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Raccolta di recensioni scritte da Fabrizio Oddi
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Giovanni Ricciardi - Romanzo - Fazi Editore

I gatti lo sapranno

 

Ancora cadrà la pioggia sui tuoi dolci selciati … Ci saranno altri giorni, ci saranno altre voci … I gatti lo sapranno

 

 

“I Gatti” mi hanno ricordato un altro autore letto in precedenza, Francesco Campora, con due libri all’attivo (rispettivamente del 2003 e del 2009): Il dilettante e L’acqua non ha memoria, pubblicati dalla giovane casa editrice Voland. Lo scenario è sempre Roma e i suoi quartieri (in particolare San Lorenzo), e così il genere (il giallo), ma il protagonista non è un Commissario, bensì uno studente fuori corso (frequenta l’Università di Giurisprudenza “La Sapienza” di Roma), di volta in volta “assoldato” come detective per la soluzione di casi particolari.

 

Sicuramente mi affascina il riferimento ai luoghi di Roma che ben conosco: P.zza Vittorio e L’Esquilino, il Rione Monti, lo stesso riferimento al liceo classico “Pilo Albertelli” (“antagonista”, in senso bonario, del liceo classico “Gaio Lucilio” di San Lorenzo, che io ho frequentato).

 

Il libro di Ricciardi appare scorrevole a partire già dal suo incipit.

 

Ci ritroviamo infatti immediatamente calati nell’ambiente romano del rione Esquilino, dove si trova il Commissariato, con la sua realtà di sede prevalente di extracomunitari e dove c’è Fassi: “il Palazzo del freddo”. Si accenna dunque alla famiglia del Commissario, con le due figlie, la maggiore, Gisella e Maria, che frequenta il quinto ginnasio, la moglie Gloria, don Fabio, il parroco anziano della Chiesa di Sant’Eusebio a P.zza Vittorio.

 

Ma lo spazio maggiore è naturalmente dedicato è soprattutto a lui, al protagonista, Ottavio Ponzetti, che ha svolto 15 anni della propria attività in quel Rione: un Commissario molto particolare, come appare già nella premessa e come poi vedremo nello sviluppo del caso.

 

Alla fine di quell’esperienza di più di dieci anni (il 1° capitolo infatti si intitola “Trasloco”), il Commissario è intento ad “imballare la [sua] roba e ordinare certe pratiche”, il 25 marzo in “un pomeriggio quasi estivo”, la famiglia al mare. È allora che traccia sul filo dei ricordi la narrazione di quei fatti del 26 maggio 2005, di quella storia così particolare, prima di affrontarne un’altra nel successivo libro (chi lo leggerà saprà quale). E’ una riflessione che Ottavio Ponzetti ci propone in un “assolato e silenzioso pomeriggio”, volendo riannodare i fili di quella “folla di particolari e coincidenze” di quella “vicenda singolare e a suo modo bella” (p. 15).

 

Dopo il rione Esquilino lo scenario si estende al rione Monti, con lo sfilare dei personaggi (scanditi quasi ad uno ad uno nei capitoletti), i vari “interpreti” della vicenda, nei quali il Commissario si imbatte: la sora Giovanna “la gattara”, innanzitutto, l’Ispettore Iannotta del Commissariato all’Esquilino, il barbone Arturo, Matteo Francinelli e Martina Blasetti, che si dovrebbero sposare, Olga Portinari, la portinaia/maga, Alex Marini, dipendente dell’AMA di notte e giornalaio di giorno, Camelia, la rumena, che lavora a ore presso varie famiglie dell’Esquilino, la famiglia del cinese Paolo, col secondo figlio Peter, compagno di classe della figlia Maria e “bravissimo in matematica”, suor Elvira delle suore di San Vincenzo. C’è anche l’avvocato Galloni, e il suo vecchio cane con la “cataratta, e senza le unghie tagliate”: Galloni con i suoi dòtti consigli (preziosi anche in futuro), intessuti di massime latine e più propenso alla grammatica:

 

È il principio di realtà che manca, oggigiorno. Ci piace più la letteratura o la grammatica, commissario?»

