era battito che non suonasse da uomo. Ci sono segreti nella femminilità che superano l’accordo tra il cortile e il corpo vago: stretti o che; e domande ignorate che avremmo dovuto porci e che ci prendono in seguito per niente. (Direi, al modo di una guerra di corsa: si ruba al calendario più che le pagine da navigare quelle già navigate, simili alle barchette di carta puntute ma tozze che nel lungo flusso - e riflusso - restituiscono un foglio impregnato, non il rigo diritto ancora. La vie est un bien-être pernicieux, mon vieux!)
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A qualcuno piace saldo
L’uomo scendeva le scale temendo alle spalle una dama bianca. Un amore col senno di poi. La luna sulla scacchiera dei coppi diffonde la sua storia di riflesso. La dama bianca cala su quel cuore finendo altrove. Dai riferimenti direi che il ciclismo non vive più storie epiche, ma il cuore è un pessimo finisseur nell’amore tortuoso o esce da un incendio con un secchio di ceneri. Un finisseur sceglie la curva in salita, uno scattista ieratico è preso dalla discesa in fiamme. Io ti amo così, con quei saldi nel petto che hanno il merito di aprire le camicie. Non ho visto tutto questo per caso e se per caso dovessi rivederlo, riconoscerei che è un caso diverso, di corsa a vuoto. Il saldo della impermanenza.
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Tentativi di messi
Chi ha torto un capello ha in testa ragioni per dannare la sua venuta al tondo. A capo chino riconosco la profezia della caduta: niente dura, né il cielo né i suoi sostenitori arcani, maggiori dello stesso tondo. Essi dipendono dalle nostre invenzioni e il loro tondo fu raso al suolo di primo pelo: ciò che salì alle stelle fu il prezzo troppo alto per noi, poveri di sempre. Venne tutto a galla in una luminosa notte madre allo stesso tempo, visibile a lungo ma irraggiungibile con il freno della pelle. Le salutiamo e quelle nemmeno si curano di un nuovo essere umano o non essere luce (angelo, ad esempio: guest to the star system) prossimo alla neve. Come la neve è una carta del gelo, siamo giocati dal vapore, regione popolare dell’Uniterso. Così ci sciogliamo in senso stretto, scagliati nello spazio tra l’elisione e la crasi del crunch, futuro big dei bruchi neri. Di bounce simili, ricordo un’estasi fa, al mare. Andavo con atti impuri dove l'onda solleva il sesso in vista della balneazione. Poi il nuoto ebbe la meglio sullo spirito nudo e gettai l’àncora atroce. Redenzione sul dorso.
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Per dire niente da dire
Il corso laurea in buona salute come afferma il mio cardiologo. Conviene dio, ma in forma vento. Del luogo anche. Un toccasana il vento. Ma una lama è presente. Breve e affilato passa diventato ormai radente. Una lama che combina altro alla pelle. In città si raffreddano vetrine crude. Tante, sorrette da ombre cupe. Per questo il corso indossa vetrofanie scontate che urlano. Non ho due soldi per dar loro ascolto e le orecchie si barattano solo a voce. Ho cuore e polmoni e muscoli polisemici nei piedi che dovrebbero essere nudi al verde (devono capire i messaggi del terreno) ma sono lontani dal clamore dei gesti polemici - non tirano calci, diventano commenti di strada - dando l'idea che c'è un efficace parlamento solo se guardi altri vuoti. Mi sento in debito con questo secolo, ma passerà in tempo. Per ora metto in un bicchiere la ricercatezza delle fontanelle a getto. L'afa estrae liquidi da ogni dove: scova ed estrae l'acqua che nemmeno mi accorgevo di avere a disposizione. Possibile siano tante gocce? Sopra le ciglia la seccatura che mi coglie. E forma pozze su pezze di cotone. Che cogliere dall'ombra se non il solo ha senso che la forma?
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A capo di buona speranza
Ci sono più oggi sulla sabbia che orme umane in tutti gli altri giorni. Umano: me ne accorgo quando ti avverto che dentro di me c'è ovunque un uomo, malumori compresi; e cerchio alla testa: nessun miracolo somiglia alla morte - chissà perché non se ne esce. Non è il mare e non è il pesce, nemmeno l’amo. O se ne corregge il risultato o il nome è più angosciante di calendario. Volesse dio un tipo diverso - un fine adescatore, un tafano della pesca -, non me ne andrei così presto. Normale che serva altrove. Servo alla tomba meno di un crisantemo al sole. Dal momento che mi desti aria e gonfio mi alzai goffo dal primo confine. A distanza di molti lĭ, padre dei tufi, anche questo bacino si svuota. Un lĭ è pari a circa 360 spazi, meno dei confini delle stagioni e passa. Quanti ancora da fare? Volesse dio solo i suoi stessi tipi, farei la salita senza l'acqua alla gola.
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Così per
(La mia eco è un lampione che fa chiarezza alla via così, su questa rotta, per cui tutto sembra in onda come affondo. L'epoca è quella tremante fatalità che scatena la superficie infuocata dalla vita, altro perché passa.) La notte ci ha superati. Quasi doppia della sua età è la gente su cui si spande. La rotazione del pianeta in pieno vigore rende possibile che ci sorpassi la luna senza alcun freno. È così veloce che si squarta per scomparire o rifarsi intera eccetto subito. Guida con lucidità i tentacoli luminosi. Le idee come flute vuoti, la torridità versata in terra. Il fulcro della sete non so dov’è. Fa leva sulla mente l’arsura del riso. Le labbra strette sono al confine del campo muto. La parola secca da che astro è presa? La percentuale di sedute legate alle stelle è pari a 7 su tutte. Ma sono talmente forti che una sola non nuoce al giorno, anzi lo segna. Siamo diventati una specie ricca di schermi e ascolti, rovine rifiuti scorie. Che altro si conserva? Le pagine sono traumi rimasti che si stringono una all’altra come per fare muro o sotterfugi per rilegare gli scritti della pinacoteca di led. (Il miracolo capace di elettrizzarmi è che partendo da me sono arrivato a te un giorno: grazie, chiunque ed ovunque tu sia.)
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Cedo in me
(Spesso lui mi interroga sulla vita. Un argomento da prendere come se impugnassi un remo. In coppia è anche peggio. Non fa domande chiare. La fronte aggrottata è una margherita da interrogare. Non odi fruscii, ma senti il turbine da dove arriva.) L’alba ci converte in stringhe e mettiamo i mocassini per evitare le strette. Di norma siamo sanguinolenti, poi acceleriamo esponendo la vena. Chiamiamo artista un bambino. E lo è anche privo di armamentario. Qualsiasi attrezzo lo inventi. Questo mi dice che l’universo è opera di un bambino immenso quanto te, Gil. Solo un bambino può creare dal nulla. Ma si può dire solo un bambino? È un segreto, ma si dovrebbe pronunciare mondo intero. La voce non deve essere adatta, ma adattarsi. Si solleva dal diaframma, regolata la pompa del ventre. Dal profondo viene una contrazione controllata e lenta come il nuoto della medusa. Modula una leggera emissione che trema negli alveoli, vibra a basse frequenze la corda e scaglia la parola mondo come per sferragliare lì dov’era bambino e si capisce commozione. Io ti amo, figlio mio, e se un uomo adora un altro uomo due volte sanguina dello stesso essere. (Quando vedo scomparire il mio bambino e devo scavare detrito a detrito ciò che lo ricopre - ogni gesto acquisito perdutamente lo adultera -, quale mondo risponde?)
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Non c’è altro mezzo
(Siamo abituati alla monumentalità dagli occhi. E dall'ascolto. Tocchiamo le macerie per cauterizzare la memoria. Capita, osservando i luoghi più stretti a noi, uno stupore squilibrato dai cambiamenti che ci fanno passare per ruderi.) Fatta l’estate, resta la stagione un disordine di scoperte in sole basse ondate. Agita le mani per scuotere l’afa: nessuna frescura. Oso dire: somiglia a pranotentativi che sollevano lo spirito, ma da pesci all'uscio la riva di Josif che dice. A riva una vista ricorda l’acqua com’è adesso: spalancata e misterica oltre il dovuto. Dice vorrei tentare la notte adulta dell’ottantasei, nelle piazzole, tra uno strapiombo sul seno meno pericoloso di un perché farlo e si faceva in fretta - pure se la chiarezza veniva in seguito. Del resto, quando una meteora s’infuoca come la vedi, che domanda ti poni? o è desiderio espresso? Visualizzi l’aria se c’è un calore che insinua tremori: il suo corpo era una tela o un nome dimenticato ma perfetto per la sera. Passano due giovani fiere con la pelle di stoffa più attraenti del vento. L’afa sembra affievolire nel nostro mezzo: è che per certi aspetti si oscura ogni altro esempio. (Lui carezza lo spirito, antenato della specie quadrumane. Rafforza l’idea che ogni opera rimane intatta perchè lo sguardo non la cancella, ma niente è più duro del tempo.)
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Ancora suono
(Il litorale si sgrana mentre bottoni dorati riuniscono tenebra ed asfalto. I lampioni escono dalle asole della notte come teste di ponte di un esercito di soli che avviciniamo ma non ci raggiunge.) Gli viene in mente all’improvviso, credo - io credo ha una valenza di brezza termica: tutta la notte solca il mare piena di figure luminose. La bocca si apre al miracolo più dolce: sbadiglio la luna appena compresa, a lungo rosa dal tetto inesistente. E' un tarassaco staccato dallo stelo steso. Stella non è, si vede, dico. Te ne accorgi se il riflesso raggiunge la bianchezza dello spettro, dice: sembra la morte più dolce, lo sbadiglio, ti pare? Sono rimasto fanciullo, ma è timore di crescere. Taccio, perché in un sacco di silenzio la paura è il gatto che non ti aspetti e mi sconvolge il suono del tempo. Taciamo, per dirla tutta, ad ansie congiunte. Temo che questa osservazione non lo soddisfi: la morte più dolce è sapersi vestire da tempo per non scomparire del tutto. (Sul braccio più lungo del nuovo porto, lo smeraldo del faro lampeggia davvero convinto che una piccola luce, nel lutto della buonanotte, permetta l’ormeggio dei feretri nell’attenzione dovuta.)
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Passeggiata a lucido
(Ho odiato via Clark per la sua forma scontata. Occupa una direttrice, ma non è quella dell’ufficio dell’igiene pubblica. Ciò che non è plausibile è la distribuzione del rifiuto: tra le piante, in una siepe di gelsomino, nell’aiuola della rotatoria presa dagli scarichi, tra i masselli che si sollevano dal marciapiede: cicche, cartacce, le stesse buste delle quali un legislatore disse basta!èoradifinirle... Anche un preservativo&goal, scarpe sinistre, siringhe ambidestre. C’è di peggio, ma serve alla sopravvivenza di diversi esseri: millepiedi che rimano in cammino, formiche che si somigliano, topi funamboli, eccetera. Infine, fiancheggiamo un piccolo frutteto, diviso dalla strada con una rete in preda all’edera più scura dell’asfalto. Così attraversiamo l'epoca.) Ricordavo questo terreno curato fino all'intrusione nella spiaggia, dice - e indica il muro confuso dalle erbe spontanee, conguaglio tra le pietre e l'orto. Più curato che fruttuoso, come talune menti. La mente è un bene, dice, normalmente tremulo. Confusa dalla chiarezza, agisce quasi una rivolta di sensi, la parola vacilla tra ondate di gesti. Ci vuole un punto fermo. Una virgola si avvicina, ma sorpassa appena ripreso il fiato. Ti voglio bene, dice. Come l’orizzonte il bene non ha mezzi, una misura efficace, un certo metro. E’ angostura, cibo dell’anima. Tanto sapore ha questo frutto che l’arancio, nel giardino incolto, si perde, ma insinua il suo affetto per il raggio in una buccia che la figlia rotonda produce. Dice proprio “rotonda” come si dice “dentro la pelle la fabbrica dello spirito è un mistero”. Non è un bene che si esprime, dice: è asintomatico, prende in giro un nome e lo scaraventa in mente. E una mente assillata, dice, è normalmente tremula. Trema la strada sotto il passeggero. Trema meno sotto il gomito della sera, ma puoi farti indietro. Nel tempo esiste solo l’immediato “avanti” e il suo cuore è giardino a momenti. (In questo tratto di via Clark, torna spesso il dolore per non più di 100, 120 passi, che sommano circa tre, quattro ricordi, poi il mare ruba la scena. Non puoi parlare a memoria, si improvvisa ad ondate: il mare in passato era il mio giorno, tutti i giorni. La notte viene solo dopo che ha attraversato la città, precipitando da San Liberatore. Rotola come un autocarro in folle ed ha lo stesso gorgoglio dello stomaco riempito di bocconi masticati in fretta. I palazzi diradano sulla tavola della luce morente, si informano dai lampioni. Niente di più e niente di meno che sfuggenti, e noi dietro.)
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Pensando a vita
(Camminavamo su di un marciapiede stretto, tanto da essere più che immorale - persino le puttane lo evitavano: da questo lato non si guadagna in strada. Strada con tutte le strade del mondo che le vanno dietro, standole davanti come fossero in giro. Quel che c’è sopra, intorno, sotto, da mille secoli e nello stesso momento in cui arrossa occidente, schianterebbe se crollasse; ugualmente, dentro, una via si forma: distesa la sera, pronta la notte in breve, raggiunta dal giorno poi: è la Vita. E’ un uomo e crede. Ricorda, dice. Anche tu, non vedi? Ti prego, dice, camminiamo ancora… Prende un frutto dallo zaino, lo addenta, lo assapora; cola, dall’angolo delle labbra che faticano a stringersi, il sottile umidore del succo: fila il ragno della carie e saliva. Le guance formate dal boccone, gli occhi socchiusi. Anche Dio morde l’uomo; prima, però, lo bacia finché respira.) E’ la vita, dice, indicando siringhe piantate in una mecap lungo via Clark. La città in cammino chissà da quanto. E noi al seguito come nuvole alle volte. Vedi, la vita è fuori di sé e rientra quando è tardi, ad un’ora che non ci è dato possedere o usare la chiave per riaprirla, dice. Non c’è serratura dall’altra parte, dice. E muove le mani a tentoni fingendo di aprirsi un varco. Dice: se si chiudono i polmoni, come le porte di Troia, è il buio che le serra e dentro truppe di cenere sanno di nessuno più che Odisseo. Bisogna temere questo? No, no! Abbiamo perso e loro devastano i luoghi in cui cuore e altri ammennicoli teneri si accavallano. Non devi temerlo se perdi conoscenza. Ora respira, respira piano, respira - solleva il diaframma. Il diaframma è un gabbiano ingabbiato nel torace. Inspira dal naso lungo tre passi, poi gonfia l’addome, come un aerostato per salire, espira dalla bocca in cinque falcate. Vedi gli uccelli più lemmi che umani? E ride! Ride con quel suono stridulo di cardini consumati. E’ strano, mi dico, mentre davvero ci sorvola un gabbiano. Lascia che la lingua si fermi ai denti, alle pedonali, alle elemosine fuori dai supermercati, continua. Il fiato lo mette in ginocchio. Dice che dio si rivela mentre celebra questa breve messa in scena: la vita. E’ la vita, mio dio, la vita, dice, la vita è dio - ovvio. Parla, parla: ha un traffico in gola e forse, chissà, la sua mente è la cosa più vigile che incontriamo. Lì, ai piedi del muro in via Clark, pungivene ed erbacce come disperazione comanda e l’incuria protegge. Borbotta come una motoretta. Diventa un’eco. Mi attrae il gabbiano che spiega le ali. Capisco che plana senza sbavature: l’aria è mossa e l’ombra cade su noi come sale. Indica un papavero rosso, di quel rosso inopportuno e luminoso come l'attesa - di una passione, di una dimora, come ovunque può venire bene a cadere. Quel papavero, dice, osserva i comandamenti delle vele e dei venti. Non le domeniche o gli anni, dice. Uno stelo, se vuoi, è il suo orologio. E la vita è tempo. La vita, il nostro stelo, suppongo l’unico dio rimasto disponibile, dice. Dice dio come mettesse sul bavero un papavero rosso, non il colore per gusto delle cianfrusaglie ideologiche, ma per la profezia del polline che inarca resurrezioni, senza la quale tutte le terre devasterebbero le costole dell’acqua. Gli dico vorrei ancora un po’ di dio da spendere bene. Ridiamo a pena. (Questo tratto di strada porta ad una rotatoria che pone domande: assi che procurano vortici nel sangue, innescando pensieri terribili - una rotatoria, in fondo, è un circolo vizioso, un paradosso della strada, come non so dove porta e vado a vuoto. Lui diceva parole pesanti - io non capivo perché, ma sentivo: la fronte corrucciata, le arcate sopraccigliari aggrottate e strette, la partecipazione amara del taglio delle labbra sparite. Di modo che, osservandomi, sembro dubbioso che siamo noi a fare il cammino, non il contrario.)
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Seduta sulla sua sedia: vuota
(L’alba è comparsa, apparizione delle note solide: i convenuti lucidi - si riconoscono convenienti. L’alba è, perciò, contagio della luce per contorno; e poi: presa di possesso dei volumi, anche lettura, donna che si stira i capelli, quindi ingarbuglia le dita per farne trecce, le annida sulla nuca con forcine lunghe come denti di tricheco, ne fa un toupet: nero preciso, con striature ramate - o forse nervi del sole. Lei entrava da destra, lì in fondo, dove la porta è tra due colline, a destra, fronte a nord. Entrare è sinonimo di giorno pieno, superata l’aurora, cittadina di rilievo, e il buon caffè. Un gorgoglio da cucina in fermento, sopra il bricco della moka.) Ciao, Matì. Sei santa, ora. Ti preferivo piena della grazia dei figli - tu che mi chiamavi nel dialetto dei colli, con un soffio come si alita sulle mani per vincere il freddo - e viene quasi condensa. Volevi essere ad altezza di benedizione ma, più bassa - quasi di otto dita - da vero terreno, terrena delle più fertili - quattro orgogli in un solo battito e altro rimasto nello stesso solco. Ora sei c’era, della migliore forma - la memoria ti eternerà ancora per poco: quanto conta oggi. (Lei esattamente non c'era - esattamente donna, dico -, giacché per esserlo è stata giunta al padre sopra tutto. E gioca nei corpuscoli della luce e ne spezza il raggio che le è prono. Io, rintronato più dal vuoto che dal silenzio, le do corpo in tempo, a lungo per un po’.)
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Come venuto dall’altro cielo
(Piove. Come una sottigliezza appena percepita in un discorso nebuloso. E’ solitudine che precipita, non greve né opprimente; diremmo: rigenera - può liberare gli intonaci dal sale marino, e le forze ritornano dove la pelle è gonfia. Gil guarda in alto con gli occhi socchiusi. Chissà se gli giova questa riflessione: la goccia è sola quando cade, come tutti i frutti. Il vapore è densità, la foschia, quindi, comunione - la folla, suffragio di gioia ma equivoca. Sull’asfalto, e in auto, passano volti gelidi. Nessuno guarda dal lato che scorre. Sembra che i viaggiatori siano trainati da un filo invisibile, ma aggrovigliato e temibile, legato ad un segnalatore luminoso. Tutto è rapido, tranne la voce.) Guardava le strisce pedonali iniziare con la procedura dei guadi - si presentano come appoggi che affiorano dall’incoscienza: sono viscidi con una buona intenzione, sono lanterne roche - o pandemoni rissosi. Occorre stare in guardia: se l’acqua supera la pioggia, e se entra nelle scarpe, scalza lo spirito buono: è giusto ed avviene in fretta. L’inganno è il vero mestiere delle pozze. Sono notti potenti. Una sorta di contumacia lacustre, di equivoco da marciapiede, come le maleparole che nascondono il fondo pronunciato di solito sottovoce. La donna teneva su di sè un tetto fittizio, momentaneo, urgente a modo suo. Una cartellina gialla sempre più spugna, più curva - tipico della rigidità del cielo nell’accezione di fronte futuro, avamposto dell’olio santo. Il timore, da una suola all’altra, è un acceleratore di brividi e unisce le pozzanghere al passato. Alla maniera di un fermo immagine ristagna ciò che si specchia dall’alto e non torna memoria che sappia spegnere la sigaretta. Corso Emanuele è corto quanto basta per fare due passi, Gil: camminiamo affiancati finché ci è dato - come un martello la pioggia porta male, come una seta dove poggia luccica la terra a mare. (Corre voce che chi attraversa la strada produca un’eco con le orme, ora, ma nessuno ascolta altro quando il cammino porta dove vorrebbe andare. Una donna tiene alta la cartella sui capelli neri, si bagna le spalle, il viso si riga e vede cose che noi uomini non potremo mai immaginare - come Roy, ti ricordo; un’altra usa un balcone, resta all’asciutto; e ansima: pioverà ancora per poco, ma non lontano una sirena gela. Volevo anche dire che il mio Gil è contagio vitale.)
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Per ora cosa viene a galla
L’alba è sorpresa - per come la vedo io - quando coglie l’anima ferma e ricorrente per la marca temporale al cancello adesso. I guardiani a quell’ora finiscono nei caffè aprendo la corolla delle labbra alle brioches. Da quali posti tornano a letto? Entrano nelle telecamere le loro figure curve e rette escono dalla messa a fuoco fino a sera. Più di una donna si libera di improbi viri al ritmo circadiano ti credo/non ti credo. Viene domani ed è lo stesso oggi, sospetto. Chiudono fabbriche e perdono capelli ma raccontano in modo truculento che: sì, amo, però rivestendomi non lo indosso. Un’esca di scena gocciola nel Maremedio tra le terre serve, come ancelle. E’ vera la didascalia della foto di un delfino lungo sulla spiaggia corta: fanno tanto lavoro le correnti per assiepare le plastiche nello stomaco dell’oceano, ma l’oceano segna la carne sulla lavagna dei sogni e circa tante onde tremano per la libertà dei morti. Vorrei sapere da dove vengono - con precisione: i guardiani, le plastiche, i cancelli, le anime, i delfini, eccetera. Ed anche ho sempre voluto un camion di latta pesta, per un bambino secreto da tutte le cianfrusaglie che qui ho messo.
