chiudi | stampa

Raccolta di recensioni scritte da Giuseppe Grattacaso
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Alessandro Quattrone - Poesia - Book Editore

Prove di lontananza

 

Prove di lontananza di Alessandro Quattrone è un libro molto denso, anzi sembrano convivere al suo interno due o tre raccolte, con la  prima parte, che appunto  dà il titolo al volume e si divide in tre sezioni, estremamente compatta nel tono e nel procedere del significato, quasi a costruire con un unico fiato una lunga sequenza poetica. Attraverso il linguaggio sempre controllato e la cura formale che non lascia spazio a scarti o fughe, ma che in ciascuna lirica si addensa attorno a poche e nitide immagini, emerge l'idea che la parola poetica sia in grado, non di spiegare il mondo e forse nemmeno di raccontarlo lucidamente, ma di metterne in evidenza gli umori segreti, i piccoli sbandamenti, la grazia nascosta degli incontri e le inaspettate relazioni che nascono tra le cose. La parola può esporre, ed esporsi al tumulto della scoperta, solo per supposizioni, per cauti avanzamenti.

Nella prima parte la prevalenza di figure retoriche che producono un trasferimento del significato determinano un continuo scivolamento metamorfico del corpo femminile, destinato dunque ad introiettare contenuti e ad assumere forme diverse, spesso provenienti dal mondo naturale. Lo scorrere del tempo, il succedersi delle stagioni, le condizioni climatiche lasciano tracce sul corpo e sembrano quasi modellarlo. La figura femminile che è protagonista delle liriche (ma le Prove a cui si riferisce il titolo sono piuttosto di pertinenza dell'io lirico), riprendendo in qualche modo un modello montaliano, è insieme smarrita e fatale, nel senso proprio che è colei che può contenere e dare vita a un destino, arriva da luoghi meravigliosi dove può manifestarsi il prodigio dell'esistenza (“l'isola segreta nell'oceano”, “chiusi paradisi senza luce”, con un doppio ossimoro che rende evidente l'impossibilità di un approdo risolutivo, che appare comunque l'inevitabile meta di ogni percorso, o se si vuole di ogni prova). Sono luoghi né vicini né lontani, anzi occupano più uno spazio interiore che fisico, ma rappresentano idealmente la lontananza a cui la donna sempre fa ritorno. Le Prove in questo senso delineano una sorta di viaggio verso l'Altro, e pervengono comunque alla consapevolezza che l'Altro è scoperta ma anche scomparsa, è il tramite attraverso il quale l'io si conosce ma anche si allontana da se stesso.

Nella sezione Genius Loci invece la poesia si confronta con luoghi fisicamente determinati: sono piazze, palazzi, ville, laghi, fiumi, che la parola poetica isola dal loro contesto e mette a fuoco. Ma la realtà, che pure si mostra senza indugio in tutta la sua armonia e bellezza, nasconde insidie e misteri, ha dei cedimenti, o meglio mette il visitatore di fronte alla propria fragilità. Così al cospetto di una villa che “domina con il suo chiaro / pensiero chiuso tra foglie e sospiri”, il viandante è colto dai suoi deliri e non riceve dalla realtà che gli si presenta davanti agli occhi nessuna parola di conforto: “All'improvviso è un cedere a ogni passo, / un chiedere al biancore delle statue / l'origine del puro e dell'impuro, / il termine dell'eros, mentre gela / sul muro l'ombra nobile del nulla”.

Anche in Feste mancate prevale il rapporto con una realtà che viene descritta per istantanee, ma che è il luogo del non accaduto, del gesto frantumato o comunque non realizzato, dell'illusione. Le montagne chiedono un omaggio e “mi invitano a salire, a salire, / a trovare il limite ignoto”, ma malgrado il faticoso tentativo, “poi con il ruscello torno indietro”. Il finale della poesia segna anche il termine dell'inganno: “Ed eccomi a casa, ben presto, / nella piccola stanza che invano / mi rende maestoso”.

