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Raccolta di recensioni scritte da Francesca Luzzio
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Pippo Pappalardo - Poesia - Ilapalma

Di mia a tia

 

Il titolo  della silloge “DI MIA A TIA” è anche il titolo della prima poesia. Ma il sintagma, estrapolato dal contesto in cui è inserito nel sonetto iniziale , assume un significato nuovo: nella lirica iniziale un giovane emigrante si rivolge con straziante dolore alla sua terra, dicendole  che “di mia a tia”, cioè che di lui alla sua Sicilia, non resterà nulla perché vivrà altrove e lì realizzerà i sogni coltivati durante le insonni notti trascorse studiando, invece lo stesso titolo dato alla silloge vuole evidenziare il dono poetico che il poeta fa al divino-lettore, al quale il poeta, come un fedele, offre una satura lanx, un piatto ricolmo di poesie che affrontano con toni diversi, temi diversi. Potremmo anche dire, che tale titolo allude  all’apophoreta, cioè al dono, per esprimersi con il lessico di Marziale, che l’ospite-poeta offre ai commensali-lettori, ultimato il banchetto culturale che egli ha imbandito, assaporando tra una portata e l’altra,  vari gusti, vari sapori, insomma  assoporando la pluralità dei contenuti che ora con tono serio o malinconico, ora con tono ironico, satirico o umoristico progressivamente si porgono all’attenzione di chi legge.

La donazione al lettore è ulteriormente rimarcata dall’ultimo sonetto che non solo in tal modo dà circolarità alla struttura della silloge, ma consente anche al poeta,servendosi della figura della prosopopea, di animare i suoi sonetti e di parlare con loro, rivelando le motivazioni profonde che lo hanno indotto alla loro composizione, quali la monotonia e la noia del quotidiano e il desiderio di uscirne, esplicitando in versi i suoi pensieri per poter dir loro di  via, fra la gente che magari riderà e, se ciò dovesse accadere, allora l’utile per il poeta, che in tal modo esce dall’aridità e dalla monotonia del quotidiano e l’utile per il lettore, che dalle poesie ricaverà motivo di riflessione ed insegnamento, si collegherebbe, come proponeva Parini nella sua poetica, al dilettevole.” Quannu u travagghyu si fa camurria”, scrive il nostro poeta ,”è propria tannu lu mumentu du scriviri\ pi diri ali pinseri: annati via!\Vi scrissi e, si faciti puru arridiri,\ vo diri ca  sirviu sta fantasia” (Pag. 65), ma il dilettevole  non è cercato come dal poeta del Giorno, attraverso la forma classicamente atteggiata, bensì attraverso “u babbiu”, come recita il titolo della seconda sezione della silloge, titolata appunto “I sonetti du babbiu”, e soprattutto attraverso l’uso della nostra lingua madre, “il Siciliano”, che ci assicura un piacere estetico originato dalla pregnanza semantica che lo caratterizza e perciò dalla sua capacità di focalizzare appieno sentimenti, pensieri e di esprimere meglio la varietà di atteggiamenti e di modalità con cui il poeta guarda  la realtà e la vita. 

Pappalardo è un profondo conoscitore  del siciliano e della tradizione letteraria che in tale lingua trova  il suo mezzo espressivo e inoltre in lui c’è la consapevolezza che era presente anche in Ignazio Buttitta  che “u populu diventa poviru e servu\ quannu ci arrobanu la lingua\ aduttata di patri...”

 Forte di questa consapevolezza Pippo, di fronte all’omologazione e al livellamento linguistico nazionale, affida allo spessore di intatta e  superiore qualità espressiva del dialetto, la sua poesia. Per Pippo come per  Meli il Siciliano è lingua letteraria illustre, anzi la più illustre perché la prima ad affermarsi come tale  grazie alla Scuola poetica siciliana. La letteratura del tredicesimo secolo, proprio perché in questo periodo nascono le prime  manifestazioni letterarie in volgare, è particolarmente amata dal nostro Pippo, tanto che molti dei temi presenti nella sua silloge, pur nella loro specificità, sono quelli che caratterizzano la letteratura di quel periodo: l’amore e la natura spesso correlati tra di loro, tipico della già citata, Scuola poetica siciliana; la religione, propria della letteratura umbra; il comico-realistico-parodico presente in Toscana,anche se  in Sicilia non ne mancarono esempi illustri, quale il contrasto di Cielo o Ciullo D’Alcamo, “Rosa fresca aulentissima”, palese parodia della lirica amorosa siciliana. Tale costatazione,come già si è rilevato accennando alla specificità della poesia dell’autore, non annulla l’originalità della produzione poetica di Pappalardo perché tali temi vengono vissuti e rielaborati secondo canoni e valori, mentalità e problematiche tipiche dei nostri tempi. La silloge è divisa in due sezioni: nella prima prevale l’io, che con tono lirico  rievoca e propone stati d’animo, momenti, personaggi della sua  vita e del suo mondo, nella seconda, il tono diventa comico-ironico, satirico, talvolta umoristico, mentre il contenuto ha  prevalentemente un carattere sociale e moralistico,ricordandoci per molti aspetti il romano Trilussa e, se usciamo dal panorama nazionale, il francese La Fontaine o se andiamo indietro nel tempo i medioevali Roman de renard e i fabiaux, oppure il latino Fedro e il greco Esopo, infatti in alcuni sonetti ,come negli  autori ed opere citati, protagonisti sono gli animali, vedi La vurpi e la addina, U palummeddu, etc...  Insomma da quanto suddetto è chiaro che il mittente Pippo Pappalardo comunica poeticamente al destinatario lettore con modi e tonalità diversi, pensieri, sentimenti, riflessioni che coinvolgono l’io, l’osservazione della realtà e del contesto sociale attuale.

