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Raccolta di recensioni scritte da Giampaolo Giampaoli
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Alda Merini - Poesia - Manni

Furibonda cresce la notte. Poesie e lettere inedite

 

L’opera raccoglie liriche e lettere di Alda Merini risalenti al periodo tarantino, anni centrali per la formazione artistica della poetessa milanese, segnati dal matrimonio con Michele Pierri e dalle vicende che seguirono. L’editore Piero Manni, che in passato ha avuto modo di frequentare la Merini, attraverso questo volume, dato alle stampe nel 2016, ha voluto offrire un contributo di ricerca per comprendere meglio la personalità di una letterata complessa non solo nei suoi versi, ma forse ancora di più nelle sue scelte di vita.

Nell’introduzione Silvano Trevisani si pone in antitesi con i critici che riducono il matrimonio con Pierri a un escamotage della vedova per trovare una sistemazione sicura. Il rito fu celebrato solo in forma religiosa per consentire alla Merini di mantenere la pensione di reversibilità, ereditata dal primo marito Ettore Carniti (morto di cancro nel 1981), di conseguenza la sposa aveva già una sicurezza economica. Le lettere scritte a Michele testimoniano una passione molto forte per un uomo culturalmente e umanamente di valore, medico e poeta, a cui si aggiungono le telefonate fatte quasi giornalmente per convincere Pierri della sincerità di un amore senza secondi fini. Altre versioni raccontante dalla Merini, spiega Trevisani, vanno prese cum grano salis, perché chi ha conosciuto Alda sa quanto amasse romanzare il racconto della sua vita.

Il poeta tarantino fin dai primi corteggiamenti telefonici non nascose le sue perplessità, probabilmente per l’eccessiva differenza di età (già anziano lui, cinquantenne lei), tanto che in una delle sue ultime lettere la Merini si dichiarava arresa e in una lettera a Giacinto Spagnoletti addirittura confessava di volersi fare suora di clausura con il nome di suor Michela, in onore all’uomo che aveva tanto amato e che non avrebbe mai dimenticato. Una sofferta vicenda d’amore, che però ebbe un felice epilogo con il matrimonio tra i due letterati celebrato il 6 ottobre 1984.

Trevisani sfata anche il mito di un ricovero in manicomio della Merini a Taranto con l’insorgere della malattia, che portò alla morte Michele Pierri il 24 gennaio 1988, evento in effetti facile da contraddire. Infatti Alda sarebbe entrata nella struttura nel 1987, quando da tempo in seguito alla legge Basaglia gli ospedali psichiatrici non ricoveravano più e, ancora più importante, sembra che un manicomio a Taranto e nella sua provincia non sia mai esistito. In realtà la poetessa rientrò a Milano e mantenne i contatti con i figli di Pierri, in particolare con Mario verso cui provava un affetto molto forte, come sostiene in una poesia riproposta nel volume in cui spiega che anche il padre si era reso conto del loro legame.

Negli altri componimenti della raccolta, in parte scritti nel periodo tarantino, la Merini esterna i suoi sentimenti per il poeta medico e dimostra stima per le sue qualità culturali, ma dedica versi anche ad altri intellettuali e artisti con cui ha coltivato stretti rapporti in quegli anni. Le prime poesie sono per il pittore Giulio De Mitri, al tempo ancora giovane, che ha sempre dimostrato per l’opera della poetessa milanese un grande interesse. L’artista viene descritto come un uomo capace di comportamenti pieni di umanità, pregio che non si rivela solo nei suoi quadri ma anche nel suo inesauribile amore per la poesia, un capestro sopra la sua testa che lo avrebbe allontanato dal capestro della vita, in una visione fortemente pessimistica dell’esistenza. “…eppure quel capestro tu tienilo forte / ti porterà un po’ su impiccandoti / oltre il grosso capestro della vita.”

In un’intensa lirica scritta prima del secondo matrimonio la Merini racconta una vita segnata dalle privazioni a causa della malattia di Carniti, “Io piango / perché dedicare la vita a un infermo / quando tanto malata è l’anima mia…”, segue una lettera a Pierri e la poesia “Anima mia” a lui indirizzata, in cui Alda lo invoca di salvarla concedendole il suo amore: “Anima mia poiché furibonda / cresce la notte fuori d’ogni porta / l’anima mia tu libera e seconda…”.