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Scelte da sole
Non solo curva l’atmosfera attratta da epoche remote ma manca l’aria nel liquido quotidiano, come un’altra marea che scagli la pelle a fondo. Siamo nati in ogni momento, e soli non ci viene bene. Piuttosto, usciti dal ventre, un'arena e passeggiate prive di meta indeboliscono il desiderio di legarsi allo spazio per distendersi. Mi muovo in pieno centro perché è noto quanto l’equilibrio legittimi gli isolati vecchi: non per altro la città abbonda di verdi per i patetici. Va nei due sensi la marcia e marcia in vista di un saluto sfuggente. Si forma l’osso nella bussola per sostenere i nervi tesi: il buon giorno perde l’orientamento per mesi. Sai come capita: gli occhi negli incroci osservano le scarpe dove prende corpo l’altro uguale e l’altro - dal sorriso congenito - intima una muta chiassosa per la lepre più paurosa che folle. Una contraddizione in termini, alla fine della vicenda. Ciò che un uomo dovrebbe amare negli incontri è la prospettiva della strada che avanza e viene meno. C’è in ogni solitudine il cromosoma dell’orso. Artigli pronunciati come parole graffianti e zanne superiori alla bocca. In questo modo se anche dici ciao, qualcuno avverte un morso, conta di seminare il sospetto.
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Presa di petto
Le montagne si alzano come discrete nottule. Si proteggono dai torti del vento aggiustando opportunamente gli spigoli, dove pensano curve e smussi da tempo. Annidano ai loro piedi il centro della Terra e il mare ricorrente. Quando me ne accorgo è tutto fatto il buio legato alla finestra. Sul nero fondo si staglia questo assillo: un’idiota è un buon confidente. Io lo sono? Come vedi uso la parte scalabile dell’universo per arrivarci, pure se non lo penso. Appartiene alla cerchia delle guglie e delle pietre, ma meno grumoso per quanto si vede. Mi prendono a ripetizione le luci al suolo che fanno le veci degli ammassi stellari con grande naturalezza. Ormai è noto che il caos ufficiale è una congettura precedente al sole. Dopo tutto si poteva respirare. Anche il massiccio luminoso era contenuto bene, fino all’esplosione dei troni e degli altari, angeli maledetti che inventarono la guerra prima degli eserciti. L’ho sostenuto a stento dando un’occhiata in giro per gli anni a venire: devo un mio senso al tremore in questa notte che ancora esalta le differenze tra la mente che interroga e l’amata presa di petto.
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Rimesso in moto
Abbiamo lasciato la linea di partenza con l’aria delle api all’avvento dei fiori. La strada era quello stelo sul quale case e traverse sono petali in forma di sosta come corolle a giorno. I motori fanno la loro parte di spinta sul dorso e tanto vibra lo sguardo quando la manetta eccita la schiena; e si curva condotti dal sangue con le ginocchia in fuori. L’occhio è però più veloce grazie alla luce o forse la luce lo raggiunge prima che si posi a destinazione. Può darsi che la destinazione non esista e sia fuga il riposo in altro luogo. Così spero il tuo corpo di turno dove mi trovo.
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In una volta
Sono l’ultima stazione. Che può dire l’ultima stazione quando arrivano figure senza ombra di dubbio a destinazione? Aspettavo la tolleranza che pochi conoscono: è giunta in seguito, come ricordi. In quanto stazione ho un nome macabro: fossa comune quindi crematorio o mattatoio. Qui il numero enorme viene per la notte più lunga del numero che non è sul biglietto, o il biglietto è stampato sul braccio della morte. E pochi bagagli, segnatamente l’oro, scavato nel sangue, come diversivo: una vecchia storia comoda ad ogni modo. Ora ti chiedo: se è mancata la pietà prima di me serve ricordarsene per un solo giorno, e per un ceppo solo, quasi che all’albereto mancasse la varietà delle piante minori? Sono l’ultima stazione, o l’ultimo passo, o l’ultimo respiro, e a quanto pare ancora una occasione per non mancare l’unica notte capace di avvolgere i due emisferi della storia in una volta sola.
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Ogni pentimana
Venendo il venerdì, la sera implica il sabato ad oriente espresso dalle alture del Cilento già domenica. E rasserena ovunque dimori lo stato d’animo erede del vecchio impero dei cesari, che si mantiene sulle carte con le truppe votate al potere. Ad un certo punto delle attese, il turbamento si presenta come reggimento, ma per l’orologio umano le lancette hanno l’andatura dei ponti. Un soffione d’acqua o altro disimpegno tra il letto e la porta è il motore più veloce per dare corso alle fughe, mentre nient’altro ci spiega meglio del sonno profondo. Sono antico quanto un triciclo di ferro e cigolo da quel rosso imbarazzato che mi distingueva in erba. Tanto mi secca.
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Conciato per le feste
A nome della festa vivo l’attesa con termini e modalità d’uso prescritti dall’attesa corrente. Questo spirito non è passeggero. Lo è il corpo con precipitosi saliscendi di bagagli lasciati come resi più un binario calcolato in tempo. Pochi parlano di me senza fretta e lemmi lemmi sono terra che mi attraversa. Ad ogni festa il suo tepore, quindi nel tepore versare tono novello, e bere leggero il desiderio che non smetto di trattenere: parola mia, sono conciato per le feste. Sono un uomo che ha un secolo in mente e mezzi cui il corpo non crede. Non basta una data medicina, temo.
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Lascio a sentire qualcuno
Durante la pioggia si impegna l’acqua a catinelle. Si impegna ottusamente a colpire nei colletti. Oh, se fossero guidate da animelle questi battesimi attratti sotto pelle. Vorrei cadesse la pioggia che mi passa in testa distratta dal cielo, presa dal gesto della terra che apre il torace in santa pace. Vorrei piovesse per un gioco d’epoca che mi attrae in una cruna della strada. La strada è in tal senso una cucitura a filo di case arlecchino. Uno stile che ha tolto al quartiere le asole pedonali del marciapiedi. Mi raggiunge uno schizzo brunato per via del fango lecito, quello terraterra, intendo, lanciato dalla mano dell’onda che provoca: credo l’abbia prima aperta sulle nuvole nelle pozze, come porta, poi innesca il riflesso, e traversa. Anche il panorama gode di questa entratura. Via Palestro increspa i pedoni correnti. Prese di fretta, le orme se ne vanno come i fiati; più tosta l’idea. Resta quello che la corsa verticale non toglie alla staffetta: i testimoni si perdono maldestra mente. L’occhio raddoppia i gradi per il tratto in salita e questo agevola i citofoni a fare testo. E’ il nettare del posto l’anagrafe. Vorrei dire loro che mezza età se ne è andata con un paese consanguineo buttato a dosso.
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Da anno in hanno
Il bel futuro venga per tutti i luoghi comuni e sulle zolle personalizzate da semi incoscienti; sugli acciai congiunti a cieli ferrati ma intrattabili; e sulle viti che resistono, benché infatuate delle ruggini. Sia a chilometro zero il buon futuro per le tue e le mie nervature abissali dove i batiscafi dei nomi riemergono per cambiare equipaggio. Dolci e terribili i mari acquattati nei corpi. Va conciato per le feste l’uomo affrettato più di quanto lo ripara. Chi domani vive adesso fatica ma meglio si adatta all’epoca seguente: basta una data incolume nel lunario del suo campo. Il suo campo futuro attraversato dalle parole non a prese come in gola. Abbiate prati in mente più che solitudini affollate in contumacia piene di vocazioni salmodianti. Non temete i caduti, dice il bosco, pur se facilmente avvampa l'idea terribile dei fossili. Nulla rispetto a quanto duole osservare la gelatina delle stelle come impiastriccia chissà che ci aspetta. Date di nuovo.
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Tra la folla di colpo
Non amo lo spirito armato di odio ma, diomio!, da oggi vorrei armare l’odio con lo spirito dell’amo. Esca da me l’incolumità del bene, la boria della tolleranza, la sicumera del perdono. E’ l’occhio la porta, l’ogiva della mente: rimanesse solo questo, i bersagli amerebbero distendersi. La follia si serve di altri sicari: le mani con un talento per la forma stretta. Poi, la figura si dà alla macchia con una mira precisa. (E’ noto l’agguato degli accenti sulle vocali, mentre in genere ogni lingua mette in scena il tono consonante). Vedi l’opera umana nel sacro acconto al paradiso sconosciuto e amabile, animato inspiegabilmente da vittime. Una brutalità insinuante credo. Dio grande per comodità di raccolto è tra gli uomini una macina di ombre, adatto ad ammattire i semi lucidi. Oh, si può non essere d’accordo, e, si fa per dire, ritenerci espianti dal suo fianco. In realtà, la vita si ama e si arma; insegna che di minuto in minuto il tutto si compone; l’eterno è per adesso fin che ne resta ombra. Ombre appannaggio dei luoghi. Chi convoca queste truppe antesignane della luce? E le luci non si muovono da sole... Ovunque un lume vaga per il lato tragico del prato, interra radicalmente le sue tane: cosa ci sfuggì allora? Tane ora dette tetti e prato detto cielo: ho trovato il lucernaio a pezzi: il bene, il buon proposito, il perdono, solo fusti alfabetici in inverno percossi dal rancore, rancore, rancore. Torpore. Li sento come gramigna: medicinale che non si sa fino a che punto, poi infestante fino alla lama nel campo mietuto a gran voce. Che fa la gramigna, oppure i soffioni? Irretiscono le crepe in un terreno sordo a dovere.
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La consuetudine del calendario
Trattiamo il tempo con misure esatte e precisamente legato al polso, per le vicende dei bicchieri, torte e bouquet o per mancanze ricorrenti. In quest’ora superficiale nel cuore del pianeta in un momento passa più gravità che secondi ma tra le stelle è da tempo perso un delirio eterno. Questo è un gesto cortese volto al mio volto passeggero come rivolto al sole, o per sole visioni in espansione. Chi lo sceglie tema di fondo? Chi lo impiega senza correzione? L’embrione dell’uomo fatto da poco rompe le acque e piomba in cielo con la lancetta che conta di meno.
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A bordo di ombre
Una fila spiantata dalla sua terra non disordina il cammino ma il coyote ci passa sopra. I confini tra gli uomini pare seguano la linea del rifiuto e il fiuto dei doganieri li segna. E se qualcuno nutre speranze come i ragni all’avvento dei voli sappia che i passi fanno clamore quando si riducono a torto. Allora, chi li vuole ridotti? Dove hanno lasciato il muro: Nessuno!, risponde un coro; nessuno di quel coro muove la bocca, eppure parlano come fiammiferi nei gasdotti, ma Nessuno è davvero un eroe. Al gigante cambia l’occhio in dote: non basta; dal muro abbattuto si alza il muro spietato: per uno che cade meglio si arma il muro risorto. Come crepa ogni ombra vi giunge.
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I, Yemen!
Ti so senza parola e non posso darti ascolto. Hai poca voce, nessun volto: io non so a chi prestare orecchio. Se gridi aiuto non è certo giunga: la guerra scatena il silenzio per definizione. Lì è il deserto, dicono, ma qui il deserto occupa la pietà benché la pietà mai conquisti le dune. Questo manda all’aria vite inarrivate a compimento, denti da latte che cadono perché non diventino vecchi nemici: l’innocenza degli invisibili è sempre stata vittima della geometria dei bersagli. Ti leggo, ma tu non scrivi; ti raccontano con la lingua dello sterminio ad onta dell’alfabeto dei morti che tutti sanno muti - corollario dei segni cancellati dagli interpreti. Così la linea del fuoco mantiene il tono del rimbombo: capisco dove va il colpo ma la mira resta ignota. In qualche modo ho saputo del cordone che ti soffoca. E’ il parlare dell’acqua a far dubitare che la fonte sia pura. Ignoro in quale raggio la sete smetta di essere letale: io sono vivo a sorsi ma non è la notizia e né meno quanto l’indifferenza stagni le gocce.
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Semidei: qui voi sareste dei semi
Quindi, se io non fossi quanto voi siete, ditemi a che serve dubitare di quel ventre tra le stelle. Con precisione: oltre figlio di. Viene spontanea l’incertezza che esisto come castagno o seppia, di più ancora fa il tramonto prima della corbelleria che la notte è morte soltanto breve. Il viaggio in terra, come sostengo, è salubre per quanto l’atmosfera sia meno di un congegno sottratto al vuoto prima che le alghe divenissero verghe. Voglio dirvi che ho tanta forza, ma non fatica. Che brucia in me la corsa ma il piede è debole. Che c’è un imbroglio nel vetro come nella pietra. Tutto questo mentre l’osservazione del cielo pone un limite agli a pelli: li trattiene. E aggiungo che una gragnuola di corpi celesti non fanno molta strada, né cadono, ma ci investono con richieste di attenzione. Dell’aria mossa dalla mia bocca a vento, ammetto che è locale benché minacci tempesta per chi vanvera del resto. Oggi api legittime producono miele ma il circuito degli insetti non aumenta il nutrimento. So anche questo: la parola è un badile che scava pozzi all’idea che basti un verbo a cambiarci in niente ed io coniugo lo sbaglio a mente.
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La piena del figlio
Se io fossi morto come da tempo voi sareste vivi come vi sento. Teneri. Teneri e impellenti. E vi vedrei, ripresi da terra. Ripresi, dico. Non citati dall’inchiostro. Ma salienti, se l’altro mondo fosse cristalliera dell’universo nel salotto buono oppure chiesa dell’unisono. Non ci sarebbero rimandi tra peltro e vetro ma angeli perfetti nella camera da letto. E se io fossi come penso di tornare mare che cita l'orizzonte in agguato, sareste bastimenti per una rotta agiata.
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Indicata in chiusura
C’è per ora la lancetta: disegna quanto non saprei cancellare dal quadrante della sera. Prima dell’aurora si è alzato il timore. Un disco rosso anch’esso. E appena dopo, da doppione, l’accampamento dei raggi è esploso. Una pessima finestra il fazzoletto che uso. Imbevuta di profumi l’ape del sogno procura il miele diurno, ma la vespa velutina è la sua notte più terribile, il reale preso a volo. In alto quel che era luce è luce fievole a norma ma opportunamente lasciata all’ombra; e se per scorrevolezza muta il fuoco, cioè cala la tempra, in fiamma all’orizzonte, anche l'ultima veduta si farà cenere: sopravvissuti negli altri non più noi e non in forma, tanto lievi da uscire dagli occhi con una liquidità sospesa.
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E solo sono resti
Ho smesso con l’odio: la coda soprattutto tende la cometa nell’orbita, io la lasciai di ghiaccio perché si sciogliesse dove fioriva l’acqua. E l’acqua mostrò come in un adulto si muovono le remore. Corpi accostati ma di tutt’altro genere. La finisco con l’odio, simulo in fretta il vento, sbuffo, accalco sul muro altri rinvenimenti, figure temo. L’estate morta cadeva dal costume sulla sedia, scostumatamente poggiata alla spalliera. Per questo sbandai, ma era un riccio lacrimale con la piccola voce velata insistente controllata da un lato, per dire prendi una legittima indifferenza dall’odio, dalla coda dell’occhio, dall’orbita, prendi il costoso timbro dell’abbandono e prendi il distacco dalla mancanza di seguito per menare passi sopra una lastra incandescente: è la strada quando riparti carico del fervore dell’universo - ammettendo che l’universo si allarghi con la stessa dinamica nel vuoto sempre - e solo sono resti.
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Evanescenza del tratto formale
Il sangue è il pulsante delle vene. Lo tasta l’anno, nel giorno convenuto. La nascita e l’inquietudine, che la perseguita, sono da un momento all’altro continenti; piena di nebbia è la navata a mente. Chi accompagna la grazia all’altare? Il dubbio sta sul sagrato come un muschio nell’umido. A lato dei colonnati la fede sbanda tra assopimento e risveglio tremante. Come il melo mette a nudo il condotto e la peculiarità della linfa per il vitalizio. Una radice, se ne può parlare io credo, mi frusta: c’è un nervo in qualsiasi braccio di terra che sostiene i passeggeri. Come un tronco in ogni acino. Autunno! Vieni con la tua parte rissosa unicamente al nodo più antico: questo assimila me nell’ultima stagione di legno vivo all’anima del discorso. Ciononostante si affermano le mani simulando la ridda di foglie come conviene. Ogni distacco procura lavoro a terra, pare. In realtà le fabbriche ci portano sulla schiena. E cedono le spalle, come cedono gli stralli. Gli abbracci sono vele per quelle traversate che hanno un porto disarmato dal mare: una per una si deformano le navate; e i partenti cadono, cedono i nervi, come rotte sulla grande mappa dove c’è meno spazio al largo che tra le nostre voci sbarcate a volo.
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Object trouvé
Vista nel profondo l’anima non si trova che a disagio. Un timbro stinto in calce alla nuca. La luna che vedi ebbe lo stesso fazzoletto di cielo. Dammi una lente, ti dico, una lente capace di farmi vedere i suoi crateri. Chi manipolerà il resoconto? Serpenti e lucertole che cambiano pelle per non cambiare idea, beh, pure il contrario, come dei tormenti. La vitaccia, lì dove la prendemmo, secca si è fatta pensiero inebriante. Oggi ne sono assuefatto. Tipico prodotto lo spirito. Cambio la ricetta, dissi. Ne rafforzerò l’umore terragno, dissi. E’ venuta con un retrogusto di fabbrica, sentenzi. Ti chiedo: è una linfa, un gas, una maceria, cos’è? Ribolle presa dall’evanescenza, ma il borbottìo contagia l’aria che già sa di reticenze, del suo intoccabile decalogo, della stima per un santo scorbutico che cala i quattro assi del miracolo. Ieri, in pieno martedì, mettendomi a nudo, affacciato ad una emozione, fronte a balcone, l’occhio nella veglia di una malattia da sopire, ho messo piede in tutto me stesso. Non mi trovo che a disagio.
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Prevedendo il chiuso
Respiriamo mentre andiamo al limite. Oppure andiamo avendo dismesso la cura in un battito. La morte è un fulgido solo. Al limite, l’alibi della ritirata diventa: «tirare il fiato». Ma non giurerei sulla causa, neppure mentre mi riparo. Non sempre, a ben vedere, attraverso l’accampamento delle nuvole, né mi pare si affaccino da esse le guardianie dei templi. O i segugi del Primo Portento. Più antico del tempo è il buio, involucro dello sputo che ti fece nella bella notte a sua insaputa. Ma tu, nel mercato degli occhi confusi, muovi timori come dune che hanno motivo d’essere mobili tra gli arredi adunati sotto il cielo. Lì non altro che acqua a vapore, o imprecisioni di stagione; glasse luminose, venti a stormi, rituali della goccia. Il traffico anche qui è saldato in aria. Il tanfo del motore umano - soffocante, congegnato per le basse quote, in odore di frizioni bruciate, rimesso a norma dal legislatore, non abbatte che i pedoni a passo d’uomo. Corri. Corri. Salta. Salta di seguito in seguito, salta alle volte dove indico le striature delle aviovie. Indico, e non ti dico, dove i cursori del cielo fanno razzie dei passeggeri. E se ti è sacro il sangue col quale mi porti l’orizzonte ad occhi nudi, ospitami ancora, figlio mio, nel purgatorio tra i tuoi fuochi.
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È stasi e tormento
La polvere della strada, levata dai piedi e portata in giro come cimelio, si deposita ovunque entro il termine di velatura. Questo termine muove niente, sta sopra tutto. Non fa una grinza. Il mio percorso ha la cura dello straccio, ma disattende le indicazioni: nessuna strada porta il tuo nome e la pianta nega che almeno una conduca a te. Anche Roma in questo secolo ha ridotto i suoi confini: le cupole non reggono che il buon vecchio firmamento. Dai suoi fianchi si capisce il limite della specie (vicolo, viale, via, corso: un tanto alla metro, poco davvero) come le luminarie che ci prendono dai capelli, bicchiere in mano, a tentoni. Il cuore della città è una residua curva retta da storie legate approssimativamente alla sommità delle polveri rimaste. In un bar con sole donne spunta la mia velatura e altrove supera ogni resistenza con l’invidia dei cimeli nella piccola teca (i cimeli infilano la guerra di soppiatto nelle belle vetrine di via Condotti, ma la pace interiore mostra l’occhio caduto). Così qui passo come pochi - eppure troppi - templi che abbandonano i ruderi in tempo.
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Non ti ho amata per poco
Per tanto così sboccia altro: un’occhiata distratta dove manchi tra la folla del Corso (chi se ne accorge?) - e non ti cerco passante ma rimasta al caffé. Sono questa apparenza in cui tutti sono tutto pur di comparire diversi nello sciame di polveri in un raggio retto memorabilmente come diretto è qualsiasi frontespizio di vocali verticali, o finestre ignorate. Sicché sbocciano convenevoli taciuti per dirsi t’amo e pertanto: come stai?, sei bella da notarti ancora o come me ti curva la sfida dell’ora? poi, svelta, non rispondi: e tu non cambi mai, ti avrei chiamato; sì, ma quando tra noi?, a settembre quando ci lasciammo in bocca appena un morso insaziabile.
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Il trucco del sole
Facce di bronzo ovunque. Come se non bastasse, esposto a onde, si riflette malconcio. Emerge il fastidio del mare saturo di truppe che sbancano baie, seni e sabbie di tanti secoli in pochi secondi. Sbarca il lunario prima della fame, un ambulante di merce dozzinale. Battaglia sul posto. Al sole. Preso così di petto, l’esercito non sa che farsene del fronte. Un uomo è banale quando pensa che la risacca faccia meglio della guerra nel cancellare orme continenti con vapori fatiscenti nei bacini sotto sale. Quello stesso bagnato dal sangue rimasto a bordo.
