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Raccolta di recensioni scritte da Carla de Falco
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Alì Ehsani e Francesco Casolo - Romanzo - Feltrinelli

I ragazzi hanno grandi sogni

 

C’è una linea mobile e sanguinante come una ferita non rimarginata, un luogo di tutti e di nessuno di cui ognuno, invisibilmente, è parte: è la frontiera che separa e insieme unisce il Nord e il Sud del mondo. È sul margine di questa ferita che si disputa il grande gioco del mondo contemporaneo. Ce lo ha insegnato, meglio di altri, Alessandro Leogrande.

 

Nel libro di cui parliamo oggi, si narra la storia di un piccolo eroe che l’ha passata la sua frontiera e una volta arrivato ha dovuto misurarsi con la più dura verità: il viaggio non termina quasi mai alla meta. La meta è, semmai, un nuovo inizio.

 

Se infatti “Stanotte guardiamo le stelle”, primo libro di Alì Ehsani, è il racconto del viaggio da Kabul fino a Roma, “I ragazzi hanno grandi sogni” è invece il romanzo dell’approdo, la testimonianza di come il vero viaggio sia cominciato proprio con l’arrivo.

  

La storia di Alì Ehsani, diversa per molti aspetti rispetto a quelle già tanto raccontate (e penso - giusto per citarne alcuni - a Nel mare ci sono i coccodrilli, I pesci devono nuotare e Non dirmi che hai paura) a cominciare dal fatto che non è un itinerario di migrazione via mare, ma via terra.  Nasce lontano, Alì, in Afghanistan, in un villaggio vicino a Kabul, raso al suolo da bombardamenti che lo rendono precocemente orfano di una famiglia cristiana, in un paese in cui non esistono chiese con crocifissi. Determinati a scappare per anni, liberi come uccelli da ogni legame e costretti alla migrazione dal vento nero della guerra, Alì e il fratello Moahmmad, esuli, attraversano settemila chilometri. Loro meta è l’Europa. Solo Alì  però arriva in Italia, aggrappato disperatamente sotto un camion, dopo avere rischiato di finire sotto le ruote. Nel viaggio ha perso il fratello (la storia è raccontata anche in un cortometraggio molto bello e pluripremiato, Baradar, che di questa storia mostra per immagini un prequel - guardalo su Rayplay: www.raiplay.it/programmi/baradar), ma è andato avanti con la fede, con la determinazione e i sacrifici.

È disorientato e stravolto, Alì, ma non demorde. Ha alle spalle la fatica di un viaggio lungo e doloroso. Per anni ha camminato nel deserto e si è arrampicato sulle montagne, si è nascosto sui tetti dei furgoni e nei cassoni dei camion, è stato più volte derubato, minacciato, imprigionato. Ha assistito a torture atroci passando per Turchia, Pakistan e Iran. Non saranno certo le difficoltà italiane a fermarlo. Benché abbia poco più di 13 anni Alì, quando arriva in Italia dorme all’aperto alla Stazione ferroviaria. Dopo viene accolto in una casa famiglia e poi alla Città dei ragazzi di Roma, dove impara l’italiano e pratica diversi mestieri.

 

Importanti, a mio avviso, due aspetti della vicenda: l’amore per il sapere, l’incontro con la scuola e il rapporto con il professor Eraldo Affinati (che ha raccontato anche la sua vicenda nel libro La città dei ragazzi), divenuto per Alì un punto di riferimento; l’altro aspetto è l’intima e tenace convinzione di questo ragazzino che spiazza ogni qualunquismo anche del lettore più cinico: nulla è indifferente ad Alì, mai. Fa differenza scegliere la legalità o scavalcarla, credere nella giustizia o farsela da soli, essere leali o barare. E Alì sa sempre cosa scegliere. Anche quando gli costa tanto. La sua storia finisce bene, ma non senza testimoniare e denunciare la terribile e drammatica situazione dei minori migranti, dei loro rocamboleschi viaggi, della loro difficile inclusione in Occidente.

