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Raccolta di saggi di Alfredo Rienzi
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*

- Poesia

Simbolismo e medianità in Plumelia di L. Piccolo

  

da DEL QUI E DELL'ALTROVE

NELLA POESIA ITALIANA MODERNA E CONTEMPORANEA

Edizioni dell'Orso, Collana Studi e Ricerche, 2011, pagg. 39-65

 

 

L’impossibile comunicazione con le ombre. Simbolismo e medianità in Plumelia di Lucio Piccolo.

 

I.

Plumelia[1], l’ultima raccolta pubblicata in vita dal barone di Calanovella Lucio Piccolo, costituisce a suo modo un unicum nella poesia italiana del Novecento. Una presenza spesso sottovalutata – più ancora dell’intera opera del poeta siciliano – e non sufficientemente compresa, se non negli aspetti stilemici e più prettamente letterari.

La vicenda poetica di Lucio Piccolo, nato a Palermo nel 1901, ha conosciuto, nel mezzo secolo abbondante trascorso dai suoi esordi, alterne vicende. E, considerati alcuni aggettivi ricorrenti quali “originale”, “atipico”, “appartato”[2], è possibile che le valutazioni sulla sua opera continueranno ad accentrare attenzioni di varia coloritura o a marcare ancora quelle omissioni che sono state la principale moneta pagata dalla critica del secondo Novecento al poeta siciliano.

Non è questa la sede opportuna, sia per i limiti di spazio che per la specificità di questo scritto, per ripercorrere se non per cenni la biografia e le opere di Piccolo, dall’esordio tardivo[3] con Canti barocchi ed altre liriche (due anni dopo il famoso e quasi aneddotico invio nel 1954 a Montale della plaquette stampata in proprio “9 Liriche”), al “caso Piccolo” (più mondano che letterario, causato soprattutto dall’improvvisa celebrità del cugino Giuseppe Tomasi di Lampedusa per la pubblicazione postuma de Il Gattopardo nel 1958), fino alla morte, avvenuta nel 1967 nella villa baronale di Capo d’Orlando, oggi sede della Fondazione "Famiglia Piccolo di Calanovella". Dopo aver pubblicato, in una sostanziale indifferenza critica, la sua seconda raccolta, Gioco a nascondere, con Mondadori nel 1964 e Plumelia, nel 1967 con Scheiwiller, l’editore che ha curato anche l’opera postuma[4].

Ed anche lo sviluppo dell’arco critico può essere appena tratteggiato. Diciamo in estrema sintesi che, dopo le iniziali attenzioni al personaggio più che al poeta e la poca e cauta critica che ne ha accompagnato il breve percorso letterario, con la sua morte, avvenuta due anni dopo la pubblicazione di Plumelia, sull’opera e sulla figura di Lucio Piccolo è calata una lunga eclissi di attenzioni e di critica[5]. Durante la quale solo la meritoria tenacia di Vanni Scheiwiller e l’acutezza di pochi critici e studiosi,  tra i quali Vincenzo Consolo, Nicola Tedesco, Franco Pappalardo La Rosa, Bent Parodi di Belsito,  Giuseppe Amoroso, Sergio Palumbo[6], si è opposta al rischio di un definitivo oblio di colui a cui Antonio Pizzuto, nel prezioso epistolario[7], si rivolgeva come al « massimo poeta italiano del nostro tempo»[8], prevedendo per l’amico «… la sua gloria non sarà prossima; sorgerà come una splendida aurora quando i pesi massimi di oggi saranno tramontati»[9].  Il  panorama storico e culturale degli anni nei quali il Barone di Calanovella fu attivo, spiega piuttosto palesemente la difficoltà di un effettivo riconoscimento della sua poesia. Nello scontro tra l’ultimo neorealismo e la prima neoavanguardia il singolare impasto della poesia piccoliana, barocca e preziosa, rarefatta e metafisica, fu accolto con sospetto o, nella migliore ipotesi, con indifferenza. «Poesia fuori corrente se non contro-corrente»[10]. Chiarissima è a riguardo la ricostruzione di Natale Tedesco: «Tra il 1954 e il 1960, gli anni in cui appaiono le prime sillogi di versi di Lucio Piccolo, si esauriva il neorealismo, ma non veniva a mancare certo la necessità di collegarsi con la realtà e di comprendere il complesso rapporto che s’istituisce sempre tra questa e l’invenzione poetica. Solo che comprendere i modi via via nuovi e diversi in cui ciò avviene, risultava allora, nello specchio del discorso poetico di Piccolo, assai difficile per la critica militante del momento. Una critica che per una parte era infastidita dal lessico raro e da forme apparentemente antiquate, e per l’altra parte non capiva una figurazione poetica che poteva apparentarsi da ultimo all’esperienza dei pittori astratto-concreti contro cui si accaniva la parte più facile e piatta del quasi superato fronte neorealista di quegli anni»[11].  Tra i vari segni di nuova attenzione volta all’opera del poeta palermitano, che non è qui possibile considerare in dettaglio, appaiono particolarmente importanti, oltre alle riedizioni scheiwilleriane di tutte le raccolte poetiche[12], la pubblicazione del carteggio con Antonio Pizzuto[13] e l’inserimento di Piccolo nell’antologia dei Meridiani Mondadori, Poeti italiani del secondo Novecento - 1945-1995,  curata da Cucchi e Giovanardi[14].

 

Nella vita e nell’opera dell’autore di Canti barocchi, la maggior parte dei critici e degli studiosi ha rimarcato la presenza di influssi e riferimenti ad ambiti, aggettivati in modo spesso improprio ed aspecifico, versati in un calderone ad amalgamarsi in un minestrone dai sapori vari e spesso inconciliabili. Così si sono usati e abusati termini quali poesia «metafisica», «panpsichica», «esoterica», «magica», «alchemica», «onirica e visionaria», «astratta», «mistica», «trascendentale» eccetera, spesso con riferimento prevalente agli elementi biografici ed extratestuali.

Questo ventaglio lessicale, in modo particolare, è stato usato in merito allo specifico scenario dei componimenti di Plumelia. Non è casuale, di fronte a domini così intangibili, che Giovanardi glissi con un lapidario «Di tono minore appaiono le nove liriche riunite sotto il titolo di Plumelia»[15].

Occorrono, preliminarmente, alcuni chiarimenti e approfondimenti su alcuni aspetti della formazione umana, culturale e spirituale dello scrittore palermitano.

Dopo un’infanzia di cui il poeta ricorda «i timori, le nevrosi di una infantilità troppo fantastica e sensibile»[16] e  la giovinezza in una Palermo tutt’altro che estranea ai fermenti culturali che percorrevano l’Europa[17], il non ancora trentenne Lucio visse con la madre ed i due fratelli nella riservatezza della villa baronale di Capo d’Orlando, vero e proprio eremo della famiglia, oggi sede della Fondazione “Famiglia Piccolo”. «Un esilio volontario» - racconta Vincenzo Consolo[18] - «che i tre figli continuarono anche dopo la morte della madre, come legati da una sorta di tacito patto, e in cui svilupparono le naturali inclinazioni dei loro caratteri: Lucio, il più giovane, la letteratura e la poesia; Agata Giovanna, la floricoltura e Casimiro, il primogenito, la pittura, la fotografia e l’occultismo».

 

Se le influenze della madre, musicofila e donna colta e del cugino Giuseppe Tomasi di Lampedusa sono indubbie (e quest’ultime piuttosto note[19]), nella sua formazione intellettuale certamente ebbe un ruolo di primo piano il fratello maggiore Casimiro, personaggio ancora più singolare del già originale fratello. Ruolo ancora più evidente per quanto concerne gli interessi “esoterici”.