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L’uomo che lanciava i cocchi
L’atmosfera è quella di una luce che si spegne lanciando a tentoni il buio in natura. Una maglia scura trattiene la fabbrica normalmente in stabile. All’uomo bastò accenderla con un semplice fiat qualcosa. Questo sacro mandato fu ricevuto dai capi e in capo ad ognuno pose il ferro e il design una casco integrale e diversi add-on (tra cui l'aria terracquea, l’amuleto labiale). Lo stregone non tanto giovane, neppure vecchio si può dire, non potè udire il suo nome un po’ per il marmo ma molto per il villaggio in cui correva l’anno globale giacché nei piccoli insediamenti circo stanziali era la data che non tornava: spariva da tutte le tavole il piatto e il concavo cielo fatica. Eppure era giorno fatto e il loro riepilogo mostrava che vivo e vegeto sono antinomìe per il solo calato.
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Data da un nome
A mama per sempre La tua lingua è seguita da sempre: sana sempre, libera sempre, protesa sempre, sempre linfa per taluni complementi solo tuoi, per dire sempre potrebbe esserci qualsiasi altro giorno in questa finestra e mille nascite ancora in tempo per diventare attendo. Lo sguardo coglie prima della mano il punto che interrompe l’attesa con un saluto, luogo dell’incontro postumo ma consueto per via della concitazione dove vago non è il traffico nè paragonabili tra loro visi e case, ossia passanti inquieti e immobili, ma ripida la fretta presente. A memoria sei come eri, vera in questa residenza che puoi chiamare la mia vecchia pelle, derisa dal vento di ponente, folata e basta che nulla insegue, ed anche per cosí poco vengo. Lo scrivo avendo visto tre cose appena: una, un e la tua fugacità seduta sull'orlo del marciapiedi: cos'altro trema dalla genesi in poi in un ambito di nostri turismi ingenui come mi salta all'occhio la tua trasparenza?
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Scriverei come l’oro
Acqua acqua acqua! E per carità non si dica che ho sete. Appena mi muovo il più vicino trema con il corpo perso. Perso: per con so: so dopo per. Fare, ecco, fare le vicissitudini nella vita magra. Ho lasciato molte stuoie a casa, una è libera. Libera: cioè senza riposo: il pensiero è l’unico che se ne occupi: la occupa con l’attesa il porto. Mi sono rotolato in esse, poi venne il fango, benché sia raro che piova. E il fango sommerge le stuoie: sono ciò che mi preme: non sono letto da chi legge da stuoia. Di tanti possibili dormiveglia mi strizza l’occhio appena quanto costa in fede. La fede non viene per caso: lo dico nel caso io non torni a loro. Vittoria? Non ancora: chi ha inventato il futuro sapeva che esiste o, almeno, ha un riferimento a bordo. Vedete quanta angoscia galleggia? Io ne scrivo ed è l’antica abitudine di aggrapparsi a niente per reggere e parlarne, risentito come se fossi questo solo.
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Una Thule
A Cristina Bizzarri anima straordinaria, straordinario ingegno. Che cosa sia l’uomo e cosa la sua figura è apprezzabile differenza se li si guarda da sole. Ben altro apparirebbe se osservassimo dalla somma delle verticali fin qui fatte per sollevarci; li cercassimo da google a sera contrariando i gomiti i polsi le dieci; ognuno stesse sul cuore della poltrona mentre viene trafitto da un raggio del monitor ed è subito tastiera; i dubbi battessero le certezze a parole grosse; in quest’ora - e solo al sole - l’uomo è nudo e la figura non ne tiene conto; l’uomo porta in sé un fiume ma nessuna foce; fosse navigabile a memoria, volubile al suolo; questo fa dell’amore un argomento di schianto senza tenere conto, o fattore di quanto realmente figurammo a monte; ai piedi di una montagna arrivano scarpate? Neanderthal si è solo sgrossato, affinato ed ampliata la vista, per il resto si dica dell’altro. Il gioco linguistico ha reso dominante chi l'ha meglio esercitato: niente di più niente. Ciò che si ricorda è in fondo la conseguenza del gioco, il risultato ottenuto dalle piante. Se ne vedono i frutti i fusti i semi. Siamo a parole e siamo avventori faziosi che lasciano briciole dove bivaccano. Il fatto che la cucina non ci soddisfi è un problema di gusti, di sapori, di precedenti tavolate e, forse, di incapacità a scegliere la credenza giusta. Le figure si affermano finché ci sono benchè non le pensi tali e rimandi. Ciò che ci sforziamo di fare è elencarle per resa, riconoscibili per sentito dire come visti da noi, per noi, così da introdurle all'appello, non perchè manchino di dimensione, semplicemente non sappiamo trovarla (potrebbe benissimo esistere in una qualsiasi altra parte della sconfinata persona, o altra stanza che dir si voglia). A maggior ragione, quindi, è opportuno chiarire che intorno la lingua del luogo non è la nostra, ma quella che ci ha preceduto mutandoci e che mutiamo mai muti, in natura.
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Radice chi
Lascia che ti dica dove hanno mente fiori erbe tronchi frutti, la tanto stramba foglia al vento. Naviga lasca ora per ora: ma che ne sa il fuoco, o la precipitazione, che non le può niente e per tutto serve cervello: anche nel cuore della terra? La radice è presa dal condominio della vena e del minerale segreto: com’era verde la sua avallata grazia nel circondario terruto, posto se osa come io penso in forma non forma di mani aggrappate, barbe comprese, senza ombra di dubbio protese - nel senso del richiamo all’aria aperta protratta da cloni a colori. Vero orizzonte sottoterra, credo, col solo proprietario terriero che si conosca a ragione d’orma: la radice con il sesso in cielo.
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John George (Jack) Phillips
Ero legato dal punto alla linea. Più che altro manifesti brevi da uccelli first class o passere complici, rimessi in una follia liquida e canuta (queste specie si barcamenano ovunque annotti la scorribanda fluida sui ponti). Drammaticamente inoltre, la ricchezza è sopra la linea di galleggiamento. In quel punto la vita riduce il raggio a nulla, il cerchio si stringe e fonda l’isteria di bordo che sale al seguito di: prima donne e bambini, per la miseria! Tutto quanto sovrastante l’acqua, grasso e benessere meno di magro e greve sottocoperta, precipita oltre gli abissi convenuti all’oceano. Avevo avuto l’avviso delle bianche isole in movimento lento, massicci altolocati quanto bel vedere passeggeri. Che vuoi ci facciano? Lo scafo è duro, si era detto, duro fino alla cintola. E riponevo la striscia rotta sulla rotta corrente. La colpa è lì, sommersa. Non è un alibi una moneta a parola, ma una sola per dream trip o to die, sono un dannato prezzo! Maledetto è vero, ma con lo spirito giusto si accetta questo frangente già alla partenza. E quando di colpo la morte ferma le lancette in tempo, nemmeno l’anima è pronta al momento, né comprende la fretta del gelo, l’avidità della corsa, ogni sorta di attrazione congenita ai sensi che ora come oro non suonano bene.
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Ma
Sei qui dentro per altro e sei fuori luogo ancora. E sei stata tra l’altro rapida a liberarti della fiammella e certo in mente prendi merito della parola che mi resta santa, povera santa Ma: mettiti dove vuoi ti veda. Nell'occhio da posta a volo e nella voce rotta che ricordo a pezzi. In piena luce come in ombra e nel ventricolo sinistro del tempo più dotato di battute universali del torace arreso al momento. E sei perfetta, umida atmosfera, perchè ancora la mia iride attraversi. Posso dirti grazie senza renderti amore e battito per adesso?
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Come a caduta
A Laura Turra, cui ho rubato il verso inclinato. Con il passamontagna calato sulla cima, le nuvole rapiscono raggi minacciando tempesta ma da fori impercettibili comunque salta agli occhi la rettitudine della stella. E tu con passato riassumi il vento. Il sistema universale invade il sistema palese: nulla ferma la luce piuttosto curva l’attrazione di tessere grigi, non colore come la diceria della mente. E per questo il glicine non trema e non teme di essere “un labirinto / il mare” dove il filo di vento guida il bene velato. Così ti incontro dove eri mentre altrove non ti appartengo, né quindi chiedo di te altre congiunzioni copulative. Per es.: lontananza e desiderio; da tempo siamo congiunti a sorte e la distanza avverte questo tratto che tanto niente disegna.
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Quando torna la viva scomparsa
Nel sistema medico-decimale il sussurro, l’ansimo, è diagnosi prima dell’urlo: geme come una se mente. Risiede in un frammento del millimetro, tra atomo e attonito, con lo spessore pallido di un velo, o il sottile diaframma di pelle tra glutei e camicia. Lega amo e polipo, tentacolo al buio, torna e scava con il principio del vento l’ubiquità tra persone prive di viso riviste abrase. La comparsa perde peso se la notte evapora in spirito. Una goccia da asporto coglie la fessura tra labbra e fa gola. Schiuma relitti e sguscia il cuore. Copro la resa con l’intuito che fingo. Recito a memoria le parole che cambiano continuamente il non visto in vita, oppure mi prometto l’abisso che avrebbe scavato la scomparsa - sobria, certo, inappuntabile, ma dolorosamente in corso. C’è la sua gioia che guadagna posto risalendo a mente, salubre e nuda; o a ragione proseguo integerrimo - bavero alzato, occhi spenti, mani giunte da prima - il nostro fondamento. E forse neppure: solo mi illudo che esista un entroterra di ospiti salvati dal contagio che si respira.
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Ho rivisto la radice che penso
Yannis è fermo, pranzo quotidiano di radici, segno di numerali della durata di tanto respiro. Scrivere è togliersi dalla testa qualcosa, magari in stile dorico. Mikis coltivava le note per una ginestra a cappella - voce sempre verde: ignoravo che questo fusto è come una foglia e il giallo è fare volume con poco. La musica può: amo il sirtaki e quinn. Allora io trovavo scarafaggi singolari tutti i puntini dell’iscrizione “G. Vicinanza” dove si entrava nel secolo in corso d’opera e si usciva dalle pagine precedenti con la stessa campanella. Come cedui. Cedui a lungo andare, non per sempre. Ed io abbattuto, dannatamente privo di verticalità tanto da essere succinto fino al nudo congiuntivo del tempo: un suono muto era il sonno, poi diventato sonoro come i trattori. Sveglia! E alzo la schiena addolorata dalle lancette. Avviarsi sbattendo è delle folaghe e delle finestre. Nell’autobus è impossibile correggere i percorsi, ma ogni fermata ti apre nuovamente le porte sul luogo dove comincia la suola il suo inferno e la libertà il tuo miglior consumo. Per intenderci, la lettura di un passo coincide non all’apertura delle gambe ma allo scorrere del rigo più avanti e se riesci a tenere a mente la direzione come la porta alla bocca il belpoeta puoi sperare che un seme ti faccia strada nella terra. O solo la terra brucherà le mie parole.
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Combustione interna di un uomo a scoppio
Questa forma custodisce tremori: figlio padre io piccoli luoghi comuni fratello fratello e tu sorella madre. E se pare una teca presa dalla polvere non c’è velatura migliore: un soffio e la grana minuta vive in un largo minuto dove è mandato del verbo occultare la riduzione della luce. Nel campo dell’anima, la forma è meno del contorno contenuto, a momenti più di noi, detto per compagnia o per ridurre l’oscuro. Nella luce accadono gli occhi a menadito, poi per buona fortuna non si perdono al buio. Mi tocca? Lascia che deponga la pelle. E dentro le palpebre il talento, la pietra, né miliare né contundente, ma una scheggia. Falla da scafo tra rive a vista a vampate. Questa forma è inesatta. Tutta la natura lo è. E dunque, il vento ricapitola il maltolto. La primavera non strappa il riso che sul viso germoglia, amaro dopo appena un giorno. Il vento raccoglie negli angoli l’esito graduale della sua forza, lo fa con insistenza come chi sente il rifiuto inutile e può strappare persino il colore dei tegumenti da solo. Dall’insegnamento del monte fonda ripari che s’incuneino nel luogo; e idee concesse ai piedi che le gambe reggano. Ho trovato un eremo nella teca e per tutto il bordo una circolazione artificiosa. Così il sangue si inventa parallelo della fionda e centra bersagli rifiutando di mirare al suolo. Gil, la tecnica della mia descrizione contiene il creato e il falso; la chiave e la toppa. In effetti è l’unica reliquia del mio girotondo: l’eternità a cottimo, finché si conserva. Non credere al tempo dell’ozio, dove cade la scheggia, la gamba, l’ora io e il noi turgido, capezzolo e compagnia bella. Di questa teca appassionati ai gangli eccitati tanto vibranti da non essere visibili, come dio. E Dio mi piace così com’è: levato da terra e posto da capo nel cielo migliore. Io ricomincio esattamente dal tempo io per dimenticarmene quando la paura ordina il caos e vento che non smette. Con precisione vedo le tue mani depormi venendo dalla radice come fogli, e stecco ancora.
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Questa prima truce
Ci sono ombre da sole. Ovvero: per trovare compagnia si ripetono, dividono il suolo in componimenti persi. E non attirano gli occhi, anzi li svuotano, chissà perché. Come una incontinenza, resta coperta dalla notte di neritudine. Ma è a tratti, retta da nervi lucenti, conserva la memoria dei contorni, la mente fresca. Una punteggiatura, ti dico, scritta a capo, ad personam. Possiamo prenderne virgola due, e fare il nostro racconto, ingabbiati nel monitor, un quadretto ciascuno. Con uguale sostanza, stimiamo di sfuggire all’amo, e siamo sparuti, sciolti noti per poco mossi. Appostati come camaleonti, ma scagliati a più riprese da ciò che ci prende, fingiamo di avere aria intorno adagiati per la potenza persa non troviamo pace che di vetro.
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Umano a rotta di collo
Due passeri che si inseguono in volo creano una coppia in un momento di forza stagionale, una rotazione nel calendario, io trovo; un moto dell’essere lì nasce; lì, giusto a breve, si forma un giorno. Quale profilo scaglia in me questo orizzonte? Occhi che pur di vedere mettono a fuoco i palazzi e le siepi con l’idea e le ruggini delle cose che dettano composizioni segrete, inespresse perché così si usa nel solito modo: da umano a rotta di collo, che non trova riposo a volo.
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Ready made
Ho trovato una bottiglia di vino sulla soglia del negozio di libri e sono contento. Dentro si intuiva l’esatta quantità d’aria che la macchina di produzione insuffla nella goccia rovente. Più sopra c’erano i testi tanto diversi quanto le parole usate lo permettono, ma in fondo sempre le stesse, qualcuna ineccepibile, altre di nuovo sole. Fuori così vengono le bottiglie, tutte uguali fino alla bocca che le sonda. E’ l’industria, bell’uomo, scarna ed efficiente! E’ il macchinario che banalmente va dove seccano i bicchieri. Una bottiglia, diamine, una bottiglia! Solo un’isola di vetro... E intorno il soffio di un cratere emerso; erutta ebbrezza - fino ad un certo punto: quel vetro scuro che, vuoi o non vuoi, strascica la pronuncia, coinvolge la mente fino all’evanescenza. Gli oggetti così composti sono presi da almeno un pensiero: faccio presente che il contenuto non è compreso. Viene dopo, riempie quanto serve.
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Non so quanto per bene
Conosco uomini che armano l’amo con un’esca infinita. In effetti so di me anche altro, o peggio. E non per caso. Né meno il pesce che a bocca mostra labbra salubri e nel morso trova il calesse per l’aria. Fa presto a prenderne atto l’altro mondo - lo stomaco. C’entra poco, ma l’ago dell’universo cuce il frutteto alla terra e la prassi del pianeta alla fioritura del melo. Questo di più: abbiamo bisogno del sarto quando scegliamo uno stile di vita. E via via tutte le cose stanno insieme per ben figurare, ma si legherebbero anche senza la mente che le congiunge - sarà vero? Chi pone questa domanda si priva di un suono, ma priva di suono sorge la setticemia nel silenzio; la parola è l’anticorpo ma anche il patogeno, allora muto e sordo sterilizzano le bende - pure l’eco. Conosco questi uomini da posta, ma non ne vengo a capo. Ne sono piccola parte, un’altra parte è presa da un sacco di bende. Fui anche seguace del verbo ti direi - lo ammetto. Così da simile viene familiare: è il pesce il mio vero antenato. Dopo, non è cambiato. Per questo io dico sorge la setticemia nel silenzio; e sia il muto che il sordo usano le bende che al cieco non toccano - non è in vista. Forse perché accovacciato sui talloni ardenti, il tramonto si presenta senza temere il seguito. Si annuncia come un servitore del buio: serve la vecchiaia quando fa da esca all’alba? In qualsiasi buio, la luce annuda la distanza tra futuri oscuri, presente la scelta - non so quanto per bene.
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Che ti dice questo
C’è uno spazio tra le stagioni in cui si instaura l’incomprensione del tempo, come un cespite ereditato ma mai riscosso, una condanna del passato che è presente, una minusvalenza residua, un soldo in vista. E questa furbizia mi consuma, più del deserto che avanza nel ventre africano, più del ghiaccio ridotto al sessantesimo parallelo, più della certezza che questi due non s’incontreranno, più del meno male ci sei, angelo mio. Che ti dice questo? Ho paura. E tu sai che la paura è il ricovero del sangue nella sua trincea, dietro la pelle, nell’umida data. Terrore della pagina stimata e non raggiungibile. Se per astuzia stringi i gomiti al tuo calendario e corri, il perimetro della cella diventa una cerchia di amicizie canute. Il tempo atmosferico, con la sua alternanza fisiologica è il muro; l’ambito che non si sposta: la data t’insegue perché deve passare in te e solo lei il confine: che terribile accorgimento essere umano a vita.
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Il compianto notturno cittadino
Ed è così che mi prendo la vista cittadina, salito nel punto più alto della casa. Sopra il suo dorso di cemento e ferro, solo nel perimetro di tanti feretri, nel compianto lutto cittadino - che paiono fatui i lampioni e le animelle lassù -, da un abbaino schietto, io la prendo. Com’è. Com’è che la pendola non vede l’ora ma le conviene? La segna il ritmo celebre dell’attimo, la bestia famelica che ha dentro e che dentro consuma la mia carne - non il tessuto, intendo, ma l’altra intoccabile e celibe - e questo è quanto so dell’amore cui sono soggetto. E’ nell’ordine del tempo, vive da tempo come i gibboni sulla canopia, dondola e trama di saltare qua e là: risalta a momenti. Ad una altezza pari alla sua profondità la passione non trema più. Il braccio proteso non la raggiunge, ma l’arto ormai non è più lungo: la vecchiaia è una attività che va scomparendo.
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In nome, e per contro
Ora, nel momento in cui la mimosa scoppia, una donna espone la sua mammella secca. I loro rami sono teneri per la goccia di linfa che non coagula in vita. La pianta si commenta da sole, giallo con un taglio netto, ma c’è una soluzione: l’olio del vento cauterizza il mozzo. La donna dà un’occhiaia al corpo in viaggio nel corpo. Le dita sono garze: accarezzano un sogno; le palpebre sono superate dagli occhi. Come è bianca la lunula sull’unghia! Com’è bianco incisivo e corona le labbra infantili ma annose; lo sguardo separa i fiati in buoni e in ombre cattive il ventre nativo. Non c’è punto in comune tra le due, tranne il gesto che vorrei maturasse da ora per loro: Amor mio, evito alla mimosa il taglio che non chiese e alla donna donerò la speranza di una goccia che non mancherà al tuo bouquet da sposa.
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Evoè
Se c’è qualcosa che le mie ossa sopportano bene è sentirsi sussurrare che già c’erano, che restano. Si muovevano ovunque con altro aspetto: fuso del vapore, congegno del raggio, magnete vagabondo, pulviscolo di nomi. Da tempo appartengono ad un uomo legato al raccolto, al sudore che genera, al seme trovato caro, come il resto della storia. Se conta il sangue, se il muscolo è il tuo e il futuro di un altro, ma non ti opprime, il tuo ginocchio regge particelle inavvertibili e composte dalla stessa forza che ha cucito galassie. E questo è molto oscuro, però che luce il pensiero che tutto quanto è in me è tutto quello che c’è fuori da me! Quanta spaziosità intorno al nome ruota. Tu chiama come ti pare chi o cosa ci informa; io non so, comunque penso a ragione. La donna che trovò il mio sogno delirante spinse il cancello e mi cacciò via da sé, in queste pagine, imbarcato sul rigo, seguo le stelle che seguono in me. Credo che ordinarie convergenze in vita quanto straordinarie chimiche primordiali facciano il genere, non solo il cognome. Parlavo al mio ginocchio che ascoltava piegato. Sussurravo, perché le parole appesantiscono i tendini dell’aria; e questa precipita; e ci sono pezzi vitali anche lì; e perdono la presa; e decadono; e una nuova cura sembra la caduta. Una caduta in basso, direi, perché non c’è alto che tenga ad altro, e non c’è lato che non si misuri nell’altro. Siamo il tuttuno che viene in mente a farsi sapere.
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Le trame sospese
Come tutti, ho storie che mi raccontano mantenute in una scatola piuttosto comune tranne per quella certa origine da tronchi diversi, se pure familiari. Ossia: per la stessa radice valgono i fatti dalla terra al senso del cambiamento adattato al resto. Parlo, mi parlano, ascolto, mi ascoltano, ci sono e non ci sono: c’è mercato in un corpo e nell’altro forse una folla si anima: così la lingua è nacchera e territorio di scambio. Le parole si alzano uguali fino ai tetti, poi la vastità ne abusa, le sparpaglia; separa le deboli come i rapaci sullo stormo. Per la loro invocazione l’animo adotta la bocca, l’udito è in conflitto perenne con gli occhi e lo sguardo punta altrove, fissando il ventre dei nomi per capire se ancora figlia due o tre o più figure in attese. Comunque, sia sempre lodata la spugna rosa. i suoi alveoli aerati per il sostegno al lavoro delle sillabe che abitano il favo della voce e, corda a corda, annodano il vocabolario al discorso, al corso, al so; e agli strumenti della narrazione. Avrò detto il giusto? Poco importa: in questa pagina muta la nacchera in ballo.