 

La pratica della letteratura ci ha insegnato a individuare un oggetto del desiderio nella ricerca che il protagonista di ogni romanzo compie. Ecco, il giovane Alì - alla frontiera anche tra l’infanzia e l’adolescenza - cerca incessantemente il coraggio di farsi attraversare dalla vita, divenendo così simbolo di tanti minori migranti che hanno lottato perché venissero riconosciuti i loro più elementari diritti umani. In fondo, Alì è alter ego dell’Ulisse che è in ogni uomo, a Oriente come a Occidente, e che, a qualsiasi latitudine, cerca la libertà e crede nella vita.

 

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Ruggero Cappuccio - Narrativa - La Feltrinelli

Paolo Borsellino Essendo Stato

 

In questo “romanzo di verità”, Ruggero Cappuccio ricostruisce una grammatica dei sentimenti civili, un codice storico e linguistico della società siciliana ed italiana contemporanee, di cui si fa consapevole relatore ed involontario eroe Paolo Borsellino.

La vita esemplare del giudice è ricostruita à rebours, a partire dal momento della morte e ciò è coerente con l’impianto del testo che sembra incunearsi dentro il concetto di ossimoro.

Viene da chiedersi spesso, infatti, scorrendo la narrazione di movimento in movimento, perché di continuo i silenzi scoppino, l’incoscienza diventi la forma più alta di coscienza, i faccendieri siano talmente contaminati da ritenersi innocenti, ed ancora ogni sorriso sia malinconico o, per dirla con Tomasi di Lampedusa, tutto cambia perché tutto resti uguale.

La spiegazione arriva fulminante nel centro del racconto: dell’apparente contraddizione di cui il dettato si alimenta, si pasce in realtà il nostro paese, in cui i giudici migliori sono minacciati da provvedimenti del Csm, dove è lo Stato a condannare a morte un uomo di Stato, dove tutto un sistema vuole che il medico curi, ma mai guarisca la piaga infetta della criminalità.

Eppure in Essendo Stato c’è una presenza-ombra, occulta eppure intensissima, che mi pare trascendere l’immediato contingente e potersi rappresentare nello spirito di Sicilia, lo spirito di una terra che distrae dalla morte e regala la libertà di morire, e che si esprime con una lingua ancestrale e crittografata, in cui le parole intendono spesso l’opposto di quello che dicono, quasi a celarsi all’orecchio di un invasore.

Lo capisce anche il lettore più distratto quando, ricordando l’evento solo apparentemente banale di una partita di pallone da ragazzino, Borsellino definisce sé stesso e Giovanni Falcone, sudati ed impolverati in un campetto sul far della sera, gli sconfitti vittoriosi di piazza Magione. L’espressione tornerà nel libro per definire l’azione investigativa di Paolo e Giovanni, ancora una volta vittoriosi, se solo il sistema ne avesse condiviso l’etica e le regole, ma ben presto divenuti consapevoli che la partita la governa chi possiede il pallone, non chi meglio pone in essere lo schema di gioco.

Così, inesorabilmente, Paolo e Giovanni si avviano a soccombere, in questo spazio sovvertito ed insidioso, per poi oniricamente ritrovarsi fuori dal nostro reo tempo, in un’Ade contemporaneo rappresentato dal palazzo dei defunti vivi, in cui Borsellino passa in rassegna uomini e donne di Stato uccisi non perché la partita finì, ma perché il pallone non era il loro.

Nella realtà della parola che non rivela, ma nasconde, di questo libro ci resterà a lungo l’impressione di un Borsellino titanico, appassionato studioso di linguaggi, uomo che ha provato a farsi interprete delle lingue ermetiche degli imputati trasformando le loro allusioni in confessioni, il loro linguaggio magro, implicito ed allusivo in un codice comune e condiviso. Un giudice che segnò.

Ma purtroppo, per lui e per noi, la partita non finì.