Ma procediamo con ordine,occupandoci, un po’ più analiticamente, prima delle liriche della prima sezione e poi di quelle della seconda.

Nel sonetto Rἳalu d’amuri, che fa parte della prima sezione,  il poeta canta l’amore per la sua ragazza ed invita le stelle a fare luce  perché grazie all’incanto  che  tale luce emana, l’innamorata che “avi la vucca comu la cirasa” e “li capinni d’oru e sita”, lo bacerà, (pag. 18).  Come Jacopo da Lentini ed altri poeti delle scuola federiciana,  Pappalardo invita dunque  la natura a rendersi complice dell’epifania dell’amore, a collaborare con ruffiano compiacimento. Oltre l’amore per la fidanzata, c’è l’amore per la moglie, che in conformità ai  moduli stilnovistici è considerata donna-angelo, venuta dal cielo in terra a miracolo mostrare, come recita Dante nella Vita nova a proposito di Beatrice, ma l’evento miracolistico del sorgere dell’amore per Pappalardo non è solo platonica contemplazione della angelicata bellezza, ma diventa realtà di vita,così la donna angelo, diventa moglie e madre e in quanto tale è gioia per lui ed onore per i propri figli. “Ddoppu stu fattu capitò daveru”, scrive il poeta, “un àncilu mi vosi pi maritu\...\occhi lucenti di bontà e priìzza\...A tutti leva  tutti li pinseri\ E’duci la so vuci,e na carizza.\gioia pi mia e di li fìgghi onuri” (Pag.30).  Non possiamo concludere questa breve carrellata di poesie d’amore, senza accennare alla lirica dedicata alla madre, titolata “Pani ccu ll’gghiu”, dove la figura materna viene connessa al nutricamentu e perciò alla vita. La madre viene ricordata già vecchia, nella sua operosa terrestrità, quando sul far dell’alba era già intenta a fare il pane e il poeta ne alitava l’odore per poi mangiarlo condito con l’olio.

Dopo la su morte, scrive Pippo, “lu pani càudu a mia mi fa priari:\ m’a sentu ancora cca, la me mammuzza” dunque  Pippo ha istaurato una connessione simbolico-metaforica tra la madre e il pane con l’olio, emblema del nutricamento, dell’accudimento amoroso che la madre gli ha dato, anzi anche dopo che lei è morta, il pane con l’olio,simbolo di vita e d’amore, ne garantisce la terrestrità ( pag. 19).

Il tema religioso è anch’esso molto sentito e parecchie liriche si connettono a tale argomento che però non si limita ad essere esaltazione di Gesù o di Maria , commemorazione di eventi e momenti della cristianità o manifestazione di fede, ma diviene talvolta occasione per rilevare la negatività dei nostri tempi, per mettere in evidenza come la società attuale si sia allontanata dai dettami evangelici, oppure diviene motivo di riflessione esistenziale sul trascorrere del tempo e sulla vanità delle cose di questa terra. Ad esempio, nel sonetto “U pastureddu” si legge: “Natali fussi a festa di l’amuri\ ma ddivintò la festa di lu frazzu\ E’ festa di  rriali e lampadini!\ Cu mancia, bbivi ...\ma cu penza  addi mischini\ ca mòrinu ddafora ‘ammenzo ièlu” (pag. 26 ). Il poeta, come si può constatare,  con versi pregnanti non solo rivela come il Natale si sia ormai trasformato nella festa dello spreco, del consumismo, ma mette anche in evidenza la divergenza tra lo spreco di alcuni e la miseria di altri per cui l’amore sembra che sia qualcosa scritta solo nei Vangeli, qualcosa di cui ci si limita a parlare, ma che in verità nessuno sa mettere realmente in pratica. Nel sonetto “Lu jornu di lu ggiudizziu” ( pag. 21), la tematica religiosa è connessa nello stesso tempo alla tematica esistenziale e sociale , infatti Pappalardo immaginando di essere morto e di essere andato al cospetto di Dio, attraverso le parole di quest’ultimo,rivela ancora la vanità dei beni terreni e l’importanza di una vita trascorsa all’insegna della pace e dell’amore .