 

«Be’, forse la letteratura…».

 

«E qui sta il busillis, commissario. Tornare alla umile analisi logica oggi farebbe molto bene, soprattutto alle giovani generazioni, ma anche a noi, anche a noi […] Perché la grammatica, res humilis […], è tuttavia più prossima alla verità che non la superbia vanagloria della letteratura. Con le dovute eccezioni, s’intende…» (p. 125).

 

Riflettevo, proprio qualche giorno fa, come sia distante il personaggio di Ottavio Ponzetti ed i suoi “metodi” dai personaggi e dalla spesso un po’ maniacale ed eccessiva precisione medico-scientifica di tanti libri americani del genere (penso, ad esempio, a Kay Scarpetta, la famosa l’anatomopatologa di Patricia Cornwell, alle “vicende” narrate da Dan Brown, e talora – ma il tocco è più lieve – ai personaggi di Michael Chricton – un autore che amo molto, soprattutto per la vena “fantascientifica”).


Invece nel caso de I gatti lo sapranno ci troviamo alle prese con un giallo sui generis, il cui protagonista appare più vicino al Commissario Maigret di Simenon o ai personaggi di Laura Toscano (come il Maresciallo Rocca) e poco (nonostante le copertine dei due libri dell’autore) al Commissario Montalbano di Andrea Camilleri: che pure in qualche modo al personaggio di Maigret è legato. Infatti (come del resto nelle altre fortunate serie Le avventure di Laura Storm con Lauretta Masiero e il Tenente Sheridan, con Ubaldo Lay) nella famosa serie televisiva Le inchieste del Commissario Maigret Camilleri fu delegato alla produzione (indimenticabile Gino Cervi e Andreina Pagani e la grande regia di Mario Landi).

 

L’opera di Ricciardi inoltre, pur “calata” nel genere letterario del “giallo”, è anche, nel contempo un testo intessuto di letteratura e un percorso personale e intimo del personaggio principale, nel suo rapporto con i luoghi romani, con l’ambiente di lavoro (in primis l’ispettore Iannotta), e soprattutto con la sua famiglia, nel momento di un bilancio (anche sentimentale) della propria vita.

 

Dunque guardare I gatti lo sapranno unicamente come ad “un giallo” è a mio avviso fuorviante e riduttivo. Bisogna infatti svolgere oltre lo sguardo, attento, alle altre due ulteriori direttrici appena indicate, per poter assaporare la sua essenza più profonda.

 

PERCORSO LETTERARIO

 

Il primo riferimento è nell’esergo del libro ed è di tipo letterario/musicale.

 

Si tratta del brano intensissimo Cancion de las simples cosas del cantante argentino Cesar Isella (brano eseguito mirabilmente, tra gli altri, da Soledad Pastorutti, da Mercedes Sosa e ripresa dallo stesso Vinicio Capossela nel suo concerto al Festival Grec il 14 lug 2009), brano che ci introduce nella nostra vicenda sia giudiziaria che personale, con il suo “congedo” “da piccole cose” “quelle semplici cose che restano dolenti dentro al cuore” (p. 7).

 

Il secondo fondamentale riferimento è lo sguardo costante ad Alessandro Manzoni, alla sua cordialità e modestia, con la sua prosa piana e apparentemente semplice (sappiamo il lungo lavorìo delle varie stesure de I Promessi Sposi), ai suoi personaggi.

 

E il secondo capitoletto ci mette già sull’avviso:

 

“mi piace aiutarla [Maria] in italiano, soprattutto con I Promessi Sposi. Me li ricordo bene, avevo imparato a memoria Quel ramo del lago di Como, Addio monti sorgenti e Scendeva dalla soglia di uno di quegli usci” (p. 14)


(l’importanza della “memoria”, ormai piuttosto dimenticata nella scuola, come evidenzia anche Daniel Pennac nel suo libro Chagrin d’école!),

 

passando poi ai “venticinque lettori” grazie al “manoscritto ritrovato” (e inventato) che qui diventa il nastro del fascicolo relativo all’indagine. Viene in tal modo instaurato subito con tale meccanismo un particolare rapporto con il destinatario, il lettore, come nel grandissimo esempio manzoniano.

