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Raccolta di recensioni scritte da Alfonso Lentini
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Francesco Randazzo - Narrativa - Graphofeel

I duellanti di Algeri

 

Fantasmagorie di duellanti

 

In principio ci troviamo chiusi in una cella. Siamo in un carcere di Algeri, verso la fine del Cinquecento, ed è in una sordida cella, trasformata quasi in spazio teatrale, che si svolge la prima parte di questa storia. Miguel Cervantes, futuro autore del Don Chisciotte, fatto prigioniero dopo la battaglia di Lepanto, divide la sua sorte con un inquieto poeta siciliano, Antonio Veneziano. I personaggi sono reali e dunque il racconto, come è di moda dire ai nostri tempi, è “basato su una storia vera” perché risulta storicamente accertato che i due non solo si conobbero e si manifestarono reciproca stima, ma vissero insieme l’esperienza della prigionia. Tuttavia – sia vera o non vera la storia narrata – questo libro di Francesco Randazzo – I duellanti di Algeri – più che romanzo storico in senso stretto, possiamo considerarlo una “fiaba storicizzata”, cioè una fiaba incastrata in un contesto di fatti veramente accaduti. La narrazione, come dotata di luce pulsante, va e viene dal mondo reale spaziando con grande libertà dal vero al fantastico, e viaggia con repentine andate e ritorni anche dal passato al presente.

In principio, dunque, i lettori si trovano ad assistere a una specie di teatro: un duello, un susseguirsi di schermaglie verbali fra i due prigionieri che, per sopportare la loro triste condizione di reclusi, passano il tempo a parlare si direbbe quasi a vanvera, se non fosse che i temi affrontati – potere, libertà, amore, poesia, guerra, tolleranza… – sono di gran peso e certamente importanti anche per il mondo di oggi. E Antonio Veneziano, come un anarchico utopista dell’Ottocento, a un certo punto arriva persino a dire: «Il potere è la forma più sordida di repressione e umiliazione della purezza dell’animo umano!».

L’incipit è dunque da conte philosophique e la battaglia a cui assistiamo è una fantasmagorica battaglia di idee e di parole. Ma questo è solo il punto di partenza di una storia che si apre a ventaglio verso i più sorprendenti sviluppi. Grazie a un’improvvisa incursione nel mondo attuale, scopriamo intanto che la vicenda finora narrata non è che la sintesi di un misterioso manoscritto ritrovato dall’io narrante in un’altrettanto misteriosa biblioteca di Salamanca. E di mistero in mistero, la storia vira sempre di più verso dimensioni dove realtà e fantasia si intrecciano in modo inestricabile. La fuga dalla prigione diventa allora fuga dalla realtà e il successivo viaggio verso la libertà altro non è che un viaggio verso i reami del fantastico. A un certo punto, tanto per fare un esempio fra i tanti, Antonio Veneziano, creduto morto in seguito a una tempesta marina, riappare a cavallo di un delfino “come un cavaliere di Poseidone” declamando versi in rima ai quali gli altri delfini che lo attorniano sembrano rispondere «con stridii d’approvazione».    

Il viaggio (che è anche viaggio nel tempo, visto che il racconto contenuto nel manoscritto si intreccia a quello del suo ritrovamento, che si svolge ai nostri giorni) è scandito da molti colpi di scena e si conclude quando i protagonisti approdano casualmente in una terra sconosciuta che subito si rivela essere la Sicilia. E lì giunti, assistiamo a un epilogo davvero sorprendente, che però, se le sorprese dei libri non vanno mai rivelate del tutto, qui ci limitiamo solo ad accennare: sia come sia, finzione e realtà diventano tutt’uno e succede che il personaggio di Don Chisciotte, il “cavaliere della triste figura” che Cervantes avrebbe di lì a poco concepito dando vita a uno dei più straordinari eroi letterari di tutti i tempi, prende forma nella mente del suo futuro autore non davanti ai mulini a vento dell’Andalusia o delle Fiandre, ma davanti a quelli delle saline che ancora oggi si trovano nello Stagnone di Mazzara del Vallo.

La trovata più geniale riguarda però uno snodo fondamentale della trama: cioè la parte in cui si svela come e qualmente il manoscritto da cui ha origine tutto il racconto compare, si direbbe, quasi dal nulla.