Accade così che ogni lontananza sia necessaria ma abbia bisogno a sua volta anche della fase del ritorno, del riconfermato approdo verso luoghi vicini. Il viaggio si conclude nella protezione, insieme conquista e fallimento, della “piccola stanza”, nell'hortus conclusus di tanta tradizione letteraria.

Quattrone costruisce questo moderno canzoniere con estrema perizia stilistica, consapevolmente traducendo il conflitto interiore e lo smarrimento a cui la realtà obbliga, i continui scarti tra vicino e lontano, in una lingua piana e armonica, che vorrebbe essere rassicurante proprio quando si muove sui terreni più infidi e scivolosi.

 

*

Alberto Toni - Poesia - Jaca Book

Alla lontana, alla prima luce del mondo

Alberto Toni è un poeta che negli anni ha costruito un proprio mondo poetico ben saldo, che trova piena conferma nell'ultima raccolta dal titolo evocativo e solenne di "Alla lontana, alla prima luce del mondo". Ma è bene sgombrare fin dall'inizio la mente da ogni equivoco. La solennità che il titolo richiama e reclama è in fondo quella di una quotidianità che, proprio manifestandosi come tale, e dunque con tutta la sua precarietà e prevedibilità, scopre imprevisti recessi di significazione, legami inconsueti tra le cose, e per questo ancor di più carichi di senso e di inattese prospettive. E' proprio partendo da questa banalità dell'esistere che Toni tesse la sua ragnatela di immagini, di vaganti e singolari parentele che fanno sì che il mondo si animi di nuovi sentimenti e il lettore sia persuaso ad una visione eccentrica, che porta cioè lontano dal proprio centro, si smarchi dal consueto percorso e approfitti dell'inconsueta visuale.
Risulta emblematica, a tale proposito, la soluzione raccontata nella poesia Didattica. Il poeta, che è insegnante, si ritrova tra le mani l'ultimo numero di un settimanale, che dovrà poi usare insieme ai suoi alunni per un lavoro in classe. Ma la realtà non può essere quella ordinata nelle pagine della rivista. Infatti: “Finiranno in pezzi articoli e foto, / in ritagli creativi, uno spazio giovane / il mondo rimaneggiato, ricreato a misura, / affondato senza paura, con qualche errore / ancora, qualche ingenuità nel mandato”.
Il compito del poeta è quello di osservare, di rilevare che un'altra strada è possibile, ma senza tentare di spiegare, solo suggerendo che quello che si vorrebbe comporre in unità è solo uno sfilacciato universo di “ritagli creativi”, che comunque proprio per questa sua frammentata consistenza è in grado di comunicare sorprendenti frammenti di verità.
Guardata con questi occhi, la realtà lascia emergere zone misteriose e affascinanti, angoli da dove il passato, anche quello più lontano e magmatico, riesce a manifestarsi, piccoli gesti nei quali il futuro si lascia intravedere o dai quali è possibile che il sacro inaspettatamente si mostri.
La raccolta si apre con la sezione “Trovatori”, che indica un modo di procedere ricorrente in questa poesie di Toni. Ogni poesia è dedicata ad un poeta occitano, da Jaufre Rudel a Giraut de Bornelh, da Raimbaut d'Aurenga a Chrétien de Troyes, Arnaut Daniel, e riprende i temi d'amore tipici dei componimenti trobadorici, ma contiene espliciti riferimenti all'attualità, all'uso della posta elettronica, in questo caso tramite indispensabile tra il poeta e la propria donna, negli Stati Uniti per lavoro: “E allora mi accendo in connessioni, qui / l'orologio è il mio tempo naturale e niente / arrangiamenti o battiti / o sussulti, sul tuo inchiostro indelebile invece / gli spostamenti rapidi, Washington, Philadelphia”. La vicenda esistenziale e privata fa riemergere la memoria della lirica medioevale dei trovatori e questi, a loro volta, danno diversa consistenza e significazione al presente.
Possono essere appunto accadimenti privati o in qualche modo vicini a chi scrive ad attirare immagini, a mettere in moto relazioni con frammenti di una realtà che semmai si desume da messaggi vaganti tratti dai mezzi d'informazione o ricavata da abusate formule comunicative, e dal verso restituita a nuova vita. In ogni caso emerge il legame tra gli eventi del quotidiano e il senso, mai chiaro comunque, di una vicenda collettiva e storica che ci trascende e dalla quale non è possibile ricavare spiegazioni. E' quanto avviene ad esempio nel bel finale della poesia Dieci anni, contenuta nella sezione “Sacra privata”: “Noi siamo così legati che non temiamo / la ruota del carro dell'abbandono, / il giro di vite, l'acqua dell'alluvione che travolge e distrugge / l'ansa pericolosa che stringe il fiato / e all'occasione rende inutili e muti i discorsi”.
Il dettato della poesia di Toni è pacato, un recitato senza declamazioni e senza solennità, dotato di una musicalità sottile, mai ostentata, che evita i clamori dell'orchestra. Con un verso che richiama alla lezione dei classici, Alberto Toni ci porta a conoscere il suo pantheon poetico, composto sì dai trovatori, ma anche da Shelley e dai contemporanei Elio Pagliarani e Amelia Rosselli, a ognuno dei quali è dedicato un passaggio di questo viaggio nel quotidiano trasfigurato dalla storia e dalla letteratura che è "Alla lontana, alla prima luce del mondo".