 

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Vittorio Del Tufo - Saggio - Neri Pozza

Napoli magica

 

“D'una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”. Questo scriveva, in “Le città invisibili”, Italo Calvino. Eppure, Napoli è città che difficilmente associamo, in maniera spontanea, ad una sensazione di godimento. Perché, diciamoci la verità, Partenope è d'un meraviglioso stupore solo per chi la vede da turista ed è invece sinonimo di fatica, una fatica immane, per chi quotidianamente la vive e la “subisce”.

 

Qualcuno di Napoli ha detto, giustamente, che non è mai neutrale: la città può cambiarti d’umore senza un perché e ti puoi sorprendere a rallegrarti da triste o ad arrabbiarti da sereno che eri, mente passeggi per le sue vie. Napoli è città con una sua particolare personalità, che è tutta nell’entropia delle cose, nell’intrico dei vichi, nell’indolenza delle persone, nella resilienza dei sistemi. E per finire… Napoli è anche altro. Nasconde, da sempre, misteri poetici, enigmi, miti, leggende.


Città pluridominata, fucina di incontri, crocevia di culture, Napoli ha da sempre avuto un rapporto strettissimo con la sua dimensione magica e grazie a Del Tufo ci incamminiamo non soltanto nello spazio misterioso, ma anche nel tempo esoterico di una delle città che, a dispetto delle classifiche sulla qualità della vita, era e resta una delle più antiche e affascinanti del mondo.


C'è, in “Napoli magica”, la città pagana del mondo classico, greca e egiziana insieme; la Napoli paleocristiana divisa tra il culto di Mitra e quello di Gesù, la Napoli Medievale di Boccaccio e Petrarca, quella rinascimentale di Campanella e Giordano Bruno c’è la città del Conte di Sansevero Raimondo di Sangro e del suo Cristo Velato e poi la Napoli barocca, la città plebea e lazzarona di Masaniello con il miracolo della Chiesa del Carmine; la Napoli sotterranea e quella rivoluzionaria della Repubblica con infinite altre storie romantiche e nere, nelle quali riscopriamo il senso di detti popolari e modi di dire colti, di toponomastica desueta e raffigurazioni identitarie.

 

Questo non è dunque un mero saggio, ma un viaggio dentro l’identità partenopea  attraverso i luoghi di cui il libro ricostruisce la memoria, pagina per pagina, capitolo per capitolo, verrebbe da dire strato per strato.

La memoria dei luoghi diventa così, quasi naturalmente e senza che mai sia esplicitato, l’unico antidoto per non farsi stordire dal degrado. Le stratificazioni che emergono dalle pagine  ci lasciano affascinati, stupefatti e, alla fine, persino un po’ orgogliosi del nostro essere napoletani.

 

Godiamo quindi a fine libro di un rinnovato stupore, che pensavamo perso da tempo. L'autore ci rimette, per qualche ora, in pace con Napoli e, dopo la lettura, sentiamo di poter ripartire a fare, tutti insieme, manutenzione della sua memoria e della sua magica energia.

 

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Antonella Cilento - Romanzo - Giunti

Non leggerai

 

Antonella Cilento torna a proporre, a sessantacinque anni di distanza dalla storia del Montag di Bradbury, la distopia del mondo privato della lettura.

 

La società è caratterizzata stavolta da adolescenti tenuti sotto controllo attraverso l’ipnosi di una tecnologia fine a sé stessa e privata di contenuti reali, mentre gli adulti risultano del tutto snaturati, vuoti come sono di ogni autorità: non sanno più essere né genitori consapevoli né docenti convincenti.

 

A corroborare questo scenario devastato è una disposizione governativa che rimuove ogni possibilità di entrare in contatto con una più profonda consapevolezza di sé.

 

Non si può osare la visione diretta della morte perché essa va allontanata ed esorcizzata attraverso una sorta di rimozione collettiva, utile a non pensare oltre il proprio quotidiano presente e a non elaborare alcun lutto nel futuro.