«Benvenuto nella biblioteca dei libri inesistenti», è la frase chiave. In questa fantomatica biblioteca che l’Autore localizza a Salamanca, si può trovare «qualunque libro di cui s’immagina l’esistenza ma che nessuno ha mai avuto la fortuna di tenere tra le mani e leggerlo». Fra di essi, naturalmente, è conservato anche il diario che Don Miguel Cervantes avrebbe scritto sulla sua prigionia ad Algeri e sul suo sodalizio con il poeta siciliano. Quasi come nelle contrade della Luna immaginate da Ariosto, in questo fiabesco edificio che evoca atmosfere borgesiane, si conservano i libri che sulla Terra sono andati perduti e chi tentasse di impadronirsene li vedrebbe dissolversi e ritornare indietro appena superati i confini dell’edificio.

I duellanti di Algeri, per quanto ricco di fantasticheria e solcato da una vena di follia donchisciottesca, scorre però con ritmo geometrico e cristallina coerenza interna; e non si creda che le figure storiche di Cervantes e Veneziano escano offuscate dalla pur inesauribile immaginazione dell’Autore. I dati storici vengono rispettati con cura e intelligenza, tanto che I duellanti di Algeri non teme il confronto e per certi versi si può accostare a certi libri-inchiesta di Sciascia e di Consolo. Ma per avere un’idea della ricchezza inventiva ed espressiva di questo romanzo bisogna chiamare in causa altri importanti autori del versante visionario della scrittura siciliana, come ad esempio Angelo Maria Ripellino, Giuseppe Bonaviri, Antonio Russello o Gesualdo Bufalino. Innestate nel contesto del “meraviglioso” uscito dalle penne di scrittori siciliani come questi, acquistano infatti un senso particolare le parole che Randazzo fa a un certo punto pronunciare ad Antonio Veneziano: «La realtà è una prigione, Don Miguel. Devo romperla, frantumarla, raccoglierne i cocci e ricomporla ogni giorno. Con questi versi, con questo amore mio disperato e tradito, io faccio i conti con le ragioni stesse della mia esistenza. Nessuno sa quanto io ne soffra. Nessuno immagina quanto questo soffrire in me rischiari, con la luce della fantasia, l’oscurità interiore che mi tormenta; e anche se solo per pochi istanti, io ho l’illusione, la speranza di una felicità semplicissima e immensa».

 

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Franca Alaimo - Poesia - LietoColle

Traslochi

 

La produzione poetica di Franca Alaimo ci appare come un terreno indocile alla coltivazioni seriali. Passando da una silloge all’altra, direi quasi da una poesia all’altra, possiamo rimanere spiazzati dalla sequenza di mutamenti, ora lievissimi ora apparentemente bruschi, che a volte toccano la sostanza stessa della lingua poetica: dai versi cesellati, colti, ad alto tasso di raffinatezza che troviamo ad esempio nelle «7 poesie» pubblicate in un elegante libro d’artista dalle edizioni del Bisonte, può capitarci di passare alle contrazioni espressive di “Sorsi”, dove la lingua si fa gesto minimalista pur mantenendo una forte intenzione narrativa, e per queste vie di giungere infine alla nuova (e ancora “diversa”) prova poetica intitolata «Traslochi». Quasi che il trasloco di cui fra quelle pagine si discorre sia anche di natura poetica. Sembra che il titolo, oltre a raccontare un’esperienza reale o metaforica, voglia mostrare la volontà di esplorare un nuovo “quartiere” della scrittura. Nel descrivere un trasloco forse reale, forse causato da una separazione (ma che importa? per apprezzare la poesia è meglio non farsi troppe domande sulle concrete contingenze che possono generarla), Alaimo adotta una lingua colloquiale, quasi “condominiale”, appunto (adeguata cioè al nuovo “condominio” in cui l’io lirico dice di essersi appena trasferito). Muta registro, muta prospettiva. Traslocare infatti è per tutti un piccolo o grande trauma, comunque un evento che ci costringe ad abbandonare bruscamente i percorsi consueti, cambiare punto di vista, mutare abitudini e stile di vita in rapporto ai nuovi spazi nei quali non sempre è facile ritrovarsi. E la poesia diventa a un certo punto essa stessa personaggio. Compare in forma nuova alla porta della nuova abitazione nelle vesti di una donna «con il suo piercing rotondo sulla lingua», riappare dopo un lungo silenzio, ritorna, ma cambiata. Anche lei ha dovuto “traslocare”, abbandonando «il suo placido calarsi dentro le foglie / ed i petti caldi e innocenti degli animali in volo» (cioè i paesaggi idillici dove convenzionalmente viene collocata) e immergersi negli spazi urbani spesso degradati, abitati da solitudini e malinconie, «mentre le saracinesche stridono / dentro il mutismo della strada».