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A vostro nome
a D.P. nel grando mare d'inverno Nella baia quattro gabbiani (che numero, questo!) Non di più i bottoni sul risvolto scuro dell’onda; chiamavano casa la goccia, orlo dove arrivava l’occhio, silenzio i pesci: per ciò la rada e tanta cantilena della risacca né meno sapeva come aprirli a volo. Ora, se quattro sterni sull’acqua non riuscivano a convincermi di seguito, cos’altro può spingere scoglio e tempesta a fare il primo passo nell’entroterra? Sesso e amore, non c’è dubbio, sono oceani: ne possiedono indole e dorso, uccelli e seni. Quattro ineffabili galleggianti in mente, dove l’orizzonte è l’idea, e l’idea è medusa lemme, lemme: l’emme dalla quale fu fatto insuperabile per brevità, il corso dei fatti di metallo dagli accoliti del convenuto irreale. E l’incredibile riflesso di luce che orla di gesso filante la bella ondina, lei, amore del mio più antico amore, unico brillante che mi concede la mossa, è l’idea per un uomo nella cerchia di tanta dissolutezza, rotta al vento: la chiamo. Ma c’è un pensiero che mangia il ventre, adesso: una tenia salmastra invoca coerenza. Niente di meglio, gabbiani, che sapere a nome vostro il suo e, a nome suo, il mio.
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Se solo mi sollevassi
Se mi sentirò sollevato potrò guardare meglio. Osservate come si alza il vento per poi cadere in disgrazia, immobile; o diventare grazia del respiro, perla dello sterno. La fortuna è nell’aria una similitudine presa alle volte. Che vi dice questo? La libertà a tutto sesto può toccare terra, poi non è nell’arco, ma reperto in genere. In me, in te; in te e me allo stesso tempo. L’istante che ci apprezza soffia in ugual modo sopra foglie e sassi e ingranaggi, spinto dalla schiena: tirato dal capo venne tra le mani come mollica. Prima che vedessi il grano, ero solo; e non solo interno. Ero segreto; acqua per neve, attesa per carezza. Ero nel ventre diviso: da una parte indistinto, dall’altra uovo col guscio aperto.
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Venuto a bordo di un corpo
Perché veniamo a bordo di un corpo come nuovi confini, altri territori immediatamente stretti, che invocano le case e le aiuole; la strada, poi più spazio oltre frontiera, visionando anche le stelle in un sogno antico, ma intriso ora nel risveglio che segue. E veniamo a bordo perché curve a miliardi ci congiungono ai bacini, alle sagome residenti, ai profili che suonano richiami, affetti da urlo, usati uno per uno. Ognuno primitivo e schiavo: schiavo, sentimi bene, salvato a fatica. Per questo veniamo a bordo al posto dei remi.
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Top onomastico
Qui è tanta l’erica che il cortile si scopre appena curato dal pudore del viavai. Beati passeggeri che hanno fedi sopra a tutto! Letti, gli uomini conservano la soffitta per accatastare brevi momenti, ma i piedi si piantano sulla coperta: fummo marinai venendo, sbarcammo sul petto di una baia lattiginosa, rivolteremo la strada, peli o cuori sfrattati dalle case; talora entrambi. Al muro, penso, circondato. Il muro ha il ruolo di ospite e come universo possiede la fattezza di un luogo perbene ma inimmaginabile dal suo interno. Sì: i muri dividono, ma danno sostegno. Cara, il vetro è un muro, lo è la distanza, il silenzio lo è, lo diventa l’isolato. Alcune stanze sono rette a tinte vive, le vedo ovunque si alzi la mattina, eppure quasi crepano dove certe muffe risiedono, così che, se pure tentino, le finestre non prendono sole al chiuso, e perdono ogni altro riflesso in nome della tapparella; e fatti per le chiacchiere pettegole avanzano al cancello fino alla pelle. Sento il cuore stanco costruirmi da un pezzo.
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Manco per la testa
Il viale è preso dalla rotazione intorno al lungo mare: entrambi sono vuoti ma come riempiti di perdite d’occhi. Questa conformità nello sguardo non mi meraviglia. Le piante si somigliano da occidente all’est perché sono invariabilmente protese al sole, non a noi. Continuare ad ombra. In basso si tocca. Si crede in alto. Farebbe testo, ma la natura non scrive perché ha altre passioni: canto colori modellazione sfondi; senza urgenze. Noi siamo frettolosi a causa del clamore che procurano gli orologi di polso. Nell’ora della prima luce, la più antica rivista parlò di gossip tra pomo e mano: finì male l’ozio e venne la strada in salita priva di scollinamenti. Gli asfaltatori si sentirono sollevati come ora le piume fingono il riposo mentre chiudono il becco i saliscendi alati e per meno di un torpore lasciano i luoghi a furor di popolo. Non mancherebbe l’aria se mancassero i polmoni, così non mancano i sogni se ci manca il sonno.
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Elegia del sale per corre voce
Tra costa e costa mi ha lasciato liquido, sospeso, il volto scuro, mosso ma non tanto al sicuro vela alla luna già disarmata, stanca, così che le nude ossa sono rimaste qui. Ve lo ricordo, costui: Luigi, nome di bordo divenuto fonte per chi indossa il suo ex sangue fluido ancora nell’ossido ferroso del corallo rosso gioiello del mondo di sale. Eppure quell’anima resta reale se per acutezza del suo cristallo in petto corre voce che implora.
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La convalescenza del gelo
Ho visto più di cento stagioni in processione. Sono il rosario della terra per un girone. Un corteo comune, ricco di devoti migratori. Grani, uve, aranceti, mandorli come tedofori si passano l’istante di fiamma o la somma dei drammi. Lascia che io le conti ancora, almeno ricordando come seguiamo e dove posano le spoglie quando l’eclisse degli occhi diventa totale e l’astro dal fuoco scompare. Ho visto più luce di quanta ne contiene il cuore benché all’inizio del percorso vennero fuori i container cinesi e le ginestre coinvolte nella resa alle bitte del porto, ai troppi ormeggi sorti. Su tutto, la statua del tempo apre la corsa. E che potremmo fare se non correre, forse, dietro al pensiero di fine stagioni? L’unica certezza è che l’anagrafe cronica è la filigrana di quella banconota che solo il gelo al cambio quota.
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Deposizione del sospetto
Candida l’aria di gennaio frizza la piazza folla di pangloss in saldo. Qualcuno ti vede, ma nessun chi sei. Gli occhi mirano sui capi. L’isola pedonale è un territorio di ciaccole d’ormeggio ai moli delle supervetrine. Nessuna frase ricovera per intero l’udito: si va per esclamazioni, feriti dal brusio inestricabile dei mozzi acuti. Mille donne sono più di mille uomini, e mille bambini sono meno dei loro segnali acustici. Un buio privo di quarti lunati scoppia di luminarie esigenti, il buon meteo fiocca acquisti e nervi fiacchi, e tu superba mentegatta, felina mi avii dove il fiato condensa e fumo. Pensa quanto ci rende superflui la cornucopia del flusso che passa al volo. Stormi verso la notte che dileguano migrazione dall’alba. Stormi di mani deposte in strette volanti col sospetto che siano spoglie di ali.
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Parole da insaziabile a figlio
Sia analemma su di te a lungo. E invoco la boria celeste con la comicità della stella funambolica e fessa. Che ti tocchi ilare; e gioia ti venga come da fare a mare, nasello all’insù, riccio benvisto che tanto le somigli. Prima che l’infinito, se lo ha, segni come sua l’invenzione dell’otto e ne prenda possesso togliendoti il merito di avermi sconfinato. Ti ho desiderato, figlio commesso, in osservanza al minino comune multiplo umano, numero che non è quantità, ma quasità convenuta per amare se stesso: un giunto cardanico, uno snodo emozionale tra pronomi non allineati. Tu, io, noi: questo il meglio. Così l’interminabile prossimo farà catena di te e me.
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Detto da un po’ meridiano
Che io conservi il numero di ieri, hanno detto, o diffonda quello di oggi, anno sperato, poco torna ai trasvolatori delle linee virtuali per fette. Nel grande Impero dell’Orso, ben undici volte avrebbe dovuto suonare lo spicchio ma l’ente per l’ordine delle lancette ne fa contare nove, e comanda, in generale, inverno. Fredda notte in cui tutto dovrebbe cambiare sul dorso di atlantide ma niente muta dalla sua spina convenzionale alla follia dei cuochi artificiali sopra la fame ignorata. E devo ammettere, inshallah, che il tempo dov’è cominciato lì finirà, custodito nelle teche anagrafiche come ogni momento libero di diventare effimero mentre l’universo è naturalmente miliardario con la nostra moneta bisestile ma quanto è povero, per dio!
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Dirò presso lo spirito
L’anima accartocciata non fa una grinza. Qualcosa come una rada, la foresta dall’alto, queste terrazze. Lo spirito emerge sicuro da un giorno all’altro, ma in quale momento soltanto il cielo può capirlo. Manca dell’angoscia nei nervi, della silfide nel sangue: è in tregua. Ma tregua è una parola bianca, lunatica. Più delle bianche spume, più delle polveri d’acqua sotto il tappeto della foschia costiera. E domani, al più tardi Natale, lo farà affiorare e poi schiantarsi come niente costruito in noi per fermarlo. Naturalmente questo spirito è pusillanime: si alza per poi ritrarsi subito dopo averti abitato. Su di lui poggia il manto dell’inevitabile dio comune a carni, legni, plastiche e minerali, come riportato. Sia in questo il colmo della leggerezza. Sia l’uomo allegro; e la ruggine via dalle palle! Anzi, via le ruggini che passano per infiorescenze dell’opera ossidativa dell’umore. Il rancore vada dai piedi alla strada, via via attraversi il ballo, il canto, le sirene, i legami; consegni noi al fasciame spiaggiato, da prima che Odisseo lo testimoniasse nel ventre del cavallo sacro. In realtà, questa astuzia è tipicamente umana per quanto vaga. E vaga l’anima si accartoccia, vede poco oltre: non è la notte ma ci siamo, pare distesa, e trascende la ruggine perché possa ancora invocare: “salvami, salvami o spirito salvo, dal sospetto che marcire si meriti!”
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Dirò che presso lo spirito
Cavo lo scritto e l’orale. Cavo il pensiero, se la cava Gil presso il libro, prossimo all’esame finale, al congedo votato fra un anno a partire da casa, dov’è oggi comunque. Accartocciata, l’anima ha spigoli semplici meno complessi. E queste terrazze, per le quali lo spirito è costa cruda, è cava, mancano dell’angoscia di nervi e di piatte terre per nulla sedute. Diversamente bianche spume, denti dell’acqua, polveri per la foschia, domani, al più tardi a Natale, le farà sbocciare. Sia in questo il colmo della leggerezza. Sia l’uomo allegro; e la ruggine via dalle inferriate! Anzi, via le inferriate tra terrazzi che chiedono di passare per confini costruiti dall’opera geografica delle strade. Può ritenersi continente ciò che la piazza separa? Un rancore marino prende dai piedi, via via attraverso e consegna noi a tutto il fasciame, plastiche, metalli da prima che Ulisse si facesse avanti. In realtà non è mai accaduto di risiedere sul mare, è l’oceano che colma precipizi terrestri, quindi i crepacci sono salati e l’anima accartocciata si vede poco, pare distesa. Se si potesse costruire oggi il futuro sul mare sarebbe contento mio padre, ma è in una vastità tanto piccola per lui che le ossa sono rimaste qui. Ve lo ricordo, mio padre: Luigi, dal nome sbagliato a seguito del varo devozionale che, come i limoni le alici e i tonni, è per noi convenzionale. Seduto sul muretto nella darsena di Cetara mentre ogni onda atterrandolo gridava “perché si giunge alla riva più vecchi che stanchi?” E giù risate, digrignando il salmastro e la sabbia. O era rabbia? Quell’uomo, così antico che la ruggine non ne poteva più di fiorirgli nel sangue, appena assentiva. Naturalmente, le onde sono pusillanimi: si alzano per poi ritrarsi dopo averti coglionato. Su di loro poggia il manto dell’inevitabile dio di tutti: carni, legni, plastiche e minerali, come riportato. E dove io copro il sangue con migliaia di camini porosi, lui trascende in ruggine perché possa invocare salvami, salvami dal sospetto che marcire si meriti, se non diversamente conciati.
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Dirò dell’età congenita, inguaribile
Se posso ruotare su di un fianco e russare leggero lo devo a un gesto di gratitudine vs la postura della piccola morte: accarezzi la spalla quanto basta a creare un punto d’appoggio e sollevi il tuo sogno da un borbottio vecchio stile ad un convenevole posto. Ricco di orbite tremanti, apogeo della carezza furtiva - una fase più lunga del quarto lunare -, l’una e l’altro, tu ed io che saremmo inguaribili, prima saniamo distanze poi ci eclissiamo tra cucina e salotto. Quale diritto ha il corpo di mancare l’appello in questa stagione? Recuperi sonno dalla pesantezza del suono, e, ribaltata, l’intera fabbrica del respiro muta il ruglio in fondo. In questa congerie, l’età dei fossili irreprimibili simula la vicenda dell’incontro, ma devi essere cieca per desiderarlo ancora. O, forse, per riconoscere la bontà dei tuoi occhi, occorre io resti allo scuro.
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Parlo per quel che serve al vento
L’idiozia è concepire questa come vela, o lembo o fiocco: inventare un verso è come dire a chi entra dalla finestra che è permesso. Non serve lasciare aperto, ha con sé gli attrezzi. Se scosta una tenda, rompe come niente il cielo che avevi messo intero. A questo punto abuso di una tua incertezza. Insinuo l’etimo, scompiglio i sensi: nuoce gravemente l’estro. Sul pacchetto c’è la mia figura con un danno terribile da tastiera. La poesia sul pomello del battente tentenna. Evita di bussare, intanto si introduce. Ti trova curvo, o forse appena disteso: le gambe perse tra la spalliera e la mattonella. Una bocca seduta cambia poco: il verso uscendone letto, meno. Ho paura che questo non piaccia, ho paura per me che aspetto il prossimo, che provoco vento, che guardo l’orologio, non fermo il tempo. Ho parlato con un amico: “Bob, questo gesto è perso. Se sei passeggero, e resti tra l’anagrafe e lo zero, ti conservi sereno nel cielo che l'intruso ha rotto.” Le fessure branchiali di uno squalo somigliano inconsapevolmente a www.
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Parlo della grazia a tutta forza
Per l’esattezza non le occorre dinamica muscolare, come il fendente o l’artiglio, ma è maiuscola la sua dimensione, e inarrivabile: da lettera fatta a posta, né alfa né omega, purtuttavia ci comprende con l’ausilio del seno, o altri seni; e la sua genìa contiene legittimamente la prima parola nel ventre, per cui l’universo intorno - pretestuoso, fino a spegnere quella sua benedetta luce in modo esplosivo -, è soltanto cosa, non chi. Chi è lei.
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Parlo della candida che mi prese
Era l’anno avvenire di quelli che accadono per la follia di crederli possibili subito ma talmente distanti che il futuro li accerta a più vite aggiunte e amenità tipo fatti sopravvenienti. Già! Ma cos’è un “fatto sopravveniente”? Per secoli la moneta da 5 Lire si è mossa nella volta oscura come mancia dell’Universo, spesa da noi in proiezioni. Io c’ero, tu vagheggiavi ancora, rosa vizza, amata come gemma e in quanto gemmi a vista non sai se m’ami ancora. Ma era quell’anno che al satellite si poteva pensare come cortile, e non da terra. Questo consentì al mio bambino, l’essere che avrebbe lasciato, su almeno il senno di quest’uomo, l’orma. Piena di sogni priva però di corpo, di contusioni e divenire. Era l’anno del bianco e nero arcobaleno della storia. Il piccolo soggiorno col mondo enorme nello schermo, persino circo descritto nella stanza, e lo Stagno contemporaneo che annunciava nuova vita tra due creste del respiro, troppo breve per andare oltre.
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Parlo solo in buona compagnia
Il vino dà modo alla vigna di sopravvivere nella forma di vetro. Il gusto asprigno è pungente in quanto riflesso della lingua come schiocco; e persistono in copia l’uomo accasciato e la tavola rimbandita. E si sappia che in questa casa io nutro il tempo con piatti momenti, anche vuoti, anche sporchi, soprattutto viene naturale il confronto di opinioni tra sè e se usare un verso a sorteggio. Viene il pensiero in gessato. Vedo eserciti di grafemi, aste in resta, truppe elementari sul foglio di battaglia, una carta stropicciata dal vecchio portaordini trafelato. L’occasione non fa il pretesto in genere, ma il pre testo è affollato di intenzioni per donarsi; e se trovo deserto qui intorno, questa è l’oasi nella quale l’ombra è la migliore compagna; ossia: l’idea di un sorso non tocca l’acqua, liscia la carta e tocca a quel lume nel vetro, già al mattino, scaraventare la ragione nelle scarpe e dirle va, va, va oltretutto, come si dice, pare faccia il buon viso a cattiva sorte. O il viso cattivo pare faccia da buona sorte.
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Dirò adesso è tempo debito
Il pruno è così felicemente nudo che le radici si specchiano nei rami per scoprirsi a fondo. Questa visione consente il nutrimento sotterraneo della più soverchia figura: la similitudine tra i fusti. Pensa che spirito possiede il giardino: prima della sommità esposta nella nicchia atmosferica, nei principi di talee, nel dubbio della mutazione. Ad un’unica occhiata, l’intera pianta mostra l’annuario delle scadenze. La stagione è annotata in cima, il tempo complessivo è l’anello moltiplicato i giri nel tronco, il giorno che non può trattenere sfogliato a maggior ragione. In pratica, tutta l’astuzia è spogliarsi da sé per superare la solitudine e prendere confidenza col gelo.
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Dirò di un sogno a corpo libero
Sul copriletto dove vive il gelo, e presumo anche l’acqua si copra, trovo l’insonnia inadatta per l’ora, benché il tempo faccia in tempo a fermarsi nei condotti del tepore. Poi: è freddo fuori. Volta e si rivolta il corpo perché lo spazio è certo, ma impalpabile al buio, tanto che il vecchio sangue corre e batte e scivola e si rimette in piedi. Sulla parete il pensiero fila a fronte come un ragno: immobile, fautore dell’agguato a cottimo (più la posa è sostenuta, più la vittima appare). Freddo, e dirò ineccepibile in un certo senso, fa missione di ingrandire ombre e pare questa o quello altrove. Ogni falena deve sembrargli un’orca ma per la falena lui è quel pescatore il cui amo precede il morso. Pur con la sua statura, qui il cielo è più basso qualunque atmosfera sogni e si piega a me per espugnare la mente con il suo cavallo: un occhio, e l’altro che lo segue. Mi sento liquido in questi frangenti come scritto dall’acqua all’approdo.
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Dirò parole di seconda mano
Una piccolezza, sì; io, sì, cerco un nome praticabile a dismisura o altri incitabili, qui versati a fior di labbra, o, per le labbra, zucchero filato come un cumulonembo e morso voracemente a piacere illuso che addentandolo il loro aereo mi prenda (non sempre la lettura è vera fame e mai la fame si sazia di letture, qualche volta la pancia si riempie a passeggio) e cito - cito tasto a tasto ogni lettera -, le contusioni dei traduttori (perché la lingua non si ferisce ma si cura, quindi riporto le inferenze cui dare fiducia, come vetro smerigliato dal quale leggi una forma e riconosci un corpo comune). Così le parole annotano rapide, viste da finestre che riflettono un fiume.
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Monte Stella
La montagna è appena più di un colle, ovvero l’una e l’altro, quindi bipolare: vetta e valle sono depressione e slancio non molto distanti. Come venne fuori? Spinte profonde o vicissitudini planetarie, forse continenti che se le danno di santa ragione -, le hanno poi tolto l’increspatura, la taglia forte, i picchi caracollanti, gravi e acuti scacciati dalle lingue correnti con fabbricati sfibbrati. La curva da desnuda un grecale a pennello. Piena di cicatrici, il fianco sotto i miei occhi ha ceduto più e più volte allo scoramento, frana come quell’altra figura che ho in mente ma non sottomano: il vento col suo nomignolo imperversa nel mio costato sinuoso come il serpente d’asfalto giù a valle. Dev’essere nata in una lontana alba della notte terrestre o, presa in piena pangea, la sua posa corretta è dovuta alla marcata scalfittura della pioggia che traccia innanzitutto i righi mentre solo i quadretti si conservano. Avvalla ai piedi una guarnitura verde nei bassi bianchi di foschia, e i fabbricati per quanto detto, quasi commenti moderni, ospitano parenti e altre famiglie o soli stretti, forse stranieri, convenevoli adesso.
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Tanka italiano
Povertà * Occhi nel vuoto. Mani nude cercano carità ignota, Le ricchezze parlano di vuoti che costano. * pochi spiccioli: posso donare questo ai più piccoli. Ma non basta il gesto, occorre dare il resto! * Sono povero però questa camera è un impero. Mi soccorre libera: ama come desidero. * Vivo fermo là: su gelidi gradoni aspetto pietà. Il marmo s’appassiona quando la gente dona. * Sii come foglia che dà fiato a radici non le artiglia. Da fiducioso, dici, la carità fa felici. * La rosa freme ma non la neve teme se pure preme la nudità del seme che all’addiaccio geme. * Devo speranza quando il cielo prende tanta distanza. Il cielo che pretende si salga se non scende. * Sempre le braccia prive di fratellanza sono minaccia. Dai loro importanza, fai bene abbastanza. * Fame e bisogni indifferentemente lasciano segni. Tanto, troppo in gente il danno che non senti.
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Fa freddo e treni
Ogni stazione digerisce i treni - fame binaria. Ma se davvero partire è morire chiedo il resto alla fermata quando inscena calma - freno indigesto. Tra le banchine colgo l’inverno acuto - non mi comprende l’amore osato. Da quale ramo leva? - Cado io solo.
