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Raccolta di poesie di Gabriella Amstici
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Il violinista

Cessati i lampi e i fragorosi tuoni

di un improvviso e violento temporale,

si espansero nitidi i consueti suoni

di un’umida e fresca sera autunnale.

 

Tra le pozze d’acqua sulla via

e il tappeto di foglie ingiallite,

si avvertiva nell’aria la nostalgia

delle giornate estive ormai finite.

 

Nella piccola piazza rianimata di gente,

si levò una lontana e triste melodia,

una musica lenta e struggente

di un canto denso di malinconia.

 

Sotto la luce di un vecchio lampione,

come un mago portato dal vento,

un violinista destava l’attenzione

tracciando nell’aria volute d’argento.

 

L’uomo stringeva il suo strumento

come un abbraccio che avesse accarezzato

tra il capo reclinato e l’ossuto mento

della sua donna il volto amato.

 

La mano nodosa lasciava le impronte

sopra il legno stinto e consumato.

Dei solchi profondi spezzavano la fronte

e la pelle sottile del viso emaciato.

 

Il sudore colava in gocce perlate

come condensa di un male nascosto

e umettava le labbra inaridite e contratte

sul volto sofferto e scomposto.

 

La musica copriva ogni rumore,

era l’ultimo canto del cigno morente

che dopo aver raggiunto l’amore

venne colpito dal rivale perdente.

 

Le note si levavano in armonia

come battiti d’ala di un animale ferito

mentre lottava nella lenta agonia

di un combattimento ormai finito. 

 

Il lento ritmo di quelle note disperate

accompagnava la triste sorte

del povero cigno con le ali spezzate

nell’ormai calmo sonno della morte.

D’improvviso il musicista si fermò.

Abbassò il violino come fosse pesante

e con occhi febbrili intorno ci guardò

con l’arco sospeso e ancora vibrante.

 

La folla applaudì con commozione,

ma lui chinò il capo come umiliato

da quella misera condizione

che tormento e dolore aveva causato.

 

Dieci soldi per quel canto divino,

dieci soldi per l’infelice musicista,

senza forse capire che quel violino

svelava l’animo di un grande artista.

 

(Ispirato a "La morte del cigno" di Saint Saens)

*

La ballata della statua perduta

Dal vecchio asse di legno marcito

è affiorata un’esile mano

che il tempo non ha mai scalfito.

 

Il pavimento dell’umido vano

ha nascosto quel gesso ingrigito

che per cinquant’anni ho calpestato.

 

L’orgoglio era stato forse sordo

e il dolore era stato muto,

ma è rimasto in me il ricordo

 

come il più triste che ho avuto.

Con quanto amore l’hai creata

quella grande angelica Madonna!

 

Rivivo l’emozione di me bambina

quando lei era stata plasmata.

Ammiravo, a mio papà vicina,

 

quel suo dolce bellissimo viso,

che di mamma aveva le sembianze

quando lei avesse sorriso.

 

Oh papà!

Che grande fatica hai sopportato,

com’erano attese le speranze

per l’immenso lavoro completato!

 

Se ti sfiniva l’immensa stanchezza

pensavi al premio da guadagnare,

nella folle e illusa certezza

 

che con l’arte potevi lavorare.

Quando la vincita ti spronava,

volevi coprire quella scultura

 

con il bronzo fuso che mal colava,

denso e bruciato per poca cura,

sul fragile gesso ancora bagnato.

 

Per premiare il più bravo scultore,

esposero le statue sul sagrato:

tra tutte la tua era la migliore.

 

Ma l’ultima scelta per l’alta colonna

fu di chi diede la benedizione

a un’altra più moderna Madonna

 

per denaro spinto in tentazione.

Fu omaggiato l’altrui successo

e ben ricompensato il vincitore,

 

mentre la tua misera statua di gesso

non poté avere destino peggiore.

La rabbia del pesane martello

 

colpì il capo reclinato

e il lungo candido mantello.

Soltanto il diadema fu salvato

 

che povertà pennellò d’oro finto:

il ferro con cui era foggiato

con errato colore fu dipinto.

 

Tutto sarebbe stato cancellato.

Oh papà! Ti è stata ostile l’arte,

neppure mamma la voleva.

 

- Il tuo genio tienilo da parte -

ricordo che lei sesso diceva

- usalo e assaporalo da solo! -

 

Perché non hai fermato allora

quella rabbia che per il rimorso

è continuata per anni ancora?

 

Anche se il tempo è ormai trascorso,

voglio dare pietosa sepoltura

ai cocci di calce ingrigita.

 

Li porterò nella vecchia serra,

dove lei è stata costruita

e li coprirò con la nuda terra.

 

Voglio che tanti fiori ricoprano

insieme ai tristi rimpianti

anche questa piccola, esile mano.