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Raccolta di recensioni scritte da Emanuele Di Marco
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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John Fante - Narrativa - Fazi Editore

A ovest di Roma

Raramente, nella mia esperienza di lettore, mi è capitato fra le mani un libro di intensità pari al postumo “A ovest di Roma” di John Fante. L’altro giorno l’ho riletto per la terza volta (poche, in confronti ad altri personali ‘mostri sacri’) ed ho ritrovato, oltre ad una storia nel contempo originale e quotidiana, una prosa tesa come un tamburo, dolce e corrosiva, commovente eppur spietata.
Scrittore sottovalutato fino alla vecchiaia, rivalutato e portato a importanti ri-pubblicazioni dall’ormai noto Charles Bukowski solo negli ultimi anni della vita, adorato, ahimè, unicamente dopo la scomparsa da schiere di romanzieri americani e non, Fante rappresenta uno degli esempi lampanti di quel genere di prosa anglosassone dal periodare ridotto ma senza eccessi, gradevole e preciso, che riesce ad essere al contempo fortemente espressiva e sufficientemente connotata, in un’alchimia che pochi altri hanno saputo trovare e che dovrebbe essere d’esempio anche a molti scrittori, prolissi ‘parolai’, nostrani.
“A ovest di Roma” si compone di un romanzo breve (“Il mio cane Stupido”) e di un racconto (“L’orgia”): il primo è sicuramente il piatto forte dell’opera.
Finta-vera autobiografia dell’autore, propone la storia di un maturo scrittore in eterna, ondivaga crisi d’ispirazione, alle prese con le problematiche correlate al suo lavoro di sceneggiatore televisivo, ai rapporti con la moglie e i quattro figli, al ricorrente desiderio di fuggire da tutto e ripartire proprio dalla città eterna.
Il, già non troppo tranquillo, trantran familiare verrà sconvolto dall’arrivo di un grosso cane akita nero con marcate tendenze omosessuali: Stupido, per l’appunto.
Non voglio svelare troppo di questo testo, per non rovinare agli eventuali nuovi lettori il piacere di scoprire una storia di affascinante semplicità, impietosa e cinica eppure drammatica e, a tratti, commovente, che, forte di uno stile misuratissimo perfezionato negli anni, è resa sulla pagina con una levità invidiabile anche dove la materia si fa dura o (leggermente) scabrosa. Una storia, dunque, solo apparentemente banale, che dietro vicende assolutamente quotidiane, nasconde una sostanza di affetti e sentimenti palpitanti con rara intensità.
È il frutto maturo della prosa di uno scrittore che già aveva mostrato rarissime doti di una scrittura assolutamente controllata, vivace, ricca e nel contempo leggera fin dagli esordi.
E, proprio agli esordi, ai tanti racconti e romanzi dedicati alla propria infanzia e gioventù di italo-americano povero e sognatore, è da ricondursi il racconto “L’orgia”, lucido ricordo della fine dei sogni fanciulleschi e del brutale ingresso nel mondo dei ‘grandi’.
Fa da sfondo alla storia, che, ad onta del titolo, è tutto fuorché pruriginosa, il Colorado degli anni ’20, dove si muovono personaggi mitici dell’universo fantiano, come il padre, muratore abruzzese di buon cuore e pessimo carattere, e la madre, tipica donna ‘casa e chiesa’ ostinatamente aggrappata alla sua superstiziosa religiosità, unico appiglio in un’esistenza difficile.
Naturalmente seguiremo i passi del piccolo John, e scopriremo parte del suo universo sentimentale sognante e mistico, realistico fino al particolare e duro che, ancor meglio, viene raccontato in altre opere. Ma già in questo breve testo, tutto è compreso: si intravede perfettamente un orizzonte che qui è davvero di piena rielaborazione autobiografica.
Per concludere, consiglio questo libro a tutti coloro che vogliono allontanare da sé i brutti pensieri e le amarezze quotidiane: in particolare, “Il mio cane Stupido” sarà un’esperienza palingenetica. Chi, invece, volesse conoscere Fante ‘ab origine’ piuttosto che a partire da un’opera postuma, potrà gradevolmente rivolgersi al suo capolavoro “Chiedi alla polvere” e da lì iniziare un magnifico viaggio.