Anche la tradizione del teatro dei pupi, connessa al diffondersi in Italia, nel dodicesimo-tredicesimo secolo dei poemi del ciclo carolingio, diventa motivo di considerazioni etico-morali e di denunzia della sofferenza, della morte  e della distruzione che la guerra causa “La guerra”, scrive infatti il nostro Pippo, “servi a supraniari\...\ Ne odiu ne guerra: u munnu mori, si mori l’amuri” (pag. 37). Insomma molte liriche assumono per il lettore, quasi una valenza didattico-moralistica, sollecitandolo di fronte al fluire del tempo, di fronte all’ineludibile morte, all’amore come forza positiva che unica riesce a dare senso e significato alla vita,infatti “senza l’amuri” dice il poeta, “chi ci campu a fari?”.

La seconda sezione,come si è già rilevato,  contiene “ I sonetti du babbiu, ma anche qui pur ironizzando e sorridendo, P. non cessa di impartire insegnamenti, di far riflettere il lettore intorno a problematiche attuali; ad esempio, nel sonetto “La vurpi e la addina” (pag. 60) il poeta sollecita a  non fidarsi della gente scaltra, oppure nel sonetto “U itu rossu”, viene evidenziato, come, contrariamente a quanto ognuno di noi potrebbe credere, nessuno è necessario ed indispensabile, sicchè anche il pollice che dice alle altre dita della mano “Sugnu u cchiù grossu e m’at’a rrispittari..., un giorno, essendosi difettato, dovette riconoscere “ca nuddu ènicissariu”  e che “lu munnu gira sulu e non è mossu\ di cu si senti d’èssiri u vicàriu” (pag. 61), oppure con amara ironia affronta problemi commessi alla crisi economica attuale, come nel sonetto “L’euro” che fu daveru na sbintura! (pag. 51). Altrettanto succulenta è la poesia “Un casu difficili”, dove P. con saporita  ironia evidenzia la generale decadenza culturale e più ancora lo straniamento nel quale spesso oggi si vive e al quale spesso siamo indotti dal contesto per cui, non solo gli allievi che,pur trovandosi a scuola ,non riescono ad entrare in sintonia con il contesto in cui si trovano e, di conseguenza, pensano che Cesare sia una persona qualsiasi e non un personaggio storico di cui avevano pur parlato e discusso, ma persino il professore di fronte all’ignoranza che lo circonda, dimentica la storicità del personaggio e, alla fine “...parra sulu e si  cunforta: Talè ca l’assassinu è l’assissuri?” (pag. 50). Insomma “u babbiu” è più apparente che reale, perché anche in questa seconda sezione, l’autore riflette e fa riflettere spesso su problematiche attuali. Ne deriva un riso amaro, un ridere che è anche pianto e, se vogliamo fare riferimento all’umorismo pirandelliano diciamo che spesso non c’è solo l’avvertimento del contrario, tipico del comico, ma anche il sentimento del contrario che caratterizza l’umorismo, infatti come il nostro eminente narratore e drammaturgo, Pappalardo “babbiando” rivela, denunzia, ci induce ad un’amara  riflessione sui nostri tempi e sui problemi grandi e piccoli che li affliggono.

L’autore, quasi ad omaggiare J. DA LENTINI, considerato tradizionalmente l’inventore del sonetto, nella silloge adopera prevalentemente, tale struttura metrica, rispettando sia  la lunghezza del verso, tipica di tale struttura,ossia l’endecasillabo, sia  le rime spesso incrociate  o alternate nelle quartine, incatenate e chiuse nelle terzine. Particolare della versificazione di Pappalardo è invece l’intensa musicalità ottenuta non solo attraverso le rime, ma anche attraverso il ritmo,particolarmente marcato, grazie al cospicuo uso dell’ictus che spesso supera la tradizionale terna degli accenti principali, facendo entrare in gioco accenti secondari che accrescono la musicalità dei versi.

Per concludere P. Pappalardo, pur collegandosi a livello linguistico, metrico e tematico alla letteratura delle origini, riesce a dare voce ai nostri tempi e farci riflettere  sui problemi che caratterizzano la società di oggi.

 

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Filippo Solito Margani - Narrativa - RC multigrafica

Care ombre perdute

[ L'immagine proposta non è la copertina del libro, ma un'immagine rappresentativa reperita in internet ] 

 

Care ombre perdute è il titolo dell’ultima fatica letteraria di Filippo Solito Margani e tale titolo è esplicativo del contenuto della stessa: memoria, ricordo, rievocazione, corroborata da attenta documentazione della storia dei suoi antenati.