Dopo la morte del poeta la Merini mantenne i contatti con gli intellettuali conosciuti a Taranto, anche per ricordare i giorni felici trascorsi con Pierri; il legame con la cultura tarantina si rivela nella lettera del dicembre 2003 indirizzata a Pasquale Pinto, poeta operaio molto stimato dall’autriceper le denunce sociali contenute nelle sue liriche. Critiche presenti anche in alcune poesie della piccola raccolta riportata alla fine del volume, successiva alla permanenza a Taranto e scritta in dialetto milanese. La Merini prendeva spunto da uno scherzo dell’editore Vanni Scheiwiller, che ironizzava sul suo desiderio di ricevere il Nobel per la letteratura. I brani furono tradotti in italiano da Alberto Casiraghy.

Anche in questa silloge compaiono letterati e intellettuali conosciuti dall’autrice non solo a livello artistico, ma anche nella loro personalità. In “Padroni” si riafferma il tema sociale, con una presa di posizione forte contro lo sfruttamento della manodopera da parte degli imprenditori: “Hai lavorato per loro tutta la vita / e poi ti tagliano via le cinque dita.”

“Furibonda cresce la notte…” è un’ulteriore testimonianza, supportata dalle fonti epistolari, della personalità irrequieta ma allo stesso tempo capace di esprimersi nella dolcezza del canto poetico di Alda Merini, che dalla vita ha avuto un unico punto fermo, la sua predisposizione per la scrittura. La suacreatività espressa in versi spaziava dalla lirica d’amore, con toni profondi e appassionati, al dialetto con componimenti in parte ironici. Una poesia sincera, molto più delle chiacchierate durante cui l’autrice amava divagare, che come pennellate di artista ha dipinto un’esistenza aliena dalla felicità e dalla serenità, caratterizzata dal dubbio e dal dolore interiore.

 

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Francesco Scarabicchi - Poesia - Einaudi

Il prato bianco

 

A distanza di venti anni l’Einaudi pubblica una nuova edizione de “Il prato bianco”, la terza silloge di Francesco Scarabicchi data alle stampe alla fine degli anni Novanta dall’Obliquo, un interessante editore bresciano che è solito concedere ampio spazio alla lirica contemporanea.

È un libro carico di una nostalgia dolce che si esprime nei momenti intimi, quando il poeta si concentra sui suoi pensieri o descrive immagini che nella loro essenzialità esprimono profonde emozioni. Scarabicchi si lascia guidare dalla nostalgia per capire quali sono gli affetti e i ricordi da salvare dall’incedere del tempo, inevitabilmente impietoso, compito a cui si dedica con perseveranza fin dalla prima lirica, una presentazione breve ma dallo stile raffinato, efficace nel comunicare il ruolo che assume la poesia nella sua silloge. “… curo l’ombra dell’erba, la coltivo / alla luce notturna delle aiuole, / custodisco la casa dove vivo …” Momenti preziosi protetti dal poeta, che subito dopo introduce una presenza che continuerà ad aleggiare in alcuni brani, una compagnia discreta come discreto è il suo modo di dare voce alle immagini e alle emozioni, una persona amata da preservare attraverso i versi con la stessa delicata sensibilità che Scarabicchi riserva per ogni altro affetto: “… dico piano il tuo nome, lo conservo / per l’inverno che viene come un lume.”

L’autore rivela la sua predilezione per la stagione più fredda, “Finalmente distanti / dalla noia del sole / questi mesi / che portano all’inverno …” fonte di ispirazione per il suo cuore poetico. Una condizione che fin dal primo preludio (la raccolta è strutturata in preludi e soglie che introducono le varie parti) viene turbata dal ricordo di un passato difficile, vissuto nella solitudine, lontano dal movimento e dal rumore di cui Scarabicchi è stato solo un anonimo e triste spettatore. Sono queste le esperienze che hanno forgiato la sua personalità schiva, capace di trovare sollievo e serenità solo nella riservatezza e negli ambienti trascurati dal vivere comune, opposto alla sua dimensione esistenziale. I versi testimoniano l’impossibilità di condividere la propria condizione “… così è stato l’inferno / che non brucia / di anni votati / al vetro che traspare …” e terribile è il peso dell’anonimato nella consapevolezza di non partecipare all’agire sociale “Nelle giornate limpide / non vedi / i vetri delle case / dietro ai quali / brilla ancora / una lampada.”