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Dino Buzzati - Narrativa - Mondadori

Un amore

Dino Buzzati è universalmente conosciuto per “Il deserto dei Tartari”; forse qualcuno ha letto i suoi straordinari racconti; forse ancora, qualcun altro ha apprezzato la sua maestria giornalistica. Pochi, però, hanno amato la maggior parte delle sue altre opere, troppo presto dimenticate, fra cui, come una gemma, si incastona il romanzo “Un amore”.
Scritto nel 1963, ci racconta la storia di un affermato professionista milanese che, giunto ampiamente all’età matura, si innamora, in maniera assolutamente insperata, per la prima volta. Si innamora, per la precisione, di una giovane prostituta conosciuta in una ‘casa chiusa’ già allora illegale.
L’inatteso miracolo provoca in lui una progressiva regressione allo stato adolescenziale, ai timori, ai palpitamenti, alle paure di quegli anni ormai lontani. Il tutto è amplificato e portato al parossismo dalle caratteristiche stesse dell’oggetto del suo amore: una ragazzetta, quasi una ragazzina, ambigua e spietata ma nello stesso tempo ingenua e indifesa, un rebus vivente di cui lui non trova la chiave.
Non dico altro della trama del resto in sé esile: ciò che conquisterà il lettore sarà la transustanziazione dei sentimenti del protagonista e non solo, in una Milano che diventa Babele, affascinante e tetra, bella e brutta come solo essa sa essere, città che il personaggio principale quotidianamente conosce da sempre eppure di cui, inaspettatamente, a cinquant’anni, scopre risvolti nascosti, miserie misconosciute, nostalgie baluginanti nella nebbia mai provate prima.
Buzzati in questo originalissimo romanzo, stilisticamente equilibrato, perfetto nella sua asciuttezza stilistica e nella sua pienezza descrittiva, rende il suo personale omaggio alla città che lo ha accolto e in cui si è trasferito in gioventù dalla natale Belluno.
Un omaggio sfuggente, un’offerta d’amore inconsueta che prende corpo non in una descrizione oggettiva della città ma nella sua deformazione attraverso una lente d’ingrandimento distorcente, nella resa oggettiva e concreta di sentimenti intimi, personalissimi.
E chissà che, nelle sue intenzioni, il simbolo principe di questa stralunata Milano non fosse proprio la provocante, misteriosa, indefinibile ragazzina amata dal protagonista…
“Un amore” è un romanzo arduo da raccontare: parla al cuore più che alla mente. Forse, per certi aspetti, può essere anche un romanzo un po’ difficile, proprio per il grande spazio che l’introspezione psicologica prende al suo interno.
Però, se amate, non la buona letteratura, ma la letteratura senza tempo, la letteratura eccezionale, fuori parametro, beh, allora ve lo consiglio con tutto il cuore: sarà una storia da cui non riuscirete a staccarvi fino alla fine, ‘schiavi’ dei vostri sentimenti che ribolliranno dentro, di uno stile di perfetta essenzialità e di un intreccio che, ad onta di un ‘plot’ che sembrerebbe scontato, vi terrà incollati alla pagina per capire dove mai potrà portare questo surreale delirio amoroso.