Forse ognuno di noi, giunto ad una fase avanzata della vita è indotto a interrogarsi non solo sulla sua esistenza, ma anche sulle proprie radici, sulla propria provenienza,  quasi a voler dare circolarità perfetta alla dimensione temporale della propria vita.

Bergson, nell’evoluzione creatrice propone una concezione del tempo come “durata”, ossia come coesistenza in ognuno di noi di passato e di presente, o meglio noi siamo oggi, come il nostro passato ci ha plasmato, sicché quest’ultimo rivive nell’oggi attraverso il nostro agire e il nostro pensare.

Orbene tale consapevolezza è una delle ragioni che presumibilmente ha indotto il nostro Filippo ad andare indietro nel tempo, ad indagare il passato remoto della sua famiglia. Gli avi rivivono in noi sia geneticamente, sia dal punto di vista etico-morale, attraverso i valori che hanno fatto propri e ci hanno tramandato, rendendoci ciò che siamo e non altri. Ma al di là di ogni motivazione filosofica o scientifica, che qualsiasi lettore dotato di atteggiamento critico-riflessivo, può avanzare intorno alle ragioni che possano avere indotto l’autore a questa rievocazione memoriale, è vero che  Solito sente un legame spirituale, religioso, direi occulto ed arcano con i suoi antenati, sì da avvertirne la presenza quasi fisica. D’altronde lo spiritismo è una componente importante della formazione culturale dell’autore, basta a tal riguardo leggere una delle sue recenti pubblicazioni, l’opera “Dieci racconti da salvare”, dove in molti racconti si concretizza con la presenza della magia, di maghi , di apparizioni di fantasmi. Lo spiritismo era molto in voga  a fine Ottocento, quando l’ottimismo scientista del Positivismo cominciava a cedere ad istanze diverse, interiori, profonde, espressione dell’incipit della crisi spirituale e  culturale  di quel tempo; oggi, in un vichiano ricorso storico, viviamo le stesse condizioni di incertezza, di crisi, causate dal venir meno dei valori tradizionali e dalla precarietà socio-economico, che la  globalizzazione ha determinato e F. Solito da artista sensibile e profondo quale egli è, sa coglierla e, nella documentata ricostruzione della storia dei suoi avi, non manca di porci anche di fronte a pagine di bella narrativa in cui gli antenati, imponendosi alla mente e al cuore nell’essenza dei valori che per lui hanno rappresentato, al punto da imporsi quali modelli di vita, acquistano concretezza fisica e colpiscono i suoi sensi con visioni, fruscìi, voci.

Così descrivendo la casa che suo padre aveva ereditato da Filippo Solito Aliota, medico chirurgo, il nostro omonimo Filippo, scrive a proposito della madre di quest’ultimo che “talvolta, come per un fenomeno occulto sentivamo ancora il fruscio della sua veste per il salotto damascato, quando era immerso nel buio. E non solo, la sera quando in soffitta studiava alla tenue luce di una lucerna, mentre l’olio stranamente crepitava, come mosso da un agente invisibile, nella zona d’ombra dei bauli e di un armadio enorme, mi parve di sentire una voce. Era come se lo zio Vincenzo (padre di Filippo, il medico chirurgo), fosse lì. Era una voce d’età matura, pacata, lenta, come se ne sentivano allora, come portata dal vento che scuoteva i vetri e  annunciava gelo”.

La presenza visivo-fonica dello zio Vincenzo e di sua madre diventa quindi, come si è già accennato, anche presenza di valenza etico-morale: l’amore filiale e coniugale, l’onestà la pietà e la solidarietà nei confronti degli umili e degli oppressi che hanno caratterizzato la loro esistenza, non solo sono diventati  per lo scrittore prassi di vita, ma egli nel riproporne il ricordo ne ripropone il modello anche alla società di oggi, che proprio nel venir meno di tali valori trova la matrice prima della crisi in cui è in atto avviluppata.

Ma al di là di ogni considerazione inseribile nel contesto della crisi sociale, economica e valoriale che stiamo vivendo, la presenza degli oltrepassati possiamo considerarla sia un topos, ossia una tematica frequente nella produzione letteraria del nostro scrittore, sia  soprattutto un’espressione di legame affettivo, di cultura e di civiltà.