Il barone Casimiro Piccolo, di sette anni maggiore di Lucio, infatti, era cultore di “metapsichica” e di “occultismo”[20]. Riportano le biografie che da giovane aveva frequentato i cenacoli della Società Teosofica di Palermo ed era stato affiliato alla Massoneria, nell’epoca in cui, più di altre, questa non era impermeabile agli influssi di varie società e dottrine tradizionali ed esoteriche, da quelle gnostiche a quelle magico-teurgiche. Più che in altri campi, continuando una tradizione di famiglia, Casimiro era attratto dallo spiritismo e dai fenomeni medianici. Quando, già trentenne, Casimiro si trasferì con la famiglia a Capo d'Orlando, mantenne sempre contatti regolari col mondo iniziatico, studiando il pensiero della Blavatsky, fondatrice della Teosofia moderna e autrice di La Dottrina segreta, e dello spiritismo di Allan Kardec e continuò a Villa Piccolo le sue pratiche medianiche e di magia bianca e le letture delle riviste di metapsichica Luce ed ombra. Pioniere della fotografia, mosso dal desiderio di "impressionare le ombre dell'aldilà" si cimentò in curiosi esperimenti di occultismo e di fotografia, che crearono intorno alla sua persona un alone di magia e di mistero. Racconta Vincenzo Consolo[21]: «Ogni tanto appariva […] il barone Casimiro, bello fresco rasato ed elegante come dovesse uscire per qualche festa. Era invece, come mi rivelò una volta in gran confidenza, ch’egli dormiva di giorno e vegliava di notte, e nel tardo pomeriggio, quando s’alzava, faceva toilette perché più tardi sarebbe cominciata la sua grande avventura dell’attesa notturna delle apparenze, delle materializzazioni degli spiriti», anche di quelli dei suoi cani, ai quali dedicò un singolare cimitero[22].  La sua celebre collezione di acquarelli, composti tra il 1943 e il 1970, ritrae un mondo fiabesco di gnomi, fate, coboldi e, meno folkloristicamente di quanto siamo abituati da dire, di altri “spiriti elementari” o “spiriti di natura”. Questo picco di apparente ingenuità, questa stranezza, anche in rapporto alla visione più stereotipata della “seduta spiritica”, trova chiarimento nelle dottrine teosofiche di Madame Blavatsky e seguaci: «Come quasi tutte le entità astrali, essi  sono capaci di prendere a volontà una qualunque forma […] si può attribuire agli spiriti di natura un gran numero di “fenomeni fisici” delle sedute spiritiche»[23].

Il voler sepimentare negli apporti culturali le influenze letterarie, filosofiche, esoteriche – già di per sé arbitrario in molti casi - risulta praticamente impossibile per quanto riguarda i riferimenti dell’autore di Plumelia. Certamente fu lettore accanito ed onnivoro, poliglotta e coltissimo, ci dicono le biografie, che lucidano l’etichetta coniata da Montale nella prefazione a Canti barocchi e altre liriche, quella di “gran signore cosmopolita che nella sua solitudine di Capo d’Orlando ha letto tous les livres”. Eclettico di sicuro, ma altrettanto certamente, selettivo e raffinato. Queste pagine si moltiplicherebbero se mi lasciassi attrarre dal tentativo (stimolante, ma arduo e dispersivo per i fini che mi sono preposto) della ricognizione completa e della sistematizzazione delle varie eredità ed attitudini culturali. Opererò quindi una estrema selezione, ovviamente non imparziale.

Dopo l’esplicito riferimento alle pratiche occultistiche («non disdegnando le sedute spiritiche») la nota biografica nella riedizione di Plumelia. La Seta. Il raggio verde[24] appunta che «Lucio s’interessa di filosofia ed astronomia, di scienze matematiche ed esoteriche; parla correntemente spagnolo, francese, inglese: è attento conoscitore di letterature straniere e un formidabile lettore, di Thomas Mann in particolare, le cui opere consulta in tedesco senza bisogno di traduzione. Studia i classici greci e latini sui testi originali e recita a memoria i poemi omerici. Traduttore di poesie di Char, Hopkins, Yeats, Cummings, Moore, Carens, musicologo e compositore…». Nella prefazione al volume, Pietro Gibellini colloca nella biblioteca mentale del poeta, accanto a Marino e D’Annunzio, Baudelaire e – presenza particolarmente significativa – Swedemborg[25]. Nelle ascendenze letterarie è lunga la serie di autori citati da F. Pappalardo La Rosa in Lo specchio oscuro[26] mentre l’interessante saggio di Norma La Piana[27] accentra l’attenzione sui metafisici inglesi, da Henry Vaughan[28], che come il gemello Thomas, fu alchimista e studioso di testi ermetici, a John Donne e sul rapporto con Yeats. Nella biblioteca di Villa Piccolo, oggi curata dalla omonima Fondazione, tra i 2400 volumi superstiti, oltre a un vasto campionario di libri di letteratura spiccano, tra gli autori di filosofia Platone, Leibniz, Campanella oltre a testi di Evola, di Cabala, di filosofie orientali e trattati di magia.

Il carteggio[29] con William Butler Yeats, che citeremo ancora, oltre a testimoniare il fiuto e la competenza letteraria di Lucio Piccolo, che l’aveva scoperto prima del riconoscimento del Nobel, nel 1923, potrebbe rivelarsi di estremo interesse per chiarire alcuni aspetti ancora poco chiari della poetica e della weltanschauung del barone di Calanovella. Come Piccolo, anche Yeats era molto interessato al misticismo e allo spiritualismo, e partecipò alla sua prima seduta spiritica nel 1886. Il Nobel irlandese fu uno dei primi membri dell’Ordine Ermetico dell'Alba Dorata, società segreta inglese magico-iniziatica più nota come (Hermetic Order of the) Golden Dawn, dove fu personalità eminente, sia pure in contrasto con l'altro grande protagonista della Golden Dawn, quell’Aleister Crowley, importante e controversa figura dell’esoterismo del Novecento, il quale operò proprio in Sicilia a partire dal 1920 e fino all’espulsione decretata tre anni dopo da Mussolini[30]. Il magista inglese – figura tutt’altro che isolata nel panorama delle società segrete dell’epoca - si riuniva, infatti, con i suoi seguaci nella cosiddetta Abbazia di Thelema[31], come chiamava la casa isolata in località Santa Barbara, presso Cefalù, a non troppi  chilometri da Palermo.

 

 

II.

Date queste poche, ma necessarie e, se si vuole, parziali coordinate sull’autore di Plumelia, veniamo dunque alla silloge in questione, l’ultima opera di Piccolo, sia come pubblicazione che come concepimento e scrittura. Nel carteggio con Antonio Pizzuto, interlocutore privilegiato degli ultimi anni del poeta, sono numerosi i riferimenti alla silloge, che ne consentono l’esatta collocazione cronologica  e che, in parte, alludono all’intento e al progetto poetico. Nella Lettera del 19 Aprile 1965 c’è il primo accenno: «Lavoro intorno ad una Guida per salire al monte in ritmo larghissimo»[32], in quella del 5 Ottobre dello stesso anno auspica che «Forse, nel non lontano futuro, si pubblicherà presso l’ottimo Scheiwiller un volumetto assai smilzo: poche liriche in tutto 5 o 6 – di carattere “magico”. Spiego meglio, in cui la presenza invisibile è dominante»[33] («pochissime liriche spettrali o magiche», scriverà alcuni mesi più tardi[34]). Infine, nella Lettera del 3 Dicembre 1966, informa che «Dovrei ultimare Plumelia e spero farlo presto»[35]. Plumelia sarà pubblicata, infatti, nel 1967.

Tre titoli ci introdurranno ad una prima serie di osservazioni: Plumelia, titolo con cui la raccolta venne edita da Scheiwiller, quello con cui fu battezzata originariamente Ex voto per le anime in fiamma e Guida per salire al monte, che è quello del primo componimento.

Plumelia è una licenza del poeta: la plumeria è una pianta arbustiva o arboricola che deve il suo nome al viaggiatore Charles Plumier, chiamata volgarmente frangipani, ma nota in Sicilia come pomelia[36],[37]. Di origine tropicale, fu introdotta in Europa nel Settecento dagli inglesi ed ha trovato nel clima siciliano condizioni ideali: accolta nella seconda metà dell’Ottocento nell’antico Orto Botanico, nella Palermo d’inizio Novecento era diffusamente utilizzata a scopo ornamentale per i suoi fiori di diverse tinte (quella della lirica è «bianca e avorio»), che ricordano l’oleandro, e per il delicato profumo, dolce ed agrumato. Curiosamente, l’area palermitana è l'unica del Vecchio Continente dove riesce a crescere spontaneamente.

Originariamente la raccolta recava il ben più sferzante titolo di Ex voto per le anime in fiamma e consisteva in un unico carme votivo, poi ripartito nei nove componimenti di Plumelia. Chi sono le “anime in fiamma”? Quali relazioni si sottendono con le figure fantasmatiche che s’aggirano nei versi della silloge? Figlie dell’invenzione del poeta o anche delle notturne percezioni in Villa Piccolo?

