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Raccolta di recensioni scritte da Marco Righetti
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Liliana Zinetti - Poesia - Edizioni CFR

Minime da una fine

 

Con fotografie di Viviana Nicodemo

 

“Invece camminiamo/Camminiamo io e te come sonnambuli. /E gli alberi son alberi, le case/sono case, le donne /che passano son donne, e tutto è quello /che è, soltanto quel che è”, scriveva Sbarbaro in Pianissimo, una delle raccolte più alte dell’intero Novecento.

Le poesie di Liliana Zinetti potrebbero partire idealmente da quel punto di arrivo della poesia-vita, tracciarne il seguito: “Ma oltre, un là senza tempo/ogni cosa posa al posto che le compete./Il surreale volo del pesce ha un senso/e respira il mare”, scrive, e il registro impiegato è un fortissimo eseguito però in sordina, poiché le grida esplodono nel dopo-incantamento, e ”Altissime le fiamme /bruciarono gli alberi, il cielo, /ogni ipotesi di paesaggio./Sfere, comignoli, rami, carcasse.”

Dunque gli alberi sbarbariani non ci sono più.

Siamo anche oltre ‘gli alberi assassini’ citati dalla Rosselli in Documento, perché qui tutto ha nuove coordinate, e gli alberi anzi “si fanno carne e voce”. E’ iniziato il dopo di ogni luogo prima conosciuto: quando l’esistenza ha bruciato i suoi sintagmi vitali, quando le parole “non salvano, non dicono che l’assenza” e il silenzio è “il bianco tra le parole”, l’unica possibilità è apprendere il registro del mondo momento dopo momento, dalla voce diretta della poetessa. Altra possibilità di conoscenza non c’è: Minime da una fine è un luogo altro, in cui solo alla poesia è possibile tracciare strade, fare collegamenti, denunciare avvistamenti improvvisi, ipotesi di significati: “Avremo scritto perché splendano le notti / e per giorni che nascono finiti, per il nulla / dopo le parole. / Rondini ai nidi dei versi, tenteremo il ritorno / dentro un cielo bianchissimo”.

Il dopo investe anche il tempo, tant’è vero che una delle frantumazioni-ricomposizioni inizia con “Oggi, nel 13mo mese dell’anno/hanno squillato tutti gli orologi,/freccette sonore di tanti / qui e ora. Dita del tempo, unghie/ lunghe come le perdite /pontili sul mare scuro, gridi di gabbiani / a pelo d’acqua feroci.”

Otto liriche in forma di prosa e altre quindici ritmate verticalmente. Le prime, dei lunghi respiri in cerca di una forma biologicamente possibile nell’atmosfera satura che li ha generati, in attesa di un assetto esistenziale, di una partenza dopo che tutto è stato detto e fatto: “Non indietreggio non cado vado con il nulla alle spalle: pronta per le stelle”, “ogni volta ogni piccola morte che attraverso perdo pezzi, lacerti di me. Dove finiscono? Deve esserci un luogo dove vanno a finire…” Parte essenziale di questo viaggio (poiché di viaggio si tratta: “come fossi veramente un poeta e non una che non è mai partita”) e di questo avvicinamento alle cose è la smentita puntuale di ogni certezza: “Un raggio lunare nell’azzurro d’aprile un’inquietudine sottile (non vento, brandelli) abita il giorno eppure il sole è sui tetti e l’ombra è andata col suo nero”, lo scambio fra presente e futuro: “Per altri fiorirà il giardino. Chiudo la porta per l’ultima volta – non ripeterò più questo gesto – sarà un altro come l’azzurro di oggi non sarà quello di domani svaniranno le impronte – non saremo stati.”

Le seconde, dei frammenti che ossimoricamente ricostruiscono le conoscenze del dopo-morte-in-vita, per dire il dolore e quello che c’è oltre. Domande, “Ti chiederai a che è servito / aver guardato tanto, scritto poesie”, dialoghi fulminanti “-Nasco per morire dopo pochi versi, questa / la misura. La risposta esiste. Ma tu, tu /non sai porre la domanda. La tua finitudine / ti condanna. Accendi il lume e prega, la notte / è buia e le stelle una rovina…”, accostamenti balenanti come “la poesia è sangue nel bicchiere” fissano la loro violenza e valenza nella forza scarna, meravigliosamente dirompente della parola scritta.