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Mario Fortunato - Biografia - Edizioni Einaudi

Amore, romanzi e altre scoperte

Difficile conchiudere in una definizione univoca il libro Amore, romanzi e altre scoperte di Mario Fortunato. Racconto autobiografico inframmezzato da pagine scelte degli autori, per lo più omosessuali, amati in gioventù dall’autore, l’opera si presenta decisamente con i crismi di un’indiscutibile originalità. Fortunato ripercorre con una scrittura di rara nitidezza e voluta semplicità stilistica i momenti salienti della sua esperienza umana dalla prima fanciullezza fino al chiudersi della gioventù segnato dal conseguimento della laurea in Filosofia.
La tematica principale è all’inizio quella della scoperta e della progressiva consapevolezza della propria diversità, in seguito il racconto delle proprie esperienze sentimentali e sessuali lungo tutto l’arco della giovinezza. Si innesta su questa base contenutistica la particolare scelta espressiva dell’autore che ci propone la rivelazione di sé stesso e del mondo per mezzo di brani tratti dalle opere di quegli autori che hanno a vario titolo accompagnato e in qualche modo indirizzato il suo iter formativo: solo tramite questi Mario Fortunato trova il modo più sincero di esprimere i propri sentimenti.
Potremmo quindi definire Amore, romanzi e altre scoperte la storia di un’anima resa “per interposte persone”, l’omaggio di un lettore verso autori che sono stati e sono prima di tutto compagni di viaggio e poi maestri di vita. Le citazioni sono attinte dagli scrittori più vari: da Proust a Truman Capote, da Mann a Gide, da Isherwood a Musil, da Mishima a Vidal, dalla Woolf a tanti altri ancora, “mostri sacri” della letteratura contemporanea o autori meno conosciuti, ma purtuttavia fondamentali per la maturazione del giovane Fortunato. Gli artisti citati sono per lo più stranieri, inglesi e francesi in particolar modo, mentre fra gli italiani troviamo i nomi dei soli Pier Vittorio Tondelli, Natalia Ginzburg e Goffredo Parise.
Nell’impossibilità di ripercorrere tutti i passaggi del fitto intreccio vita–letteratura che caratterizza il libro di Mario Fortunato, ci limiteremo a ricordare quei passi in cui, a nostro avviso, più felicemente si coniugano sulla pagina l’esperienza vissuta direttamente con quella ripercorsa nella finzione della lettura.
Ci colpisce immediatamente la descrizione della scoperta della propria omosessualità da parte del bambino Fortunato così pienamente riecheggiata nelle righe di Confessioni di una maschera in cui con non comune sapienza è tratteggiata la prima estatica esperienza dell’attrazione verso un ragazzo dello stesso sesso da parte del fanciullo Mishima. Seguiamo, quindi, l’autore nel suo aprirsi al desiderio di un amore non solo platonico, nel suo rapporto con Gino, nel rivedere in questi l’Hans Hansen amato da Tonio Kroger nell’omonima opera di Thomas Mann. Eccezionale, poi, il perfetto intrecciarsi del racconto della nascita, dell’esplosione e della contrastata fine del grande amore per Franco, con la descrizione che Roland Barthes ci dà della beatitudine amorosa, delle emozioni suscitate dal corpo dell’amato, della catastrofe del rapporto d’amore in Frammenti di un discorso amoroso. Quanto sono simili, del resto, l’esperienza dell’autore alla morte di Franco e quella delineata con accenti accorati da Christopher Isherwood in Un uomo solo, storia del vuoto sopravvivere e invecchiare dopo la tragica scomparsa dell’amato.
Gli ultimi due capitoli del libro sono finalmente dedicati a scrittori italiani: in particolar modo toccante è il tributo a Pier Vittorio Tondelli, scrittore misconosciuto in vita e riscoperto in maniera tardiva e insincera dopo la morte, con cui l’autore visse una sodale e profonda amicizia.
Infine la chiusa del libro, dedicata al racconto “Amicizia” tratto dai Sillabari” di Goffredo Parise, è forse la parte più intensa e riflessiva di tutta l’opera: il brano è una bella metafora della giovinezza, delle amicizie che si intrecciano in quell’età tormentata e felice, dello svanire di quei rapporti e di quelle illusioni.
Ed il libro di Fortunato termina proprio con la fine della gioventù: ma di fronte al chiudersi di questa stagione della vita che l’autore ha saputo raccontarci con toni tanto vividi e con rara capacità di resa del proprio mondo interiore, non ci viene offerta una visione scorata del futuro quale, forse, avremmo potuto immaginare. Infatti, così conclude Mario Fortunato, l’amore, i romanzi e le altre scoperte di quegli anni contrastati ma in fondo indimenticabili, lo accompagneranno per tutta la vita e saranno il patrimonio di una giovinezza che non trova termine nel mero dato anagrafico.