 

Ma il legame con l’autore milanese continua nell’ambito del libro: ad esempio da uno spunto dell’Ispettore Iannotta:

 

«Commissa’», disse Iannotta, «nun è che a questa volevano falla fori pe’ quarche motivo?». Sì, ma quale? Uno sguardo, un capriccio? Tutto può essere. In fondo, perché don Rodrigo vuol rapire Lucia? Perché è bella? No. Perché ne è invaghito? No. Per una banale scommessa con il cugino: se mi capitasse, non lo riterrei un movente credibile. (p. 26).

 

E ancora:

 

come se il nostro mestiere potesse redimere, invece che punire, quando ci riesce. Ma redimere è una parola grossa. Ci sono tre assassini nei Promessi sposi. Gertrude, la più infelice; il Griso, il più simpatico, uno che ha imparato l’obbedienza, non la virtù; e Lodovico, il solo che alla vista dell’uomo ‘morto da lui’, decide di cambiare vita. Di espiare. (p. 57).

 

Ma vi è un altro “punto d’origine” – accanto al Manzoni – è Carlo Emilio Gadda, con il suo mirabile e complesso “Pasticciaccio”, la cui indagine si dipana proprio dall’Esquilino (Via Merulana 219, il “Palazzo degli Ori”, per l’omicidio della vedova Menegazzi), esempio ripreso a livello linguistico nel personaggio dell’ispettore Iannotta e negli altri nei quali ci imbattiamo, e nel tipo di finale (v. p. 149).

 

Come accennato il “modello” del Commissario Ponzetti (oltre alle reminiscenze gaddiane) si nutre anche di quel meraviglioso personaggio di Georges Simenon, l’indimenticabile Commissario Maigret (ormai scolpito nell’immaginario del pubblico italiano e non solo con la figura di Gino Cervi), con il suo particolarissimo metodo investigativo fatto di un compenetrarsi nelle situazioni e luoghi ove si svolgono le indagini, grazie ad un profondo istinto, capacità di immedesimazione e comprensione dei profili psicologici e umani di coloro (anche criminali) che fanno parte delle vicende narrate (talora persino di giustificarli e di aiutarli se possibile nel cambiare la via sbagliata nella quale si sono avventurati).

 

E poi ancora, troviamo riferimenti alla letteratura “alta” con il sommo Dante Alighieri e la sua Divina Commedia.


Infatti (nel capitolo VII), nel parlare del “doppio lavoro” della sora Olga, la portinaia (personaggio così lontano dalla singolare e dotta portinaia che Muriel Barbery immagina ne L’élégance du hérisson o prima ancora in Une gourmandise) poi divenuta “maga”, il Commissario riflette tra sé e sé (torna nuovamente “la memoria”!) che era “riuscita a divenir del mondo esperta, e delli vizzi umani”: riecheggiano dunque i famosi versi che pronuncia Ulisse nel Canto XXVI dell’Inferno “divenir del mondo esperto/e de li vizi umani e del valore”.

 

Il titolo del 31° capitolo La favola bella che ieri t’illuse … è poi un chiaro omaggio a Gabriele D’Annunzio, e in particolare ad una poesia indimenticabile e suggestiva come La pioggia nel pineto.

 

Con bellezza e freschezza immutate, anzi impreziosite nel tempo, i versi ripresi nel titolo 31° si animano e mostrano un aspetto ancor più suggestivo, con la loro ripetizione nel componimento dello scrittore abruzzese (“la favola bella /che ieri/t’illuse” -“, che oggi m’illude/o Ermione”-, alla fine, nella poesia del “Vate”, con inversione di soggetti “la favola bella/che ieri/m’illuse” -“, che oggi t’illude, o Ermione”).