La punteggiatura minima e l’essenzialità del dettato sono consustanziali alla nascita spiazzante delle immagini poetiche, ne accelerano il fissarsi sulla carta e negli occhi. Non solo: è una poesia questa che, recitata, aggiunge uno spessore ‘fisico’ al suono, e va a depositare i fonemi nel punto giusto dell’esistenza, cioè in quelle lacerazioni fra la mente e il cuore in cui c’è ancora spazio per germinazioni insospettabili e dove tutto è sovranamente bello, anche il tragico, perché letterariamente vero, sorgivo, non contaminato da precedenti intuizioni, esperienze, legami mnemonici fra significante e significato. Qui il percorso è sempre vergine, Minime da una fine ci consegna una poesia che a ogni lettura continua ad avvenire per la prima volta, una creazione di senso che si dà verso dopo verso: è poesia pura, come ben raramente oggi ci è dato leggere.

Rinvii consapevoli e inconsci all’alta lirica del ‘900 (non solo alla Szymborska e a De Angelis espressamente citati) scorrono in profondità, ma sono immediatamente superati dalla perentorietà del dettato lirico, humus che fermenta e matura il suo frutto amaro e lucente, imprendibile - perché vivo di una luce che è tutta della sua autrice - e nello stesso tempo irrinunciabile, per lei e per noi che la ascoltiamo. Non c’è altro modo per raggiungere i nuovi ‘fondali’ di un’esistenza mutata, il “giorno in cui tutto torna al principio, un giorno in cui tutto specchia la sua fine”. Poesie che, per virtù propria felicemente creativa, parafrasando l’Ungaretti de Il Dolore, liberano dalla morte le cose morte e sorreggono noi vivi.

Non si può poi tacere un altro dono del libro, la potente sequenza di fotografie di Viviana Nicodemo, che nel chiaroscuro di soluzioni pittoriche contaminano la pagina di ulteriori aperture; rimandi da un territorio che appartiene agli inferi della vita, e che schiude immagini da sciogliere nella pupilla dell’osservatore fino a spogliarla di tutto, sì da far spazio – il nuovo ambiente creato dallo scatto – a una interiorità che è ritratta dall’esterno e s’ingarbuglia di movimenti, liberazioni, inquadrature perentorie, tenacemente sottratte alla pietà e affidate alla forza dell’occhio meccanico che ce le impone.

 

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Ivano Mugnaini - Racconti - Greco e Greco Editori

L’algebra della vita

Se è vero che la manipolazione algebrica (più nota come calcolo formale, algebra computazionale) è metodica oggi imprescindibile nella ricerca scientifica, forse anche nell’Algebra della vita (Greco & Greco editori, dicembre 2011) possiamo assistere a un’analoga riduzione (nel senso etimologico del termine arabo algebra) e ad una contemporanea trasformazione in espressioni nuove, diverse da quelle comuni di partenza.

Al di là della filiera iridescente e variegata di personaggi che occupano il libro, storici, fantastici o, più semplicemente – e meglio – interpreti del dettato profondo dell’autore, ci si accorge immediatamente dopo il primo testo, La feritoia (titolo che potrebbe probabilmente suggellare l’intera raccolta altrettanto bene di quello scelto dall’autore), che occorre forse accantonare l’abusato senso del termine ‘racconto’ e cercarne altri, più focalizzati: potremmo proporre magari ‘accensioni’? Lasciamo la questione terminologica ed esaminiamo le tessere delle prime pagine.

La feritoia nel paese in cui è tutto fermo e senza tempo diventa subito l’apertura di un altro punto di vista. Anche la natura perde ogni requisito routinario, tutto collabora alla deformazione dell’ordinario, alla sua riformulazione. E il tratto si fa assertivo, incalzante, spinge la ragione nell’angolo (non a caso l’incipit recita “oggi la gente è più pazza del solito”) per convincerci poi che nemmeno nell’angolo delle certezze c’è ormai più nulla. Il vuoto metafisico creato dalla fabula è in realtà, schiettamente, vuoto della stessa vecchia forma narrativa. E il lettore questo lo comprende subito, lo assapora nella stessa progressiva erosione dei punti fermi ad opera della voce narrante.