*

Michele Cocchi - Racconti - Elliot Edizioni

Tutto sarebbe tornato a posto

È noto come gli scrittori di racconti in Italia trovino difficoltà a pubblicare le proprie opere e i più talentuosi vengano presto indirizzati da editor e case editrici verso la forma più commerciabile e remunerativa del romanzo. Ci sono meravigliosi racconti che evolvono inopinatamente in romanzi banali. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti. Eppure un racconto è un racconto, ha le sue regole, una forza espressiva che si spiega solo in quella forma concentrata. In un racconto tutto il superfluo è da scartare, non bisogna dilatare ma contenere. Come scrive Giulio Ferroni nel suo recente Scritture a perdere, “il racconto si fa carico della residua possibilità dello stile e della ricerca linguistica, cose che non hanno ormai più spazio nel romanzo”. Più la realtà è complessa, più il romanzo ce ne offre una visione illusoria. Ne deriva che i risultati migliori della narrativa italiana degli ultimi anni vengano proprio dalla forma racconto.
A tutto questo ho ripensato leggendo il bel libro d'esordio di Michele Cocchi, pistoiese poco più che trentenne, che si presenta al pubblico con la raccolta di racconti Tutto sarebbe tornato a posto, edita per i tipi di Elliot edizioni. Cocchi poggia il suo sguardo disincantato e onesto sulla realtà anonimamente quotidiana della vita di provincia, di cui ci racconta frammenti marginali, lontani dal clamore dei titoli gridati dei giornali e dalla propensione al noir che invade da qualche tempo gli scaffali delle librerie. Non si tratta di eventi che possono cambiare destini, nemmeno di avvenimenti emblematici, tali cioè da aprire squarci di significazione sulle nostre esistenze. Quelle raccontate da Michele Cocchi sono piccole storie che raccontano piccole esistenze alla disperata ricerca di un senso che spieghi la propria presenza e le proprie azioni nel mondo. Gli eroi di Cocchi sono spesso di fronte alla possibilità di compiere finalmente un gesto risolutivo, un atto che renda possibile una svolta, ma che alla fine non viene compiuto, resta un'ipotesi suggerita, al più finisce rubricata nella speciale casistica dei rimorsi.
È proprio in questa umanità normalmente fragile e altrettanto normalmente disperata che Cocchi legge uno dei segni più evidenti del nostro tempo abitato da individui soli, in qualche modo rassegnati a essere punti dispersi in un universo privo di senso. La scrittura di Cocchi non tende a mistificare o a consolare né a offrire una visione deformata e fittizia della realtà. Il suo modo di procedere, così come il mondo che racconta, è asciutto e semplice. In questo senso è evidente l'affinità con la prosa di Raymond Carver, che appare, particolarmente nei primi racconti, come un nume tutelare fermamente cercato. Del resto lo stesso racconto che dà il titolo al libro, ricalcando nella struttura e nel contenuto la novella Nessuno diceva niente, raccolta in Vuoi star zitta, per favore, primo volume di racconti dell'autore americano, si propone come un omaggio e una sorta di richiesta di affiliazione allo scrittore che più di ogni altro negli ultimi decenni ha segnato i destini della narrazione breve.
Cocchi, attraverso i volti dell'infermiera della nursery alla ricerca di una improbabile maternità, del bambino che vorrebbe un dialogo con il padre alcolizzato e la madre assente scoprendo che la felicità familiare è solo un ricordo, della donna che spinge la carrozzina del fratello ormai privo di ogni possibilità di comunicare col mondo ma con cui lei cerca un ulteriore punto di contatto, attraverso i suoi personaggi pronti a tirarsi indietro proprio nel momento in cui servirebbe un atto risolutivo, ci dice che la vita scopre il suo lato più vero in un caos fatto di attimi che non è possibile ricondurre ad unità e in una sofferenza da cui non è possibile sottrarsi.
La violenza, la drammatica incapacità di comunicare sono sottesi ad ogni atto, ad ogni parola dei personaggi, eppure non invadono mai la scena, non la inquinano. Una qualità anche questa della scrittura di Michele Cocchi.