Tempo fa, in uno dei nostri occasionali incontri, il dott. Solito mi disse  che per lui era un dovere da adempiere scrivere il presente volume. “Dovere”, quindi, è parola chiave, dietro la quale si  cela sia l’affetto e la riconoscenza del rampollo, sia l’importanza che viene attribuita al culto dei morti che a sua volta è insieme  un atto di  consapevolezza storico-civile, di fede religiosa e di pia illusione di poter continuare a comunicare con i cari estinti ed instaurare con loro, come recita Foscolo nei Sepolcri “una corrispondenza di amorosi sensi”. Infine, appare opportuno rilevare come la rievocazione dei propri  antenati diventa occasione per immergerci nella storia, per farci conoscere il contesto in cui da vivi essi agirono ed operarono, così si passa dai tempi di Pietro III d’Aragona, quando la famiglia Solito dalla Spagna venne per la prima volta in Sicilia sino al Secondo dopoguerra, gli anni Cinquanta, quando a Gela, la Terranova del passato, come altrove in Italia, insieme alla ricostruzione cominciò, come sostiene l’autore, “il sacco edilizio, la cementificazione selvaggia coadiuvata da losche figure di estortori, piombati come avvoltoi chissà da dove intorno al cemento e all’apertura di nuovi esercizi”, e, ahimè, anche la palazzina dei Solito-Aliotta cadde vittima della ricostruzione. Inutile le sollecitazioni rivolte all’onorevole Aldisio, non solo anche lui di Gela, ma salvato nella sua primissima infanzia dal dott. V. Solito. La casa venne espropriata per pubblica utilità  dal comune e poi distrutta. Scrive lo scrittore: “l’amena palazzina, da dove si erano librati i miei sogni e dove erano germinati i miei studi, il grano del futuro, tra pochi mesi sarebbe scomparsa” e quando fu abbattuta non volle vederla cadere a pezzi... “ma le picconate” le sentì tutti nel cuore.  Ai primi di gennaio del ’54, la famiglia Solito si trasferisce a Palermo  e qui il nostro caro scrittore  inizia una nuova vita che, intensamente  vissuta nella gioia e nel dolore, nei numerosi ed eterogenei accidenti ed eventi che l’esistenza gli ha riservato, come li riserva ad ognuno di noi, è giunta ad oggi, “momento storico di grande smarrimento” come scrive,  e  da  scrittore della storia della sua famiglia, ma soprattutto da uomo che attraverso gli insegnamenti dei suoi cari ha saputo valorizzare ogni momento della sua vita, bello o brutto che fosse, non gli resta che proporre “a tanta gente rassegnata che ciondola lungo i marciapiedi, afflitta nell’anima e rabbuiata nel volto” di fare propri quei valori che, come già è stato rilevato, prima di essere delle “sue care ombre perdute” furono e saranno sempre i principi su cui si fonda la civiltà.

 

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Ignazio Apolloni - Narrativa - Coppola Editore

Voyage autour de la femme

Voyage autour de la femme è il terzo della trilogia di epistolari dedicati da Ignazio Apolloni alle donne e all’amore. Precedono L’amour ne passe pas del 2006 e Lettres d’amour à moi meme del 2007.

Tutti hanno un titolo in francese, ma di tale scelta non ne sappiamo la ragione, anche se ci viene spontaneo avanzare qualche ipotesi: un omaggio a Prevert, il più grande poeta d’amore del secolo scorso? La musicalità avvolgente della lingua che ben si presta a connotare le tematiche in oggetto? Ipotesi, pure illazioni che spetta ad Ignazio confermare o smentire, per darci la vera chiave di lettura intorno all’uso del francese,come lingua prediletta per i titoli di tali opere.

L’amour ne passe pas è l’epistolario che segna l’incipit della serie, tale frase però non è solo un titolo,infatti a nostro avviso assume una valenza programmatica, è un’asserzione che diventa categoria morale dell’arte e della vita di Ignazio.

Che cosa, se non l’amore spinge l’artista alla vulcanica ed intensa attività letteraria? Che cosa, a promuovere e a rendere visibile, ancora di più rispetto a quando era in vita, la sua Vera se non l’amour che ne passe pas? Partendo da questi presupposti, ci attendiamo per il prossimo futuro un “Amour pour ma femme”,opera con la quale l’autore, tralasciando la frammentarietà necessariamente connessa alla pluralità delle destinatarie, trasformi l’epistolario in una sorta di monologo che “messa a nudo” l’anima del mittente, esplori e parli di questo intenso legame umano e culturale che ha legato e lega ancora lui e la sua donna.

Il romanzo epistolare ha avuto larga diffusione nel Settecento e nell’Ottocento, basta ricordare la Clarissa e la Pamela di Richardison, La nouvelle Eloise di Rousseau, o ancora I legami pericolosi di Laclos, o I dolori del giovane Welter di Ghoethe e Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo, per poi scendere giù sino al tardo Ottocento ed arrivare ad O. Wilde con il Deprofundis ed a Stoker con Dracula e, per tornare nell’alveo nostrano, a Verga con la Storia di una capinera, o con racconti, come Fantasticheria. Se non vogliamo limitarci a parlare dei secoli di maggiore fioritura, possiamo aggiungere che l’epistola, almeno sino ai tempi di Platone era un genere praticato in ambito filosofico; in epoca ellenistica furono pubblicate le lettere di A.