I sogni dell’uomo si alimentano nelle ore notturne, ma con l’alba si dileguano come la luce dei lampioni “Con i lumi di strada / vanno i sogni / - sulla tranquilla / via dell’alba - / pallidi.”, un paragone sottile per descrivere un processo inevitabile che l’autore può solo testimoniare nei suoi versi, inarrestabile quanto lo scorrere del tempo “Piano mi abituo a perdere, paziente / nel silenzio notturno della casa, / le tranquille penombre giovanili.” Ancora una volta non è solo il carattere fugace dell’esistenza a preoccupare Scarabicchi, ma anche la necessità di vivere isolato nella propria nostalgia, una condizione che lo costringe a un sacrificio difficile da sostenere.

Il poeta resta colpito quando scopre che, almeno in alcune circostanze, le persone condividono con lui la sua medesima condizione umana “Che ne sarà dell’uomo / paziente e solitario / che vedo, rincasando, / dipingere un cancello?” e nella sua totale onestà comunicativa riesce ad ammettere che perdersi nei pensieri è indispensabile alla sua sensibile personalità “Ci vorrà / tutto il tempo necessario / prima che possa anch’io / fare a meno di me …”. Il suo animo, però, è irrequieto: accettare una vita plasmata nella solitudine, colmata dai ricordi e dalla poesia non cancella la sua instabilità, non ripaga completamente l’autore, che si descrive attraverso i versi del suo amato Giacomo Leopardi “… come una facella / messa all’aria inquieta / che ondeggia / è la mia vita.” E quando comparare la figlia Chiara come una presenza non più citata quasi di sfuggita, ma nel ruolo di una musa ispiratrice, nella lirica a lei dedicata il padre la invita senza indugi a non prenderlo ad esempio, “Non somigliarmi / non avere con me, niente in comune, …”.

Nel settimo preludio e nelle liriche del “Dittico di agosto” l’autore ricorda la morte di Franco Scataglini, il delicato gesto del suo amore che ha accarezzato il corpo del compagno per ore con un affetto infinito, rivelando la sua assoluta dedizione. “Tu sola sei venuta / a quel suo stanco / passo di notte bianco,…” come in altre liriche il bianco è simbolo della sofferenza, attraverso la mancanza del colore l’autore crea la giusta scenografia per trasmettere sentimenti intrisi di tristezza.

Da Scataglini Scarabicchi ha ereditato il suo stile essenziale e lo riconosce come uno dei suoi maestri più preziosi, insieme a Saba e a Caproni, da cui ha appreso il ruolo di una poesia che protegge gli affetti, per conservarli dall’incedere inesorabile del tempo. Nella certezza che i poeti devono riconoscersi a vicenda, l’autore rivela gli insegnamenti raccolti nella giovinezza che hanno affinato il suo stile ormai maturo, in grado di offrire un contributo alla tradizione.

Le liriche de “Il prato bianco” sono, tranne i preludi,  componimenti brevi ma incisivi. La parola assume un valore assoluto nella certezza del suo potere comunicativo, una parola essenziale e semplice che ha il ruolo di trasmettere un messaggio inequivocabile da offrire al prossimo. La musicalità è curata con attenzione, i versi hanno un ritmo marcato e piacevole, un’efficace armonia che attrae fin dalla prima lettura a cui è inevitabile che segua una riflessione sui contenuti, molto meno immediati da comprendere di quanto potrebbero apparire. Frequenti sono gli enjambement e le assonanze in una poesia libera da ogni prosasticità narrativa e dalla necessità di intellettualizzare il suo messaggio.

Francesco Scarabicchi ci invita a condividere le immagini della sua mente, un viaggio emozionante nei ricordi per comprendere il suo modo di apprezzare la poesia e la vita, perché per lui la poesia è vita. Paesaggi e scene quotidiane ci appaiono come se sfogliassimo un album fotografico, che riporta fedele le sensazioni dell’autore immancabilmente legate alla realtà su cui ha a lungo riflettuto. Condizioni di vita che in parte ognuno può condividere con Scarabicchi, per comprendere il ruolo della sua opera: offrire stimoli a un lettore attento, capace di sperimentare attraverso i versi la tristezza, ma anche la profondità della natura umana.    