Su queste domande torneremo più avanti.

Per ora ci limiteremo a notare che la scelta del titolo floreale possa apparire a prima vista un allineamento (una concessione? un ancoraggio?) agli stilemi e alle lussureggianti figurazioni barocche già riccamente esperite nelle opere precedenti, piuttosto che alla dominante tonalità notturna della raccolta. La composizione eponima, posta in conclusione, può apparire tra le meno scure ed a tratti discosta dal registro prevalente. Ma, a ben vedere, anche l’«arbusto…/ sul davanzale innanzi al monte» conosce la notte, anzi, proprio «nelle notti/ di polvere e calura/ ventosa» accende «smanie» (per la fiamma del fanale) e «furia sitibonda/ di raffica cui manca/ dono di pioggia», in una condizione di desiderio tutt’altro che pacificato. Bianca anima ardente anch’essa, offre con la sua metafora una via d’approccio al componimento tanto decisa quanto velata dalla dolcezza del fiore e tanto apparentemente rassicurante quanto, all’inverso, sarebbe stato inquietante il frontone istoriato per le anime in fiamma.

L’importanza dei titoli!

E veniamo allora a quello del primo testo di Plumelia, Guida per salire al monte. È il componimento più lungo ed articolato, che - scrive Pietro Gibellini - «dissimula, sotto l’apparenza di un seducente baedeker, l’invito a una vera e propria ascesi». Già dall’incipit «Così prendi il cammino del monte», il poeta siciliano, secondo Pappalardo La Rosa, «s’inventa un’alterità (un tu indeterminato, con cui finge un dialogo: in realtà il protagonista del componimento è un io che parla a se stesso)»[38]. Che questa alterità, già insita nel concetto stesso di “guida”, sia precisabile o meno, il titolo e l’incipit sono fortemente evocativi e suggeriscono una lettura indirizzata a decifrare l’esperienza narrata come metafora del “viaggio iniziatico”.

Ma, già che abbiamo pronunciato, tra intenzionali virgolette, la fatidica ed abusata formula – che recentemente sembra doversi utilizzare per ogni qual genere di esperienze umane, anche le più ordinarie – è necessario, prima di scendere dai titoli ai versi, chiarire in maniera sintetica cosa si debba intendere propriamente per “via iniziatica”. E, di conseguenza, enucleare dalla indistinta melassa dell’”esoterismo”, qualche definizione meno confusa.

 

 

III.

Il fine del percorso iniziatico è quello di raggiungere una condizione non descrivibile né comunicabile (sarebbe questo l’autentico segreto iniziatico), definita in svariati modi, che per sommatoria, possono quantomeno suggerircene un’idea: “illuminazione”, “realizzazione”, “reintegrazione”, “raggiungimento del Sé”, “Nirvana”, etc. Tale condizione può essere raggiunta per diverse vie e con svariati sistemi i quali, in Occidente (in senso culturale tradizionale) possono essere essenzialmente ricondotti ad una via mistica e ad una via iniziatica propriamente detta. In estrema (e inevitabilmente grezza e un po’ manichea) sintesi, la via mistica è passiva, “umida” secondo gli alchimisti. Il mistico «si limita a ricevere ciò che gli si presenta e come gli si presenta, senza che egli stesso c’entri per nulla»[39]. Invece, l’iniziato è colui che è stato avviato al cammino, ricevendo l’iniziazione da qualcun altro, in possesso di rituali e tradizionali discendenze, e percorre attivamente la via “secca” della propria ascesi, ne è l’artefice cosciente, ricorrendo a conoscenze destinate ai pochi, cioè ad un sapere esoterico. L’esoterismo accessibile, sul mero livello culturale, a molti non è più tale. L’esperienza iniziatica non ha nulla a che vedere con l’erudizione dottrinale.

Estremamente efficace, anche per il nostro caso Piccolo, è questo pensiero di René Guenon, a proposito della confusione tra l’iniziazione e il misticismo: «negli ambienti che hanno […] pretese iniziatiche ingiustificate, come quelli occultisti, si ha la tendenza a considerare come parte integrante del dominio dell’iniziazione [   ] una quantità di cose di un altro genere […], del tutto estranee […], e fra cui la magia [aggiungerei l’occultismo, lo spiritismo, la metapsichica e/o la parapsicologia, etc. – ndr] occupa il primo posto. [Tra] le ragioni di questo equivoco […] la prima è la tendenza dei moderni ad attribuire un’eccessiva importanza a tutto ciò che è fenomeni»[40] (quali ad esempio, la chiaroveggenza, la chiaroudenza e tutto il composito repertorio delle cosiddette facoltà paranormali e dei fenomeni extrasensoriali). Edward A. Tiryakian, con appropriata analogia, affermava che «la conoscenza esoterica sta alle pratiche occulte come il complesso delle nozioni della fisica teorica sta alle applicazioni dell’ingegneria», così che i tradizionalisti vedono nell’occultismo “pratico” e finalizzato al fenomenico una deviazione o una degenerazione dell’esoterismo “teorico” teso al supporto dell’iniziazione ed elevazione spirituale[41]. Dicotomia certo valida più sul piano concettuale che su quello pratico, dato che alcune discipline (come la magia, l’alchimia, l’astrologia, etc.) occupano entrambi i versanti, ma che si è via via resa significativa e necessaria con lo sbilanciarsi dell’interesse, spesso corrivo e morboso, verso il piano degli eventi, piuttosto che per quello delle cause e, platonicamente, delle Idee. Il Secolo Decimonono, è stato attraversato da molteplici correnti occultistiche. Ereditò l’onda anomala della taumaturgia mesmerica e il pullulare dei “circoli magnetici”[42] e lasciò al secolo venturo, il brulichio dei “circoli spiritici”.

E qui questo singhiozzante excursus ci riconduce alla Palermo del primo Novecento. Esplicite sono le parole di Bent Parodi di Belsito, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della regione Sicilia, imparentato con la famiglia Piccolo ed attuale Presidente della Fondazione Famiglia Piccolo di Calanovella: «Tutti si occupavano di fenomeni paranormali, dallo zio Raniero Alliata di Pietratagliata Lucio, Casimiro, e Agata Giovanna Piccolo. Gli albori erano stati alla fine dell’ottocento quando lo spiritismo di Allan Kardec si era rapidamente diffuso in tutti i circoli intellettuali d’Europa. La moda arriva anche in Sicilia e contagia gran parte degli aristocratici. I nobili siciliani cominciarono ad incontrarsi al circolo Bellini non più per giocare, quanto piuttosto per invocare gli spiriti e i fantasmi dei propri avi. […] Casimiro era uno spiritista appassionato quanto Raniero, ma se e differenziava per il maggiore interesse teorico e per la maggiore predilezione verso la magia bianca»[43].

  Fatte queste debite precisazioni, è ora da valutare se l’esperienza narrativa di Plumelia e, con essa, tratti di quella esistenziale del suo autore, possa essere ricondotta ad un ambito “esoterico” o“iniziatico” strictu sensu, ed eventualmente quale, tra quelli che abbiamo, in pillole, descritto. Oppure se tragga ispirazione e occasione dall’aura medianica e occultistica. A livello teorico, Lucio Piccolo conosceva l’uno e l’altra.

 

IV.

Si tratta, quindi, di scendere nella surrealtà dei nove frammenti della raccolta, di rintracciare, tra le ricercatezze dei singoli versi, quei selettivi “segni”, «significazioni di sogni, eventi», di ascoltare le «voci / smorzate all’orecchio», utili alla ricostruzione dell’universo interiore del barone di Calanovella.

Ripartiamo, quindi, da Guida per salire al monte.

La simbologia della montagna è propria di molte tradizioni e di ogni tempo. Le montagne sacre, dall’Olimpo al Tabor, dal Fuji al Meru, ospitano nelle mitologie e nelle religioni schiere di divinità. “Ascesa” e “ascesi” si intrecciano in abbracci metalinguistici. Il percorso di elevazione spirituale dell’uomo dalla base al vertice, dagli strati materici a quelli sottili dell’esistenza, richiama archetipi quasi universali e accomuna tradizioni tra loro distanti (o già distanti dalla Tradizione in senso guenoniano e perennialista). Impensabile - qui - addentrarsi di più in questa vastissima tematica, che ha ispirato, solo per restare nel campo delle Lettere e adiacenze, dopo l’icona dantesca, per fornire qualche esempio, il Monte Analogo di René Daumal, la Montagna sacra di Alejandro Jodorowsky.