Magno e anche Epicuro affidò la divulgazione di gran parte del suo pensiero alla forma epistolare,inoltre nelle scuole di retorica, oltre all’oratoria veniva insegnata la epistolografia. La letteratura latina ebbe un ampia presenza di tale genere, basta ricordare le epistole di Cicerone,di Orazio,di Ovidio, di Seneca,di Plinio il giovane, per arrivare a quelle di età tardo-antica di Simmaco.

Nel Novecento e in questo incipit del nuovo millennio, continua la fortuna del genere, a cominciare da Kafka con la sua Lettera al padre e poi Piovene, Lettera di una novizia; Malerba,Le lettere di Ottavia, Arbasino e il suo racconto epistolare Anonimo lombardo; negli anni settanta N. Ginzburg pubblica Caro Michele e La città e la casa :due storie affini caratterizzate dall’assenza di figure maschili in grado di ricoprire il ruolo paterno e dal disfacimento del senso della famiglia,mentre O. Fallaci Con la lettera a un bambino mai nato, propone il travaglio di una donna di fronte ad una maternità inaspettata. Un caso a sé è A. Moravia che negli anni compresi tra il 75 e l’81, in qualità di corrispondente del Corriere della sera pubblica le sue”corrispondenze”, in pratica delle lettere, con il titolo Lettere dal Sahara. All’alba del nuovo millennio viene pubblicato da Tabucchi il romanzo “Si sta facendo sempre più tardi”: una rielaborazione concettuale del tema epistolare come voce dell’interiorità, della riflessione; completiamo questo veloce ed incompleto excursus con la citazione delle attualissime corrispondenze di Tiziano Terzani che con le sue Lettere contro la guerra ci descrive cosa avviene in Afganistan e come vive e cosa pensa la gente del luogo; infine, a buon diritto, rientra in questa rapida elencazione la suddetta trilogia del nostro Ignazio Apolloni, intellettuale poliedrico dotato di una formazione culturale varia ed approfondita,capace di spaziare in ambiti diversi,idonea a scrivere e a discettare sulle tematiche più eterogenee. D’altronde la singlosia esige l’ interartisticità, anzi è meglio dire l’interculturalità visto che essa non prescinde da altri ambiti dello scibile che abitualmente artistici non vengono considerati.

 La narrazione epistolare di solito si costruisce o attraverso lo scambio di lettere di più personaggi o attraverso le lettere del solo protagonista-emittente. Nel primo caso, si ha una molteplicità di punti di vista: un stessa persona può essere descritta da angolature diverse, a seconda del carattere o della disposizione psicologica di chi scrive la lettera; nel secondo caso la lettera tende a diventare un diario intimo,infatti il destinatario si riduce ad entità del tutto convenzionale ed il testo non è che un monologo del protagonista che parla solo a se stesso. Comunque, in entrambi i casi, la narrazione è di fatto al presente ed i narratori sono gli stessi personaggi che raccontano le loro vicende o descrivono i loro sentimenti nel momento in cui li vivono o li hanno vissuti; il futuro è ancora sconosciuto e perciò del tutto aperto. Ciò favorisce l’immediatezza drammatica e consente di seguire nel suo farsi lo stato d’animo dei personaggi-narratori.

Esempi della seconda forma di scrittura epistolare sono i già citati, Dolori del giovane Werther di Goethe e Le ultime lettere di J. Ortis di Foscolo; entrambi sono ascrivibili al sottogenere del romanzo perché attraverso lettere narrano una storia d’amore e i relativi sentimenti, emozioni, fatti che tali amori accompagnano, inoltre ci immergono nel contesto storico-culturale dell’epoca in cui gli eventi avvengono e, alla fine, quel particolare contesto è l’elemento condizionante il rapporto amoroso: né Werther, né Jacopo riescono a sposare le donne amate perché entrambi sono degli spiantati non adeguatamente inseriti nel loro contesto. Gli epistolari di I. Apolloni non raccontano una sola storia d’amore,ma tante, una per ogni destinataria delle lettere,ognuna con una sua specificità,derivante non solo dalla diversa vicenda e dalle diverse personalità delle donne, ma anche dal diverso tipo di amore che il mittente vive per ognuna di loro. D’altra parte il vario modo di amarle è strettamente connesso alla diversità dei loro interessi,al diverso modo in cui ognuna di esse vive la propria femminilità.