 

Non si può vivere la spontaneità del più gratuito dei sentimenti umani, l’amore, perché occorre amare con un preciso scopo.

 

Infine, ma non ultimo, non si può accrescere il proprio sapere né porre in dubbio le proprie conoscenze, perché ormai è vietato leggere. Esiste persino un reato letterario punibile a norma di legge.

 

Vietato leggere, vietato avere idee.

 

In una società così mal messa sopravvivono, anzi proliferano – come nell’habitat più opportuno – camorra, malaffare ed ignavia. E quando attesissimo arriverà l’happy end, scopriremo – non senza una certa amarezza – che questo mondo disperato non sarà salvato da un genitore o da un docente (ce ne sono fin troppi, nel libro, che stanno lì ad autodenunciarci tutti, per essere diventati icone caricaturali di noi stessi), ma da una simpatica nonnina, scrittrice fumatrice e risoluta, che andrà a finire la vita con il suo amante sulla tomba di Stevenson, dopo aver salvato una coppia di ragazzine, ree di esser state ribelli al divieto di leggere.

 

Sono loro, Help e Farenàit, le giovani eroine di tutta la vicenda. Il riferimento a Sofia ed agli altri bambini  bonsai del mai abbastanza compianto Paolo Zanotti viene spontaneo. Quel romanzo descriveva uno scenario apocalittico e forse profetico: una Genova franata,  un tempo non troppo remoto in cui gli animali sono scomparsi, tutte le isole del Pacifico sono sommerse da un mare che sembra un mostro di plastica e  il sole brucia e fonde, tant’è che solo nelle serre si può vivere.

Qui invece, nel romanzo della Cilento, lo scenario è Napoli, una città marcescente e stramba, ridotta com’è ad uno strano ammasso di tecnologia e degrado, con auto volanti tipiche delle visioni di un futuro prossimo, ma anche moto truccate di assoluta attualità. E’ in questo mondo in necrosi che piomberanno improvvisi il Maestro e Margherita, i bambini di Dickens, la metamorfosi di Gregor Samsa, la passione bruciante di Cime tempestose, l’orrore dei delitti di Poe.

 

Atto di trasgressione suprema, la lettura diventerà, nell’epopea distopica di Help e Farenàit, rito iniziatico che si compirà attraverso lo scambio e la condivisione di un oggetto proibito: non una canna o un video hard, ma un libro.

 

I libri, ridotti a merce di napoletanissimo contrabbando, torneranno così paradossalmente ad essere ciò che forse per l’attuale generazione di adolescenti non sono più: strumenti di consacrazione all’età adulta, veicolo di affinità elettive, simboli trasgressivi. E nel loro essere rivelatori di verità intime, di dubbi profondi, di conoscenze “altre” questi vecchi rottami di carta alla fine vinceranno, come la nonnina in fuga verso Samoa col suo Venceslao o come gli insetti nella teoria evolutiva di Darwin.

 

Vinceranno, dicevamo, con la loro forza maieutica, tornando ad insinuare nei giovani qualcosa che sembrava perso per sempre, in noi e in loro: la speranza.

 

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Umberto Schioppo - Poesia - Laura Capone Editore

Anima ridestata

 

È un libro in cui l’io lirico continuamente ignora il lettore. Vuole parlare infatti innanzitutto al suo interlocutore interiore, a tratti distante, a tratti perso. Il nostro ruolo di lettori è solo quello di porci in rispettoso ascolto. Dopo un po’, però, nei versi facciamo capolino anche noi. Le perdite, le assenze, i distacchi, gli abbandoni, gli incontri, gli amori che abbiamo attraversato tutti.