*

Umberto Fiori - Poesia - Mondadori

Voi

La poesia italiana degli ultimi anni si è mossa spesso all'interno di luoghi asfittici, negli ambiti piuttosto ristretti segnati dal pronome “io”, scanditi da riferimenti fortemente individuali, da questioni interiori, difficilmente decodificabili da tutti coloro che di questa privata geografia non conoscano le coordinate. Al lettore è stato spesso richiesto, in nome della volontà di sondare territori intimamente inaccessibili, di immergersi in acque insicure e per nulla limpide, in profondità di cui è necessario accettare astrusità personali e chiusure linguistiche.
Umberto Fiori fin dagli esordi poetici ha scelto un'altra strada e nell'ultima raccolta lo dichiara emblematicamente fin dal titolo. Voi (Mondadori 2009, € 14) infatti sposta decisamente l'attenzione dall'io e dalle sue personali disquisizioni, indirizzandola verso tutti coloro, e sono proprio inesorabilmente tutti gli altri, che sono altri da “io”, che vivono altre vite, hanno altre preoccupazioni, occupano altri spazi. Nei loro confronti il poeta manifesta fin dall'inizio della raccolta un duplice sentimento, di malcelata e reiterata attrazione (“Voi credete che in mente abbia soltanto / me stesso. / Sapeste invece quanto spesso / vi penso: continuamente”) e di ostentata, e come tale a volte non del tutto credibile, repulsione (Comodo essere gli altri. // In salvo, fuori tiro, / padroni di andare e venire / come vi pare. // invece io – sempre qui, / a disposizione.).
Del resto la tradizione lirica italiana, almeno nella forma del canzoniere, della raccolta pensata come corpus unitario, si inaugura proprio paradossalmente ricorrendo alla seconda persona plurale. E' con un “voi” infatti che si apre il Canzoniere del Petrarca: “Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono” è il celebre incipit della lirica che Petrarca volle ad introduzione dei temi della raccolta. Scelta di non irrilevante stranezza, se si pensa che a operarla è stato il poeta che più di ogni altro ha innalzato un monumento al proprio io, ai suoi tormenti, contraddizioni, ansie. Ma tutti sanno che quel “voi”, che rimane sospeso in attesa del verbo per le intere quartine, lungi dall'essere il soggetto della frase, mostra la sua vera natura in un vocativo. O voi, che ascoltate i miei versi, dice il poeta, io “spero trovar pietà, nonché perdono”. Lo spostamento è spiazzante, ma porta diritti nelle braccia dell' “io”.
In effetti il bel libro di Umberto Fiori sembra partire proprio da qui, da questo dialogo serrato e ossessivo con tutti coloro che fanno parte dell'immenso consesso dei “voi”: un dialogo che ritorna inevitabilmente all' “io”, ma solo per dichiarare l'impossibilità del singolo a vivere senza l'assillante presenza degli altri e, specularmente, la necessità per tutti i “voi” che ci sia un “io” verso cui rivolgere azioni e attenzioni. Il confronto conduce l'io lirico, anche in questo caso, alla ricerca di perdono e consenso, nel tentativo di trovare negli altri una comprensione che giocoforza stenta ad arrivare, visto che i “voi” sono entità continuamente sfuggenti, pur nella loro imprescindibile e drammatica concretezza. Scrive Fiori: “A voi io penso sempre. Penso alla mia / infinita mancanza”. Insomma si parla di “voi”, ma i “voi” esistono solo in quanto esiste “io”, ed è in questo irrisolvibile dualismo, in questa scissione che è insieme partecipazione ad un comune destino che si consuma un rapporto che procede tra riconciliazioni e strappi. Il confronto è incessante e morbosamente ininterrotto, così che anche le liriche, con il procedere delle pagine, assumono la forma di un poemetto, coerente ma dai tratti volutamente scompaginati.