 

Ma ritroviamo nel libro di Ricciardi un’altra e profonda suggestione poetica.

All’autore degli splendidi Dialoghi con Leucò, Cesare Pavese, rimanda infatti proprio il titolo del libro in riferimento alla poesia The cats will know (“I gatti lo sapranno”) contenuta nella bellissima e struggente raccolta postuma di poesie Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, frase del titolo poi, significativamente, ripresa alla fine per bocca di Maria, la figliola più piccola del Commissario (v. p. 149).

Poesia questa di Pavese nella quale, al pari di alcune altre dell’incantevole raccolta, si accendono, come alla fine per il Commissario Ottavio Ponzetti, echi e luci di speranza verso un’altra visione della propria esistenza. E non è un caso che nel secondo libro di Giovanni Ricciardi (dove peraltro si nota una successiva maturazione stilistica dell’autore), il titolo, Ci saranno altre voci, tragga spunto nuovamente da un verso dello stesso componimento di Pavese -bellissimo come del resto tutta la raccolta poetica indicata-, a continuare una linea, un discorso già tracciato:

 

Ancora cadrà la pioggia/sui tuoi dolci selciati/ […] /Ancora la brezza e l’alba/fioriranno leggere/ […]/ Tra i fiori e davanzali/i gatti lo sapranno./ Ci saranno altri giorni/ci saranno altre voci/Sorriderai da sola./ I gatti lo sapranno/[…]Farai gesti anche tu./Risponderai parole -/I gatti lo sapranno, /viso di primavera/[…]/Ci saranno altri giorni,/altre voci e risvegli./Soffriremo nell’alba,/viso di Primavera.

 

E con i gatti che

 

in fondo non sono poi così riconoscenti, come lo può essere un cane. Non ti ringraziano, è vero, ma non sono neppure invadenti, e poi hanno quello sguardo di chi si sente sorpreso a rubare, anche quando sei tu a portargli da mangiare


balza agli occhi la figura della “gattara”: prima con un accenno, riflettendo che sembrava

 

riversasse sui gatti un bisogno di espiazione

 

e poi con quello splendido affresco, ove Ricciardi traccia una riflessione di grandissima intensità:

 

quando vediamo una donna che scende col carrello della spesa tutte le sere e porta il cibo ai gatti e li chiama a uno a uno con nomi che solo lei conosce […] noi giriamo la testa da un’altra parte, e proseguiamo rassicurati del paragone tra la nostra normalità e quella stranezza. Eppure, al fondo ci turba sempre un po’, e non sappiamo come, quella follia così universalmente romana che ci sfiora la vita e se ne torna sgusciante nel vano di una casa sicuramente sudicia e trascurata […]

 

La sua è un’accusa universale al mondo degli uomini che non si voltano e tirano dritto, senza curarsi dell’ombra che gli passa accanto. E’ un’accusa che non spera condanne, solo un dito puntato contro di noi, e basta [un rito solitario, sprezzante, antico […] il pianto di una madre che ha perduto i figli, torna a cercarli nel crepuscolo e trova riposo soltanto nel vivido splendore di decine di occhi timorosi e sorpresi […] Solo la morte chiude il ciclo e s’incarica di passare il testimone (p.134).

 

PERCORSO INTIMO

 

Oltre all’accenno alla “crisi della scuola” (ad es. nei due punti già citati in relazione alla crisi della “memoria” –p. 14 e p. 32- e poi con il riferimento allo studio della storia – p. 51: “il chiodo pedagogico” di Pennac), la storia si dipana, nelle indagini svolte con suo metodo particolare dal Commissario Ottavio Ponzetti, non solo come un percorso, per così dire, “estrinseco”, negli ambienti romani del rione Esquilino e del Rione Monti, ma anche “intimo”, all’interno dell’animo del Commissario. Con i suoi rapporti con le due figlie, “una di ventuno e una di tredici” anni, Gisella e Maria: la prima più grande che ormai rientra tardi a casa; la seconda, che “non è una cima a scuola”, però “resta ancora a casa la sera, mi abbraccia, mi bacia e si siede accanto a me, sul divano, a guardare la TV. Distretto di polizia.