Sono nostri gli urti dell’autore contro il dolore e gli eventi della vita. Diventano nostri le sensazioni di estraneità, l’assenza, il vuoto, lo smarrimento, il rimpianto, il distacco, l’abbandono, il lutto e le altre impermanenze di cui la poesia di Schioppo è costellata, ma anche la sua dimensione onirica, le sue ripartenze presenti tra gioie d’amore e cime serene che sembrano dipinte nel verso

 

Non c’è rumore più bello del boato della natura

impercettibile 

 

"Anima ridestata" è un percorso di rinascita in versi nella piazza degli affetti. La storia di un’anima che sa rigenerarsi nel fuoco del più grande regalo (la vita) e in essa rinasce come fenice dalle proprie ceneri. A questo cammino di parole l’autore affida un titolo a-poetico, esposto a una sorta di espiazione esorcizzante che, con secchezza e puntualità, condensa un’essenza psicofisica: quella d’un’anima al risveglio intesa come combinazione di forze spirituali ed energie fisiche in rinnovata, sinergica evoluzione.

Il racconto lirico, come si diceva, è quasi un monologo struggente ed evocativo in cui la nerezza del male campeggia, ma poi sbiadisce, perché la poesia ha bisogno di uscire da sé per congiungere ogni spazio terreno ed essenziale, ogni sconcertante testimonianza intima, all’ascendenza intellettuale e spirituale del rosa d’amore.

La morte stessa, a ben leggere, non è l’abbandono di chi è in comunione eterna con noi, perché è essa stessa parte della creazione; per questo motivo i componimenti di Schioppo cercano di instaurare una reciprocità caleidoscopica tra passato e presente implicando movimenti e moltiplicazioni dialogiche tra ieri e oggi.

Le sezioni della raccolta conservano una forma poetica pura, viscerale, che non ci trascinano in cliché romantici e che traggono ispirazione tematico/esistenziale dalla vita vissuta, coi suoi scatti impetuosi, la nudità delle sue debolezze, la narrazione dei suoi ricordi. Memoria mi pare parola-chiave di tutta la silloge, come sembra suggellare anche il bellissimo explicit della poesia Guerra che, con sapiente allitterazione, parla del

 

mutar della marea di un mondo nuovo.

 

Le poesie – in conclusione – mi sono piaciute per una sorta di incisività perentoria. Mi ha convinto meno, qui e là, la scelta lessicale, a volte un po' "automatica" rispetto alla tradizione poetica.

 

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Marco Perillo - Saggio - Newton Compton Editori

Storie segrete della storia di Napoli

 

Raccontare la propria città, mettersi sulle tracce di una storia millenaria, dipanare storia da mito, fiaba da superstizione, tradizione orale da fake news.

L’impresa è da fare impallidire, ma ci prova con garbo ed entusiasmo Marco Perillo nell’ultimo saggio della sua trilogia dedicata alla città di Napoli: Storie segrete della storia di Napoli.

L’idea di fondo è connettere la città al suo sostrato più intimo: quello del misticismo. Il senso del divino sembra essere costitutivo ed identitario della napoletanità, se è vero come è vero che l'autore ne rintraccia le orme già dai tempi della sua fondazione sulla scorta del mito della sirena Partenope. E così Napoli, sin dalla sua costituzione,  s’impone subito alla cultura mediterranea come città di culto oltre che di cultura, di mistero e, in qualche modo, di vita oltre la morte. Napoli è regno d’anime di trapassati in un’altra dimensione, di spiriti inferi in grado di trasformare i morti nei meandri di un regno sotterraneo. Napoli è porta per gli inferi, città-soglia in cui le anime dei defunti sono più vive che altrove. A

nche per questo leggere questo saggio ci sfida ad un continuo recupero delle nostre conoscenze “ufficiali”,ma ci invita contemporaneamente a connetterle con la cultura della tradizione, della vulgata, della superstizione, dei detti antichi e delle icone “pop” di ogni tempo.

Grazie a Perillo abbiamo la possibilità di ripercorrere una storia della cultura europea che da Ecate a Pitagora, da Virgilio a Petrarca, da Federico II, Pier delle Vigne e Corradino a Boccaccio, Fiammetta ed Andreuccio, da Pulcinella a Dracula, da Dante a Colombo, da Masaniello all’ammiraglio Nelson, da Eleonora Fonseca Pimentèl a Elena Ferrante… passa per Napoli e di Napoli si abbevera.