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Nuovo è tornare
Maggiore trasparenza chiede alla finestra il suo segreto, rincasando distesa, nel cono d’ombra dell’uomo. Così come è, mostra il profilo della stessa specie degli oggetti fino a sommare in lei l’occupazione del nero. Inciampa nel buio domani e un calendario di singole voci sfoglia l'albero dei nomi. Se la parola adesso fosse con vocazione, sarebbe intensa e tanto appariscente da sembrare urlo. Lasciatemi stare in questa chiarità che ultima il mondo, dice l’anima trasandata, la gatta buia con fusa, la fucina in disordine, il piatto sapere e il verticale insoluto. So che corpo e mente viaggiano in modo diverso: il primo nel metro e nel ferro, l’altra a seconda che il sole si affacci o meno nel vano dell’ora. Poco si apre al nuovo. Nuovo è tornare più vecchio ancora.
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Della lettera a voce
“appagnato / senza sapiri” D.M. ad Arbadom Proteso per la lingua, un architrave legge il tono della stanza; la parola indossa l’eco e sfila; il piancito regge l’attitudine ai passi alti; la mezzeria del fiato conforma il diaframma: è una passerella al santo portato, che alloggia in gola: il fiato la percorre; soma il portento della voce; questa è la pubblicità di una nuova fondazione: così la pianta disegna il carpentiere; siano o meno volatili gli utensili del colore, l’ape dell’accento poggia il rigo pendulo su chi piega il muscolo dell’alfabeto; orlo, innesto e forra, ruglia il sangue e mette a fuoco il dente, lo forgia, ne saggia l’offerta, conia una parcella magra, di fame, nemmeno un grazie, ma sii benedetto tu che fai opera degli altri vuoti (dico di me a costui); questa consapevolezza fa presa nel creato; l’esempio del silenzio trova adatto l’uso del verbo migliorato con il suono, prima viene la corda adatta, da sigma lunato, per il fenicio al siculo, l’alessandrino cupo, il genio “appagnato / senza sapiri autru” - chissà se ho scritto la tua lingua nel modo giusto per dire altro di me che tu intendi.
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Le temps: un trompe-l’œil maladroit
Sembra essere molto tardi per tornare a qualsiasi ieri. Ogni data collassa, cede di peso. Le date sono spalle malmesse per quel ponte che l’attimo regge solo a mente fresca. Ah! Le lancette come bombardieri sulle macerie: erano costruzioni durate niente, per quel che in giro si sente, o nulla o momenti. La casamatta del cranio custodisce la guerra di riferimenti: una cantina inaccessibile in cui maturano i numeri; spremuti, e quelli duri si mitigano, nella ferita a quadretti. Numeri spiegati ma intrattabili non lasciano spazio a luci efficienti. La notte spazza i viandanti con la luminescente saggina dei clacson. Per legge, gli abbaglianti lampeggiano ma i motori non devono tuonare. L’età dei passi muove in silenzio un tanto al metro. Com’era facile saltare il cancello al rientro del giorno sulle gambe e col gomito in bilico prima che si svegliassero l’acqua e il secchio nei portoni! Fino ad un certo punto, e poi mai più, una caffettiera si avviava al compito di scossa nelle asperità del dormiveglia. Almeno un altro borbottio passa dalla camera da letto e mi raggiunge: non rispondo, come sa un uomo che passa il tempo, che finge il bel sonno ma tra le pupille invoca un punto o l’altro che usava a membro.
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Palabras de aliento por mi novio
C’è un senso nel viandare con un solo lume acceso nella testa. Marco Armando Ribani A Marco Se resti con gli occhi sgranati, mi sono detto, sulla strategia dei contabili oppressi dalle date, sulle date irriguardose dei doveri/dovesarai, ma non ti meraviglia l’alito di un gladiolo o il battito del neon a fine carriera, non ti accorgerai che tuo figlio è partito da te. Poiché ti è noto che il prossimo attimo è il risultato di un algoritmo di battiti più gli aliti se, e solo se, il cuore conserto divide il numero finito per l’uno dato (fa lo stesso: la sussidiarietà del Decimo emendamento, la conturbanza del quarto verso, la mancata presa del portiere sullo zero a zero), occorre tu prenda coscienza dell’enorme posta in palio: lui deve seguire la sua strada; tu la salita non l’hai fatta per godere fino ai piedi della stessa temendo ti si spegnesse il petto. Perché lui dovrebbe scegliere la soluzione che tu, stupido, non hai applicato passo passo? Nemmeno posso costringerlo nel mio verso che si perde.
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Venerazione della sedia
È un residuo della stanchezza che acuisce l’autunno. Provo sdegno per aver visto un uomo fatto a pezzi da giovani iene in un luogo non suo né loro ma patibolo comune. Sia sempre che le vittime non perdano la testa. Un viale vero mostra il concistoro di lembi, verdi al tempo della predicazione dei semi, liberati dagli omeri dei tronchi. Quanti pesci rossi cadono dall’alto e prima di boccheggiare si sentono le ascelle dei piccioli scricchiolare per tenersi a galla. Si diffondono squame a tinte roche, a cordini staccati, dalle parabole inascoltabili. Come un affetto reciso, un canto spezzato. Qualsiasi bene si sfoglia: e più annuda il costato. Come credo tra i lombi una saittella si otturi, poi la mente rastrella, aggruma, non distingue la grata. Non è esattamente inverno per lo straniero colpito, ma il freddo cala sulla vicenda al modo di ripassare in fretta l’invisibile confine dello scempio. La stanchezza chiama con tono soffuso: siedi, diventa vicissitudine della notte. Oppure nota a riposo.
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Turbativa d’astri
Il vero problema è l’immaginato. Appare sulla retina non l’oggetto ma ciò che a memoria abbiamo toccato. Osservo una ruga: non arriccia lo specchio; nell’ottica di un frangente anche l’anagrafe diventa un fiore all’occhiello, lo stelo minuto dietro il bavero del tempo. Da un punto parte il futuro, ma non so dove è passato. Non saprei trovare quel punto. E’ soltanto uno, diamine! Oppure sono troppi e tutti fanno la stessa strada. Chiudi gli occhi, e luce fu. Allora, Isaia si alzò tra gli astanti come un cedro dritto prima del rimboschimento. Assalonne fece segni convenuti per zittire Gioele pieno di invettiva contro gli Assiri; il sacerdote mostrò il frutto precedendo la gemmazione di un’altra stagione: ”Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni, né un vecchio che dei suoi giorni non giunga alla pienezza.” Ed io, non tanto vecchio come allora, riflettevo che questa è la poesia, pur non sapendone e stando tra tanti che professavano di conoscerla, frequentarla, addirittura ne facevano ovunque! Avrei dovuto sentirmi perso; però no!, non lo ero. Ecco la piega che non prende lo specchio presente. Anche a me è accaduto (succederà anche a te, ne sono certo) di sperare diversamente, e oltre, il circondario del campo del Seminario o ai Salesiani, ma senza più poterne uscire. Da ragazzo, i muscoli si formavano sul terreno dei santi che, per la gibbosità dei rosari, a quanto pare mantiene in alto i passi e le mani. In seguito quei paradisi si sono svuotati, come se per i crediti del cielo occorresse un piano regolatore meno effimero della figura del cedro. Da quel giorno, Isaia non tornò più sull’argomento, benché richiesto. Egli considerava profetico che: “perché il più giovane morirà a cento anni chi non raggiunge i cento anni sarà considerato maledetto.” Non ebbe il tempo di verificarlo, e spero non tocchi a me, o a te, contraddirlo, ma le rughe tra loro già ne parlano.
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Effimeride
Non ho più creduto alla terribilità dei fulmini da quando ho scoperto che Giove si riproduce per mitosi; ed è quindi un fungo. Nel sottobosco della ionosfera, in quella che normalmente è la nuvolaglia di mezzo, c’è un bell’ambiente in cui aquila e cigno non coesistono ma si inseguono. Prima che venga sera, il mio grembo avrà una eco gemella del mio signore, disse Leda parlando alla portinaia. E il suo uomo che non ne sapeva niente, vide il lampo riflesso dal gocciolatoio sul lavello. Non si rese conto che quella tumescenza era più veloce delle saette del Catatumbo. Oppure, la donna esprimeva assenso materno benché un uovo non è esattamente figlio di una provetta! E in uno almeno la poesia trovava i suoi numi, il che complica la Nemesi per le rivendicazioni di genere. Anche la narrazione entra in gioco: qualsiasi parola è spora di un effimero quotidiano chiamato respiro finché si replica.
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A saggio
Luigi: amabile; e per ciò amato a braccio, oggi buonanima a sangue freddo nel conglomerato dei simulacri, sopra la biancheria con infioriture gialle sul comodino di noce pressato dalle luci votive che tarlano a spegnersi, era un buon soggetto. Senza dubbio il migliore dei complementi quando chiarivano che fossi figlio di. In pratica, un uomo con pochi verbi, ideale nell'attesa dell’età che dicono giusta, quella che avvia i tuoi guai; per niente pesante, eppure roccia, selenite da mare. Con la sintesi della vendemmia vive oggi nell’uva costiera che in gola porta il suo succo spaesato, nettare allo spasmo. Dio solo sa quante sardine ha costretto a seguirlo in riva alla tavola, quando in vita una parola era discreta cintura della fame, a cortezza variabile, mai intimidita da medicane e dal marmo. Il mio nervato bianco qui ci separa. Il molo del sacrario emerge nella foschia costiera, imbarcadero delle venature che vanno a dorso del colle, convenuto di mortella e ginestra. Tra gli assi scarnificati del suo scafo laborioso alla via nel secolo ventesimo, breve corso perché noi siamo piccole case a volte arabe, non ci è voluto molto all’abile artigiana restituire l’organico al minerale e, a me, i nostri minuti passati, che sono poi presenti e futuri sostanziali. Come nelle mareggiate, qui i muscoli labiali si saziano di sale; ancora qui le sue mani cotonate dal cordame, profilate dalle unghie ocra; qui i righi segnati dal catrame delle nazionali - il suo fumo mi ha reso dipendente prima che occupato - e pure contagio, quindi, grafite del mio corpo: ora come ora torni a salto.
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Corsa a perdi stato
Io corro. Normalmente corro. E correndo accelero il giorno. Normalmente non mi allunga la vita. Quello che dura è duro, il molle s’informi. Nasce così la sensazione ‒ in forza del foglio oppure fossile dell’età del gioco ‒ che i miei passi aumentino la velocità di rotazione del pianeta sul dito del giocoliere Atlante: il titano che mi pensa criceto. Vedi, amica mia, amico!, ti seguo a ruota per l’esercizio del cuore millantato che in via eccezionale sopporta un traffico stupefacente: a tratti mobile o in fermo. È significativo che solo ho amato riamato due uomini all’impazzata: ad uno sono sopravvissuto, l’altro mi sopravviverà. Questo la dice lunga su quanto duri il respiro. Tutto sommato gli organi reflui appesantiti da un affanno circostanziale riposano meglio nel futuro prossimo che in quello già remoto per ora, e ore spero.
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L’iniziale
Riporto qui l’iniziale, l’avvento di questa figura sfilacciata dalla nebbia, trapelata; lungimirante, certo, quando fu necessario imprimerla come il timbro; e non solo per questo continuo a trovarla sanguigna emme. Sollievo come due colli sul ventre in una notte ruvida, vetrosa, di contenimento. Emme priva di indirizzo ma che risiede o in un papavero o più in alto verso il frumento. Emme che non parla ma dice, iniziando da altro, proseguito in questi segni, ogiva del suo spirito, aumentato dagli affanni, esaudito nel gesto godibile della fonte ripresa dall’acqua. Emme temeraria con il coraggio dei porti naturali, delle baie più grandi dei mari che accolgono carghi sconosciuti e piedi privati di orme o, comunque, di questo lato. Emme traghetto con la stiva tra le anche. Emme congiunta al legno, emme di miele. Emme contagiosa per il trasecolare diffuso, quindi eterno, incessante, seno universale. Emme sorniona come stella, come tratto del raggio, ossia luce che chiede spazio e annienta le setticemie oscure del cosmo. Emme convessa che scorgeva da lontano figli, da lontano chiama figlio ciò che si perde, da vicino sussurra padre l’umore nel palmo fiorito dalla terra nel punto in cui ha battuto. Emme che sopporta l’eco del lamento e ripete che il chiodo fuorisce: “fuori esce dal mio petto quando nel suo entra e fora.” Emme attraversata dal mio corpo, complice l’alfabeto che le toglieva la parola primitiva; emme che mi hai lasciato più dritto del rigo, più preciso dei quadretti, spillato da quaderno. Emme con le scapole non alate ma di piuma, emme volatile come ogni finito terrestre che ritengo a mente porziuncola del sempre. Emme votiva, statua di cellule contuse dai ceri sfiammati eppure ancora in cute. Emme di Matilde, come di Madre: come meraviglia, persino in morte.
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Con cosa ti ho colpito
In tutte le misure l’acqua mostra un potere immenso. Cambia e adesca terre, supportata come tabarro fondo o toga luminosa. Nel millimetro è sorniona, pronta a diradare una folla. Nel metro è congiunta, guarda quanta ne raccogli. Nel miglio è marina, per chilometri nelle vene di continenti interi e tra i continenti è ponte sul quale le chiglie confabulano e i piedi si arrestano. In pieno universo è fonte di una rete oscura che pesca pietre e gela le claveline delle comete. Non può essere ferita: si chiude troppo in fretta. Ma se ti chiamo acqua perché non corri?
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Coll’uso
Portano al naufrago un remo intero, e uno inservibile perché non c’è. Accompagnano il gesto e l’oggetto con un sé remoto rimesso a nuoto. Parole che l’assente non conferma. Neppure udite, quindi, né meno perse. Il soccorso è una maglia di lana, intima e usurata, pregna di afrori che generi, e aloni come corone. E’ un must per i marinai spiaggiati sulla penisola del divano. Così io fondo il salotto di carenaggio. La maturità dei porti non la vedi da lontano, ma dal fondo partendo. Ma non è per le mattonelle oblique che i piedi poggiano divergendo il verso. Il pavimento è la traccia più seguita quando l’inquietudine piega la fronte per sbarcare una passeggera tormenta. Tuttavia, il parquet meglio rappresenta la lisca della stanza, come avesse branchie piuttosto che il diaframma del mondo in una finestra. In quel punto, l’arco solare scaglia le sue frecciate a bordo dell’arietta capace di ottobre. Arriva nell’ombra il gabbiano e viene il grido col quale prende il volo un tacco. Ci sono porte in casa che se non apro le sento difese. Ma, allora, perché sentirsi alle strette per prendere il largo? Comunque, quest’ala è palindroma di un’altra volata.
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Da vero?
Sono sicuro che qualcosa di vero c’è. Vero: non tutto è falso, non sempre pare. Lo vedo dall’inutilità delle raffigurazioni, definite artistiche appena, senza dar torto a voi, al nume che vi s’impiglia, al metamero della triglia cui so miglio e miglia fatte. Il riconoscimento lancia un generoso appello: tu ci sei, resto, e dove? L’orizzonte è fittizzio anche scritto qui. Virginale, l’ombra della coscienza suona l’incoscienza dei morti, si sentì (questo è da sapere, ma buio e consistenza bloccano la visuale: il mio spirito venne mattutino e aggiornato al seno vizzo, scontato). Non tutto il minerale è indossato; so con certezza che si trasforma in noi per annidarsi nella congiuntura tra l’orma e il nucleo del pianeta (vero). Non sarò per questo mai alto locato. Intanto, è terribile che l’orizzonte sia solo respiro: perso, si perde il vero falso.
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Allo scomparso sarà data ragione
Oggi mi sento cosmo nel cosmo. E tutto ciò che vedo, tocco o ascolto è cosmo, ma in pectore, come me. Anche quello che rumora in sottofondo, o romba e spiattella atomi ovunque. Il mio universo confina altri universi: un numero indecifrabile finito qui. Vedo tutto, tocco tutto, ascolto tutto: tutto è il poeta morto che vivo ricordo e ogni cosa sua, e animale che gli parlò, e, pure, onda che lo annegò: lui non smette di lievitare nel fosso stellato. Oppure è una immensa camera di scoppio, motore di innumerevoli motori a scappamento ridotto. Il fumo, amici, fa male innanzitutto al tabacco e la voce, cara, rovina la cornucopia del petto. Solo afferra questa bolla di gas all’oscuro delle incredibili reazioni che scatena, ma dolce e amara spingono le mani con giunti la sua vena triangolare, come una insegna del miracolo a vento. L’abisso pieno di rotte ben oltre le tavole: un fardello senza pari può su portare. È un precetto di bordo segnato dal mare fondato.
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Principio di sollevamento
Potreste obiettare che è affondato l’Impero per il semplice fatto che il Siceliota austero non rivelò se galleggiare attiene ai polli quanto a ciò che li sostiene fino all'ultimo boccone. E sareste come le genti che fecero leva sulla sua mente. Così il contagio del dialetto geniale fu vinto da una lingua letale. Tutto quanto sappiamo - la prima scienza, intendo, fino all’ultima coscienza del saggio - è per l’osservazione molto più che premio alla ragione. L’accaduto fu registrato nelle strutture ingrate di quel certo ambiente di marmo e kòllema fiorito inconsciamente. I segni agglomerati sono rimasti e, benché la pietra riduca la storia vasta alle ossa, ciò che non si mostra per intero è indice della mano ricostruita al vero, non sempre reale come resa dove si sostituisce alla parte lesa.
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All’epoca dei fatti
Poiché a noi è concessa soltanto un’era dell’universo, osserviamo le briciole supponendo siano di un pane intero e vogliamo capire chi lo ha fatto a pezzi. Lui, invece, resta di ghiaccio e non si cura di una dichiarazione del genere. Preda di una bevanda oscura in una hobbleskirt coperta da brevetto americano, ci tiene come effervescenza tra le tante bolle che arrivano al naso, ma non vedono il capo. Tutto questo dà euforia e la vista aspetta echi senza alzare la voce. Quel colore di tumefazione, quel colore è preso dal viso quando le risposte ti sfuggono. Saremo bevuti, ma spunteremo ancora dall’oriente del nulla come sopra viventi, non superstiti, piuttosto reduci dalla messa a terra: nient’altro ci serra. Là fuori regna la mutazione, intesa dai cuori come crasi di movimento silenzioso. Non ho esperienza diretta delle onde di fondo, ma dicono sia l'inizio raggiunto. La gravità si diffonde come una formula, al suo passaggio un pensiero distorce tempo e luoghi di vecchi discorsi. Una qualità enorme servita al padre di tutti i padri insegnando a tavola la forchetta ai figli. Anche presa da lontano, questa idea non allevia la fatica di doverla sostenere. Ossia: parlo senza il travaglio della credenza. Lascerò che un altro dubbio mi sorregga, una scansia inarrivabile sulla quale poggio nulla che sia a misura di buona prova. Come un sestante mi pongo all’angolo: non calcolo, lascio il controllo a chi ha vista.
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Dell’ultima lettera ai quattro venti
Mi è giunta una soffiata: Eolo non c’entra con gli abiti sollevati dai corpi tremanti. Li aggredisce la marea delle mani; e l’opera d’amore, che non è presiedere le convenzioni sull'argomento cuore, batte sui martelletti vocali e viene il mormorio come a riva struscia la chiglia e ruglia l’aria sulle creste. Perché non esiste la calma se qualcuno soffia sul collo. L'atmosfera in quel luogo, sia esso buio oppure inutilmente al sole, con uno strumento invisibile, magari, fa pressione - io so - da una parte all’altra della carotide, poi accalca suoni l'emozione chiamata terrore restituendo le onomatopee del corpo o della resistenza ai colpi. Vorrei conoscere a fondo i quattro cardini della sua rosa: tramontana, levante, ostro e ponente, tra i due seni, la corda vocale, vibrante nord, e il ventre infuocato deserto. Li avvicino con una banderuola che ruota, e ruotando indica che: ognuno di voi è salubre fino alle ossa, poi sbatte la porta e il dolore, già sulla soglia, fa fatica a mantere colonne di fogli di riso, come sumi-e rosso labiale (questa “e” oltre a congiungere pigmenti diventa pittura nel luogo in cui c’è: non il bacio ma il suo mito vergato da un ricordo). Nulla cambia per le fossette se gli angoli della bocca aprono il fusto dei fianchi; e tracolla il volto. Il viso è una bella platea quando le ciglia applaudono; e salubri dovrebbero essere i loro intermedi: gregale, scirocco, libeccio e maestrale, diciamo la mezza misura del naso, le gote scoscese, la fronte a picco, la gola più adatta in quel punto. Tornando all’amore, con l’aria che tira, è chiaro che un’isola percossa da folate sarà solo uno scoglio. Questa congettura diventa assassinio - each man kills the thing he loves - quando la violenza trasforma il desiderio in una maledetta psicosi. Sembra una diavoleria ma è un soltanto il vuoto in un uomo. O rosa, abbi cura di te da sola; e sola guardati dal vento di controvento, anche per questo ti amo, come amo il prato ma non lo pianterei in salotto o, desiderando dormire tra verbena e rosa, non n’eradico per adagiarle nel mio letto. Men che meno soffierei il seme su posto.
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Della prima lettera al potente Impero
Dal mio punto di vista, o potente, siete immane. E il punto dal quale esamino il drappo starsandstripes, con l’intero firmamento in stato di guerra, è meno dell’eco che l’occhio recupera dal vostro raggio. Tanto più grande la forza quanto estesa tra due oceani la polveriera che chiamate terra. Ecco il punto: niente vi ferma, né la natura violenta, né la violenta mano che l’ha preceduta. Come la vite aggressiva e tentacolare, eppure piena di nettare di dee, la fondina dell’uva ballonzola al fianco degli ulivi e sulla spalla dei ponti pesa quanto resta di totem e bisonti. Oh, a noi bastarono cesari e crocchie sempiterne: ne abbiamo aspersi fanghi col sangue puro! Ma voi non vi fermate mai. Da seicento anni marciate in avanti e in alto, con il sistema del santo metallo e il cuore di silicio. Che meraviglia!, il muscolo del doppio continente ha superato il plaid che l’ossido di carbonio ha ridotto a cencio appeso ad un filo sulla terrazza del cosmo. Il vostro dominio si infila verticale tra lune che auspicano un nuovo nord, e bussole che ormai segnano solo il tempo perso, santabarbara planetaria dall’orbita intrasigente. Fatelo fuori, o potente Impero, asciugate la sfera se il rosso vi scuote: comunque una vena resta e comprende l’arcobaleno che le corre dentro.