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Sandro Veronesi - Narrativa - Bompiani

La forza del passato

Intrighi, segreti e insospettate verità. Questo è in due parole il romanzo di Sandro Veronesi La forza del passato edito da Bompiani.
Una storia originale, piena di colpi di scena, raccontata in maniera convincente grazie ad una fantasia instancabile e alla completa padronanza di una tecnica narrativa davvero ricca. La vicenda, da cui si potrebbe senz’altro trarre un bel film, è quella dello scrittore per bambini Gianni Orzan e sua scoperta, ad un certo punto di una vita fino a quel momento serena, della vera identità del padre. Un personaggio misterioso farà irruzione nella vita di Gianni subito dopo la morte del genitore e, vincendo la comprensibile incredulità del protagonista, svelerà che Maurizio Orzan, generale dell’esercito, uomo d’ordine nel pubblico e nel privato, era stato in realtà una spia del KGB sotto mentite spoglie.
L’incredibile scoperta, più subita che realizzata da Gianni, porterà con sé, in un rapporto di inspiegabile casualità, tante altre rivelazioni grandi e piccole (dal tradimento della moglie ai difetti che Gianni non si era mai conosciuto) che cambieranno sì la sua vita, ma soprattutto il suo approccio con la vita.
Il romanzo di Sandro Veronesi deve la sua assoluta godibilità alla naturale capacità dell’autore di rendere i minimi movimenti dell’animo del protagonista: i pensieri che passano per la testa di Gianni Orzan, i suoi comportamenti più minuti, le sue ridicole (perché anche nostre!) remore, timidezze e gaffes vengono descritte con un’inusuale capacità evocativa accompagnata sempre da immagini inaspettate e spesso grottesche, dotate quasi di un’intrinseca evidenza plastica. Valga come esempio la scena in cui il protagonista, con cipiglio quasi fanciullesco, vuole sostenere lo sguardo del suo misterioso interlocutore, ma alla fine, come del resto era apparso evidente fin dal principio dell’episodio, cede e i suoi occhi si posano su una scritta tracciata a lettere cubitali sul muro di fronte casa sua: un “BAGLIONI FROCIONE” che nel contempo ci muove al sorriso (o alla risata), segna lo smacco del protagonista e rende l’episodio comunque indimenticabile.
Questa, dunque, è la speciale, convincente e gustosissima ricetta narrativa di Sandro Veronesi: l’evidenza di un intreccio ben congegnato, costruito su di una storia originale e coinvolgente e reso tramite una forte caratterizzazione sia interiore che somatica dei personaggi; la capacità di delineare immagini forti, la sensibilità climatica, paesaggistica e uditiva, la grande attenzione ai particolari. A tutto ciò si aggiunga il sapiente dosaggio dei grandi e piccoli colpi di scena, l’inserto studiato di varie storie collaterali (assolutamente imperdibile quella dello scacchista Victor Balanda!), le numerose e sempre azzeccate citazioni cinematografiche (molto simpatica quella del Rugantino interpretato da Celentano) e non: ne viene fuori un libro originale e irrinunciabile, uno di quei romanzi che si leggono tutti d’un fiato e che poi ci dispiaciamo di aver finito troppo in fretta.