 

E naturalmente c’è la moglie “una buona donna” che non gli “aveva fatto mai mancare nulla”, ma che forse “non era quella che sognavo” (pp. 76-77).

 

Tornano allora più che mai malinconici rimpianti col ricordo di un amore passato:

 

In Maria, sua figlia, “quella ragazza minuta e cerimoniosa” e in “quella stessa aria melanconica e gentile”, il Commissario rivede infatti “un’immagine lontana nel tempo”, la ragazza di cui si era innamorato a quindici anni in quinta ginnasio al liceo Albertelli e con la quale “ripassava matematica” (p. 41)

 

“era bravissima, Rosa. L’ho sognata tante volte, prima di addormentarmi, per più di un anno, immaginandomela accanto, in giro per Roma, in quelle sere di fine agosto” (p. 42);

 

e dopo l’avvio dell’intricato caso della “gattara”, che “non voleva saperne di svegliarsi”:

 

“la notte ricominciai a sognare Rosa”.

 

Lo scenario personale di Ottavio Ponzetti procede per un crescendo sempre più intenso, raffigurandosi anche, pensando alle gravi condizioni della “gattara” “a due passi dal cielo”, il suo stesso funerale. Ma, dopo la confessione con il vecchio parroco don Fabio nella chiesa di Sant’Eusebio (pp. 95-96), un altro “incontro” lo aspetta.

 

Giunge infatti presso la chiesa di Santa Maria ai Monti, “una chiesa un po’ defilata”: quel “silenzioso e buio angolo di Monti non riesce a lasciarmi indifferente e continua ad attirarmi ogni volta che ci passo”. Ed entrato nella chiesa, ove “non c’è nessuno, solo fiori rossi sulla destra”, vicino alla statua bellissima e bianca di Benedetto Giuseppe Labre - Joseph Benoît (detto il vagabondo), nota “un biglietto infilato in una fessura del vetro che protegge la tomba” (p. 102).

 

Nonostante una vecchia lo osservi come un intruso, un istinto irresistibile, “più forte” di lui, lo spinge a chinarsi, prendere in mano il biglietto, aprendolo per un istante per leggerlo, e poi ad infilarlo in tasca frettolosamente a motivo della vecchia che continua a guardarlo, e riflette: a volte spero di trovare una cosa nuova, una cosa inaspettata che sia destinata solo a me (p. 103).

 

Oltre a quella professionale anche la vita familiare ha una tappa di arresto: la figlia più grande che esce sbattendo la porta senza salutare, la moglie Gloria, che infine si lamenta, lasciandolo “frastornato”, “«quella tua figlia … piange da stamattina, e non si sa perché […] E quell’altra, con questa smania di uscire tutte le sere […] sono sola anche se ci sei».”

 

È proprio in uno dei momenti di maggior sconforto, di dubbio e disillusione (sia dal punto di vista personale, familiare, che professionale), quasi in un punto di “non ritorno”, di abbandono, in quel biglietto dimenticato in tasca, commovente e intensa (ancor più in relazione al momento che sta vivendo il Commissario quando la legge) affiora la preghiera: sono le parole di Joseph Benoît che il Commissario a fatica cerca di leggere e nel testo “srotolano” da sole il loro contenuto di speranza, facendo nascere (o ritornare: per l’appunto il capitolo 30° si intitola Il ritorno) consapevolezza e forza nel protagonista verso una nuova strada:

 

Rimasi in silenzio per tanto tempo […] Improvvisamente mi entrò una pace dentro che non sapevo spiegare da dove venisse, però sapevo che c’era, e sapevo anche che era mescolata a un dolore, ma era un dolore leggero, come se non fossi più io a portarlo da solo. (p. 139).