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Della prima lettera alle donne in genere
Desidero dire alla donne che amo l’acqua che le disseta, immagino sappiate perché. Come invaso, da una a riva a tutte; come l’ultima goccia, al limite del mento volitivo, solitaria eppure avvertita persa, rincorsa. Penso ve ne siate accorte, benché non pare mostriate attenzione a questo satellite rozzo incatenato nello spazio delle vostre orbite. Al vostro cospetto mi sento come inatteso, sconosciuto, infine stazionato, anche superfluo. Oltretutto certo di non attrarvi abbastanza. Francamente, non mi metto in vetrina perché mi sfugge il senso da voi cercato nello specchio occasionale quando anch’io mi guardo e mi trovo tale, purtroppo privo di riflessi pronti. Così vetri e manichini hanno più fortuna di prendervi in giro, ma io nel chiuso non vi terrei all’oscuro: se potessi aprire una finestra nell’anima vedreste il ramo singolare farsi fronda per il nutrimento che il vostro sguardo aggiunge. Ma il desiderio può diventare uno zoccolo duro e in qualche caso calpestare la parola amore. Aggiungo che qualora vi abbia dato fastidio il mio sguardo insistente - vi assicuro che mai ho creduto facile suscitare il vostro interesse -, vorrei che le scuse affidate a questi pochi led, che ancora mi servono, sollecitassero il vostro perdono, giustificato perché l’occhio, le labbra o le dita corsare vi raggiungono senza ceri e la richiestra di una vostra grazia fu fatta a priori con questa preghiera: “Salve, Regine, quando mancate sono in genere più vuoto.”
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A memoria
(to R.C.) Oggi ho aperto gli occhi come un sepolcro. Un parallelo opportuno perché nello specchio ho visto una pietra corrugata muoversi verso destra, dal lato dell’occhio sottomesso. Intendo che, se un cattivo risveglio c’è stato, è avvenuto cercando di rimuovere la pietra dello scomparso. Subito mi è sembrato superfluo l’appello ai viventi: chi è dentro, da dentro chiama e rispondo a memoria. Ma la sola parvenza non giurerebbe sul vero rinvenimento della grazia e della contumelia data l’assenza della fonte che mi rincresce. I fuoriusciti non mancano di denti, ma della lingua che parla all’esterno. All’esterno, in quel preciso momento, è nato un gioco dialettico sostituendo una lettera: nei vivi, la carne è presa dai verbi; nei morti, la carne è presa dai vermi. Appare quasi in tempo chi per me recita la parte dell’ora ed entra nell’orologio con un passato lancinante: e qui ti volevo, qualsiasi amico tu fossi. Soprattutto, non ci sei come convenuto a voce. Mi hai lasciato al di qua del tuo primo orizzonte. Mi hai dato il compito di muovere la pietra dal tuo nome, poi riporla sul tumulo che aspetta: un simulacro da pensare nel limite dell’azzurro e della sarabanda nel sangue, resi netti per quanto adesso parlo solo di eri.
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All’oca mento
E giù pretese come un falco: saremmo arrivati prima librati al di sopra dei precetti e atterrati per giunta! Che sguazza nell’uomo oltre il pensiero di bruciare più in fretta di case e poderi, ma dopo ogni antenato? Spirito dell’uragano! O spirito dell’acqua, a morirne: a morirne, intendo, senza la perifrasi della sofferenza anzitempo. Un pino si schianta e due automobilisti inventano ricordi che già c’erano: vivi ancora. E anch’io falco, così: come tentando, vorrei dire, nel mio corpo sempre meno originale Un corpo perde originalità come qualsiasi mezzo di passaggio - tanto più i suoi atti comunque non mancano. Sentivo, da Eracle, a fatica spintosi a una certa vetta, per via di racconti censiti quanto dati miracolosi, che la roccia è nuda, come se una neve di calcare, del primo momento di fuoco procurato, la ricoprisse senza la perifrasi della panglotta. Sicché la fiamma multilingue aveva provveduto ad incenerire il verde tailleur con cui monti, alture basse, valli profonde, pianure infossate, depliants con belle passeggiate degli occhi erano volati ai santi, quelli terrestri. Atmosfere di guadi improbabili, in questo secolo dai secoli a venire: magre e/o secche. Ma il mezzo uomo che parla è di pietra già adesso e su questa pietra leggo un pronostico. Non guardo la bocca che per le parole è la riga mossa ma il segno tipico del corpo che rifiuta l’ombra che la tocca. Odo il dolore sferragliare più delle sue cause. Perifrasi della vecchiaia, certo, ma cauta proprio per l’attraversamento del doppio senso di marcia.
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Song of the porter’s son (white blues)
Datemi qualche passo in più (hum) datemi qualche passo in più: non chiedo altro perché non posso (hum) datemi almeno un passo! Non voglio che sia come una corsa (hum) non ne avrei tutta la forza quindi datemi quel passo in più! - Ragazzo, usa i tacchi anche tu. - Ho detto che vado fino a lassù (hum) devo salire salire sempre più su. Quanto è bello il signore del settimo piano le scarpe di vernice e le monete in mano. - Ragazzo, non hai che pezze sul culo (hum) E’ la vita che ti scalcia da mulo - Datemi adesso qualche passo in più (hum) Datemi almeno un passo in più. Finchè il signore del settimo piano ha quelle scarpe, mi negherà una mano. (hum) Quindi voglio andare più su Datemi almeno una moneta in più.
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Una vicenda continua mai compresa
Dafne, prima di alloro, con un cappello a cloche e un fiocco verde, già fuggiva alla mistica aggressione del tempo: “Apollo è un furfante carrozzato, un dio ingiustificabile, tende al sole, getta ombre sull’Olimpo, come quelli della stessa risma. Marmo d’ufficio e carta bollata, con testi assorti. Io li condanno, avverso le deità perchè vengono nei templi a tentoni, a braccia con serti, a scrocco, e non c’è modo di apparirgli senza ferite. Sono come noi, solo come noi siamo noi; non di versi gli abietti – di poeti ne ho conosciuti solo in pectore. Niente può essere soprannaturale se di umano concepimento, anche nella cerchia del sintomo e della conseguenza, del giglio e della folgore, del visto e, ancor più, del sentito: dal carbonio alla parola, credo. Di calibro uguale i miei conterranei: coinvolti da una certa atmosfera vengono presi dall’ansia di possesso, cedono al potere di acquisto come all’acquisto di potere. Si spendono a vuoto. Che c’è di sovrumano, quindi? Lo sforzo vero è del neutrino, dico io, che ha le sue ragioni - talché il semplice elemento, uno all’anno, interagisce con il corpo senza farsi vedere, ma qualcosa ci trapassa, e lo vorremmo, con gentilezza, nei limiti della pelle; in tal modo labbra mani conforti provano a toccarci ma non c’è contatto, nonostante la violenza lasci un segno, afferma la scienza, esatto se possibile. Ho rivisto Apollo: un tiro dei calabroni.”
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Nato per casa
Tutto quanto un tempo non c’era, ora c’è. E’ quasi vero il contrario, oppure molto è cambiato inavvertitamente. Io, certo. Quanto è certa la casa in cui sono nato, quasi vera come allora. Cos’è mai allora? Tanti gatti non ci sono più, le persone invece si legano con una domanda: dove sei? Lo sai dove sono, lo sai come. Puoi partire da loro e insieme ritrovarli all’arrivo. Un po’ contraffatti dagli eventi, ma perseveranti, più che altro si occupano di sicuro.
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La restituzione del mar tolto
It had all been working so well and now, Well, it just kind of came apart in the hand As a change is voiced, sharp As a fishhook in the throat, and decorative tears flowed Past us into a basin called infinity. J. Ashbery “Vetiver” Essere d’acqua è innanzitutto fuorviare la luce. Che lascia la sua fabbrica per te, che non ti trova nel luogo cui sei tolto. Questa quota è raggiunta dall’anima se, oppure quando, lo scafandro dell’avverbio ancòra diventa àncora lì. In pratica, il raggio nel suo verso diretto, trapassa le spume e si rafforza spezzandosi privo di vescica natatoria. Fino al punto in cui i sottomarini diventano pesci lanterna e aberrazioni dal corpo fluorescente. Come i pensieri più intimi che non hanno spine, ma atti remoti. Vengono spinti dall’acqua come dice eureka!, verso alto, talmente alto, che la limpida urna li contiene nel salotto universale. Attraversano strati a più riprese, parole lì messe per aria e altre incomprensibili onde che furono tue e continuamente vibrano stelle. Oh poeta, mare frugale del basso porto, ho una goccia di conoscenza cui non so più dare bacino! Non avverti lo sciabordio di una chiglia rompere il silenzio del tuo abisso? Ti è servito avere tutti quei moli per i pochi saluti che attraccano? Sì, una bitta resta libera per nuove cime.
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Della prima lettera a Lui
Egregio Signore, dato l’ovunque da Voi frequentato tra goccia e mare, nella goccia e nel mare, dal fondo salubre al fondo fiammeggiante, nel fondo terrestre e nel fondo stellato, accertiamo l’inspiegabile irreperibilità che già Vi distingueva, nonostante testimoni di sicura fede affermino la presenza di almeno una Vostra orma sulla pur assolata e/o miserevole spiaggia umana. Il nostro Ufficio Certificazione per le Entità Sovrannaturali, del quale qui si risparmia l’acronimo, impiegato in altre faccende di palese contraffazione del vero per comprenderne il vitale mistero - leggasi semplicemente: credenze tra si dice e si pensa -, è coinvolto nell’inchiesta su alcune voci che Vi attribuiscono la stessa latitanza, oltremodo comune tra i colpevoli, ma ci pare ancor più caratteristica, fuorviante di chi, giunto al potere per autoproclamazione (si cita la premessa inequivocabile: “Io sono il Signore [...]” eccetera, con tutto il ben messo seguente) fatta in luogo isolato e, pare, ad unico orecchio, incisa su pietra con arte prettamente umana, in cui è possibile ravvedere non già la dichiarata divinità, quanto un mero artificio dell’attributo nascosto. Con rammarico annotiamo che, pur avendo bussato a numerose porte finemente a volte incise, regalmente terrene, e ai battenti aperte, tali indirizzi risultavano comunque deserti. Rimettiamo questa comunicazione agli atti del vento, nostro e Vostro efficiente messaggero che, si spera, consegni con obbligo di ricevuta l’invito a comparire almeno a tempo debito.
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Perché non ti ho amata prima
Certo, ho amato tanto, ma non sapevo chi. E chi era ovunque, quindi trovarla fu piuttosto semplice. Tu non c’eri mai, sicché non sei chi. Chi si presentò con cento corpi e mille erano le storie che portava. Oh, per carità!, tutte amate a loro misura, per ciò che chiedevano e per quanto potessi nessuna con la tua. Chi fece la vita ricamò i miei giorni che puntualmente si scucivano. Chi, ricordo, fu a volte vittima e altre carnefice: vidi i nostri sangui mai confusi, alterni a volte, altre contemporanei, ma sempre distinti. Ma chi, oggi lo so, fu indispensabile a portarmi te, altrimenti non saresti stata amore, angelo e rosa. Chi mi sembrò questo, ma questo sei tu.
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Nondimeno
Si fa presto a chiedere ancora uno spicchio, ma la vita non si taglia a fette: è intera o non è. Si fa presto a dire sera. O me ne torno a casa. Dov’è più quell’accidente, la porta socchiusa? Ora è una entrata di scene, attori, comunque. La casa ha quattro musi: se si apre la bocca, una finestra sbatte. Quanto tormenta? Tutto il suono ch’è meglio udire prevede il silenzio, e il silenzio mantiene: casa, porta, finestra, salute a noi, e a voi che non vi assistete da fuori. In questa casa non entrano parole, nondimeno i gatti si curano il pelo.
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Comunque si faccia, si farà
Come un seme sfrontato che ha per posta il cielo e prova spedito la consegna del suo fascio di nervi tesi, Gil va dove ha cuspide la parabola del sentiero. In pieno coglie la notte dai petali gialli. quando il polline dell’alba lo sazia quando i fanali per questo si chiudono. Liscio come uno zimbello, se ne infischia di chi viene o si ferma: il suo richiamo è come i motori a scoppio con le marmitte aperte. Ha un vocabolario stridulo, acuto quanto basta agli esami per un titolo lungo che con la luna non serve ma nei sogni, oh sì!, è indispensabile vegliare. Sembra una torre campanaria, io la sua pieve. Per intenderci: le nostre porte si aprono su silenzi diversi. E’ certo che il suo mattutino introduce meglio il mio vespro. Così mi dona un altro tempo.
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Dont take my word for it
Questa sete è degli antichi viventi, i più giovani sono portatori di venti. Forse trenta borracce; oggi le trovi vuote, ma domani alla fonte del loro tempo comincerà il travaso. Dunque, era questo all’avvio: un gioco di aurore plateali sul litorale, o di gialli tascabili nel pomeriggio che ora poco sfoglio, mancando il vizio delle notizie, alla radio, alla compagnia tipica dei pesci. Ieri, il paralume finto cinese si è acceso all’improvviso: per poco meno, una strana forma come una grazia viene dal più alto stelo possibile: la botte dei venti primitivi. Una spremitura di aria fritta, credo maggiore dell’intenso bombardamento tardivo: sembra una follia, ma è possibile che a scriverlo sia un universo piccolo piccolo.
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Così rispondo
A JeaNando, a Gion: grazie alle vostre voci. Mi chiede della poesia cose che non so così rispondo che Ettore giaceva come un grano di silice cristallina nel senso della sabbia. Libero di salire ai numi ma non di alzarsi su di loro. Ilio - se di Ilio si trattava, piuttosto che Caraibi o York o Pietroburgo, e qualsiasi posto in cui nascono e muoiono questi suoni più vicini alle ferite che alle garze - le mani sfatte dagli scritti, appare a ragione. Negli esametri epici, il guerriero è stuprato dalla ferocia dell’aedo che lo attraversa col canovaccio della voce. La poesia è quell’uomo riverso sulla spiaggia come un grano di silice cristallina: guarda, respira ancora.
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Ho fatto appena in tempo
E’ facile dire vivo, ma non basta una trama da soli. Se indossi il minuto, reggi il filo per tutto il tempo, piccolo orologio, subacqueo come le intenzioni, opera viva queste ultime, ma da ore sommerse. Il fine è prendere possesso degli occhi: a loro comando le mani si toccano, e dici qui batte qualcosa con l’orecchio che poggia sul paiolo. Prendi il remo da uomo, in pugna uomo! Tanto è fuori di sé lo scalmo, che il rematore investiga la fiancata. C’è il grasso, c’è la bracciata pluriennale, c’è il respiro guarito e il naso a fiocina. Nella fase di leva, il giorno è un secco esercizio di progressione nei pori del maestrale, la resistenza dell’acqua è organizzata in drappelli di onde, ciniche a prua, infagottate in schiume oleose a poppa, ma un legno che le abbia aperte c’è stato. Vorrei essere così turchese. O una goletta. Ogni asse, tanto ordinata, perfetta nello specchio sul quale galleggia per la voglia di respirare: rossa la chiglia, bianca la pancia, celeste la murata prima del cielo. Tutto il fasciame del rigo che trattiene sale, la parola orizzonte come baia, seno; capezzolo lo scoglio sotto un panno verde d’alghe che a stento lancia gli spruzzi formicolanti in aria. Ho atteso abbastanza e prendo dalla barba a gambe levate.
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Da goccia a scroscio
L’afa, che scioglie la timidezza come grasso dai puri, sollecita la formula: “Quanto dura?” E’ la battuta che evoca la fine del discorso, perciò è moto comune socializzare non all’ingresso ma negli ascensori. Salendo, c’è più tempo di notare le sillabe toniche su piani diversi, come aloni delle parole. Tuttavia la goccia si forma nella ruga: il viso appartiene al culto del colpo, anzi, la pelle è il vivo sacrario delle ossa e amenità di afrori. Manca quell’anima che le fa da costume. O, tutt’al più, illude. Nella calura, l’ostia del sole non è la sola che dà comunione. Nemmeno il succo dell’ombra viene dal frutto dei muri. Penso ad una insenatura. Penso all’acqua del fico ai piedi di un hotel, poi abbattuto. E l'uno e l'altra lasciano tubi. Penso al tuo vento come sorgente. Perchè ti parlo con tanto sconforto? La città è un forno malandato. Le strutture di cemento dilatandosi parlano chiaro: l’afa crea nei giunti qualche turista a caso. Gechi sfuggenti, o pelli mutanti. Le fontanelle fanno fatica a giustificarsi: dove manca, l’acqua comunque non ci bada. In questo contesto, le strade vivono dell’onomastica che diamo frequentandole a seguito di, a parte i cartelli di soste vietate, passi insicuri che oscurano il cielo all’asfalto; così mi fermo con l’afa alla porta, le braccia scadute ad arti in disuso. Il mio pallore, visto a maggio, ad agosto è una goccia portentosa per similitudine.
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Ti ricorderò con me, in fondo
Benché la sfera affettiva contagi il braccio fino a farne circonferenza in vita, dell'unica che ancora posseggo e mi possiede, un corpo più è lontano più torna a notte fonda. Mi piace cercarti in quel vetro che termina nello sguardo, in un riconoscimento che manco perché non passo più lì sotto. Eri nello studio, nel tinello, o cos’altro era quella sorta di pelle? Appena trattenuta, ma quasi vi si appoggia, l’ala della casa che abiti adesso, sconosciuta perché non passo lì sotto. Non saprei dirti in quale punto di via Gonzaga tu ancora richiami all’ora. E quell’ora che viene a nome tuo, albina come ogni altra soffusa visione a notte fonda, consegna croissant caldi al quarto piano. O era il quinto, il secondo, il settimo cielo? Le strade hanno di buono l’immaginazione: le vedi a pezzi, adesive solo ai portoni, che non si aprono se non stacchi gli occhi dal quotidiano che scorri. Sono cronache veloci, composte dalle linotipie delle bocche e come gli articoli danno genere al fatto che ti racconto. So che ti esponi sempre a mezzogiorno, ma non con lo stesso azzurro (sotto cui passammo lievi); so che indossi il minuto con sofferenza, appena fuori dallo studio, dal tinello, da cos’altro è una sorta di pelle. So che doni le tue gambe all’aria. So che i maschi ne calcano il vento e tentennano nell’opera di rinvenimento. Non so in quale strada questo avviene, ma so che essa prende consapevolezza di non essere solo asfalto quando la frequenti. La mia creatività sceglie la vista che le va a genio, trova un riferimento al citofono che ha cancellato il tuo cognome privo di lettere, come tutti i corvi dei microfoni che gracchiano “chi è?” Ancora vago intorno per ricollocarti nell’afa in un poco d’ombra. Nell’afa, gli assenti incoraggiano il sudore per la fatica di vederli liquidi, immobili, e il mio fiato, timbro catarroso di un pensiero che va raffreddandosi, fonde idee, o le fonda. Non è un modello d’amore tutto questo, è una pietra e con essa ho fermato l’onda che saliva in bocca.
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Della prima lettera all’Artista citato *
Ineluttabilmente questa Terra non è d’acqua. Ma è possibile navigarla a lungo. Metto in chiaro subito che il vascello dev’essere fatto ad arte. Niente chiodi, ma cunei di legno sul fasciame. Caviglie è il nome, non meno del passo. Posso dirti che il poeta è un naufrago che canta a perdifiato, e lo perde davvero se fa per affondare, però l’Artista somiglia a Dio come nessun altro. Dio, in arte, si fa chiamare miracolo e alle tue mani questo passa. Torno alla prima affermazione: se l’acqua santa è di questa terra, diventa improrogabile l’ascolto quando viene in circolo. Ossia: il rigo che benedici, ti attraversa con la voce in ginocchio. Io ti viaggio quando posso come un molo come alleggio della verbena e delle acacie, del capitello e del barocco, del fuoco della montagna eretica, del gambero e della parola gorgo che mi attrae. Ali, si direbbero, mosse ad Arte, come citato dalla lingua a vela. (*) ad Arbadom
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Sto nello spazio da tempo irrisorio
Una dritta sulle orbite mancherebbe della gravità attuale e, più che la scienza, la curiosità impiega la ricerca nella vaga, ossignore!, imprecisa rotta dei rematori (dalle secche dell’Universo affiorano santabarbare inchiavardate e fonde, vele a cottimo, capitani in saldo, ancore canute e cuochi in scatole da notte: l’oscurità è la forza d’animo delle stelle, ma quello che non rende è l’alfabeto degli uomini). Uno di noi raccontava la straordinaria figura di Hawking. Ho pensato di lui: la mente è cura o condanna del male che spetala la carne migliore: il tessuto già scomposto in vita, per via delle rughe croniche, confabula lucido da un buco nero tornato alla luce. Quell’uomo è molto più grande di noi messi insieme, enorme nel nostro breve tragitto da some, benché stringa le spalle per forza maggiore. Ossignore: è grandioso!, lumine ben oltre il midollo. Poi proseguimmo la discussione con più anima dei santi laici nelle navate erbose e di altri fenomeni gaudiosi come un gol: avevo con me la “Guida galattica per aut…” Ma questo c’entra solo col panico che mi prende qui a bordo.