Il tema dell' “infinita mancanza”, del destino comune di sofferenza e solitudine che unisce indissolubilmente io e voi, e senza rimedio li costringe al duello quotidiano, riporta alle precedenti prove poetiche di Fiori, a cominciare dall'esordio del 1986 con Case, in parte assimilato nel successivo volume Esempi (1992), fino ad arrivare a La bella vista del 2002. Uno stretto legame unisce i diversi libri, mettendo in mostra un mondo che manca di senso, salvo manifestare improvvise e spesso titubanti epifanie che si nascondono dentro piccoli oggetti, eventi marginali, accadimenti spesso vani e comunque poco rassicuranti.
Il linguaggio di Voi, colloquiale ed estremamente asciutto, a tratti aspro, segnato da un ritmo frammentato e affannato, emana certezze solo apparenti, che repentinamente si risolvono in angosciose esitazioni, tali da mettere in dubbio l'identità stessa dei protagonisti dell'azione drammatica: “Che poi - / anch'io sono voi. E voi siete io, si sa. // Ma sarà poi vero? // (…) Se siamo uguali, se / siamo lo stesso, / che cos'è questo male, / questo bene / che ci separa?”.
Il dialogo con un interlocutore che risulta sempre sfuggente e continuamente cambia i propri connotati, il ribaltamento delle identità, ma anche le scelte stilistiche fondate su una versificazione scarna, sul linguaggio essenziale, sull'uso della rima che lega tra loro parole in manifesta contrapposizione e dunque apre a significati improvvisi e inaspettati, ci riportano al Caproni delle ultime raccolte, dove si rappresenta nitidamente un io lirico alla ricerca disperata di un altro da sé, di un qualcuno che sia in grado di fornire una risposta chiarificatrice, e come tale dunque impossibile da recapitare. Valga, a segnalare la nobile parentela, questa bella poesia di quattro versi: “Voi: figlio prediletto / di Dio. // Io: vostra lontananza, / vostro difetto”.
La forza lirica della poesia di Fiori si concentra su un “io” che si scopre solo, in compagnia unicamente delle proprie convinzioni e dei propri valori, che generano dubbi e incertezze, mentre gli altri, i “voi”, sembrano ostentare sicurezze e successi. Da una parte c'è un “io” che, con leopardiana pervicacia, non è in cerca di alcuna consolazione, ma solo di sodali nella lotta contro il comune nemico; mentre dall'altra parte, tra coloro che dovrebbero rappresentare i possibili alleati, “io” trova solo “voi”, solo il nemico. L'unica via di salvezza è provare a immaginare, in quell'ora tra la notte e il giorno “quando le imposte / si orlano di chiaro”, di ribaltare le parti, con i “voi” immortalati “a tossire, / a stendere una mano, a ritrovare / la luce, la vergogna”, e “io” invece diventato “la voce che vi chiama, / lo spettro / che vi tira i piedi”.
In conclusione sarà forse utile fare propria una puntualizzazione del poeta: “(Una precisazione, perché / non vorrei essere frainteso: // io dico voi, ma non prendetelo / come un'offesa)”.