Una volta che di Napoli ti sei intriso, sembra dirci Marco, nulla in te resta come prima. E non importa che tu sia dio o lazzaro, ammiraglio o poeta, fabbro o sacerdote, Napoli ti plasma e ti cambia, come nessuna città al mondo sembra saper fare.

Napoli del resto non è mai neutrale: forgia e forma miti ed eroi a sé conformi, tanto che un’identità napoletana Perillo arriva a ravvederla persino nel culto del Dio Mitra o nella Divina Commedia.

Leggendo questo saggio, si ha la netta sensazione che tutto a Napoli sia arrivato prima: Paolo e Francesca, Renzo e Lucia, il culto del Natale e persino il femminismo.

Napoli, che porta inciso nel sangue il suo disordine,  pullula di libertà. Basti pensare che la città da sola tentò la rivoluzione contro l’ancient regime e da sola si liberò dal nazifascismo.

Mancano, direte voi, l’oggettività nel descrivere i mali di questa città, il suo degrado, la sua atavica dannazione. Può essere, ma Perillo scrive da innamorato. E a noi questa amorosa visione della città del sole è piaciuta assai.

 

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Giuseppe Catozzella - Romanzo - Feltrinelli

E tu splendi

 

La pratica della letteratura ci ha insegnato a individuare un oggetto del desiderio nella ricerca che il protagonista di ogni romanzo compie.

Ecco, il piccolo Pietro - ragazzino alla frontiera tra l’infanzia e l’adolescenza - cerca, come chiarirà sul finire del romanzo, il coraggio di farsi attraversare dalla vita.

Coraggio mi è parsa proprio la parola-chiave di questa storia tenera e feroce, commovente e amarissima, nella quale a dispetto di tutto e di tutti un ragazzino vuole vincere, vuole credere nel suo mantra che la paura è una bugia, vuole trovare conforto rispetto al dolore di una perdita irreparabile, vuole splendere in maniera irragionevole e imprevedibile anche nel grigio di una condizione desolante e abbandonica.

Il coraggio degli altri è contagioso, pensa Pietro e proprio la sua reazione  alla perdita della madre, reazione che solo superficialmente sembra di negazione e rimozione, è in realtà esempio paradigmatico del suo coraggioso modo di guardare l’esistenza. Egli dà al dolore per la morte della madre la forma bizzarra e stravagante di un amico immaginario, Canetto, che però non è un bambino, ma un bastardino invadente che mordicchia, gioca, si nega e si propone alla sua attenzione in una sorta di personificazione immaginifica del dolore come amico fidato. E ci vuole coraggio per dare al dolore l’aspetto di un compagno di gioco.

Nell’estate in cui si svolge la vicenda raccontata nel libro, al piccolo Pietro la vita di morsi ne darà parecchi. Si ritrova all’improvviso orfano, nudo di fronte a un dolore cui non sa rassegnarsi, in modo spicciativo insieme alla sorellina Nina, che aveva più coraggio che anni, viene mandato a vivere in una terra archetipica e lontanissima del Sud: da Milano (città dove viveva col padre) arriva dunque ad Arigliana (paesino originario dei genitori e dove sono rimasti a vivere i nonni).

Il protagonista si ritrova così solo ed estraneo alla terra che avrebbe dovuto essere materna e offrirgli una nuova casa, ma che invece inizialmente lo emargina in quanto "settentrionale", lo respinge come cittadino e lo etichetta in definitiva come altro da sé: diverso.

Rocambolesca e dolorosa sarà l’esperienza che gli aprirà successivamente la strada all'integrazione nella comunità lucana: proprio da lui, nel corso di un gioco, vengono trovati a vivere dentro un’antica torre normanna degli stranieri clandestini e fra loro anche un ragazzino più o meno della sua età.

