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Raccolta di poesie di Raffaele Sergi
[ LaRecherche.it ]

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L’Uomo Fisico

L’uomo Fisico

 

Il freddo ha placato ogni cosa, 

ha lasciato i suoi cristalli di brina: 

è come sedersi sul letto del fiume ghiacciato. 

Il muro del buio traccia un confine, 

da un argine che nulla diffonde nell’aria, 

ma solo concentra il pensiero 

in un cerchio più profondo.

Chinarsi, fermarsi 

con gli occhi sulla coltre nevosa, 

quando rumori più aspri si sono fermati: 

forse al mondo non si ama che questo, 

solo il sapore ferroso del bianco e del nero 

di questa continua immagine, 

nient’altro che un suono mortale 

– tutto brucia il fuoco del gelo, 

lascia l’unico spazio 

ad una rauca voce interiore.

 

Nessuno può sentirti, 

stella bruna nel ventre della terra, 

il tuo suono è nascosto 

dal velo notturno di questo gelo 

e vibra, sottile e infinito, 

nel presente eterno, eterno pensiero; 

solo ferisci il sonno 

come un sogno fuori dal tempo 

quando batti sul tuo tamburo 

e canti le sorelle del carro 

col cui aiuto navigavano i Fenici, 

quando ti trasformi in magra figura 

tinta del sangue dei vulcani 

– dal volto freddo e cereo – e gridi, 

spalancandoti 

nell’immenso respiro del dolore.

 

E immagini immani del passato 

bruciano dentro gli occhi 

come specchi di luce improvvisa, 

quando la mente ha relegato all’occhio 

qualcosa di più grande, 

un sapore aureo e dolce 

che si può riconoscere 

quando la tenebra cerca di aprirsi 

e un canto si fa più forte 

accarezzando il cuore; 

acqua e muschio concedono una forma, 

un sorriso della natura dove assopirsi.

 

Questa pelle calda e bianca rammenta 

ciò che è stato lasciato con un cieco gesto: 

le nostre spoglie si spostano per spazi infiniti 

e la paura cade nel suono 

– siamo soli ed eterni

come nel camminare sulle cime del verde, 

in questa pietra lucida e sempre uguale 

di sola acqua che rapidamente scorre: 

il sogno sublime dal quale ci sveglieremo 

con un serpente di metallo dentro.

 

Quando tutto questo il dio del tempo 

lascerà cadere in un sonno profondo 

di gesti consueti,

guarderemo affranti verso il limite 

dell’immensa distesa d’acqua, 

specchio di gelo e nient’altro che gelo.

 

Ma io ti sento, invincibile e buia, 

trasformata e confusa, 

agitata dentro un rumoroso colore di universo 

– una goccia di cristallo liquido 

nel mondo microscopico d’un colpo d’occhio – 

come il paesaggio di neve sciolta 

che sembra essere innanzi, 

come un dio che colpisce da lontano 

dentro l’acqua che si perde alla vista, 

principio delle cose, e dentro il dio 

che dall’acqua con la mente le plasma. 

 

E ancora forse fissare lo sguardo 

è come perdersi nel pensiero 

che si dilata e si fa ritmico, 

e di qua, e di là, nell’orizzontale, 

è il Tutto forse, 

o ti sei lasciata cadere dentro me.

 

Ancora ascolto il tuo respiro farsi il mio, 

chiudere gli occhi nel sonno 

sembra ancora un gesto ultimo e mortale e certo, 

non serbare memoria parrebbe 

perdere la vista in una lunga strada di pietra 

e sapersi il viso solcato da un silenzio sepolcrale; 

così come sentire la fine ormai troppo vicina, 

i pescecani dell’ombra farsi aghi di vento 

e lacerare il mare fermo 

– vedere i coralli spalancarsi in verticale, 

in bocche argentee farsi abissi e luci: 

se il lenzuolo scuro copre tutto dinnanzi, 

voltando pagina è il bianco che diviene infinito.