 

E dopo quel momento disperato, di forte acme emotivo, il Commissario Ponzetti ritrova finalmente (un altro miracolo di Joseph Benoît, beatificato l'8 dicembre 1981 da papa Leone XIII) la giusta dimensione: quel percorso difficile e tormentato porta allora, insieme alla “svolta” nel caso, un cambiamento nella sua vita, come conclude nello stupendo excipit:

 

Ancora oggi, ogni tanto, mi torna in mente quella faccenda della morte improvvisa e la preghiera che si fa per scongiurarla. E questa cosa mi accompagna e stranamente non mi fa paura. Anzi, ogni volta che il sole scende su questa città così bella e le ombre si allungano, ripenso a quando mi accorgevo solo di me stesso e non sapevo più guardare le persone che amo (pp. 152-153).

 

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Giorgio Manganelli - Romanzo - Adelphi

La palude definitiva

 

Un prisma prezioso e segreto, un gioiello immaginifico e visionario

 

Ho memoria oscura, sempre più logora col passare degli anni, di ciò che mi ha condotto in questo luogo deserto che mi è diventato patria. Rammento una città sontuosa, edifici irti di pinnacoli, grovigli di strade sottili, subitanee piazze; su una di queste s'affaccia una casa dalle stanze anguste, certamente una casa illustre, sulle pareti della quale erano disegnati stemmi, motti, ora nella memoria, risibili e sinistri; giacché quel che ricordo è una folla che, di notte, gremiva la piazza davanti all'ingresso - un ingresso elaboratamente ornato da belve allegoriche, devotamente araldiche - e urlava la mia infamia. Si agitavano torce, come a promettere il rogo, si scuotevano ferri; ma che mai avevo compiuto per essere oggetto di tanto furore?.

 

Un incipit da brivido, un libro difficile, complesso e densissimo, scritto in un linguaggio immaginifico, forbito e visionario, un’opera da assaporare e riprendere, per soffermarsi sulle miriadi di immagini, figure, esseri, incessanti metamorfosi, trasformazioni notturne e mondi magicamente e incredibilmente creati e subito dissolti.

 

La palude definitiva – e la Casa –, oltre ad essere “il luogo [della poliedrica] immaginazione” (come recita il risvolto di copertina e direi della stessa storia di Manganelli), attraverso i suoi occhi disincantati e impietosi (soprattutto verso sé stesso), è anche, a ben vedere, per tutti noi “un’avventura estrema”, irrinunciabile, negli insondabili e rischiosi labirinti del nostro animo.

 

Alla prima lettura non può che lasciarci attoniti e smarriti, senza possibilità di reazione, in una rapidissima sequenza di rappresentazioni dalle infinite sfaccettature, che scorrono davanti ai nostri occhi, incessanti e imprevedibili, inquietanti e affascinanti, con un periodare compatto e, apparentemente, insondabile nella sua struttura, lungo un percorso che fa rimanere il lettore letteralmente senza fiato.

 

In tale ultimo profilo, pur nella diversità stilistica (la prosa infatti contrariamente a quella di Manganelli è povera di punteggiatura) il pensiero rivà irrimediabilmente – con un accostamento forse ardito – allo stupendo e inquietante romanzo del 1964 di Giuseppe Berto: Il male oscuro: un ininterrotto flusso di coscienza, un percorso autobiografico della propria vita alla ricerca delle radici della propria sofferenza; flusso che, privo di sistematicità, dissolve la struttura narrativa, presentandosi come una vera novità a livello letterario, quale è, in effetti, La palude definitiva di Manganelli (e ritengo tutta la sua attività di scrittore).

 

Nel luogo dove abitano demòni e démoni, brulicante di esseri come nella Genesi biblica, pervaso dunque come da una  “metamorfosi divina”, per menzionare Pietro Citati (le cui lodi si affiancano a quelle di Calvino, Roberto Saviano, Angelo Guglielmi), alla fine ci sarà una redenzione? “viaggiamo, tu, io, la reggia, le carte degli antenati verso una dannazione, verso la suprema, perfetta luminaria?” (p. 117).

 

Un prisma prezioso e segreto, un gioiello sicuramente da non perdere.