La montagna richiama sul piano orizzontale il concetto esoterico di centro (il raggiungimento del quale realizza il compimento dei Piccoli Misteri) e sul piano verticale quello di axis mundi, lungo il quale è la strada dei Grandi Misteri.

L’uomo che, per diverse vie e versanti - tanti quanti sono i sistemi iniziatici, tutti accomunati dal lavoro attivo che richiede la salita - ha raggiunto la cima, non appartiene più totalmente alla Terra, che però ancora lo sostiene, e non appartiene ancora del tutto al Cielo, che già lo accoglie. Si fa simbolo vivente del ponte che unisce il Basso e l’Alto, e dell’arcobaleno, che ha lo stesso significato. Come, d’altro canto, i simboli costruttori dell’Arco e della Cupola, i cui punti più alti (chiave di volta nell’arco o vertice nella cupola), segnano la via di discesa dello spirituale nel materiale e viceversa.

 

Per chiudere questo breve accenno al simbolismo della salita al monte, conviene ancora riferire quanto, sia sul piano reale che su quello simbolico e metafisico, è di comune riscontro nell’esperienza dell’ascensione. Non pochi sono coloro, tra gli alpinisti, che praticano la montagna come esperienza spirituale e via di liberazione. Partendo dal basso della valle, dove l’aria è più spessa, i clangori del mondo si addensano, l’orizzonte (della coscienza) appiattito, l’uomo con fatica si eleva e si spoglia, in sintonia con l’ambiente circostante che via via si denuda, di ogni peso, di tutta la superflua zavorra materica[44]. Cerca anche l’abbandono dalle passioni che lo hanno agitano e distolto; impegna ogni sua energia, ogni sua volontà per l’unico obiettivo della vetta, dove la luce del sole arriva per prima e dura quando a fondovalle è già scuro. Sulla vetta – simbolo dell’Uno - ricompone la sua personalità dispersa nella molteplicità della realtà manifesta. Dalla cima, il fondovalle, che l’aveva accolto e nel quale aveva generato e coltivato il desiderio della risalita, appare ora come un abisso.

 

Quanto di tutto questo si ritrova nella «fantomale ascensione a M. Pellegrino», intonata, rievocata («dopo decenni e decenni – con tutto il mondo fantastico infantile che si agitava in me») e trasmutata poeticamente da Piccolo nel testo d’apertura di Plumelia?[45]

Alcuni elementi sembrano intonarsi alla rappresentazione di un viaggio iniziatico, ma altre atmosfere apportano coloriture variegate e talora contrastanti. Su un ideale sfondo campeggia la montagna del Purgatorio dantesco

Come promesso dal suggestivo primo verso, «Così prendi il cammino del monte»[46], il Piccolo mentore del viandante cui rivolge il testo, introduce sapienti suggerimenti e significative figure coerenti con la macrometafora del viaggio iniziatico o salvifico. Confida le condizioni per affrontare il viaggio, che devono essere preparate bene: occorre evitare le forze opposte e contrarie («quando non / sia giornata che tiri tramontana ai naviganti»), ingraziarsi – nelle forme del vento - qualche aiuto ultraterreno, («vento di mezzogiorno, / e allato ti sarà e ti farà leggero / compagno che non vedi»). Mette il suo assistito - sia esso compagno di escursione o anima purgante - sul percorso, indicandogli il punto l’accesso della via, la soglia dove il profano inizia a sacralizzarsi: «spiazzo dinnanzi e un fonte, e questo è l’imbocco/ della salita». Presenza non casuale, il «fonte» sembra alludere al rito battesimale, ai lavacri purificatori e preparatori. La prima prova iniziatica, il primo scenario di morte e rinascita, è sempre acquoreo ed uterino, e questa simbologia ci pare chiara, tale da non richiedere ulteriori spiegazioni. Ancora in perfetta sintonia con il dinamico scenario dell’elevazione spirituale sono gli avvertimenti circa le difficoltà che la “via stretta” riserva («l’acciottolato rurale / fa scivoloso il piede» e «sul pietrisco punge il cardo violetto»), i quali però non devono frenare nell’uomo il desiderio di giungere a quelle meraviglie empiree che a tratti, nubi permettendo, si svelano, si offrono a chi persevera: «ma guarda / sopra l’altura, è vicina, non la tocchi con una mano?». Al cercatore di sé il percorso offre segni sottili che confermano il cambiamento di stato («quando svolti alla terza [rampa] / intorno a te l’aria del monte come non altrove: / un liquore di fiori rupestri, d’antiche piogge e segreti».

Ma questa allegoria, resa con le preziosità cromatiche e le rarità lessicali tipiche del poeta palermitano, fin qui quasi troppo canonica, si complica e si affanna. La rigorosa solarità dell’ascesa comincia ad accogliere fiati oscuri che diventeranno dominanti. Il dubbio si sancisce di fronte alla capanna dell’eremita: santuario o prigione? «edicola o cella»?, «mattini / boschivi, anime di cortecce, veglie» o «enigmi di schioppo e lanterna»? Questa enigmatica presenza/assenza («chi mai lo vide?») mostra simboli esteriori («lanterna», «saio barba cappuccio») dell’Eremita dei Tarocchi, il IX Arcano Maggiore, ma non sembra averne lo stesso significato. La figura della carta coglie un vecchio esperto, che procede lento, ma costante, guidato dalla lanterna (velata dal mantello a dirne il possesso di una luce sempre cercata, ma mai totale), e dal bastone di canna di bambù. Una ricerca solitaria e serena, dedicata alla ricerca della Via. Quasi l’emblema stesso dell’iniziato lungo il suo percorso. L’eremita di Plumelia è invece un protagonista oscuro, scaturito da un «tarlo rovente», sospettato di «cercare nella forra oscura / il bulbo che alimenta la notte». Notte popolata da qualcosa che «ronfa, erra, sfiora». E che assale. Era dell’eremita o dell’io poetante la «solitudine trasparenza d’abisso?». Ormai i toni dell’escursione[47] o del pellegrinaggio votivo sul Monte Pellegrino o dell’ascensione metafisica, volgono a narrazione visionaria ed onirica: «questo / avvenne una volta», come erompendo nel limen tra sonno e veglia («nell’ora / che […] posa a ognuno la sabbia del sonno su le palpebre»). Presso la capanna dell’anacoreta non sta nessun saggio contemplativo, nessuna guida per salire al monte, nessun angelico custode dantesco. Ma, proiettate da «ruote di fuoco», si muovono sulle pareti di roccia, «l’ombre / dell’energumeno», «come di notturni avvoltoi in turbinio d’ali!». Chiaro che questo «energumeno» non è certo, come vorrebbe l’accezione invalsa nel parlato attuale, un soggetto violento o prepotente, bensì propriamente un ossesso, uno spiritato, un posseduto da spiriti maligni[48].

Di fatto, il presunto viaggio iniziatico pare improvvisamente volgersi, nel ricordo o nella vicenda narrata, in visione o in esperienza medianica.

Questo avviene nel corpo di Guida per la salita al monte, ma si proietta sull’intera silloge. L’attuale partizione in nove frammenti, con l’apparente cesura tra il primo lungo componimento, che pareva avviarsi con caratteri più esoterici che occultistici, si ricompone nell’omogeneità dei toni e delle atmosfere e sull’intera raccolta si stende un notturno movimento d’ombre e presenze intangibili.

  L’apparizione dell’ombra dell’energumeno è accompagnata da un repertorio igneo («tarlo rovente», «rosso devastatore dal manto», «fiamme paurose», «scintilla», «fiammata») nel quale non possono mancare, come in tutta la produzione piccoliana, morfemi dotti e desueti, quali «pirauste» e «lampiri»[49].

  Richiamando, quindi, le domande abbozzate all’inizio del presente paragrafo, chi o cosa è, o vuole rappresentare, quest’“anima in fiamma”? E le altre presenze che alitano nelle successive poesie di Plumelia? Il fratello poeta dello spiritista Casimiro Piccolo, articola testi di pura e calibrata fantasia o assorbe le suggestioni medianiche del suo cenacolo familiare? Fissa nella parola il baluginio onirico o visionario o coglie occasione in un vissuto ossimoricamente “reale”, per quanto, difficile da accettare alla luce – ed anche alla penombra – della ragione, come “realistico”? («certo non saranno che fole»).