 

Sei dentro me, poiché ti penso, 

ed è come se il cielo s’aprisse in sogno 

per lasciarsi dimenticare nell’attimo dopo;

mai mi riuscirà di partorirti 

e spasimo e dolore mi fremono in corpo, 

in un nodo di carne; 

sei dentro me, bruciante, 

se guardo il cielo e la terra 

sembra sentirti parlare dal profondo 

e muovere il corpo immenso 

come un rettile antico.

 

Dentro una bocca e un grido al cielo 

ascolto e vedo in un modo nuovo di agitarsi, 

girarsi, muoversi nel letto d’acciaio, 

avvolto dentro un lenzuolo 

– altri occhi fiammeggianti e un’altra bocca: 

non potrò vomitarti 

mentre ti gonfi nello stomaco 

come un liquido velenoso 

né mai riuscirò a salire anch’io sul monte 

e mostrarmi sul dirupo 

come in un tempio celeste 

e lasciarti cadere in zampilli e gabbiani 

dentro lo specchio fosforescente dell’alba.

 

O specchio infallibile! 

Verità dalla fiamma bluastra, 

non posso guardare!

È un giorno d’Eclisse 

che trasforma in pietra il tempo, 

diventa presente eterno, eterno pensiero 

– vedendo, definendo, 

si palesa un frammento delle tenebre: 

dentro il tempio 

è come volessero ferire la terra 

con lampi di ghiaccio.

 

Così sono, 

gli Uomini Fisici dall’occhio fermo, 

nell’oscurità di questo tempo, 

supini su altari di marmo contemplano muti, 

i loro corpi si bagnano d’una pioggia azzurrina 

e forse si scavano nei cuori senza dire parola.

Così si distruggono! 

In cima al monte lottano 

come feroci minotauri, 

del principio delle cose l’antico 

è il sentirsi vivi, 

con l’arma alla mano.

Scivolando dentro l’ovunque 

si sollevano dal muschio 

e portano in dono una manciata di terra 

a noi tutti, 

battendo rabbiosamente una porta, 

aprendo una mano ferita. 

Dentro la folta vegetazione 

posseggono le loro travi di cristallo 

e le loro costruzioni dimenticate dal mondo, 

obliate da un frastuono metallico di moltitudini, 

voce sola di un silenzio 

che nessuno ha mai violato.

 

Grandi cose sembrano ignorare gli uomini: 

la pupilla dilatata dei Fisici. 

Essi si avvolgono nei loro mantelli di pietra, 

con un gesto perpetuo, scompaiono nella nebbia, 

senza ch’io me ne avveda.

Li riconosco: 

così codardi mentre si nascondono, 

così coraggiosi mentre sanno di soccombere, 

dai visi scavati da un silenzio immortale...

Questo il pensiero meno sublime. 

 

Le mani dei titani mostrano al cielo 

le ferite terribili, 

in una foresta spine ghiacciate 

hanno lasciato i loro segni: 

monti, fiumi, grandi percorsi, 

zolle di terra che non conoscono 

il passo degli uomini.

Dimenticare i demoni di roccia,

impassibili guardiani, 

e non temere il braccio 

che senti di sfiorare nella notte, 

nel cammino dentro il buio: 

la luna illumina profili perpetui 

– troppo la mente li pensa, 

ne alimenta il fuoco dentro la terra 

e s’intorpidisce dentro gli elementi 

– ma è distante dal vero, 

ancora troppo lontana.

 

In immagini senza colore 

cancellare i profili di fosforo, 

nella notte che chiude 

la voce dei vicoli e ferma l’aria, 

che penetrano il pensiero 

con segni enormi, sospiri, 

colpiscono e feriscono.

 

Chi mi ha portato in un luogo così profondo?

Chi mi ha messo indosso questo mantello polveroso?

Chi mi spia da dietro il vetro e la ginestra?