 

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Cesare Viviani - Poesia - Einaudi

Osare dire

 

Attraverso la poesia Cesare Viviani parla dell’animo umano svelandone le debolezze e i timori latenti, un messaggio in versi che è in realtà un’accusa alla decadenza culturale della società. Per l’autore non è inusuale questo bisogno di analizzare pensieri e comportamenti, una tematica ereditata dallo studio della psicanalisi che lo ha impegnato a lungo. Lontano dall’essere artefice di una critica sterile, tra la delusione e l’istinto a distaccarsi dall’ipocrisia della massa Viviani si rivolge al lettore con estrema sincerità, aspettandosi da lui comprensione e condivisione.

Attrae il valore comunicativo di questi testi, scritti con un linguaggio semplice, che tende sempre ad andare al nucleo del concetto, al fine di esprimersi con chiarezza. Malgrado lo stile prosastico, frequenti sono le rime, prevalentemente baciate, le assonanze, gli enjambement per richiamare l’attenzione del lettore e i climax per accentuare situazioni positive (… abbiamo conquistato / un filo d’erba, un frutto, un sorriso.) o di  gravità (Ma quale noia, inedia, perdita / di senso). Particolarmente efficaci sono anche le anafore, per mettere in risalto parole chiave indispensabili all’interpretazione del linguaggio poetico (Immagine resisti, resisti…).

La silloge inizia con una presa di posizione contro il comportamento della massa. Viviani parla di una società, di cui è pienamente consapevole di far parte, dove regna la menzogna; sarebbe vano chiedere la verità all’uomo, intento a lavorare o a curare il tempo libero solo per accrescere il piacere personale. “Verranno mica a cercare la verità da / noi / quelli lì, anche se hanno pagato?” L’ipocrisia si manifesta nella continua lotta per avere il necessario, “…ripetere i gesti di sopravvivenza.”, che spinge l’uomo a prendere decisioni difficili, come accade a chi si lascia convincere a vendere i suoi beni immobili, o a farsi ingannare dall’apparenza, come il bosco incantato che non mantiene quanto promette, ma nasconde bestie feroci.

La giustizia è un concetto che non siamo più in grado di concepire, “Poi ci sono, con le autorità, i premi / ufficiali / alla stessa ora delle condanne nei / tribunali.”, come lontana ormai dal sentire comune è la sincera empatia di fronte alla vecchiaia e alla malattia, condizioni in cui emerge una terribile aridità emotiva, “Il familiare sano che parla / del familiare malato è insopportabile.” . È una delle manifestazioni di una “… sequela infinita di atti osceni.” Per la prima volta Viviani non parla più solo con l’intento di descrivere la decadenza ma si rivolge al lettore, cercando da lui condivisione.

Il poeta vuole accusare l’ipocrisia rivelandone le conseguenze sociali, come assistere alla rovina altrui da spettatori evitando ogni intervento, anzi provando piacere in silenzio. Una situazione difficile da risolvere, da cui ci si può illudere di fuggire aspirando a un mondo fantastico, intento citato nei versi che nascondono un riferimento ad “Alice nel Paese delle Meraviglie”, dove una bambina corre dietro a un coniglio bianco. L’unica alternativa è promuovere un cambiamento, che inevitabilmente deve passare da un’attenta critica sociale, a iniziare dai comportamenti che quotidianamente conducono a inaccettabili soprusi, come gli “… arroganti sorpassi di macchine / potenti / che divorano anche / autoambulanze a sirene spiegate.”

L’accusa ricade ancora sulla menzogna e sul desiderio di consumarsi nel lavoro o nel tempo libero solo per soddisfare l’ego, per coltivare la propria immagine e porla di fronte agli altri con pretesa di superiorità, atteggiamento inutile identificato ne “… l’onda celeste / che scendeva dal cielo a portare / il vuoto …”. Alla fuga nell’irreale si contrappone la riscoperta di un’esistenza semplice in condivisione con la natura. In una delle poesie in cui il messaggio dell’autore giunge più incisivo parlano gli alberi, custodi di una saggezza ormai persa dagli uomini, che attraverso la loro semplice esistenza offrono l’insegnamento per trovare la serenità, “… nessuno provvede, / ogni cosa avviene da sé, / uomini, dateci retta, mollate, / mollate, mollate, mollate.”