È Josh. All’improvviso un nuovo “altro”, un nuovo perfetto nemico si offre alla comunità di Arigliana. Un nuovo straniero attorno al quale esorcizzare tutti i mali del mondo e contro cui sfogare brutalità e violenza.

Attraverso la voce del giovane protagonista, che di Josh diventerà fatalmente amico non senza aver dovuto superare qualche forma di infantile gelosia nei suoi confronti, sono descritti allora pregiudizio, paura, disprezzo, rifiuto, sfruttamento e ferocia provati dalla piccola comunità nei confronti di Josh e della sua famiglia, inermi e innocenti come vittime sacrificali.

In seguito, una parte della popolazione inizierà a conoscere, rispettare e amare gli stranieri, mentre l'altra parte continuerà a considerarli dei nemici, ma in mala fede, li incolperà infatti strumentalmente del peggioramento delle condizioni di lavoro, li renderà facili bersagli d’odio per mascherare invece arretratezza, corruzione, povertà e atti di devastazione che già erano presenti all'interno della società di Arigliana e che ora si riproporranno con crudeltà maggiore e, diremo senza spoilerare, definitiva.

Emigrazione, immigrazione, odio razziale sono quindi raccontati nel libro pur senza essere centrali nella vicenda, come una sorta di sfondo narrativo che vuole rappresentare due lati della stessa frontiera. Si emigra dal sud d’Italia per cercare lavoro al nord, ma al sud Italia si arriva anche, da altri sud, da luoghi lontani e indefiniti dai quali occorre cercare riparo, in una dimensione di perenne, quasi preistorico nomadismo che ci vuole – a ben guardare – stranieri tutti o piuttosto tutti concittadini di un mondo in cui arrivano a intersecarsi ovunque vicende di malaffare, corruzione e caporalato, un mondo dove l’egoismo, la prepotenza e la prevaricazione sul più debole ha troppo spesso la meglio.

La terra lucana si rivela mondo evocato in maniera quasi felliniana, tra pomodori, cipolle, olive, melanzane, uva, noci, zafferano.

Il materano s’intuisce essere luogo molto amato da Catozzella, che pure ne denuncia la sconfitta rispetto ai soprusi del potere malavitoso, inevitabilmente colluso con la politica. In questa terra, marchiata da una sorta di peccato primigenio, si vive tutti tra l’ignominia del terrore e l’ignavia dell’omertà; chi resta resiste in una sorta di sopravvivenza che alla fine sarà rifiutata solo dai ragazzini. Da Pietro, che non si rassegnerà e proverà a denunciare e dal giovane e misterioso esule Josh, che non riuscirà ad accettare come prospettiva auspicabile per il suo futuro di vivere ad Arigliana.

Josh è un poetico orfano musicista che legge in segreto The migration of the Palm e quindi non solo leggeva, ma leggeva pure in inglese, segno evidente di quanto fosse suonato. Il ragazzino fa da badante con dolce arrendevolezza ad un vecchio del paese, dimenticato da nipoti e figli. Alla morte di quest’ultimo, dopo essersi fatto un tè, Josh, poco più che bambino,  deciderà di lasciare per sempre Arigliana, per intraprendere da solo un inatteso viaggio di ritorno verso la sua misteriosa e supponiamo respingente terra d’origine, che resterà ignota al lettore fino alla fine, esattamente come l’ultima domanda che il bambino Pietro ha rivolto alla madre ancora in vita.

La Arigliana di Catozzella mi ha ricordato per certi versi l’immaginaria Acqua Traverse di Ammaniti, ma è anche ben descritta come la terra di Orazio e Sinisgalli, di Rocco Scotellaro ad Albino Pierro ricordati nell’esergo del libro, e ancora di Carlo Levi il cui capolavoro il padre e il nonno di Pietro citano come una Bibbia e infine del regista Pasolini a cui il libro si rivolge già nel titolo come ad un Maestro.