Guardando innanzi, oltre la distesa, 

sembrano smarrirsi in un piano infinito 

i volti divini dell’acqua, 

le antiche febbri crescenti, 

come alberi dopo che Nettuno 

ha allargato le sue braccia: 

sono rami accasciati dentro la terra rossa, 

in ogni lato hanno una bocca 

che sputa fango e fuoco 

– si riconoscono dal cranio di ciottolo levigato 

tinto di alghe che le onde spostano 

dalla terra al cielo, dal mare alla luna; 

dai volti morenti che non sanno 

in quale luogo lasciare riposare lo sguardo.

Immagini che sospirano le lunghe attese 

degli uomini sempre soli, dentro il caos 

– che enormi grida al cielo, dalla schiuma del mare! 

 

L’occhio dei Fisici ascoso 

non ha dolore né frammenti, 

e tutto sospende nel nulla. 

Dimmi, qual’è il canto che ascolti, 

quale nota fosforescente e continua? 

Quale giorno di pioggia, 

quale impossibile autunno? 

Ciò che la rauca voce ti dice all’orecchio, 

ciò che con voce tremante rispondi... 

No! Gli uomini quale grido al cielo compiono, 

se sentono luce e infinito, e infinito buio!

 

1981

*

A se stesso »
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*

Canzone vera

Canzone vera

Odo cose che hanno il suono della grandezza
spesso voglio credere vederle nel mare
ma senza avere paura, giuro,
senza avere paura.

Cosa so io d’un viso che non ha occhi né bocca
non gioco non canzone non sorriso,
io non sono morto, giuro,
non sono morto.

So di guerrieri, hanno il nome di Gengis Khan
segno d’onore sul palmo della mano,
non hanno paura, giuro,
non hanno paura.

Vattene luna, non guardare quello che penso
non guardare in questa notte dentro me,
non mi fai piangere, giuro,
non mi fai piangere.

Odo cose che hanno il sapore della leggenda
spesso voglio crederle dentro il vero,
non mentono mai, giuro,
non mentono mai.

11 febbraio 1977
(da “La luna e altro”)

*

Dell’ancella di Sekhmet

XVI fantasma.
Dell’ancella di Sekhmet

Avrà te, la strada di bianchi ciottoli,
in un ritmo feroce,
macchine ferme porteranno corpi
all’orizzonte e il sole perfetto
avrà allora le sue ombre di sempre,
il sole sarà l’unica pietra del mondo possibile,
l’unico grido noto.

In quell’unico grido è il tuo occhio,
marmo immobile nel nulla è la tua fronte,
un pulsare ancestrale nel corpo
scolpisce nuovi segni d’orrore
sulle tue pupille lucide:
tutti gli ingranaggi sono distrutti
e i cristalli tagliano l’aria.

È un gioco di vortice che continua a girare,
ogni cosa vedi distrutta,
ogni cosa porta l’odore della morte e tu
sei una macchina che vibra, che volteggia, che vola:
sai dirmi da quale recondita gabbia aneli di fuggire?

Se tu non sarai l’uccisa,
se tu sarai vittoriosa
io ti scorgerò ovunque,
in ogni luogo, sotto ogni pietra,
in qualunque cumulo di macerie...
Adesso, dall’alto, uomini bizzarri
con grandi fucili sparano sulla folla assente,
con grida di gioia solenne.

Teste infantili vengono falciate
nelle vetrine dei negozi,
dentro quest’unico ritmico
rumore di martelli che ascolti,
cervello e cuore degli uomini
l’accompagnano ripetutamente,
altro non sei che piena angoscia,
tu che corri all’infinito.

Lo sguardo è ormai segno fossile, l’aria è gelo,
solo case distrutte e pezzi di corpi osservi nella piana;
sei una macchina che vibra, che volteggia, che vola:
sai dirmi da quale recondita gabbia aneli di fuggire?

Dove corri, dove spieghi il tuo destino terribile?
Quante rivoltelle si sono portate a una tempia,
quanti hanno fermato il loro dolore perpetuo...
E tu ancora corri, ancora trascini il corpo nudo!

Guardati dunque all’estremo traguardo del percorso:
ghiaccio è il cielo, un’onda di buio e di luce piegata,
terrore trionfante senza volto alcuno,
solo pietre esplose, occipiti, mascelle,
frammenti di vetro e rottami inutili.