Le pagine si susseguono come in un diario di bordo. Sono momenti molto intimi di una poesia che Roberto Pazzi nell’appassionata prefazione definisce «sensuale e tenera», ma anche e soprattutto squarci narrativi a tratti crudamente realistici, di sapore quasi pasoliniano. «C’è la matta del terzo piano / che strilla (….) Finché qualcuno con una dose di morfina / la ripiomba nel sonno...». Nel paesaggio urbano…«sta crescendo / un fittissimo bosco di ponteggi / insinuando i tiranti di aggancio / come molteplici rami fra i lenzuoli stesi.» Insomma: «Tutto è basso, schiacciato al suolo.»

L’io lirico si fa occhio che osserva questo nuovo ambiente e prova a descriverlo con il candido stupore di chi non è abituato a viverci. Ma la forza di questi versi sta nelle improvvise accensioni, nelle stupefacenti impennate verso l’alto che colpiscono ancor di più proprio perché spiccano il volo dal basso più basso. Così l’autrice intravede in filigrana nel «colombaccio che picchia sui vetri» addirittura lo Spirito Santo, mentre poco prima Dio in persona sembra aver assunto le sembianze di un giovane emarginato che sul marciapiede di fronte sta per iniettarsi in vena la sua droga, «i sandali slacciati, lo zainetto logoro di cuoio». E il condominio si popola di angeli che scendono e salgono scale «come quelli che vide Giobbe». Fino a quando la ragazza più bella del palazzo, inaspettatamente parlando la lingua della Commedia dantesca, a un certo punto dice: «Volgiti, che fai?»  Ma le impennate sono anche di natura formale. La lingua procede convulsamente, a zig zag: dal lessico basso («Traffico di anidride carbonica e di ossigeno…»,  «sale dagli scarichi un fetore…», «lamenti di ferraglia dei camion…», «il bianco squallore del cemento», «odori acri di decomposizione…») si ascende verso soluzioni espressive raffinate e frutto di consapevoli filtri culturali. La lingua poetica alta prende il sopravvento sul procedimento puramente descrittivo ed ecco «le lucertole con i loro alfabeti neri / sulla pelle smeraldo» , «i richiami del chiurlo /grandi come rintocchi», ecco «la corona di gioia», ecco le ombre dei corvi che «scrivono effimeri alfabeti sul lenzuolo.» Assistiamo a una specie di corpo a corpo. La poesia accetta di confrontarsi con gli ambienti dove ha dovuto traslocare, si sporca (baudelairiamente) le ali, ma rimane viva, vitale, e si mostra sempre capace di esercitare (sia pure in forma nuova) la sua potenza trasfigurante. 

E il trasloco, forse quello vero, ancora dantescamente, comincia «al principio del mattino», come i preparativi di un viaggio iniziatico verso un altrove indefinito, e fin da subito si pone come esperienza di svelamento. Lasciando la vecchia abitazione, rimuovendo libri e suppellettili, si possono fare scoperte sconvolgenti, come ad esempio un nido di insetti nascosto fra i volumi della libreria. «E solo oggi, durante il trasloco, / mi accorgo delle case d’argilla / lasciate dalle vespe tra le pagine dei libri.» L’abitazione che ci si appresta a lasciare brulicava di segreti che nessuno aveva mai scoperto prima; altro non era che un «minuscolo zoo» composto da esseri innocenti e felici. Solo i due esseri umani, che si apprestano a separarsi dopo aver dormito a lungo rivolti verso due opposti punti cardinali, vi hanno vissuto da animali infelici.

Per quanto con un certo disagio e con venature di comprensibile nostalgia che lambiscono persino la gatta della protagonista, bisogna addentrarsi nella foresta metropolitana, affrontare l’altrove con occhi che dovranno farsi diversi. Compiere, con passi non più «tardi e lenti», ma con attenzione ai mutamenti di prospettiva, il nuovo cammino che la vita ci pone davanti.

Il viaggio verso la città, lo stanziarsi nel nuovo nido dell’universo metropolitano, si rivela perciò come una grande allegoria polisemica dove trovano naturale collocazione persino le domande più drammatiche che ogni essere umano si pone: «Mi chiedo dove comincia il luogo, / lo zero della morte.»

 

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Eugenio Lucrezi - Poesia - Oèdipus

Mimetiche

Postfazione di Massimiliano Manganelli

 

Se l’universo è un immenso sistema di specchi, la poesia – che per vie più o meno impervie lo replica – è anch’essa intrisa di trappole o tramature speculari. Tutta la poesia, nelle sue più diverse forme, è fondata su un complesso gioco di rimandi. È parola che riflette sulla parola, linguaggio che riflette sul linguaggio (e altri linguaggi prismaticamente rispecchia), per questo possiamo considerarla una forma complessa di meta-scrittura. Tuttavia questa essenza speculare della poesia assume a volte forma implicita e rimane in ombra.