La riflessione sulla natura umana spinge l’autore ad andare oltre lo studio della materia vivente, per chiedersi qual è la vera essenza del divino a cui i suoi simili tendono, senza però rispettarne gli insegnamenti. Emerge una visione illuminata di Dio, attraverso un chiaro riferimento al Deismo come convinzione personale, non certo come una forma alternativa all’ateismo. Il pianeta è “… come se fosse dio onnipotente / perché è dio onnipotente.”, all’uomo non resta che compenetrarsi con la natura per fuggire la modernità da lui stesso creata, perché “… finché l’uomo non si fa natura / resta la paura.” e la vita può essere insopportabile, può diventare un padrone.

L’ambiente familiare è uno dei contesti in cui ritrovare la sincerità delle proprie azioni ed emozioni, traguardo estremamente arduo, come testimonia la lirica dedicata a Giovanni Giudici. Fuggire dalle tensioni domestiche è ipocrisia, un travestimento che nasconde l’uomo non solo agli altri, ma anche di fronte se stesso, ma è altrettanto un travestimento “… sperare / in un cambiamento, / pur di addormentarsi senza pensieri.” L’unico bene da difendere è “l’impulsività cristallina”, vista come sincerità nell’immediatezza del pensiero e dell’azione. È la spontaneità a spingere l’uomo verso uno stile di vita primordiale, lontano da ogni forma mentis del vivere moderno, condizione descritta nella lirica che compare anche in copertina, secondo lo stile tipografico della collana Einaudi di poesia.

L’autore riflette su cosa si prova a vivere senza “aiuti, raccomandazioni o materne associazioni”, e conclude che deve essere “… come vive il resto della natura / vicino ai predatori e senza paura.”, solo in questo modo l’uomo può riscoprire le sue vere caratteristiche fisiche e psichica, comprendere di essere la luce che dona la vita. “E se fossimo noi luce del giorno, / e non il sole?”, ruolo che ognuno può svolgere come componente del creato solo se preserva l’umiltà, qualità ricordata dal poeta e contrapposta alla ripetizione di gesti inutili, come coloro che “… passeggiano a sera negli stessi luoghi /  per essere visti.”

In una delle ultime poesie Viviani riassume il messaggio della silloge, rivolto a un lettore che deve riscoprirsi essere sensibile in grado di alimentare i propri sentimenti “… difficili da coltivare …” considerando la sua affinità con gli altri esseri viventi. “Il freddo è freddo per il mite fiore, / per la pazienza umana, / per il manto degli animali…”

 

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Caterina Trombetti e Antonella Natangelo - Poesia - Betti Editrice

Consonanze. La Poesia incontra l’Arpa

 

Nella breve silloge realizzata a quattro mani da Caterina Trombetti e Antonella Natangelo, “Consonanze. La poesia incontra l’arpa” (Betti Editrice, 2015, Siena), la poesia si accompagna alla musica creando un’assoluta sinergia tra due forme di arte vicine per la delicatezza e la profondità espressiva. Tredici brani registrati su cd, dove il suono dell’arpa della Natangelo rielabora le emozioni descritte dai versi della Trombetti, a cui si aggiunge il libro con le liriche e gli spartiti musicali. L’opera è stata recentemente selezionata per la cinquina dei finalisti del premio letterario Città di Siena, nella sezione dedicata agli autori affermati.

Ascoltando i vari brani si riscopre il connubio tra poesia e musica presente fin dall’Antichità nei poemi degli aedi, che intrattenevano ed emozionavano i signori e i loro cortigiani, una poesia primordiale alla ricerca della verità sulla natura umana e lo scopo del creato, rivelata dalle storie mitologiche. Personaggi e vicende a cui la Trombetti da sempre offre tributi in poesia, come  nel brano “Persefone” della raccolta “Dentro il fuoco” (Passigli, Firenze, 2000), per godere della magia e della profondità espressiva della poesia antica. In “Consonanze” emerge la stessa curiosità per una dimensione oltre i limiti dell’uomo, essere finito, ma che tende all’infinito identificato dal cielo, a lungo osservato dalla poetessa, stimolata dai rumori della natura che suggeriscono di oltrepassare i confini della materia. A questa sensibilità per l’ignoto si accompagna l’amore, sentimento puro ancora presente attraverso la memoria del passato, che alberga nel cuore dell’autrice, inestinguibile e contrapposto ai limiti della natura umana. La Trombetti appare barcamenarsi tra queste due dimensioni, finito e infinito, e lo fa con disinvoltura, trasmettendo con efficacia i sentimenti che prova. 