Ti possiede la strada di bianchi ciottoli,
ti assorbe il cielo: vuole farti parte di sé,
fermarti nella sabbia grigia;
sei una macchina che vibra, che volteggia, che vola:
sai dirmi da quale recondita gabbia aneli di fuggire?

8 dicembre 1978

da "I fantasmi di Sodoma"

*

L’Occhialuto

L’Occhialuto

    Sotto il mare, mare tranquillo e buio
        (il buio è un giocattolo del vento)
sotto coperte da viaggio e scarponi
            e una miriade di medicine
sotto la nave
    cioè la barca
        o la zattera
            o nulla, se ricordo bene:
Tranquillo cammina l’Occhialuto
    mentre marzo lo incarta
        col suo freddo
        col suo caldo
            col suo liquore agrodolce indeciso
e lo sostiene
    in frenetica Folla frenetica
        che non si perde mai nulla
            (che poi non è neanche vero).
Poiché non bisogna fidarsi mai,
    poiché il capriccio è Jazz che non ha fine
        e si trascina il mare nel buio
            il mare stesso
                se stesso
            Soltanto...
    Ma perché, nessuno saprà mai dire,
nell’ora precisa, adunatasi in frammenti di caos
l’Occhialuto, chiusissimo nella stanza,
                Si dipingeva
    – perché, nessuno saprà mai dire
viale muro calce dell’eroe si scioglievano
sotto la notte in un sordo lamento.
    Così insipida e nulla e vuota
        la notte
            costruita in rami scheletrici
                marmorei
    – non credo avesse qualcosa da perdere.
    E poi
        – Io personalmente –
        penso proprio che l’Occhialuto
        fosse una persona del tutto insignificante
        Come lui ce ne sono molti,
        l’indice di produzione qui da noi è
                        piuttosto alto;
sono calde e insistenti queste vite,
    non sono adatti, credo.
    Questo, io retorico, io inutilmente
        continuo a pensarlo,
            Nonostante (nella mala notte)
l’Occhialuto
    vestito a puntino da indiano Cheyenne,
        con colori sfarzosi sul viso
l’Occhialuto uccide:
    (Non credo di saperne dare l’idea
    per cui tralascio l’elenco
    – e poi c’era un mio caro).
    E corre,
        corre impazzito come un cavallo
            l’Occhialuto
                egli si porta addosso
                    la veste sfarzosa
                    di chi non ha Guerra,
                    di chi non ha nulla.

26 febbraio 1979
(da Cerchi giocolieri alla vita)

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Cane Bianco

Cane Bianco
(Morte di un clochard)