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Sciolti e per bene
Ricorderai come le dita armeggiassero sui nodi della tua pelle. Gasse d’amanti, certo: tu sai come avviene, no? Il corrente entra nel dormiente. In una mano tieni il primo e l’occhietto che fai, con l’altra stringi il mio braccio all’anca. La bocca è l’anello, la stanza mi sfugge. "Stringimi, stringimi!" Avrei voluto sentire, invece che: "Oh, Signore!" Per una sola perla ho dovuto sciogliere i legacci del grido dentro me. Più che altro come fosse il mugolio la fonte dell’urlo. Non fu visto, né percepito. Così come solo io sapevo che la luna ti faceva sua luna; e me: luna della luna della luna. Sembrano orbite dipendenti, ma è un fenomeno di atmosfere. Il rosario di satelliti nello spazio curvo della schiena (a tutt’oggi il migliore orizzonte degli eventi osservabile da un poggiatesta). Eppure attraevi quanto l’antica lingua delle stelle. Tutti quei nomi persi e, tra essi, chi c’era. O è il complesso formato dal caos precedente.
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Da lontano mi pareva ancora
Sono ai piedi di San Liberatore, quindi ignoro altre processioni. Questo è un giorno passato in un tempo imperfetto, dubito torni, perciò lo ricordo. Qualcuno è sul colle che anticipa la vetta già con le ossa, meno volatili di tutto l’incenso che lo colse, ma più restie a lasciare la roccia. La roccia col suo guano a vapori in una fiamma azzurrognola. Per capirci, questo è un monte che si innalza e profila il papiro del tramonto. Proseguendo nell’ovest, il cerchio si chiude in un raggio, unico filo di voce che ruota nel sangue. Il suo regno di curve nervose e di carta rosastra sostiene un saraceno tornato alla luce per una certa manipolazione della storia. Con ognuno dei miei genitori riposa, al modo di commessi dopo il lavoro. Ho più genitori che figli: non so se è una colpa, avendo ricevuto indicazioni in tal senso ma devo aver tralasciato qualche ordine. Il mare è una guantiera lì sotto, e sopra più tazze di spuma che congiunzioni. Ma io sono qui, quindi ignoro altrove. Lì, manca la giusta materia di seduzione. Manca, mi dite, il conguaglio dell’onda, il resto è lasciato all’occhio se il panorama paga la consumazione del luogo. Eppure - io so - ci sono molte lenti nei ricordi, tanto poco reali da farli apparire dagherrotipi, eppure altro è il congegno di posa. Sono qui, quindi ignoro immaginarmi altrove.
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Della terza lettera a chi, o meglio
Da qui in avanti giro come un’ombra tra rigo e rigo, da parola a parola, persino sulle sillabe mi allungo. Tu non lo vedi, nè io sottolineo dove l’ombra poco si impegna alla diffusione della forma. Constata come segno i miei confini. Vengo da un punto infinito ma non sono il solo. Vengo quindi da una lucina in carne ed ossa. Sono l’ombra che scurisce i toni; le palpebre, le palpebre delle vocali dovrebbero stringersi un poco e la voce acquistare ombra, che è poi l’eco quando rimbalza in chi ti ascolta, permettendo di apparire in un punto del discorso in cui la tua passione accoglie lo iota che nascondo o quel grafema inusuale non asservito a qualche comunicazione. Sì, è così, giacché mi entusiasma si propaghi questo gioco e, da amante che gioca all’amore, prediligo la strategia dell’ombra - la mia propria, la tua portata, forse tremolanti per questa ragione. Riesci, adesso, a scorgere come ammasso lemmi? Non dove capita, ma sotto la tua luce che getta ulteriori ombre più nette delle mie sfumature. Le accentuo mentre godono di te, anzi, mi aiuta che si raccolgano in un profilo: il tuo. Danno statura da punto a punto, benché mi riducano a cosa. Io che torno a cosa, mi stendo e tu che dici? Niente. Il silenzio, dove c’è l’origine di un deserto. Capisci? Questa è un’oasi, come la chiamiamo, è una distesa di voce, non farebbe per me scoprire la fisiognomica di tante dune. Così è il deserto che si mostra al tuo vento, oppure tu viaggi con la tua carovana di pensieri. Potresti avere capelli grigi, o un berretto da baseball, una kefiah o un basco, addirittura un elmetto: io ho consonanti sacre, della fede nel verbo. Tu incespichi nella selva di virgole: io davvero sono caduto a questo punto. Puoi cogliere la mia ombra in questo spazio, la sua pressione che non curva la pietra di un qualche muro secco, ruderi di intenzioni che pesano da sole. Mi stendo con il preciso scopo delle parole mimetiche: celare, non tanto il senso, quanto proiezioni intrattabili altrimenti. Anche tu cerchi una luce che ci sopravviva: se c’è, nessuna sofferenza. Comunque, non sarò io a darne, o addirittura accenderla, ma tu dopo avermi spento. Fallo subito: mi piace apparire a volte, a volte non dritto.
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Da una domanda, o altro
"Ma per oltrepassare la nostalgia non sarà forse necessario decifrare il codice della spiritualità? Come perdere per sempre la via del ritorno? Oppure: perdere per sempre la via del ritorno, si ma come?" Aledi. Se tu fossi un carro, un carro lanciato in una prateria di ore - in questo senso acuta -, una prateria mossa da più rilievi, rilievi mossi nello stesso senso che rende sano il distacco da ogni bivacco di fortuna, (ma anche nella sosta la ruota gira nel verso dell’inizio) perché avanti non c’è sentiero ma la tua anima è il sentiero e lo spirito il tiro a due, a quattro, a millemila coppie, ti parrebbe, come a me pare, che in qualsiasi anno della nostra avventura, anche in questo, siamo pioneri e non smettiamo di avanzare anche stando in un accampamento a riposare. Se tu fossi carro non potresti scegliere tra essere vivente o essere morente, né ti piacerebbe o meno il carico: farebbe fede l’elasticità della tua fibra. Quindi, se tu fossi il carro come io lo sono, potremmo dover abbandonare tutto il bagaglio prima del guado profondo; e di rive se ne incontrano a sbafo. E lì non c’è sentiero, pista o terreno da battere, solo il tiro che va oltre: quel tiro che devi curare; e curi meglio. Se tu davvero fossi un carro in cammino, puoi pensare di farcela da solo, ma mai sperarlo, o il traino finisce nel prossimo agguato. Ciò che so da me è che sono un carro, non il falegname, che mai vorrei essere, perchè tra questi e il figlio qualcuno, qualcosa, pone sempre l’attacco dei chiodi, ma il tiro, ben curato, ha proseguito chi sa per dove.
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Della seconda lettera a Gion e Ale
Il tempo mi dice ciò che sono. Cambio e sono lo stesso. Mi svuoto della mia vita e resta la mia vita. Mark Strand Questa è della distanza come ci pare. Per un quarto qui la chiamano luna anche i piloti, e i piloti, nel porto, incoraggiano gli arrivi. Più lontano si vedono i gabbiani, più sperato è l’approdo, e lo senti dal tono prendere il sopravvento: “è là, è là!” Chiunque trovi il là avrà il suo da fare per restare nel nostro inventario. Potete guardare l’orologio, credetemi, mettere sul centro l’indice verticale: a mezzogiorno puntando il nord, alle dodici vi verrà di vedermi alle sei con le due lancette a distesa, come campane intransigenti. Mi è difficile rappresentare il magnetismo vitale della vostra specie. Difficile, non improbabile. Un uomo che oltrepassa la nostalgia perde il gemito ma recupera il grido. Io mormoro per la sciatteria del costato, pagato il giusto prezzo alle risacche, quando mi adagio inatteso all’ombra di chissà.
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Circonlocuzione degli affetti serali
Da tanto lontano il cielo è davvero cielo, in realtà lo ricevo come una galleria tremenda. Non se ne esce. Nè si entra, semplicemente la fine coincide ad un punto qualsiasi in cui l’inizio è un gemito in partenza. E tu passi nel suo ventre, come malloppo da una bocca che non c’è, e lo percorri fidandoti di una guaina sottile, dei gas crudi, delle mire sornione di lucette flebili. Niente di più ci è dato essere che sangue in cerca di una ferita aperta. Il molo Manfredi regge un feretro del genio di Zaha Hadid, così il golfo recupera la conchiglia che lei immaginò come specchio del cosmo sulla ceramica del dorso. Tuttavia, è possibile cogliere perle da talune vaghezze puntute sotto l’effetto degli occhi. Esco a cercarne l’esempio, benché mi sia chiaro che i dettagli sono contraffatti dall’afa che veste di sete la sera. Da lontano il cielo è un amico, gli va riconosciuto. Un amico è un bene affidabile come le aiuole. Maurizio pedala quasi sbiancato dal buio, è civilmente coniugato al manubrio, il volto esprime saluti legando con un filo di voce la pedalata a gocce di sudore. Qualcuna va alla palma che lo sorpassa in altezza. Si inerpica su di un raggio in pieno lungomare, dove, per restare agli scogli, occorre deglutire molto equilibrio e starsene in bilico sotto i gabbiani a pensare al meno. Detto così, l’affetto serale è una carezza del luogo ed io, tipicamente accecato, rappresento un uomo posto a lato del proprio sudario o quel quasi candelabro sulla coperta di Zaha. Ma è solo la luce che cambia mandato.
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Interpunzioni, o dell’angelo del bacio
Due o tre magnolie vizze non si sono radicate dal lato dei soprammobili assiepati, tra i quali, congiunto, ti hanno posto lucido e sostenuto. Nel domino della sintassi, catena in righe, abbattuta da una rima - come nella scala quaranta la poesia è un gioco di figura in figura, seme per seme. Sei mancata, che non è morire ma dare credito ad un biglietto di viaggio; e io suppongo ancora tu sia fioriera, su ruote certo, però forestiera in questo percuotibile momento, amica mia. Per buona parte, gli steli ti somigliano, occhi fraudolenti che cadono dai petali come pagine stropicciate, spume di profumi; oppure, avendoti parlato già prima, ma chissà quando e dove, hai sopportato, posto che venga vivo di nuovo in te, da anima scalata, lo spirito dell’udito, lingua e cava orale, quell’ultimo dialogo in cui ostinatamente si ripeteva Ritsos “e là nel suo cortile costruisce pressappoco un albero. / In questo “pressappoco” sta la poesia. La vedi?", così convincente quando colloca almeno un dubbio o un ritrovamento nel palinsesto dei merli. Questi uccelli, dicevi, possiedono un fischio puro, cavato da un verso altissimo meglio di una siringa, un flauto allegro e vario, condizionato a ripetersi fino alla noia. E qui, e lì, rifacevi la rima con un gesto plateale, privo di penna ma dello stesso colore dell’aria percossa, quindi fluido e deciso per infondere sostegno in un italiano quasi perfetto benché francofona. Quale parola serri, adesso, seccata con il segno delle labbra che ti accigliano?
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Ricognizione di Flavio Gioia
Amo venire qui sulla scorta del raggio, giacché nella penombra non si vedono i delfini come tengono alla piazza il bordo della vasca. Stanno incuranti che l’artista ne abbia fatto un’esca. Mi chiedo se la creatività debba entrare nel marmo e modificarlo, oppure uscire dall’opera e cambiare la pietra in messaggio. O se è vero che cambiando i fattori mentali la somma comunque, e sempre, sia un viaggio massacrante. Forse il giusto è combinato nell’intimo segnato. Il segreto non è indicato dalla bussola degli occhi; piuttosto si manifesta in quella parte della piazza che incanala la città ottusa, con più seni che balie. Questo descrive la geometria dei soliti a più piani: i piccoli balconi sono la retta delle finestre con le gonne di ferro a coste. Le regge un catafalco architettonico con il senso del sole. Eppure, se si sporge un panno, si riceve una multa. Come se l’amore entrando nella carne non modificasse l’ospite, rendendolo terribilmente fragile fino a ritrarsi. I delfini mi seguono in un mare di pietra.
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Per chiunque sia fatto
Più avanti c’è il garage Garibaldi e posto per l’auto. Lì, Enzo e Rino, sono più fratelli degli scogli di Vietri. Lì parcheggiavo annottando i pensieri e le carte. Soprattutto in questo modo si partiva al verde. Già!, ma dov’è la vespa che passa da semaforo a semaforo - come natura vuole - e frenate fuoribonde al rosso - di frizione in frizione. Come tornare al punto in cui l’anagrafe cieca recupera almeno un barlume dal tramonto? Ecco, ci sono! Il passeggio sul lungomare è frainteso se il sorriso diventa sonoro. Sul molo che chiamavamo Pennello, coppie strategiche tormentavano il mare percorrendolo intimamente. A volte si fermavano ventre su ventre, come toast farciti di movimenti in tutti i sensi. Le lingue scosse, sussurri come veli quando il buio serve a poco, la ringhiera che faceva da letto, non abbastanza distesi e piuttosto rozzi. Chi stava sugli scogli non notava i cormorani. L’uomo si muove a proprio agio prima della barriera. In qualche caso il futuro non fa nascere dubbi su ciò che mostra: ogni ostacolo verrà superato con una buona pagella. Nel passato non conviene stare: non cambia mai niente. Nè puoi rientrare nella porta che si chiuse alle tue spalle. Lo si vede da come ha lasciato la chiave nella toppa. Nonostante la processione di onde sbuffa e trame bianche irretiscano l’orizzonte, due cormorani tra i pinguini luminosi sulla scogliera confondono quest’angolo kitch in un nido di becchi gioiosi. La realtà prepara l’incubo, non il sogno.
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Il giorno che mi tocca
Se molti luoghi alimentano fiammelle, e sono angoli invasi da un rosso torpore o sono trincee in cui calano truppe ignote, presto in via Torrione scoppierà un incendio. Di che parli, amico? Nessun lettore conosce strade per sentito dire. Siamo coinvolti quando l’astuzia delle emozioni segna la geografia del sangue giornaliero, mutando in questo modo i viadotti in languori. Più avanti c’è il garage: lì parcheggiavo di notte i pensieri e le carte. E c’è la corteccia dei platani che spira ora, nonostante la loro stanchezza si calcoli cerchio a cerchio, anulari a modo mio, privi di sbocco. Spira anche la brezza e giace sul braccio la mano. Poggio le dita ancora abili nel solletico, per sentire la linfa che si consegna; carezzo la scorza secca, dove posso la lascio cadere: scaglie contorte di cellule rose crepitano sotto le suole come accenti stranieri di truppe che sparano a mitraglia. La chiave della crescita è quel filo invisibile nel tronco, infantile quanto i coriandoli, e come il sogno che ci sgorga. Tuttavia, l’ombra insignita dell’ordine delle forbici, adatta la mia ombra al puzzle dell’asfalto pieno di chiazze d’olio: naturalmente è stanca del visibilio di metri percorsi. I gesti ricevono la trasfusione di aria in assetto da uomo. Qui inseguo un tempo remoto. Le piante di ogni specie, prevengono in futuro mettendosi nude, eppure i precedenti di un ramo sono le epistasi del fusto secondo stagione: come fra me e te, Gil, c’è il garage dei sogni, l’inventario delle fioriture nel cuore della cellulosa, mentre il tronco cede ai suoi ultimi sbocci. C’è la spinta dello scirocco sulle scocche ocra. Tutto avanza nell’universo, pure tornando indietro, e l’ocra, o la lucidità che decade al contrario della luce, ammattisce sulle mascelle nate per denti. la bocca su di un altro collo ad hoc. (Words In Progress - 1) Se molti luoghi alimentano fiammelle e sono angoli invasi da un rosso torpore - o sono trincee in cui calano ombre ignote - presto in via Torrione scoppierà un incendio. Di che parli, amico? Nessun lettore conosce strade per sentito dire. Ci lasciamo coinvolgere quando l’astuzia delle emozioni segna la geografia del sangue giornaliero, mutando in questo modo i viadotti in languori. E c’è la corteccia dei platani che spira ora, nonostante la loro stanchezza si calcoli cerchio a cerchio, anulari a modo loro, come i miei privi di sbocco. Spira anche la brezza e giace sul braccio la giacca che lei non vuole. Poggio le dita ancora abili nel solletico, per sentire la linfa che si consegna al cuore; carezzo la scorza secca, dove posso la lascio cadere: scaglie contorte di cellule rose crepitano sotto le suole come accenti stranieri sulla passeggiata in via Torrione. La chiave della crescita è quel filo invisibile nel tronco, infantile quanto i coriandoli, e adulta fino alla morte. Tuttavia, l’ombra insignita dell’ordine delle forbici, adatta la mia ombra al puzzle di chiome pieno di chiazze d’olio: naturalmente è stanca del visibilio di metri percorsi. I gesti ricevono la trasfusione di aria in assetto da uomo. Qui inseguo un tempo remoto. Le piante di ogni specie prevedono il futuro mettendosi nude, eppure i precedenti di un ramo sono le epistasi del fusto secondo stagione: come fra me e te, Gil, c’è il bene dei sogni, l’inventario delle fioriture nel cuore della cellula rosa mentre il tronco cede ai suoi ultimi sbocci. C’è la spinta dello scirocco che scema e va passeggera sulle scocche ocra. E l’ocra, o la lucidità che decade al contrario della luce, ammattisce sulle mascelle nate per denti. Tutto avanza nell’universo, pure tornando indietro: la bocca si spera su di un altro collo ad hoc. (Words In Progress - 2) I Molti luoghi alimentano fiammelle, e sono angoli invasi da un rosso torpore o sono domande cui rispondo alla lettera. Via Torrione procura sempre un incendio. Di che parli, amico? Nessun lettore conosce strade per sentito dire. Ci lasciamo coinvolgere quando l’astuzia delle emozioni aggira il sangue giornaliero, mutando in questo modo i viadotti in voci, come un gps. Le radici dei platani sollevano il marciapiede. Un tizio afferma che la corteccia si rinnova ora, nonostante la stanchezza si calcoli cerchio a cerchio, anulari a modo loro, privi di sbocco. Spira anche la brezza e giace sul braccio la giacca che non vuole sudare. II Infilo dita appena abili nelle tasche del legno per sentire la linfa eretta fino ai suoi polmoni, o più di un ciclo che ruota; carezzo la scorza secca: dove posso la lascio cadere; scaglie contorte di cellule rose crepitano sotto le suole come accenti stranieri sui coni del Nettuno. La chiave della crescita è la lingua invisibile nel tronco, infantile quanto i coriandoli, e adulta ritorna alla terra. Tuttavia, l’ombra insignita dell’ordine delle forbici, adatta la mia ombra al puzzle di chiome pieno di chiazze d’olio: naturalmente è sfinita da un visibilio di incastri artificiosi. III I gesti ricevono la trasfusione di aria in assetto da uomo. Questo è quanto serve alla vita per immergersi nel corpo. Qui inseguo un tempo remoto. Le piante di ogni specie, prevedono il futuro mettendosi nude, eppure i precedenti di un ramo sono le epistasi del fusto secondo stagione: come fra me e te, Gil, c’è il bene coetaneo che doni, se pure tra padre e figlio colgo l’inventario delle fioriture nel cordoglio della separazione. Nel cuore della corteccia, l’albero conta sempre meno sugli ultimi sbocci. Tanto sale lo scirocco sulle tabelle, che scema il nome della strada, quindi, Lettore, puoi ritenerla ovunque; e tu, Amico, obiettare al vento che la lucidità seduta in grembo decade al contrario della luce quando ammattisce sulle mascelle nate per denti. Tutto avanza nell’universo, pure tornando indietro: così la bocca spera su di un altro collo ad hoc.
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Trama del viaggio a bordo
Incerte come appena composto il bagaglio le dita inattuali discutono aggrovigliandosi nella fragilità del biglietto. Spiegazzato, tipo certi discorsi colti sul litorale per gli assembramenti di plastica che spiaggiano al netto dei bagnati e intasano i ricoveri dei granchi. Basterebbe che l’acqua rimanesse nella polla e andare lì a berne con le mani, magari deterse col limone. Ebbene: vorrei essere un viaggio sereno per dove nulla coinvolge il peggio. Il piccolo foglio d’imbarco perde la postura di vela e accentua il dislocamento del traghetto per Positano. Qui davanti si assiepano gelsomini su pagliarelle. Non sarà sufficiente per i fiori questa resistenza. Così domani dove non mi fermo, non mancherò. Domani, lavorando sul fumo di oggi, mancherò. Posso mancare a questi giovani sulle tavole da vento? No. Ho preparato loro un secolo di merda e francamente aver seguito in diretta l’orma sul satellite e l’approccio affollato di metalli su Marte non li ha avvicinati a me. Né i pezzi di universo dal cuore di pietra, né il cuore del loro universo fatto a pezzi. Il futuro è potermi vedere non come adesso.
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Constatazione del grido
Non c’é tra le lepri l’idea di sentirsi convenienza. Immagino sappiano degli artigli; in qualche modo l’erba e la gibbosità dello spiazzo vive in loro come un grido di all’erta, così pure la sonorità del circondario tanto simile al fruscio di un precipitato celeste ovvero implacabile. Cosa le convince a misurare ali con corsa, udito con vista che se fosse un’ombra soltanto sarebbero solitudine quieta? Sono nato dopo cinquant’anni che questo avveniva di continuo: ne porto segni lungo le costole, le sordide caviglie, e poiché era una bella domenica di un gocciolare quasi trasparente, tanto che dissero dura poco, trattandosi di un velo umido in piena afa, sfinì prima la luna, quindi ovunque fossi si vedeva chi ne fa le veci diffusamente: l’alone, non il satellite. La lepre, mi chiedo, perché sostiene il rapace?
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Della circostanza ignoto
Questo treno colpisce l’occhio e sento un saluto sferragliare in bocca. Un saluto indistinto è passeggero. Parte: se ti tocca, diventa una bolla colorsale. Questo convoglio liquida tinta e grani. Viene dallo sguardo, va sulla guancia. Nonostante la distanza sia una misura falsa, sono qui e affermo che è attendibile dirsi lontani a distanza di bacio. Una misura falsa, quando non è vago. Ma niente corregge la curvatura del sangue nel suo tour esistenziale. Un pensiero può superare il non visto tra te e me e quel che lasci alle spalle: se non si fa il vuoto, il vagone ciabatta nel ventre, ma se è vero che c’è, il vuoto si sostiene a stento: nessuna partenza trova l’appoggio adatto. Vedo bene il volto con le gallerie che verranno. Una domanda ti porrei: che dirai dello stesso ventricolo che pulsa nel buio?