Penso che la vera cifra dell’intero romanzo possa essere condensata nella frase “nulla è come sembra”: infatti Gianni oltre a scoprire di aver avuto un padre ufficiale del KGB ed una moglie insospettabilmente infedele, viene a conoscenza di tante altre cose, piccole magari, ma comunque importanti per quella sua crescita interiore di cui il libro delinea lo svolgimento. Gianni aveva sempre creduto di avere una memoria formidabile? Ebbene si accorgerà di aver citato ad alta voce, in un ristorante pieno di avventori, la scena principale del suo film preferito, La Ricotta di Pasolini, commettendo un’imperdonabile inesattezza (e fra l’altro facendo accapponare la pelle a me e a tanti altri amanti di Pier Paolo, almeno fino a quando non è apparso evidente che l’errore era più che voluto…); ma non è finita qui! Gianni si accorge per la prima volta di sputare mentre parla, di assumere ogni tanto quell’inflessione milanese un po’ pedante che anche noi ci riconosciamo quando vogliamo assumere un tono inquisitorio, di aver sempre mal giudicato, per supponenza e in fondo crudele indifferenza, il suo vicino di casa Confalone, di aver con gesto magnanimo regalato ad una donna con il figlio in coma un assegno milionario, vinto grazie a un premio letterario, e di essersi (orrore!) dimenticato di girarlo. E ancora prende coscienza del fatto che per anni non si era accorto del segnale di “dare la precedenza” sotto casa sua e di essere perciò lui che si credeva nella ragione il vero colpevole dell’incidente che lo porterà in ospedale; che, origliando dal citofono, poteva sentire i propri amici, appena usciti da casa sua dopo una apparentemente piacevole serata, criticare in maniera inaspettata e violenta lui stesso, sua moglie, suo figlio, la sua casa e chi più ne ha più ne metta.
La scoperta fatta da Gianni di tale spietato relativismo, di tale inconoscibilità del reale diremmo quasi ontologica, per la quale un uomo si può trovare ad aver “passato i momenti più belli della sua infanzia davanti ad una merda”, è in qualche modo simile a quella già compiuta dalla piccola Viola di Venite Venite B-52, altro romanzo veramente godibile ed efficace dello stesso Veronesi.
Il succo della vicenda è tutto in questa maturazione prima quasi inconsapevole, poi vissuta e sofferta ben più avvertitamene da parte del protagonista (ma mai descritta in maniera drammatica, semmai grottesca) che comprende e si rafforza nella convinzione del fatto che siamo tutti agìti, che la realtà è spesso molto differente dall’apparenza, che quello che siamo davvero in fondo non lo sa nessuno. Purtuttavia, nel crollo delle convinzioni che credeva assodate, alla fine Gianni può capire chi è veramente lui stesso e, conscio dei propri limiti e dei propri difetti, decidere di perdonare la moglie e di far propria la massima dell’Imperatore del Giappone “Che ognuno faccia quel che deve. Che la vita continui normalmente”. E, pagina dopo pagina, il percorso compiuto dal protagonista diviene sempre più anche il nostro: una volta terminato di leggere La forza del passato risulta per tutti noi ancor più significativa la frase di Samuel Beckett posta in calce al libro (come anche al già citato Venite Venite B-52): “Non posso continuare. Continuerò”.
Ma, al di là dell’esegesi di un testo senz’altro interessante e accattivante, oltre lo stesso indimenticabile omaggio fatto a Pasolini soprattutto con il titolo del libro e con la lunga citazione de La Ricotta, oltre il commovente e sofferto accenno ai “delitti italiani”, rimane l’importanza di quella che è una riflessione sul rapporto padre-figlio, capace di evocare, inaspettatamente, una risonanza anche personale. Penso al mio di padre, anch’esso figura “ardua […], difficile da accettare, ma buona e misteriosa e forte e romantica e solitaria e piena di passato”.
Scrive Sandro Veronesi sulla quarta di copertina: “La vera storia di tuo padre è molto diversa da quella che conosci tu”. Sicuramente, d’ora in poi, guarderò mio padre con altri occhi.