Può essere istruttiva, circa le anime in fiamma, la lettera del carteggio Piccolo-Yeats datata 14 settembre 1920[50], nella quale il Nobel irlandese rispondeva al giovane barone siciliano: «Caro Signore, lei mi chiede che cosa intendo io con “condizione di fuoco” in Per Amica: ho preso il termine a prestito dagli scritti del platonista Henry More e si riferisce assunzione del Corpo Celestiale o Fiammeggiante. Stando alla sua descrizione, dopo la morte, l’anima risiede a lungo in un corpo aereo; cioè in una condizione che richiama il Purgatorio cattolico. Quando assume il corpo fiammeggiante entra in uno stato di beatitudine o riposo. Sinceramente vostro W.B. Yeats”. Verrebbe, però, da commentare che, secondo questa tesi, le anime “fiammeggianti”, più che dantescamente purganti, per le quali spendere voti o auspicare la risalita celeste, godono già della pace eterna, restituite al loro domicilio celeste. E questa condizione contrasta con le permeante atmosfera sofferta ed ectoplasmica, in cui si dibattono le presenze di Plumelia, che il poeta vede «nella chiesa, se scendo/ tre gradini, sopra lastre di tombe / dove non giunge l’esitare dei ceri», nelle tormentose sembianze di «anime in fuoco: / distorti volti, braccia / levate verso nuvole e colombe / […] vespertine / figure di brace e d’angoscia» (La strada fuori porta). 

Quanto, in effetti, le linee di confine tra filosofia e letteratura, tra esperienza e immaginazione, tra l’oggetto e l’io poetante siano solo tenui ed osmotiche, lo suggerisce un appunto in calce alla prima stesura dei testi che verranno poi a comporre Plumelia: «Riprendere il motivo delle anime – liberate dal canto quando i segni del libro si sciolgono in musica».[51]

Ma vediamo come si manifestano queste presenza nel prosieguo di Plumelia, raccolta considerata, dalla critica dominante, «di tono minore», il che non stupisce considerata la cripticità dei testi e – soprattutto -  la notevole distanza tra i vari “qui” prediletti dalla poesia del Novecento ed i richiami ad un “altrove” oscuro ed igneo, che Piccolo plasma gattopardescamente, come in un secolo non suo.

Più di altre analisi, è l’acribia critica di Franco Pappalardo La Rosa che ha scandagliato le zone d’ombra della terza raccolta di Piccolo, cogliendone l’atmosfera «onirica, nella quale un io-ombra [che] si muove come in un sogno o in trance, entra in sintonia, di continuo, con una moltitudine di ombre che lo spiano, che gli lanciano dei “segnali”, che vogliono “comunicare” con lui» e ripercorrendone il «leit-motiv del muto, accanito, reiterato tentativo, da parte del poeta, di violare il limen dell’aldilà e di instaurare un dialogo medianico con le ombre».[52]

 

Ne L’andito, anfratto umido e buio, il raggio di sole, che solo in alcune ore e stagioni (in un «tempo espiatorio»)  riesce a penetrare, «chiama la preghiera » e trasforma il luogo in «oratorio in fiamme»: la preghiera è sia il mezzo ausiliario per le anime intrappolate nel «limbo» («il sole / reclino richiama le preghiere», in L’andito), sia affido e richiesta nel momento del proprio sgomento («meglio pregare / a quest’ora», in Notturno).

Notturno, è un testo emblematico e oscuro. Nella lettera ad Antonio Pizzuto del 14 gennaio 1966  il Barone premette[53]: «La lirica […] ha bisogno quante altre mai di alcune spiegazioni che sarebbe – credo – impossibile sapere da essa stessa.  È rivolta, dopo decenni, ad una vecchia donna di servizio, superstiziosa di lotto e smorfie. Quando tutti i padroni, in casa, erano già morti rimase lei sola per un certo tempo,  ed una volta mi fu raccontato che essendosi alzata di notte per cercare un oggetto - lume a petrolio - questo le si spense 3 volte entrando in una stanza. Da questo fatto che attribuì agli spiriti ne trasse magnifici sviluppi per l’amato botteghino del lotto». L’Autore informa di aver voluto rievocare nei versi pure il mondo della «superstizione popolare», ma in termini niente affatto sminuitivi,  in quanto  «ultimissimo riflesso di antichissime credenze». Il brivido di una presenza ultraterrena percorre il testo dall’inizio alla fine: «qualcuno, un volto / subito svaporato nell’aria» ha soffiato sulla fiamma della candela, spegnendola: il (la) protagonista del racconto procede cautamente («tardo il passo»), schermando la fiammella con la mano, le stanze hanno «imbottiture / a finestre doppie che l’aria non giri», eppure il fatto inquietante si ripete per tre volte («due volte hai riacceso / il lume e due volte s’è spento all’entrare». L’immaginazione allertata («una veletta / un ventaglio di piume, una mano / che sfilò dal guanto, la falda / d’un portale che non sostenne il nastro?») e il brivido che ne nasce, vengono arginati dalla ragione («Ma non c’è nessuno»), ma è un pensiero debole e protettivo, perché, in realtà l’io poetico ammette «non bisogna / tentare il buio: rimemora, ha nostalgie, imprevisti / l’ombra e le ombre», teme che «quel che gioco / sembra di giorno fa vero / di notte» e certifica: «Parlottare fatuo nell’aria / o il buio che si cerca o sfioramenti / di matasse invisibili o altro / certo non saranno che fole / ma è vero che per tre volte / t’hanno soffiato sul lume al passare».

  Il discorso che procede, come illustra la Lettera a Pizzuto, «sul filo di una ironia più apparente che altro» corre, comunque, evidentemente sul confine multiplo tra affabulazione, memoria, fantasia onirica ed echi medianici. L’ambizione solare dell’ascesa al monte, già offuscata da ombre e fuochi notturni, volge qui – e manterrà questo tono per le restanti liriche di Plumelia – al versante opposto di una oscura medianità.  Infatti, le condizioni medianiche, i fenomeni “parafisici” riferiti nella pratica dello spiritismo sono situazioni in cui i partecipanti sono passivi. Quando il velo si apre ed il canale si dissigilla, come nei fenomeni mistici spontanei o indotti da qualche particolare stato coscienziale (e non cambierebbe se volessimo ancorarci ad una dimensione allucinatoria psichica, anziché visionaria e spirituale), si riceve passivamente ciò che si presenta e come si presenta. Viene descritto come in questi casi il contatto tra i due mondi, sensitivo e (ultra)sensibile, possa essere imprevedibile e con sviluppi inattesi, soprattutto se quest’ultimo è espressione non della teofania di regni “spirituali”, come nell’estasi mistica, ma dell’interazione tra il “corpo eterico o perispirito” del medium e gli “spiriti” (anime di defunti, residui larvali, entità fantasmatiche, spiriti elementali). Come l’iniziato compie attivamente il suo destino, così l’occultista, il medium in specie, subisce un destino altrui (o di altra parte di sé, laddove si teorizzi che ciò che si manifesta non proviene da fuori, ma dal suo stesso universo psichico, come sostiene la “metapsichica”, più modernamente nota, per approssimazione, come “parapsicologia”). Molto spesso questo destino ha coinciso con il concretarsi o lo slatentizzarsi di turbe psichiche o vari stati patologici[54].

Le atmosfere fosche, con le «bianche ombre» (I morti) e la tematica della comunicazione tra il “qui” ed un “altrove” limbico e purgatoriale ritornano nei  componimenti a seguire, in particolare ne Il messaggio perduto, ne I morti ed in Le tre figure.

Si ripete l’intrusione di un «qualcosa» di indefinibile: «tra veglia / e sonno qualcosa è sorta / che sapevamo forse dormendo: / gira fuso, rifolo vano, prendi / corpo di nulla» (Il messaggio perduto); «Un’ombra / / l’occhio che ancora luce quando tutto è spento» (I morti). Queste presenze spettrali non sono fissità, ma dotate di moto proprio, verrebbe da dire di vita propria: «s’allungò su la credenza / o nel cortile sotto la caldaia» (I morti); manifestano (o il poeta gli attribuisce) di desiderio di mostrarsi, di lasciare segni e messaggi: «il bestiame ha sentito / un poco s’agita e il gallo…[...] certo / dalla finestra  s’è sporto / un volto tutto solchi d’ulivo, tarlato / piega / la lampada, indaga / poi scende e su la soglia riappare il lume, ore è / [   ] sull’aia s’arresta, / dispare - / [   ] poi cade di nuovo il silenzio [   ] Nessuno/ dirà chi nel tempo del sonno / passò, che messaggio / trascorse ignorato e si sperse. » (Il messaggio perduto).