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Come dire sono qui per adesso
Spalla contro tramonto, volto alla sera, tutto il corpo meridiano e tallone di Achille, preso dalla feccia del tempo. Una lancetta, nota come angustia da pendola, ripete mai tornare indietro e tutto sommato nemmeno al gambero questo è possibile. L’altra lancetta, con più decadenza, lenta di ora in ora, aumenta fino a sette volte la densità del buio. Forse di più. In realtà, la manopola della luce agisce per rotazione del luogo, mentre il cuore genera un cono di nomi tanto vari al gusto da riconoscerli sciolti. Forse la schiena non ha papille adatte. Davvero credo non sopporti come dovrebbe saltare l’asticella del giorno, perciò si poggia alla barriera del sole. Mi riposa. Arrossando, amo osservare i vecchi che avanzano in una luce matura, priva di fulgori, ma intatta mentre attraversa le rughe. Un uomo che rallenta in prossimità dell’ultimo incrocio è prudente, è anche sveglio: io temo freni a lungo. In questo momento, l’occidente investiga sulla natura del ripiego: quanta forza deve avere il pensiero per abbattere la diatriba delle barriere? Del corallo consideri prima la vita o il gioiello? Tu mi segui? Attraverso anch’io questa fase nota alle spugne come spremitura. Tuttavia, la porosità della mente ancora permette d'inseguire la forma di un tempo. Soprattutto, la lingua fiammella e vive da genero.
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Odio
Unge i condotti, li sotterra, inchiavarda le linee del deserto. Guardando da duna a duna, ciò che si muove è luna. Stessa sabbia, forse la sua, identica luce. Solo il calpestio cambia le orme. E l’odio. Quando la voce è brusca, si solleva, divide noi in tante n e troppe o (la i moltiplica rifiuti). Lettere come profezie, che sono proiettili futuri. Ripetendosi, gli individui colpiscono a lungo. Il vetro si è rotto per la mira coincidente con il foro sul muro. In quel punto, il ragno del sangue intesse la sua tela feroce. Puoi capire dalla vocale quanto il corpo debba appiattirsi per restare nell’ombra. E se la voce supera i bastioni del tempo, la catapulta dei led funziona più della legenda che esplica il disegno del verme: una n per le gambe, due o per le mani, settanta i per gli imeni intatti, che farebbero millemila anime deliranti in attesa dei resti. Precedendo la geometria dell’incrocio, questa strada annuncia il timbro dello scontro, come dai due lati della trasfusione i sangui confluenti allertano anticorpi. Allora: alzati, Yûsuf, prendi con te il bambino, la donna e fuggi in una pagina immacolata, resta là finchè il libro completi l’ultima profezia: la scrittura è un alibi dell'inchiostro; Dio, se scrive, scrive in natura. Yûsuf così fece, ma con sè prese anche lo stilo con il quale vergava i suoi osanna al legno di cedro. Al legno rimandò i contenuti come pagine vuote, nel legno verificò la profezia che lo aveva toccato. Ora è nei testi sacri, senza poterli riunire. Così scrivo, oggi, perché vorrei dare il mio alibi come parole già scritte in natura: la vera frontiera è la pelle. La pelle che odia essere divisa. Il pregiudizio è il miglior frontaliere, la guardia alzata, il tomo della voce. Passa nell’aria dalla graticola dei denti: convoglia tre, ma non esattamente tre, furie tremende: colpo, rumore, bestia.
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Finito in mente
Tuttavia il contenitore dello spazio regge da un qualche secolo il decadimento (nel primo non si potè stampare a piombo e la stella si accendeva piano, prendeva dai gas purulenti fili e tramava la festa, ma coriandoli erano pietre enormi, intratta- bili, che si aggregano come montagne incolte quando piove lava e ci va di mezzo la vetta fino ai piedi). Ad una certa ora tutto ebbe inizio: si svegliò l’eternità e decise di esistere solo nella mutazione, o come energia o come viene a mente dalla sua epica futura, ossia inesistente adesso. Seduto ai comandi, l’essere inseguito, cuscinetto dei mondi, da puleggia, o di dura lega o carne di ghiaccio, aleggia in un vuoto incompreso, credo, assente. Chiedo, o informe, o tuttoforma, sembiante del mercurio, procuratore del lampo e delle candele, e termometro di autentiche febbri arcobaleno, celebre nel coro delle fiamme come scintilla e come acqua, se l’astronave che mi tiene in piedi navighi dal peggio al peggio, curvando il miraggio di miliardi di esopianeti, esonavicelle, esosi non finiti con sensi. O tu: asciuga gli occhi ai telescopi in tempo.
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Affacciati a dì rotto
Giacché è inspiegabile come il profilo tagli l’orizzonte - e non pare vero il confine legato all’altezza degli occhi -, mi sconforta sollevare il capo mentre il mento lo insegue nel golfo. Fino alle navi nel formicaio marino, operaie inaffondabili nel getto d’acqua che qualcuno gli ha messo sotto e sopra panni stesi a strapiombo come nuvole arrivano sul labbro dove un respiro non può respingerli ma li asciuga veloce e ti pare sconvolto il tempo. Non di meno l’alito è semema di cuore, cioè apre una rotta sonora all’amore, all’amata, all’amaro naviglio del sangue. Al portone bussa una formica umana, vista da qui sembra una scialuppa. Anche l’amore trattiene il naso nella metà terrestre, perché per l’essenza, dai tuoi innumerevoli pori, quel demone è chimica dell’assenza. Sento che il tempo odora d’alghe e di guano sugli scogli. (Il mio naso è un gargoyle attaccato alla fronte con calce e mantello di peli, un lusso rubizzo, ricco di influenza, cornucopia del fazzoletto). E sospetto che parta da lì qualsiasi avvenimento: certo, non fa volare gli aerei, ma lo sguardo è pilota dell’idea. Le narici per niente fremono: che dice l’assente? Il naso in controluce contraddice il bello apparente nel verso del gocciolatoio, che è meglio non ripetere. Come niente valuto la polvere e l’angelo, come niente i soli sono davvero a terra. Che c’entra questo con il mio dirimpettaio che riduce il cielo aperto ad ogni finestra? Crede alla polvere, o aspetta l’angelo, non di meno è terreno fertile. Ci osserviamo di sbieco, silouette domenicali col fiato in ringhiera e, a volte, il sabato sentiamo un: come va? Chi domanda è sempre l’ultimo a rispondere.
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Cenni di sfinimento
I frangivento - famiglia, scuola, amici, corpo di bacco, di venere, foglie larghe, sfrangiate, mazzola, riva, rivera, tabacco, sacramenti, penne, discodance - evitarono la brutta piega della spiga dorsale, il fiero per l’animale, come la vista degli armadi mantiene la stanza meglio disposta. Se fu possibile attraversare il vetro con uno sguardo, altrettanto non potè accadere all’odio che la camera mostrava per le grandi sostanze. Quanto più il cemento assimila il comportamento della roccia, tanto più i luoghi perdono la geometria dei manufatti. Nessuno di noi conserva l’insegnamento se non ripetendo l’errore: come lezione, dopo l’inutile pretesa del silenzio, come corda di salva- mento. Tuttavia, i ruderi, i più muti testimoni del fatto, raramente svelano l’accaduto che si immagina. Trovai Strand appoggiato ad un vecchio magazzino: “ If a man lets his poems go naked, he shall fear death. If a man fears death, he shall be saved by his poems.” E così via di peggio. L’ho avuto sotto gli occhi per anni e mai l’ho tradotto, in realtà. Una lingua ostica, la poesia, se deve saldare debiti. Pensavo a quelle case costiere colorate come pesci tropicali. Pensavo che sto nel parallelo necessario dove il corallo è proprio della barriera, non dell’onda nè del fondale, pensavo al viaggio di nozze in cui scomparve mio padre: non pensavo nel giorno della sua nascita. Amavo, ed amo, questa mappa terrena dei secoli perché farne parte era per me impensabile. Se fossi venuto prima, sarei mio padre; dopo, chissà se mio figlio. Amo, ed amavo, il punto di entrata in scena. Era ridere grazie ai frangivento. Era, il riso, la spiga dorsale. Come quando un contadino ti porge la mano con il saluto di ben arrivato e la roncola per il tronco da sfrondare.
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Sinestesia di colpo
Nel bowling, lo strike agguata i birilli. Il disegno di Ennio è in vista. Affronta il tiro seguendo linee che Aphrodite dalla pista di fianco gli suggerisce. La palla lucente, con gli occhi scuri come nei fumetti, segna misure d’aria fino alla bocca fonda: a squarciagola. Lascia le dita al punto di partenza e dopo un rumore di squarcio nel parquet, scivola rotola invaghita dei moai bianchi, abbatte la loro fissità inespressiva. Che suggeriscono, ora, distesi nella buca di recupero, con l’anima incerta presa dal sollevatore di ferro che li artiglia da rapace in stile meccano per adulti? Sulla pista di fianco la giovane donna si concentra. Non è una dea - che l’Olimpo perdoni i leggins strappati, le movenze da pendolo di raso -, ma le luci non accecano come chi preghiamo rimanga a bordo. La biglia è enorme e i tendini della mano fanno fatica non meno della spalla basculante al ritmo della musica di tamburi. Che scarica nel sangue il groove oltre un sangue più dinamico e dritto? Le molecole primitive del pavone, o la giostra dell’anello. Più il ritmo ci assorda, più le gambe simulano l’udito, mentre il peso - qualsiasi oggetto investito dal sole ha un’ombra più pesante di noi che non lascia mai la terra e pare impedisca di perdersi - libera le braccia come il celebre albatro di Charles. Oh, so bene che è bello se dura poco, dice il birillo, urtato dal peso che rovina l'insieme.
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Drift of School
Gil lanciò lo zainetto verso casa, colpendo me per la precisione, in attesa di occuparsi di onde come in seguito ha fatto con il windsurf. È così che un piccolo fotone parte dal cerchio del sole e, muovendosi di corsa, va da pupilla a corteccia, migra energia ai neuroni nelle loro stazioni. Mai uscito subito, Gil, come quei numeri attesi per la tombola. Saltava sui tasti della scala e intimamente sceglieva l’armonia dei gradini. Inventava compagni assenti, seminandone due o tre come gli suggeriva il tendine del genio. Un bambino è sempre attuale quando va in scena: la dinamica del vento mimata dalle ombre e chissà da quanti meccanici dell’aviazione. Davanti all’aula magna uno sciame di ominidi scuote Vicinanza, un bronzo caduto al fronte. Ha ancora la mano sul petto che acquista valore mentre la mitragliata di dita lo colpisce da eroe. Tante braccia alzate, la metà erano volti arrossati. Nessuno di loro si arrende e ridono a velo, zuccheri festosi per il glucosio nei denti esposto con gioia. La gioia batte più della lancetta che corre in cuore, tuttavia è abbastanza veloce in questo quadrante perchè l’altra possa segnare il tempo alla ragione; vicino e distante da te è sereno o turbine ora.
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Robert Maynard Pirsig
Mi ha colto di sorpresa la notizia che adesso fai per volare; e che devo considerarlo già fatto, il più vertiginoso decollo delle spoglie mortali. Chissà se guardandoti da terra, io posso vedere di che argilla sei fatto, come le tue ali sorte da minerale, atomo per aria, vaso per vaso. Non mi è più possibile considerarti faro: ora sei stella e non vaghi, togli facce al mio diamante con la tua cesoia di due raggi.
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Dove ormeggia il suono
Il libeccio spiaggia le cartilagini del verbo. Parlo al vento e quello ha tra le mani i ricci, li apre o, forse, soddisfa i resti, tira su col naso il golfo e una nassa ariosa cala nei polmoni. In mente il verso nuota come una seppia (a strappi, ubriaco, eppure sinuoso: questo perchè anche la seppia è di parola). Può bastare? No! Sarà che ho visto un saltafango camminare in un documentario. La lingua pare lasci orme che scompaiono: non sempre, qualche profondo segno resta. Il pesce con fatica indossa l’aria, ma porta in mano l’onda che non spetta alla sabbia. Che idea, la sabbia! Sembra avere una densità coerente alle maglie aderenti al busto del mare. Quanto ci ha preso la rete? Suvvia! Scrolli alla fontana i granelli incollati alle caviglie poi le spazza l’africo con la sua saggina, non io. Io tolgo via la costa con un gesto spazientito! E le coste cadono sul riso dei frangenti: lame, proprio per ciò vanno a fondo. Fino a questa non poesia, quasi al tramonto: l’ovest, non tu, o certe volte tu, io e l’ovest, con il rumore del vento, dimentichiamo sulla tastiera la notte. Su su su. Tira col naso il bagnasciuga, aprile è fresco ancora. Il perioftalmo mi ha portato qui: ex pesce, primitivo degli uomini galleggianti nello spazio. Prossimo allo zero assoluto, la mente vaga per mettere a fuoco la distanza del naufragio. E già cantileno piccolezze che la risacca cancella, come le orme e le voci delle torri di avvistamento alla deriva. Sono consanguineo delle claveline e non patirò del distacco dalle radici. Guarda amico, la lingua, che appena l’onda si alza affonda, sale nel libeccio ed ha sapore sipido, scivola su questo foglio a luci bianche o spente (vento che, si dice, può sfogliare pagine ma non legge le note). Ribalta libri e spume sui granelli - questo schermo è in effetti l’ultima spiaggia ancora libera. Il respiro, invece, che di mestiere fa la vita, riconosce la semplicità dei segni vivi dove ormeggia il suono.
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Proiezione su misura
Sogno di trovare spazio tra le sequoie, che ho visto solo nella foresta dei led. Abbi pietà del mio desiderio, o possente Sherman sulla superba faglia cui appartieni. Non saprei riconoscerle dal vero, tranne per la somiglianza con il dito medio. Non così alto, beninteso, nè tanto attivo come frangivento da mezza costa: un vecchio, i denti conici scadenti (che trova nei pini marittimi a Ravello). Spunta con la celerità del vento, neutrale e benefico, il respiro ossigenato dalla sua porta di clorofilla aperta. Oppure entro dalla radice estesa - quanto un’isola, sulla quale sbarcano i secoli terreni come se i piedi del tronco temessero di scorticare la cianciola del tempo. Perché il tempo confina col cielo e se sono nell’aria un valico e la vita, prima comparve la terra all’acqua che nafragava, poi: chi emerse per respirare; e venne statua per trasmutazione del reso, così lo spazio si ritenne attivo per la tipica corrispondenza di una riva ad un punto di partenza. E dov’è ora la tenera Rossella, donna salubre, quasi fosse argilla per il corso del tempo: già esisteva il margine del ruscello, poiché minerale e cuore erano fluido verde. E allo stesso margine questo albero non la offende, piuttosto il flusso la mantenga sciolta, io spero, giacché irriga ancora, ma è la sua mano che mi ha piantato in un solco fresco: sequoia, davvero, che va seccando per una proiezione a misura di legno.
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Secondo PP
Non tutti i tributi sono versati dalle borse: il sangue è moneta dovuta all’Impero quanto al Sinedrio. Come avrei potuto prevedere che avrebbe avuto più statue di Tiberio e tutti i cesari venuti o da venire al mondo? Lui ne era al corrente e Claudia suggerì che fosse l’uomo per me. Con lo stesso rigore delle rivolte, volli tenermi fuori da quelle vene. Il catino volò in aria per liberarmi dalla pressione di bocche inferme come le colonne del Tempio. Io dovevo mettere i chiodi perché il quadro si reggesse. Il legno venne dai loro alberi. il dipinto dal cielo. Era più vasto dell’acqua sparsa in terra, più profondo dell’ignoto oltre il cancello di Ercole; come non bastasse, era chiaro che sarei scivolato sul dorso della storia senza lasciare segno se la sua parola non mi avesse preso letteralmente.
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La precedente
Dico anch’io che è meglio un solo fuoco che darsi alla cenere dopo un lungo gioco assistito dai coinquilini a scena muta mentre ti avvolge il buio già ossuto. Il piroscafo scelse la notte prima della sera per consegnarsi alla passione della bufera (che è poi quella di ridurre il senso dei natanti a ferri della costiera). Neppure mi prendeva per la mano che l’ombra s’allungava più lontano: un’ombra strana, liberata dall’insano rotolio degli occhi fino al piano della strada, oltre le barche, meglio della caccia dei gabbiani. derubati, quanto me, da un amo finanche. Piegato su me stesso, la barca cintata dal parabordo affannato, che voleva uscirne, che voleva prima fermarsi poi trafiggersi il respiro cardinale nella bussola del dolore vano (perchè a che serve il mare se è già vissuto?) come: a che serve che io le sussurri inudito: barca cantata in una notte sorda, definitiva, chiamata barca nel tremore del cielo occidentale zattera iniziata dallo spirito falegname al fondo amato arca incessante con il seno universale sul ventre temerario, piena dell’audacia dei porti: uno solo stimato, con due bracci ininterrotti e due fari come occhi, sorgenti a me perché sorgesse l’orizzonte, traghetto sornione come un ponte, come i valichi, barca pane, barca vino, barca rito della prima parola - foglia rimasta nella mezzeria dell’aria mentre l’albero si abbatte sulla plancia contratta, caravella che scorge da lontano il vezzeggiativo e da lontano chiama santini: figlio, dall’altro mondo non perdo il tuo approdo incerto, nè l’ormeggio tenero, scialuppa in tutto, scialuppa per tutto: scialuppa ovunque, bastimento oltre il velo della foschia, pappagorgia dei nembi sotto il mento del cosmo, di ogni dio adiposo, nave con le scapole alate, coi fianchi volanti di marmo sulla sua acqua inavvertibile (come galleggia sulla terra!), battello ora reliquia dell’infinito, carico delle stesse reliquie infinite nell’infinita mappa finita a memoria, cargo di cellule sfiammate eppure ascese a luce; nave per tutte queste rotte: madre rotta, ora.
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Il natante diverso
Non è possibile sapere che ti porta via (l’Irno è così astuto dove rincara la scia che il limo non si lamenta quando si accascia) ma certo inalbera il residuo che lascia. Questa città non simula la ferita del fiume come finge il lungoriva la figura che desumo. E poiché del tuo amore conosco l’equilibrio sembra facile vederti dominare lo spazio dove la corrente può portarmi ancora ed ancora gli eroi non hanno un nome una stele, il lume eterno che ci addolora, la pagina coscienziosa di un bel tomo. Ma ogni città lo prevede: una strada non si nega, per quanto termini o degradi. Il corso d’acqua stretto come due gambe ha il riflesso dei tuoi fianchi per entrambi.
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Per poco seguito
Non importa quanto manchi al frutto maturo, qui o da un’altra parte (immaginando, parlavi di tuo figlio con un filo di voce che legava i suoi fianchi al mio autunno). Comunque, saturo di semi fino a scoppiare l’inguine, nei panni ingialliti del grano obliquo, stava raccolto nella sua stanza per la concomitanza irrisolta tra corsa per la vita e vita per la corsa. Il frumento (in un vago ricordo) somiglia al trionfo dei ricci sull’arco del sopracciglio. Quell’anno, la sua pelle era liscia, tanto che l’incavo delle rughe volitive cancellava subito tutti i righi dal diario immacolato degli affanni. Viene sempre il momento in cui (dicevi), diventati sapere comune, anche i più lievi diventano ritmici come marinai ai remi - e, cantando naufragi, sperano un’isola domi il timore futuro, sicché una sagola sulla spiaggia (i nostri nomi annodati) riannodi l’ancoraggio. L’avventura, nell’uomo, è antecedente alle ali per questo fatta la carne, l’essere nel vuoto cala come un rapace, o una chiaroveggenza audace. Vengo al dunque (ci ha ripetuto, lo ripeto): ha avuto casa e l’ha portata in spalla, come un mantello di risa ma più ampio, sguaiato e franco della sua sarabanda di capelli, provvista a volontà di onde.
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Risalendo il maschio
Uno spazio risicato infila Arechi nella storia. E più ancora il suo rudere convoca pietre vive chiamandole col nome; proprio: angolare, chiave di volta, breccia. Oggi su di loro trionfa la pioggia a colpi singoli. Ricordo ciò che già scrosci: i capelli su cui si posa singolarmente agli angoli, il grigio a iosa. Tuttavia più saltuario un limoneto versa tanti gialli quanti vengono in mente a te.
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Chi ti svegli
Mi scopro appena; e tre, quattro riverberi scintillano. E’ il segno che la notte si riduce ad arco. Scocca la freccia caustica: pallida luce che per rincorrere la mano inciampa nel fantasma del tuo seno. Non viene per meno il panorama che cerca agiatezza crepitando come un ruvido panno nel vetro del più crudele inganno: la realtà è incolpevole della lentezza con cui la solitudine carica la tua leva Che altro urgeva? La vita, lo so: accaparrarsi lembi di sete nella tinozza tracimante del pianeta. Eppure, all’alba il sole è atono, invisibile cavicchio cui si appende il cielo e di là vagheggia la tua sintassi al muro. L’ombra in silenzio è nell’occhio lanciato sull’intonaco perché un profilo più duro inanelli le vertebre come un cedro. A quest’ora è difficile sentirmi allegro quasi che il giorno sia l’asola e il bottone che si stacca chieda parola.
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Shabine
E che ti posso dire se non ci sei? Santo rosso di mare, un po' inglese, negro e olandese: sei stato tanto, e sei la mia nazione. E se anche fossi rimasto, come ti avrei parlato? Parlare a te con la mia lingua corta! Vedrai Joseph e gli altri, i mie amati. O nemmeno ci si incontra in quella Terra di evanescenze. Sulla sua soglia si ferma la voce che è poi quanto di te resta, oltre la firma in calce a parole. https://www.youtube.com/watch?v=mz-NRI43PWk
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