Non solum sed etiam, le donne a cui scrive sono morte, quindi trattasi di amori persistenti,nonostante l’assenza della fisicità, quindi quest’ultima è qualcosa a cui il mittente-narratore-autore non è affatto interessato, l’attenzione nei loro confronti non è insomma sollecitata dall’eros. Ciò che conta è l’ idea, il valore o il disvalore che ogni donna incarna, la fantasia che lei desta: sono tali elementi “gli oggetti del desiderio”e, proprio perché trattasi di un interesse del tutto astratto,di un amore,potremmo dire, intellettuale, il mittente può rivolgersi a donne morte, che hanno già vissuto la loro storia e di conseguenza non essere, come nei due romanzi suddetti, anche protagonista,ma narratore esterno che intervista, che propone nelle sue domande-indagine l’esplicazione tutta intellettuale del suo amore, della sua curiositas. Forse è reale ciò che realmente è? No, è reale nel bene o nel male ciò che si lascia, l’eredità del nostro agire, qualunque sia l’ambito nel quale lo abbiamo esplicato: è questo che diventa imperituro,destinato ad esserci “finché il sole illuminerà la terra” si può dire, parafrasando la conclusione dei foscoliani Sepolcri, se l’artista darà ad essi voce. Ignazio esplica attraverso i suoi epistolari tale funzione eternatrice e contribuisce ad accrescerla non solo nei confronti delle già famose destinatarie, ma anche nei confronti di se stesso, quindi emittente e destinatarie trovano l’uno nell’esserci, le altre nell’esserci state la ragione che li consegna al futuro. Il “dasein”,ossia l’esserci a cui ci si riferisce però non è quello heideggeriano che, pur nella sua intenzionalità e nel suo trascendere, rinvia comunque alla consapevolezza della morte e perciò all’angoscia,ma l’impegno di Sartre che implica il superamento della nausea,dello smarrimento dell’uomo di fronte alla gratuità dell’esistere e il sorgere di un nuovo umanesimo, cioè di una nuova valorizzazione dell’uomo, attribuendo a lui ogni potere di determinazione. Di conseguenza,è l’esplicazione di tale potere che Ignazio indaga e vuole conoscere; Il mistero che la donna racchiude in sé nel donarsi o rifiutarsi attraverso l’amore, il desiderio di comprendere appieno e penetrare nella poliedrica sensibilità e nelle ragioni che determinano il suo agire nel mondo e nella vita, sono forse le ragioni inconsce che lo spingono a questa esplorazione che possiamo anche definire espressione inesauribile di amore nei confronti della donna, infatti dedicare tante opere all’altra metà del cielo non può essere altro che manifestazione di amore che si rivela pur nell’assunzione di un atteggiamento talvolta giudicante e comunque non condividente. Ma viene anche spontaneo chiedersi se la condizione di non completezza che l’essere maschio o femmina comunque determina,non sia la ragione che guidi lo scrittore ad interrogare ed ad interrogarsi, a condividere o disapprovare percorsi di vita di tante già rinomate donne, quindi chiedersi se sostanzialmente non sia l ’amore di sé (e, non a caso il secondo volume si titola “Lettres d’amour à moi meme”), il desiderio di completezza che, attraverso la narrazione epistolare cerca di carpire, fagocitare ciò che ancora gli manca per sentirsi totalmente pieno, totalmente “habere e non haberi”. Certo molto manca, per fortuna, in Ignazio del decadente esteta superomista di dannunziana memoria,ma sicuramente c’è in lui una egotistica insaziabile esigenza di pienezza di essere che lo induce a risvegliare le rinomate morte affinché attraverso esse, possa capire come mai la costola di Adamo sia così diversa dall’Adamo da cui pur deriva. Ma capire vuol dire conoscere e conoscere possedere e perciò pienezza di esserci,senza per questo snaturare la propria alterità e in genere la dualità che caratterizza i generi viventi.

Lo stile mobile, ironico, che non disdegna il citazionismo, che mescola linguaggio medio-alto e linguaggio comune,legato al gergo della contemporaneità consumistica e globale, talvolta autoreferenziale, visto che il mittene ama anche commentarsi e interrogarsi,oltre che interrogare,contribuisce a rendere il Voyage autour de la femme, un’opera accattivante,che non può non destare l’interesse del lettore, destinatario reale di ogni forma di scrittura.


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Ignazio Apolloni - Romanzo - Edizioni Arianna

Siberia

Il titolo del romanzo  è di tipo verista, infatti non enuclea il tema, ma, come la maggior parte della narrativa di tale stagione letteraria è titolato con un nome proprio che, nello specifico, propone l’ambiente geografico in cui si svolgono gli eventi iniziali della vita della protagonista: la Siberia, luogo radice, o meglio di accoglienza della famiglia di Ella Jaffa.

Ad avvalorare l’importanza della Siberia e della cittadina di Duluth, residenza della famiglia di Ella, vi sono alcune fotografie che, poste alla fine del romanzo, sollecitano la tesi della presunta volontà dell’artista di rappresentare “la realtà così com’è”, proponendo visivamente i luoghi dove Ella è cresciuta.