Non così avviene nella raccolta Mimetiche di Eugenio Lucrezi dove ogni composizione somiglia a una navetta che fa la spola fra la superficie e l’abisso, riportando a galla ciò che in altre opere poetiche può rimanere sommerso: il fondale, appunto, della meta-scrittura. Le poesie di questo libro sono dotate di arti prensili che catturano e voracemente inglobano altre poesie, altri linguaggi, altre letture, altre immagini, altre musiche. L’operazione di meta-scrittura (del resto adombrata già nel titolo) è trasformata in un vero e proprio procedimento e scandisce apertamente il lavoro compositivo, tanto che l’autore in fondo al volumetto fornisce una serie di note esplicative che si rivelano preziose per chi intende approfondire il gioco dei rimandi.

La poesia di Lucrezi diventa così luogo di accoglienza, mezzo connettivo e agglutinante di esperienze che attraversano la ricca sperimentazione espressiva di un autore che opera contemporaneamente su più terreni e soprattutto in quello della musica (Lucrezi è infatti anche un valente bluesman).

I versi formano una catena di collegamenti intertestuali e pullulano di orme lasciate da altri. Così troviamo tracce di letture “forti”, Kafka prima di tutto, e poi Amelia Rosselli, Landolfi, ma anche big della classicità come Ovidio o Properzio sapientemente mixati a big della musica contemporanea come David Bowie, John Cage, PJ Harvey; echi di partiture musicali; di figurazioni; e infine vere e proprie cover, cioè copertine di dischi chiamate in causa e de-scritte in intriganti giochi di specchi. Cover del resto, non è un nome a caso: perché esso indica una modalità di rifacimento musicale, e cover (rifacimenti di scritture o di altro) si possono a pieno titolo considerare anche queste poesie, che però – a differenza di tante cover musicali che sono semplici operazioni imitative – non si limitano a rifare, ma lavorano sul periglioso terreno della metamorfosi e, per quanto “mimetiche”, trasformano, imbrattano, stravolgono gli originali, e danno vita, a volte persino dal nulla, a versi di natura personalissima.

Siamo all’interno di un teatro barocco (e se non barocco, che altro potrebbe essere questo franoso, labirintico, polimorfo, evanescente palcoscenico?). Siamo in una scatola delle meraviglie affollata di doppifondi, doppiaggi, sdoppiamenti, cunicoli segreti, vie di fuga. Siamo in un bucherellato “panopticon” dove si svolge, armonica e scintillante, la grande kermesse degli “esercizi mimetici” e delle citazioni disposte a spaglio in forma di collage sonoro. Siamo in un delizioso groviglio espressivo dominato dai moti serpentini e ingovernabili delle metamorfosi. Perché, appunto, la mimesi qui non è mai un cerchio concluso e, come scrive a proposito di questo libro Giorgio Linguaglossa, «le azioni verbali sono “mimetiche” di altro, stanno per altro e in luogo di altro; sono azioni alienate da una interna condizione di alienazione: nessuna cosa è così come viene detta (e ridetta) e nessuna cosa è così come appare ri-scritta».

L’operazione è perigliosa, ma non tende all’informe; l’orizzonte dei sommovimenti emozionali e della ricerca di senso non è mai perso di vista, mentre la perfetta tenuta ritmica, la raffinata costruzione retorica, l’accortezza delle scelte lessicali – esiti di una lunga sperimentazione espressiva giunta a piena maturazione – salvaguardano i versi di Lucrezi dal rischio di derive caotiche e li pongono sul piano di un’idea di poesia (o di meta-poesia) dove il pensiero, in derive analogiche, preme e risuona sulla membrana elastica dei suoi confini.

Così ad esempio vediamo che negli endecasillabi d’amore intitolati Dora – riguardanti in apparenza l’ultima compagna di Kafka, che così si chiamava – il riflesso delle parole kafkiane evapora quasi del tutto, mentre emerge la componente autobiografica e si scopre che la poesia (sia pure per l’interposta persona di Faunia Farley, personaggio della Macchia umana di Philip Roth) è in realtà dedicata a Paola Nasti, compagna e musa dell’autore: «Dora cammina e intorno ha mille me / giovani e vecchi, agili e in affanno, / miriade megamicro che la cura / e l’accarezza in alito di vento / inapparente e che le dà calore. / Nel pullulare ne manca solo uno, / quello che se la guarda da lontano / qui senza carne e che le dà la mano».