*

Ana Luisa Amaral - Poesia - Manni Editori

La scala di Giacobbe

[Ana Luisa Amaral, La scala di Giacobbe, a cura di Livia Apa, Manni 2009]

*

Cosa può accadere se davanti agli occhi si presenta la vista di un comignolo, un semplice, per nulla straordinario comignolo, che ha l'unica qualità di stagliarsi netto, “ritagliato / nel grigio di una notte di luna / mal cresciuta”? Che cosa fare davanti a un comignolo che sembra “un quadro mezzo fiammingo o quasi”? La risposta di Ana Luisa Amaral è sicura, senza alternative: “che altro, se non scrivere?”.
E cosa altro chiedere alla vita, riflette ancora la Amaral, se il comignolo libero sulla casa suggerisce ipotesi di “conforto, abbandoni e sonni di tenerezza”? In questo comignolo, protagonista della poesia “La fiamma dell'arrivo”, contenuta nel volume antologico “La scala di Giacobbe” (Manni, 2009, € 18), in quest'oggetto così solitariamente indifferente eppure così partecipe ai casi della vita, può considerarsi riposto emblematicamente il rapporto che la poesia della Amaral costruisce con la realtà e le sue piccole, apparentemente inutili, manifestazioni quotidiane. Le cose sono lì in attesa di confessarci la loro verità, suggerire una soluzione, strabiliarci con la loro presenza, insieme così ordinaria e così rara. E allora cosa è possibile fare di fronte al comignolo, “se non cantarlo in rima mal curata, / se non voltarlo in nido di parola / e cullarlo tra mille profumi?” La poesia è dunque lo strumento per offrire un nido alle rivelazioni. Del resto le cose sono lì, in una condizione di attesa, pronte a diventare verso e musica. La realtà, anche quella più estranea e distante, nella poesia della Amaral finisce per essere coinvolta nei nostri destini, anzi spesso si manifesta come lo strumento che permette l'accesso ai nostri destini e la loro comprensione.
“La scala di Giacobbe” permette un percorso nella poesia di Ana Luisa Amaral, a partire dal suo primo libro “Minha Senhora de Quê” del 1990 fino alle liriche scritte nel 2005, attraverso raccolte che hanno goduto di grande interesse in Portogallo, quali “Epopeias” del 1994 o “Ás vezes o Paraíso” del 1998 o ancora “Imagens” del 2000. La Amaral è una delle voci più rappresentative della lirica portoghese contemporanea. E' nata nel 1956 a Lisbona, ma si è trasferita presto a Oporto, dove attualmente vive, insegnando Letteratura inglese e americana nell'Università della stessa città. Studiosa in particolare della poesia di Emily Dickinson, Ana Luisa Amaral ha pubblicato numerose raccolte di versi. Tradotta in varie lingue, per la prima volta la sua opera viene pubblicata in italiano, grazie all'amorevole e rigorosa cura di Livia Apa, docente di lingua e letteratura portoghese all'Università L'Orientale di Napoli, da anni impegnata nel tentativo di far conoscere nel nostro paese le opere della vivace letteratura di espressione portoghese. In questo caso, Livia Apa entra in perfetta sintonia con la scrittura e con le intenzioni della Amaral, offrendoci una traduzione rispettosa e senza sbavature, capace di recuperare appieno la carica immaginifica e insieme la concretezza della lingua della Amaral.
Con lo sguardo attento alla tradizione occidentale, particolarmente anglosassone, e attraverso un dialogo sempre vivo con la poesia portoghese, la scrittura della Amaral si muove appunto utilizzando una lingua quotidiana con accenti quasi prosastici, che erompe però continuamente in un lirismo evocativo e sognante. Ne deriva un linguaggio pacato, senza cedimenti, che si concede a scarti linguistici mai gratuiti, ma che permettono imprevisti scivolamenti del significato. E' quanto suggerisce Livia Apa, nella nota introduttiva, quando parla di un lessico che “sfonda” la semantica col fine di “traghettarla verso altri possibili sensi”. E' così che gli oggetti diventano il tramite di interrogazioni e perplessità, di repentine scoperte e di angosciate sospensioni.