L’io poetico, come in Notturno, è combattuto tra l’incredulità – che cerca soccorso nel segno tangibile (le oscillazioni delle fiamme delle candele e delle lampade), nella condivisione dell’apparizione (il bestiame, il gallo, un cane che hanno sentore della presenza) – e la necessità di accettare l’accadimento, per non darsi del folle visionario. Si ripete «non c’è nessuno» durante l’apparizione in Notturno e constata, all’indomani di quella de Il messaggio perduto che nessuno è materialmente passato da lì, nessuno che potesse essere stato scambiato per il visitatore immateriale: «nel giorno / verdura non manca nell’orto / non s’è vista impronta fuggiasca di piede». Come a volersi convincere della straordinarietà di fatti incredibili ripete più volte: «ma è vero», che l’ombra ha soffiato sul lume, «certo», che ha mostrato il volto alla finestra.

In bilico tra reverenziale timore («non bisogna tentare il buio», Notturno) e fideistica confidenza («Male non fanno, che può / un flusso di memoria / senza muscoli e sangue?», I morti), le liriche sono comunque attraversate da un comune senso di inquietudine, «angoscia», «ansia […] improvvisa». «turbamento».

La comunicazione con questi messaggeri ignoti è un desiderio, forse reciproco, ma inattuato: così come l’eremita di Guida per salire al monte non mostra nemmeno se stesso, ma solo la sua ombra sulle pareti di roccia, gli altri «corpi di nulla» di Plumelia non riescono a lasciare nulla di loro («parlottare fatuo nell’aria»), se non il larvato mostrarsi («che può / un flusso di memoria / senza muscoli o sangue?») E il protagonista di Notturno sembra pienamente consapevole della criticità di questo confine: «i morti / non hanno cifre per i nostri tesori, / singulti hanno in noi, / […]  aneliti / d’angoscia verso un nodo di vita / incompreso». Così che «Nessuno/ dirà […] che messaggio / trascorse ignorato e si sperse».

Anche nella sesta lirica, Le tre figure, tornano, con le atmosfere notturne crepuscolari e notturne, visitatori innominati e fuggevoli. Questa volta attesi, come fantasmi della casa, apparizioni abituali: «Se l’aria scende ora più fresca / e più s’accende a ponente / è segno che tra breve tre figure / dietro le grate saliranno / la scaletta che porta alle campane / […] / si piegano sulla ringhiera e poi / dispaiono».

  Alcuni altri topos comuni meritano cenno.

  Già detto che l’ora delle epifanie è rigorosamente crepuscolare e notturna, ciò porta a corollario il ruolo scenografico di «lumi», «lanterne», «lampade», di «fiamme» che non sono solamente il mezzo per illuminare (fiocamente) l’ambiente, ma fungono da intermediari tra il mondo fisico e quello ultrafisico, che sulla rarefatta sostanza del fuoco riesce ancora ad avere azione, soffiando e spegnendo.

Un particolare ruolo giocano anche le luci di un mondo lontano, ma realissimo: in Notturno «in fondo alla strada sul mare / un bastimento che prende il largo / gira i suoi fuochi lontani», e ne Il messaggio perduto «l’onda / lontana e grave distorce la fiaccola di prua al peschereccio» come a rimarcare la distanza che separa il teatro onirico-spettrale delle stanze dalla realtà esteriore ulteriore e crescente, fotografata nel segno dell’ulteriore allontanamento. Ne L’Andito, con più serena lirica, «i velieri // virano scuri all’orizzonte // e voci di marina e di monte / s’estinguono disperse nel fulgore».

Correlata sia alla notte che a questo "effetto interno/esterno” di stanze e lontane marine, la dimensione della “soglia” è quella da cui ha scaturigine il mondo ectoplasmico di Plumelia. Ricordato che ne La strada fuori porta è ai «margini del giorno» che il poeta scende ella cripta della chiesa, mentre ne I morti, ne L’Andito e ne Le tre figure è tempo di «crepuscolo» o «tramonto» , «ore tarde» e «sole reclino», il confine da temporale si fa dimensionale già in Guida per salire al monte («l’ora […] del sonno» e viene fissata ne Il messaggio perduto «tra veglia / e sonno» e «nel tempo del sonno».  Con ciò fornendo un indizio forte, ma non probatorio, alla natura onirica, visionaria ed ipnagogica della irrealtà narrata da Piccolo. La soglia stessa, infatti, viene rievocata anche in altra accezione, apparentemente topografica, ma più simbolicamente suggestiva: è «al varcare della soglia» che, in Notturno, il lume ha dato lo svampo ed è ne Il messaggio perduto che «su la soglia / riappare il lume».

 

 

V.

Eccoci, dunque, a riordinare i capi di questa esposizione dalle molte intersezioni e dai diversi livelli di lettura. Sicuramente un mondo ricco ed articolato, affascinante ed inquietante, malinconico e un po’ sfuggente, quello che fa da sfondo alla vita ed alle opere di Lucio Piccolo e di Plumelia in particolare.

Un aristocratico appartato e coltissimo, poliglotta e conoscitore di tematiche esoteriche e sapienziali, un singolare fratello che s’appostava nelle notti aspettando gnomi ed elfi che, non riuscendo a fotografare, dipinse con riconosciuta originalità. La Villa-eremo solitaria a Capo d’Orlando e la frequentazione di circoli spiritici che a Palermo, come in buona parte d’Europa, erano proliferati dal tardo Ottocento.

Una assidua frequentazione della letteratura e della poesia, e con essa - sarebbe strano pensare il contrario - l’attitudine alla fantasia, all’invenzione, alla finzione. Certo: difficile, in poesia, distinguere il percepito dalla percezione, riconoscere l’ospite nascosto dalla maschera, sancire il rapporto tra l’io poetante e chissà quale andito del suo mondo. E ancora, l’osservazione dalla trasfigurazione, l’invenzione dalla descrizione, la vera finzione dalla falsa sincerità e via di questo passo.           Come finzione poetica e realtà si sovrappongano, in Plumelia, lo testimonia bene anche la Lettera ad Antonio Pizzuto del 16 Febbraio 1967[55]: «Io per ora sono in profonda accentuata solitudine […]  Più che mai in mezzo e in lotta  con le mie suggestioni svevo-aragonesi, nelle vecchissime cadenti case dove mi aggiro vero spettro – cercando di richiamare le ombre di Bianca, di Manfredi, di Macolda, di Alaimo da Lentini e delle innumerevoli prozie monache, le quali sembra abbiano il potere di apparire anche oggigiorno.[56]

Così uno degli aggettivi più usati per descrivere l’atmosfera di Plumelia è “onirica” e sono state attribuite a questa scrittura, varie ascendenze – più che appartenenze – a linee o modalità poetiche. Dalla “visionaria”, con affinità con i poeti visionari inglesi, Yeats, Rilke, Campana, alla “imagista”, con debiti verso Pound ed Eliot,[57] dalla “simbolista”, “metafisica”, “immaginifica”.[58]

Comunque sia, Plumelia rappresenta un unicum nella poesia italiana moderna e contemporanea, sia per la singolarità stilistica –  come tutta l’opera del poeta siciliano – sia, soprattutto, perché è l’unico reperto, assunto a buona visibilità, di narrazione poetica occultistica e medianica. La ispida veste iniziatica e sapienziale non appare che in stralci e, come molte volte è accaduto nella storia del pensiero esoterico il più eccitante vestiario magico-prodigioso ha finito per essere preferito[59].

Tra notturne attese di visitatori, evocazioni di spiriti, richiami all’esistente oltre la soglia della vita, se non “certo” e “vero” come dice il poeta (che d’altro lato scrive «Non mi ritenere visionario!» parlando dei “fantasmi d’animali”  che [qui] si sono visti[60]), appare almeno plausibile e possibile, che qualche “ombra”, qualche misterioso visitatore, sia transitato, a Capo d’Orlando. Forse confezionato con la intangibile sostanza dell’immaginazione o plasmato con la necessità letteraria della finzione. Forse abitando con la sua rarefatta materia l’esperienza e non solo fornendone un fantasioso abbrivio letterario.