Le note dell’arpa suggeriscono emozioni e rumori descritti nelle liriche, raccontano con il suono le dimensioni terrena e ultraterrena di cui parla la poetessa. La musica non solo si accompagna alla poesia, ma si mette al suo servizio; le composizioni della Natangelo nascono come completamento dei versi, introduzioni sonore per rendere il messaggio delle parole più chiaro e aiutare il lettore a entrare in sintonia con l’universo emotivo della Trombetti.

Nella prima lirica, “Desiderio di infinito”, si introduce il tema che lega i brani della silloge. La poetessa contempla l’infinità osservando il cielo e le stelle, prende coscienza della sua natura finita, piccola di fronte all’immenso, ma nel momento in cui si estinguerà è certa che si ricongiungerà alla dimensione celeste. Un vento le ricorda il suo destino, un vento leggero come il suono dell’arpa che accompagna i versi, una melodia che sembra giungere dal passato e “...porta fremiti.”. Con “Volteggiavo” la precarietà della materia si rivela nella perdita della persona amata. La musica si adegua al ritmo del passo veloce della poetessa, tanto apprezzato da un lui che è scomparso quando diceva: “-Bello il passo che hai! / che forza e che armonia / trabocca dallo slancio!-”. La vita è cambiata, il limite della materia che si consuma e si esaurisce ha colpito il cuore della Trombetti, che adesso non corre più tra le braccia del suo amato e cammina sulle braci, metafora della sofferenza dell’anima.

In “Un soffio, una carezza” torna il bisogno di tendere verso l’infinito; la poetessa avverte un angelo vicino a lei che la conduce, le consente di abbandonare il suo corpo disteso nel letto, trasposizione suscitata da una melodia che ricorda l’etereo. “Ho sentito l’angelo / passare sul mio viso / e tutto il corpo / ora ne è illuminato.” In “Notte di Ferragosto” si descrive l’accostamento tra il firmamento e il rumore dei grilli, archetipo del perpetuo ripetersi della natura, ma adesso la possibilità di tendere all’eterno non interessa solo la poetessa, ma anche la persona da lei amata.

“Sono io il tuo fiume” è il brano risolutivo della silloge, dove la contrapposizione tra finito e infinito, nella volontà di trovare un incontro tra le due dimensioni conduce alla certezza che solo l’amore eleva l’uomo fino a oltrepassare i vincoli della materia. La poetessa è un corso d’acqua che scorre perpetua sul suo amato, lo lava da ogni impurità, in un divenire senza limiti, come il fiume scorre nel suo letto. “Sono io il tuo fiume / che ti attraversa e lava / che prende le tue forme / ed aderisce a te.”

“Consonanze”, il brano eponimo,è una metafora della vita, paragonata al filo di seta che viene dipanato e tessuto da una bambina, immagine moderna delle tre Moire della mitologia greca adibite a tessere il destino degli uomini. La bambina “…tesse con mani di fiaba / una storia. / La storia dell’uomo che legge, / dell’uomo che inventa un sorriso / mentre il filo si intreccia con gli altri.”

Nelle ultime liriche la poetessa si allontana dall’accostamento tra l’infinito e l’amore come sentimento assoluto, per riscoprire il valore di un universo quotidiano, fatto di affetti e di ricordi essenziali. In “Interno” appare la figura che porta serenità della sorella Franca, regina del focolare, angolo che condivide con le persone care per donare loro i suoi sentimenti, come un poeta fa con i suoi versi. “In viaggio” è dedicata al maestro e amico Mario Luzi. La Trombetti descrive immagini e sensazioni proprie del viaggiatore comune, che condivide con le altre persone presenti sul treno. La sua poesia dona la voce a chi non si esprime, sono versi capaci di illuminare il quotidiano.

La breve raccolta si conclude con “La voce della sirena” dedicata ad Antonella Natangelo, che può richiamare a sé il pubblico con il suono dell’arpa. Una musica che guida chi sa ascoltare,  come Ulisse e i suoi uomini furono incantati dal canto delle sirene, ma quella della Natangelo è una voce benefica. “Ecco la voce che ci conduce / mentre il cuore assapora l’infinito.” e “…ci libriamo nell’aria al tuo suono…”. La Trombetti riscopre per l’ultima volta la necessità di tendere all’eterno, dimensione ancora legata all’amore, sentimento suscitato dal canto della sirena che eleva l’uomo oltre i suoi limiti.