Basta a tale proposito l'esempio della poesia “Metamorfosi”, con un incipit subito spiazzante: “Non in un bar della Kashbah, ma in un caffè / di Leça da Palmeira (piccola città al nord / del mio paese), la tua voce qui mi porta lì”. La metamorfosi è dunque quella della cittadina del nord portoghese, che diventa città nordafricana, un bar con tutt'altra atmosfera, perso in una dimensione di qualche decennio fa. Nel bar una voce (“la tua voce”) finisce per evocare le immagini di un film in bianco e nero, pellicola di culto, così come famosissime sono la canzone che muove la vicenda e la frase (“Suonala ancora, Sam”) che serve a richiamarla. A partire da questa trasposizione di un luogo in un altro, a sua volta rievocato dalle scena di un film notissimo come è appunto “Casablanca”, alla poesia tocca “inventare a Leça da Palmeira / nel mezzo della nebbia così immensa, / uno sguardo teso che si traveste blando / (un pozzo di desiderio, e una ventola / in un aereo di stupore)”. La lingua della Amaral, proprio la lingua e non solo i significati che essa veicola, si muove continuamente tra l'immagine concreta e quella sognata, proiettata verrebbe da dire, in una continua armonica oscillazione. “Lasciare accanto al verso la promessa del nulla / che non c'è stato, ma siede al piano / ripete, come in sogno, la stessa melodia // - tradotta in inglese: suonala ancora, e ancora / che non c'è Kashbah qui, ma poteva / essere proprio la tua voce (in un registro / finale)”.
Il titolo del volume, “La scala di Giacobbe”, fa riferimento all'episodio biblico per cui Giacobbe sognò una scala che da terra si protendeva fino in cielo, continuamente percorsa nelle due direzioni da angeli, che nel caso del libro in questione diventa emblematica oscillazione appunto tra rarefazione e concretezza, spinta al divino e ancoraggio alla quotidianità. Il mondo rappresentato dalla Amaral contiene un'idea della poesia che, come scrive Apa, nasce dalla “intuizione del sublime nelle piccole cose”. Sta di fatto che cielo e terra non spiegano l'esistenza, non danno risposte definitive. C'è solo la parola a dare un senso al percorso, a ordinare gli oggetti, la parola che riesce a dire l'amore. In una delle ultime poesie del volume, “Un poco solo di Goya: lettera a mia figlia”, Ana Luisa Amaral ricorda quando la figlia, ancora bambina, diceva “che la vita è una fila”: “Nella metafora creata / dall'infanzia, chiedevi dello stupore / del morire e del nascere e di chi seguiva / e perché si seguiva, o della totale assenza / di ragione di questa catena in sogno di gomitolo”. A distanza di anni la poetessa vorrebbe dire una parola di conforto, trovare un antidoto che liberi la figlia “in volo, come una fata, sulla fila”. Ma la forza morale della poesia è anche guardare in faccia la realtà con la sofferenza delle sue contraddizioni. “Ma siccome ti amo non posso farlo, / e in questa notte calda che strappa giugno, / voglio dirti della fila e del gomitolo, / e dei modi di amare tutti diversi, / ma fatti di piccoli suoni di stupore, / se il giusto e l'umano ci si abbracciano”.
Questo libro ha il merito di farci conoscere una delle voci più interessanti dell'attuale panorama poetico portoghese.