Voglio dirlo: non è stato che un momento per lui,
piccolo e insignificante
            – molte volte deve averlo lasciato cadere –
ovvero un respiro chiuso,
un respiro gelido in equilibrio dentro un occhio cieco.
Eppure
un solo colpo di luce, lineare,
o un frammento senza tempo
e un mondo intero è crollato
in coriandoli di cristallo e colori
        – come gioia infinita, come luce, luce soltanto.
    Esattamente un viso degno del tempo il suo,
esattamente un viso sacro
        – a immagine e somiglianza di Dio, dicono,
– ma, reale in assoluto, un viso scontato,
scavato, modellato dal grigio dei muri e scolpito,
un viso digerito in sordi sospiri come un frastuono
che si perde lontano,
    sempre più lontano;
una morsa al fiato, un dolore dentro i polmoni,
e il ricordo di un magnifico rivedersi, fotografarsi,
    respirarsi che non ha fine
dentro i locali sotterranei
    in cui filtra la luce radiosa che dal vetro
trafigge il corpo e dice: “Sei tu!”
    Sei tu, ovunque ti possa trovare,
sei tu quando ti affacci
alle sudicie vetrate – ed io, vilmente nascosto, lo vedo –
sei tu e può dirlo chiunque.
Chiunque!
Anche Cane Bianco, nel suo angolo sbadigliando,
lo nomina – e lui lo ama da sempre.
Lo amano da sempre il bicchiere, la porta chiusa
e il giornale di domani, il silenzio che brucia il tempo.
Il tutto (Sei tu? Perché mai, mio Dio?)
staccato dal muro, con un grido,
con al polso un orologio rotto, dal tempo perpetuo,
con tamburi e ritmi frenetici della sua musica,
reminiscenze degne d’un Déjà vu
– come gioia infinita, come luce, luce soltanto.
Il sole ha le sue cadenze, ad ogni gesto e non-gesto,
date da case sepolte ad esempio, da vicoli senza nome:
vi sono templi marmorei, costruzioni oblunghe come bare
in una città come Torino,
in una città come il deserto del Sahara,
colme di frenetiche sagome
in attesa nelle Stanze di Sicurezza,
            nei Dormitori e nelle Saune Pubbliche.
Cane Bianco si curva,
posa il muso sopra una lastra di ghiaccio
– è un convalescente nella penombra
        di una stanza sepolcrale;
Cane Bianco si lecca un avambraccio
                    piantato nel fianco
nel centro d’una città come Utopia
o Saint-Pierre in mezzo al mare.
“Fuori, fuori più in là, fuori dalla cornice,
è là che vado
Signora della Luce!
Certamente porto lo stomaco in una carriola qui,
ma io so aspettare, so meditare, so digiunare”
– alzando gli occhi vede un cadavere simile a se stesso
sdraiato sulla terra battuta
con lividi al posto degli occhi:
il freddo lo sbianca, lo sbianca,
        il freddo lo sta sbiancando;
fra sagome attorno ritagliate teppisti
dipinti sui muri di cartapesta
distribuiscono volantini con su scritto:

Pregasi automobilisti
essere più prudenti,
ai migliori
una Bibbia rilegata
in omaggio

    Il cane non ha nulla a che fare con Lui.
Cane Bianco del resto attraversa la strada noncurante,
ha sonno, è stanco
    – Lui non ha sonno, non è stanco.
E se voglio dirlo,
    ridirlo, ripeterlo ancora, ecco:
        si sorprende senza più voce né corpo,
fumando sigarette al sapore di mandorla amara,
rammentando labbra sigillate di nemici
in un dissipato sentiero di guerra.
Si guarda il pelo lanoso che cresce,
                    bianco e candido,
lentamente sulla scia stradale della schiena
e pensa anche di scodinzolare.
Ma (ripeto)
Cane Bianco oltrepassa un viale alberato di libertà
mentre Lui si è addormentato
            sanguinante sul letto della terra.

27 marzo 1979

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Un fucile nuovo

Un fucile nuovo

    Un paesaggio su una foglia d’Ontano
di silenziosi cimiteri senza nomi – false voci,
una donna dalla vita di vetro e schiuma di balena
che percorre una terra senza sogno, un cliente
ermafrodito a cui vendi un fiore di carta
e una spada di cristallo – nel rumore feroce
del treno, nella sua ferraglia ammassata,
il suo culo bruno e bianco che ti ripete:
            “Non vedrai mai il tuo paese”.
    Brulicando in un cammino di tutti
ove oltre il campo non è permesso,
non è che un colpo di fucile in alto,
in alto, in alto la mia anima cerea
            che si pensa libera.
    – Voglio un fucile nuovo
o voglio un deserto tutto per me.
    – Avrai ciò che vuoi.
Lasciati trasportare da un fischio nella trincea,
dagli Amici in sogno, così piegati ma ligi alla legge.

    Sulla riva del fiume congelato
io l’ho trovato: leggero metallo, linea precisa
come un occhio divino – si è sospeso il cuore,
fili di ferro i nervi a questo scopo.
    Il nemico intende il mio fruscio
come un vento: io voglio colpirlo, con giusta mira
puntata nel cuore di grasso: piombo fuso
e fragranza irresistibile.
    Se dovessi chinarmi sarebbe finita
e una leggenda non avrebbe memoria.

21 giugno 1979

*

Tavolo d’angolo »
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