E’ in tali luoghi freddi e fantastici, quasi magici (l’università della cittadina rassomiglia molto alla scuola di Harry Potter), dove la volontà realistica si fonde con il magico dell’ambiente naturale ed architettonico, che si forma la protagonista, in un ambiente familiare in cui la madre e il  fratello sono perfettamente inseriti nel contesto borghese che li circonda e nei suoi meccanismi socio-economici, mentre il padre medico, di religione anglicana, ma di ascendenza ebraica e proveniente dalla Russia, conserva in sé gli interessi filosofico-religiosi ed esistenziali che le sue origini, oltreché la sua cultura, gli impongono; inoltre, in qualità di medico, pratica una costante carità nei confronti degli Indiani della riserva Chippewa che va costantemente a curare.

E’ lui che plasma psicologicamente e culturalmente la figlia, con la quale s’intrattiene in lunghe discussioni, dalle quali emerge, sebbene in fieri, una personalità scettica, fortemente dubbiosa, più fiduciosa nella scienza che in risposte religiose ai grandi quesiti esistenziali che da sempre assillano l’uomo: “Chi siamo, da dove proveniamo, perché ci siamo?”

La persistente presenza di argomenti filosofici e scientifici rendono perplessi  intorno all’esatta definizione del sottogenere a cui ascrivere il romanzo.

La diegesi può infatti considerarsi funzionale al persistente ragionamento della protagonista e ciò induce a definire l’opera un romanzo filosofico, affine, per essere più chiari, ad alcuni della stessa tipologia dell’epoca illuminista, però Ella non insegna nulla, non propone nuove teorie, una nuova epistemologia, ma espone e dubita nella costante ricerca del quid che dia significazione. La giovane donna acquisisce tale forma-mentis anche grazie al suo professore di matematica, uomo colto ed affascinante che diviene, in virtù di tali pregi, anche colui che le fa conoscere per la prima volta il mondo  dell’eros, il coinvolgimento dei sensi, insomma, diviene il suo primo amante. A lui ne seguiranno tanti altri, infatti Ella fa del sesso il secondo, o meglio comprimario interesse della sua esistenza, ma anche l’eros non è per lei compimento di un processo, non è tangibile espressione di sentimento, ma puro soddisfacimento fisico sine voluptate animi, pur non mancando talvolta la considerazione del sesso come ricerca di amore. Alla fine, dopo aver vissuto anche un’esperienza lesbica, abbandona la possibilità di trovare attraverso l’erotismo l’amore, e quel fantasma “con cappuccio e velato il corpo con un lenzuolo bianco” (pag.65), che già ragazzina nell’apparire mentre conversava con il padre, si era impadronito di lei, alla fine prese il sopravvento  in  Ella che “si chiuse … in una costante e continua apoteosi di successi: non tanto nei risultati della scienza astronomica e astrofisica quanto nelle sue previsioni più avveniristiche” (pag.309). Così  la giovane perviene alla sua meta: l’insegnamento e la ricerca,  ed è grazie a questa che il padre, in occasione della sua ultima visita alla figlia, avrà l’opportunità di conoscere il gene ebraico da cui aveva avuto origine la sua famiglia.  

  In fondo il filosofare di Ella, le sue discettazioni scientifiche, così come le sue esperienze erotiche sono ricerca d’identità, desiderio di conoscersi e di seguire la propria meta e, qualunque sia la strada percorsa, tutta la fabula corre verso il conseguimento di tale obiettivo, pertanto non sembra errato definire l’opera, anche  un romanzo di formazione il cui intreccio espone una serie di peripezie, volute e vissute nella consapevole ricerca della propria identità.

Il termine peripezia ben si addice a definire la pluralità di città visitate, i numerosi uomini a cui si concede, non escluso un omosessuale e una lesbica, il suo continuo arrovellarsi su problematiche ontologiche e scientifiche; inoltre esso induce naturalmente a soffermarsi sulla definizione della struttura. Questa percorre pienamente la distinzione proppiana: situazione iniziale, rottura dell’ equilibrio, peripezie, conclusione; comunque, quest’ultima nel nostro caso, non riporta circolarmente alla situazione di partenza perché Ella non ritorna a casa di suo padre, ma è lui che, dopo essere andato a trovarla insieme alla moglie, torna a Doluth, “deluso di non essere riuscito a portarla indietro, la sua creatura” (pag.310), ma consapevole che sua figlia sarebbe diventata la protagonista della nuova era nel campo delle ricerche astronomiche ed astrofisiche.

Il narratore esterno è abilissimo nello straniamento, perciò focalizza appieno la personalità ambiziosa della protagonista, attraverso soliloqui, dai quali emergono la personalità e gli interessi della stessa; la narrazione eterodiegetica è  interrotta anche da altre pagine omodiegetiche, diaristiche o epistolari, che insieme ai dialoghi rendono lo stile  vario e vivace. La godibilità di quest’ultimo è ulteriormente avvalorata dalla fluidità della sintassi e dal lessico semplice e comune, se l’argomento proposto non esige la specificità linguistica.