E c’è poi un altro intellettuale a cui mi pare questo libro debba qualcosa. È Alessandro Leogrande, che Catozzella (che ne fu editor per La frontiera) ricorda nella sua Nota di chiusura, quasi che i due abbiano inconsapevolmente dato vita - uno con la sua personalissima Non Fiction Novel, l’altro col suo Bildungsroman - alla più grande epopea italiana degli anni Dieci sull’Altro. Epopea che ben mi sembra riassunta in questa citazione dal testo di Catozzella, piena di infantile ottimismo e di splendente umanità: “Nella vita è meglio essere coraggiosi che sapere le cose. Di gente che sa una cosa o l’altra è pieno, ma di gente coraggiosa come lo straniero adulto che senza saperlo ha cambiato Arigliana invece no”.

 

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Lorenzo Marone - Romanzo - Feltrinelli

Un ragazzo normale

 

Mi è sembrato un libro sul valore della parola. E’ infatti il modo in cui usa le parole che rende Mimì, il giovane protagonista, speciale e contemporaneamente quasi disadatto nel mondo in cui si trova a vivere. Mimì è un bambino normale che si maschera in modo speciale. Non col costume di Spider Man che tanto desidererebbe e non può permettersi, ma dietro un uso quasi lezioso della parola che diventa in qualche modo la sua corazza.

E poi c’è un giornalista, uno dei tanti eroi dimenticati di questo paese, che in qualche modo consegna il “testimone” a quel bambino, non perdendo mai l’occasione di sottolineargli l’importanza della nostra natura “umana”, da contrapporre alla brutalità del mondo: Giancarlo Siani. La nostra natura umana, ricorda Giancarlo, è fatta di parole da ascoltare e conservare, di storie da leggere o da raccontare, di testi di canzoni da consegnare come sigillo d’amicizia o pegno d’amore. Le parole a Giancarlo costeranno la vita. Lo sa ogni lettore che intraprende l’avventura del libro. E chissà forse anche Giancarlo lo sa. Dall’inizio.

Si tratta di un romanzo nel quale si cade spesso nella tentazione di vedere l’autore in Mimì, ma è anche un racconto che riesce a far tornare bambini un po’ tutti i quarantenni di oggi. E’ un viaggio indietro nel tempo, a quegli anni ’80 che forse abbiamo parzialmente rimosso, anni in cui molte delle cose che ci caratterizzano oggi, appena cominciavano, senza che noi lo sapessimo, senza che neppure sospettassimo quanto ci avrebbero toccato. Le guerre di camorra, per esempio. Solo Giancarlo mostra nel testo quella consapevolezza che manca agli altri. Un romanzo in qualche modo storico, nella sua voglia di ricostruzione di eventi, gusti, linguaggi, ambienti e clima di quel tempo. C’è proprio tutto… dal Subbuteo alla nevicata dell’85, dai telefoni grigi della Sip alle audiocassette usate per studiare, e via via fino alle canzoni dei Righeira. Ma ci sono anche, come capita ai romanzi belli, quelli che sfuggono alle facili etichette, una storia di formazione (quella di Mimì) ed un racconto civile (il martirio di Giancarlo).

Nei mesi che precedono la morte del giovane giornalista, infatti, Giancarlo e Mimì diventano amici e scoprono di avere cose in comune. Giancarlo si lascerà conquistare dall’innocenza di Mimì che riesce ancora a guardare il mondo con fiducia. Mimì invece scoprirà che i veri eroi sono quelli che si battono ogni giorno per un mondo migliore. E nel caldo afoso di un agosto qualsiasi, anche grazie ai consigli di Giancarlo, Mimì scoprirà i primi batticuori dell’amore e quanto un’amicizia possa essere in grado di cambiare la vita. Ma soprattutto scoprirà come le parole possano rappresentare una chiave di libertà ed un’ancora di salvezza, anche quando quelli che le hanno pronunciate (o scritte) non ci sono più.