 

 



[1] Plumelia, Scheiwiller, Milano, 1967. Nel saggio si farà riferimento al volume Plumelia. La seta. Il raggio verde e altre poesie., Scheiwiller, Milano, 2001 con Prefazione di Pietro Gibellini, in seguito “Plumelia”.

[2] Nell’antologia mondadoriana del 1996 Poeti italiani del secondo Novecento 1945-1995, curata da M. Cucchi e S. Giovanardi, Lucio Piccolo è compreso nella sezione Quattro percorsi appartati; molto efficace mi pare la definizione di Pietro Gibellini «fuori corrente se non contro-corrente » (nella Prefazione di Plumelia, La seta, Il raggio verde e altre poesie, Scheiwiller, Milano, 2001)

[3] Avvenuto nel 1956 con Canti barocchi e altre liriche, cui è seguito nel 1960 Gioco a nascondere e nel 1967 Plumelia.

[4] Scheiwiller ha pubblicato entrambe le raccolta postume di L. Piccolo: La seta e altre poesie inedite e sparse (1984) e Il raggio verde e altre poesie inedite (1993), oltre alle prose di L’esequie della luna e altre prose inedite (1996), e nel 2001 ha riproposto l’intera opera poetica nei due volumi Canti barocchi e Gioco a nascondersi e Plumelia. La seta. Il raggio verde e altre poesie.

[5] Valga, ad esempio, l’esclusione dalle antologie Poeti Italiani del Novecento, curata da Mengaldo (Mondadori, 1978, 19902) e Poesia italiana contemporanea, curata da Raboni (Sansoni, 1981).

[6] Per la bibliografia critica si veda quella, molto dettagliata, curata dallo stesso S. Palumbo nella riedizione di Plumelia (…) e altre poesie, Scheiwiller, 2001 e le citazioni della riedizione di Lo specchio oscuro. Piccolo-Cattafi-Ripellino di F. Pappalardo La Rosa, Ed. del’Orso, 2004 (in seguito “Lo specchio oscuro”).

[7] Antonio Pizzuto – Lucio Piccolo, L’oboe e il clarino. Carteggio 1965-1969, (a cura di Alessandro Fo e Antonio Pane), Scheiwiller, Milano, 2002.

[8] L’oboe e il clarino, op. cit., Lettera del 26.VIII.65,  p. 65.

[9] ibidem, Lettera del 19.V.65, p. 52.

[10] Pietro Gibellini, cfr. nota 1.

[11] Natale Tedesco, Lucio Piccolo, Pungitopo, 1986.

[12] cfr. nota 3.

[13] L’oboe e il clarino, op. cit.

[14] Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi (a cura di), Poeti italiani del secondo Novecento 1945-1995, Mondadori, Milano, 20014.

[15] M. Cucchi – S. Giovanardi, op. cit., p. 590.

[16] L’oboe e il clarino, op. cit., Lettera del 19 Aprile ‘965, p. 35.

[17] si ricordino ad esempio, i saggi di un altro palermitano, Girolamo Ragusa Moleti, che probabilmente per primo in Italia aveva affrontato l’opera di Baudelaire

[18] Vincenzo Consolo, Il barone magico in Le pietre di Pantalica, Mondadori, Milano 1988.

[19] Scrive Lucio Piccolo, nella Lettera ad Antonio Pizzuto del 14 Maggio 1965 (in L’oboe e il clarinetto, op. cit., p. 49): « Posso dirti intanto che mi sono costruito pietra su pietra. Per decenni con Lampedusa abbiamo macinato tutte le letterature e nulla facendo (per timidezza-superbia, il binomio consueto) timorosi di essere poi noi un giorno per l’intervento di Nèmesi criticati e sbeffeggiati. Non so poi quale sia stato l’utile e l’attivo di questo bilancio. Il primo a rompere il silenzio fui io – meglio tardi che mai!».

[20] «Era questo il problema che arrovellava Casimiro» - dice Vincenzo Consolo in Magia e ironia,in: Alchimie della visione. Casimiro Piccolo e il mondo magico dei Gattopardi, a cura di Michele Cometa, Mazzotta, 1998, p. 121 – «Trascriviamo [dell’occultismo] la più piana delle definizioni: "L'insieme di conoscenze e di pratiche (magia, spiritismo, metapsichica, teosofia, ecc.) aventi per oggetto energie o entità misteriose che si pretende esistano in natura, ma che sono tali da sfuggire alla normale indagine scientifica. […] Chiamare dunque quella pratica "scienza", è una contraddizione in termini; chiamarle "fede", le priva di consistenza. Si collocano esse, in effetti, e vivono in quella zona vaga, in quello spazio incerto dove finisce la scienza e non ha ancora inizio la fede. Lì è il punto del mistero».

[21] V. Consolo, op. cit.

[22] L’influenza delle tesi di Casimiro su Lucio Piccolo è testimoniata da quanto il poeta stesso afferma nella Lettera ad Antonio Pizzuto del 1 Maggio ‘965 (in L’oboe e il clarino, p. 56): «Non credo che degli animali tutto finisca e ciò con buona pace di Aristotele (o chi per lui) dei Tomisti, di Cartesio e di Melebranche. Nulla che è può cadere nell’astratto non essere [… ] si sono visti “fantasmi di animali”, e noi qui ne sappiamo qualche cosa – tutto sta a vedere cosa ci sia dentro queste immagini».

[23] Arthur E. Powell, Il corpo astrale e relativi fenomeni, Alaya, Bellaria (RN), 1996, p. 172-174

[24] Plumelia, op. cit., p. 113

[25] Emanuel Swedenborg (Stoccolma, 1688-1772) è stato uno scienziato, consigliere reale, filosofo, mistico e profeta visionario. Personaggio controverso – come sempre si dice in casi analoghi, quali ad esempio quello di Jacob Böhme – considerato da molti, tra cui Kant, un malato di mente, ha avuto significative influenze, oltre che su William Blake e sullo stesso Kant, su importanti scrittori e musicisti quali Goethe, Balzac, Baudelaire, Hugo, Coleridge, C. Patmore, Pound e Borges, Berlioz, Schoenberg, su filosofi quali Schelling, Herder, Bolaño, su Rudolf Steiner e C.G. Jung È considerato il precursore dello spiritismo, ed ancora oggi esistono Chiese esplicitamente ispirate alle sue idee.

[26] Lo specchio oscuro, op. cit., a pag. 20 e segg. ricorda i poeti barocchi spagnoli e inglesi, tra cui Donne e i metafisici, i simbolisti francesi, Yeats, Pound, Eliot, Rilke, tra gli italiani analizza in particolare Campana e Montale.

[27] Norma La Piana, Un “metafisico” siciliano di tradizione inglese: Lucio Piccolo, in Agorà, anno VI, a. II, Luglio-Settembre 2001, pp. 64-69.

[28] In Letteratura inglese, corpus di lezioni sulla letteratura inglese elaborato da Tomasi di Lampedusa negli anni 1953-54, incluso nell’edizione completa delle Opere di G. Tomasi di Lampedusa, pubblicata nel 1995 ne I Meridiani” di Mondadori, Milano, Mondadori, 1995) si riporta che nell’unico viaggio oltrefrontiera, in Inghilterra, Lucio Piccolo acquistò copia di Olor iscanus del poeta gallese, una raccolta di prose e poesie che, secondo Norma La Piana (op. cit.), potrebbe aver spinto il nobile siciliano ad approfondire le sue conoscenze in materia di esoterismo ed occultismo. Credo, tuttavia, che il contesto ambientale e familiare possa avere costituito uno stimolo più diretto e specifico. Cfr. note n. 20 e 22..

[29] A tutt’oggi (2009) ancora inedito, benché da diversi anni risulti “di prossima pubblicazione” presso Scheiwiller.

[30] Una versione personale dell'espulsione di Crowley dalla Sicilia è data da Leonardo Sciascia nel suo racconto Apocrifi sul caso Crowley.

[31] La “Legge di Thelema”, che recitava " Fai ciò che vuoi sarà tutta la legge, Amore è la legge, amore sotto la volontà", perché “le persone libere e colte, sentono per natura un istinto ed inclinazione che li spinge ad atti virtuosi, e li tiene lontani dal vizio, inteso come religione", non sembra proprio conformarsi alla morale di un satanista, quale comunemente è considerato Crowley.