Il tempo del racconto è più rapido di quanto non dica e prepara il suo ambiente: Mugnaini vi getta per l’impasto le forme pure, tratte dall’emozione, anzi da una scommessa che torna costante nel libro: raccontare il dopo, quello che segue al decadimento di strutture protettive e false, codificate da riti e miopie acquisiti. L’algebra della vita non azzecca più le vecchie strutture se viene innescata una serie apparentemente perversa, perché allora il fascino di vedere come andrà a finire genera immancabilmente meccanismi eversivi, sulla pagina e nella rappresentazione del lettore. Vi è una sorta di congegno a orologeria che prima o poi espelle il superfluo e fa precipitare nella aporia di ciò che accade, del non ancora visto ma dell’ugualmente possibile. Come avviene nella Feritoia. La posta in gioco è elevata: “la vita, l’armonia, la gioia sono preziose, costano care”. Il lettore è un “eterno forestiero”.

Gli oggetti mutano, cambiano forma e diventano indizi, la ricerca si focalizza sulle reazioni dei protagonisti e qui lo scambio è ancor più incessante, il gioco delle parti inverte le polarità note (Paglia e sangue). Ma l’arco voltaico corre, elettrizza come deve, illumina della sua luce inusuale, scardinante. La felicità è “variabile impazzita”.

Ed è qui appunto la scommessa: ‘provate un attimo a pensarla come me’ dice lo scrittore, ‘non potrebbe andare a finire (o a non finire) così’? La provocatio, la sfida allo scorrere anodino del tempo, del senso e del ragionamento comune e la ricostruzione dell’assunto profondo, solitamente trascurato e qui invece in claris (si veda per esempio l’incipit di Miele e pioggia) urtano immancabilmente contro l’annichilente paludamento sensorio che ci sostanzia.

E Mugnaini vince la scommessa, circostanziando puntigliosamente la sua tesi, corroborandola di lampi, di tempi nuovi, veloci, oltremodo godibili nella lettura. E che si sposano con un’intenzione svelata, quella della conduzione - per restare al linguaggio della fisica - di una corrente improvvisa, affatto ignota. La feritoia è quella in cui viviamo, ma di là da essa la visuale si allarga e il territorio è vergine. Mugnaini allora lo riempie delle sue intuizioni e creazioni, mai addomesticabili del tutto, sfuggenti, ironiche, infingarde: l’algebra – come osserva Luigi Grazioli nella prefazione – è cosa più complessa  dall’aritmetica. L’algebra non può che dare risultati esatti ma in nessun caso scontati, contraddicendo la logica inerziale di base e innescandone invece altre perfettamente, dialetticamente coerenti, crudelmente lucenti direi, “affamate di pelle, silenzi, parole” (Petite suite).

Metabolizzato il plasma narrativo di Hesse e di Walser, di cui si colgono tracce per esempio nell’Inseguitore e, rispettivamente, in Desaparecidos, l’autore ricorre spesso al “miele agro” della poesia, ad antonimie ed ossimori (come questo appena citato), ad accostamenti inediti in cui entrano in azione concetti opposti: “Le tre parole (…) gli erano chiare a quel punto: ‘Non mi avrai’, ecco cosa aveva vergato quella mano tremolante. E, sopra, accanto, dentro a quelle parole, mischiate, fuse, abbracciate con rabbia e trasporto, altre tre parole: ‘Ti amo infinitamente’. Nell’atto della sconfitta il medico-scrittore ormai impotente aveva fatto vibrare nell’aria, fino al cielo, due urla sovrapposte, odio e amore, abbandono e passione” (Tre parole illeggibili). È una circolarità di matrice poetica impiegata a fini narrativi, dunque, spesso un contraltare alla drammaticità dell’esito.

I paragrafi, cadenzati come sequenze di un avvicinamento progressivo, entrano nell’agone: nella morsa creata dall’autore si giocano umori, carne, profumi, sensazioni, maschere, ombre. Ma grazie alla rilevata doppia cifra stilistica - che mentre racconta e crede fino in fondo a quello che dice non rinuncia mai al velo della poesia, ottenendo così una sinergia di indubbia originalità -  il tragico, irridente, sanguigno tour nei meandri dei comportamenti e delle situazioni, resta pur sempre tour di bellezza e insieme concatenazione di causa ed effetto che non esclude affatto l’esito a sorpresa (Le piume del pavone). Modalità anche questa, il ribaltamento, che va inquadrata nell’intelligenza profonda dei testi, anzi nella scommessa che Mugnaini fa con se stesso (prima ancora che con il lettore), con le proprie attitudini e vocazioni narrative. La  necessità - come si diceva sopra -  è ‘l’accensione’ del testo, una volta individuata la feritoia da cui far leva.