[32] L’oboe e il clarino, op. cit., p. 33

[33] ibidem, p. 70

[34] ibidem, Lettera del 14 Gennaio ‘966, p. 79,

[35] ibidem, p. 118

[36] ribattendo ad Antonio Pizzuto (che osservava «tu scrivi “plumelia”; a Palermo le chiamavamo “pomelie” […], la tua parola mi ha reso dubbioso […] e neppure in una enciclopedia un amico di qui [Roma, ndr], richiestone da me, ha trovato l’uno o l’altro termine») Piccolo chiarisce, nella Lettera del 10 Marzo 1966:  «io ho sempre sentito dire a Palermo Plumelia. Ho interrogato proprio ora alcuni palermitani che mi hanno confermato questa pronunzia. Io credo che si tratti della solita deformazione popolare nostra, cioè l’r in l – inconsciamente raddolcendo per un miglior rendimento o imitazione dell’oggetto rappresentato».

[37] Si può riscontrare, nell’opera piccoliana, quasi in corrispondenza al repertorio “ornitologico” montaliano, un’ubiqua e coloratissima collezione “florilogica”: «crescenza», «dalie», «campanule», « il cardo violetto», solo per limitarci a Guida per salire al monte.

[38] F. Pappalardo La Rosa, Lo specchio oscuro, op. cit., p.. 35

[39] R. Guenon, Considerazioni sulla via iniziatica, Fratelli Melita Editori, Genova, 1987, p.. 31

[40] R. Guenon, op. cit., pag. 32

[41] cfr. A. D’Alonzo, L’Occultismo moderno tra Éliphas Lévi e Aleister Crowley, in Hiram, n. 1/2004, pp. 55-56

[42] Il medico viennese Franz Anton Mesmer (1734-1815), sviluppando le teorie del “magnetismo animale” del gesuita Padre Kircher, elaborò un sistema teorico e terapeutico di “magnetismo vitale”, mai validato scientificamente, ma che ha, in vario modo, avuto influenze sullo studio di diverse condizioni psichiche, quali l’ipnosi e il sonnambulismo. Durante le sedute “mesmeriche” venivano descritti nei pazienti, l’induzione di sintomi noti e allora ignoti, quali reazioni d’isterismo, convulsioni, trance, sonnambulismo accompagnato da fenomeni quali l’ipermnesia (conoscenza di fatti o ricordi ignoti allo stato cosciente) e la glossolalia ( parlata in lingue sconosciute), che potevano all’epoca apparire come “soprannaturali” e che tutt’ora non sono tutti di univoca interpretazione.

[43] Intervista di Cinzia Clavirella in Centonove, 8 giugno 2001, p. 30

[44] Quest’esperienza di spoliazione all’essenziale, di denudamento, può sembrare quasi antitetica all’anima celebrativa ed enfatica del Barocco, che non si staglia nella nudità del Romanico né si slancia con le fiammeggianti guglie del Gotico. Ma questa è una sommaria generalizzazione che non merita più di un modesto spazio in nota…

[45] L’oboe e il clarino, op. cit., Lettera del 10 Marzo ‘966, p. 96.

[46] Vincenzo Consolo, ne Il barone magico, op. cit., racconta di un incontro con il nobile siciliano: “gli occhi di Piccolo si appuntarono sui miei libri (vecchi libri che scovavo qua e là sulle bancarelle), ne lesse i titoli: [   ], Guida del monte Pellegrino, [   ]. Rise, guardò me, s’accorse che ero come contrariato, e si scusò. «Gli almanacchi, le guide, le storie locali, ah, sono pieni d’insospettabile poesia. Senta quest’attacco» aggiunse, aprendo la Guida del monte Pellegrino alla prima pagina; e si mise a leggere, con quella sua voce chiara: «Quando, mio caro lettore, ti trovi in quella grande pianura, alla quale i moderni diedero il nome di piazza del Campo, e che comunemente, da antichissimo tempo, si chiama Falde, gira lo sguardo a te attorno, e per quanto la tua vista si estende, di fronte, fino alle grandi prigioni, ed a sinistra fino al mare…». (Avrei ritrovato poi lo stesso attacco, la stessa cadenza, in Guida per salire al monte, inclusa in Plumelia: «Così prendi il cammino del monte: quando non / sia giornata che tiri tramontana ai naviganti, / ma dall’opposta banda dove i monti s’oscurano in gola / e sono venendo il tempo le pasque di granato e d’argento…».)

[47] Che il Monte Pellegrino – oggi Riserva Naturale – topos ispiratore di Guida per salire al monte, sia tradizionale meta di escursioni lo ricorda anche lo storico dell’arte Bernard Berenson che, in visita ai Tomasi di Lampedusa, annota in data 16 giugno 1953: «Ieri mattina a Palermo sono stato con Jana e Fabrizio Alliata e Fosco Maraini in cima al Monte Pellegrino. Veduta impareggiabile sulle montagne aspre fin giù sul mare che si estende a perdita d’occhio» (dalla tesi di laurea di Rosanna Rizzo Le biblioteche del Gattopardo -  Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari - Indirizzo bibliotecario dell’Univesità La Sapienza di Roma)

[48] da έν, in, ed νργουν, energia.

[49] l’immagine del «tramonto affocato», utilizzato per la prima volta in Oratorio di Valverde, nei Canti barocchi, assume in Piccolo valenza di «minaccia o ammonimento»; cfr. L’oboe e il clarino, op. cit., p. 36 (Lettera Vb, 19 Marzo 1965)

[50] N. Tedesco, in AA.VV., Introduzione agli Atti del Convegno nazionale su Lucio Piccolo; la figura e l’opera, Marina di Patti, Il Pungitopo, p. 9, citata anche in F. Pappalardo La Rosa, Il fuoco e la falena, op. cit. (ctrl), p. 118 e in N. La Piana, op. cit.

[51] F. Pappalardo La Rosa, Lo specchio oscuro, op. cit., p. 69

[52] ibidem, pp. 32-33

[53] L’oboe e il clarino, op. cit., p. 79-80 (Lettera XIa del 14 Gennaio 1966)

[54] cfr. M.T. La Vecchia, Antropologia paranormale. Fenomeni fisici e psichici straordinari, Edizioni Pontificia Università Gregoriana, Roma, 2002.

[55] L’oboe e il clarino, op. cit., p. 125, Lettera XVII.

[56] ibidem, op. cit., p.126: Le stesse, forse, che trlaucono nella sesta lirica di Plumelia, Le tre figure.

[57] N. La Piana, op. cit., p. 68

[58] M. Cucchi – S. Giovanardi, op. cit., pp. 589-591

[59] Una nitida eccezione è costituita dall’Arturo Onofri del ciclo lirico della Terrestrità del sole – altro unicum nella poesia del Novecento - nel quale la riflessione filosofico-teorica e l’intento simbolico/simbolista restano assolutamente prevalenti.

[60] L’oboe e il clarino, op. cit., Lettera del 11 Maggio ‘965, p. 56.

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- Poesia

Su In che luce cadranno di Gabriele Galloni

Gabriele Galloni, In che luce cadranno, RPlibri, 2018, Introduzione di Antonio Bux

 

Chi o cosa sono i morti di In che luce cadranno, seconda raccolta di Gabriele Galloni, classe 1995, edita nel gennaio 2018 per RPlibri nella collana L’anello di Möbius, Sezione diretta da Antonio Bux.

Titolo intrinsecamente interrogativo, che introduce la serie di contraddizioni di un racconto in versi, per tessere e lampi, già che la destinazione canonica del viaggio e dell’esistenza oltre soglia (premesso che non pare rappresentarsi qui alcuna soglia) porta a cadere nell’abisso, nell’ombra ipogea o, in forse auspicata alternativa, a salire in qualche alta e somma luce etterna.

Nella sequenze cerimoniali descritte da Van Gennep, nel suo fondamentale I riti di passaggio (1909), ancor oggi utilizzate come impalcatura teorica negli studi di moderna antropologia, anche il rito estremo del distacco, come ogni altro rito di passaggio, consta di aspetti:

- preliminari o di separazione, che agevolano il distacco dell'individuo dalla situazione preesistente e che nello specifico sono coincidenti con l’annuncio della morte;

- liminari o di margine rappresentati in forma attenuata dalla veglia funebre, dalla permanenza del cadavere e che in forma più complessa si evolvono nel lutto per i viventi, mentre il territorio di confine del defunto è quello del “cammino del morto”;

- postliminari o di aggregazione consistenti nella rimozione del lutto per i parenti del morto e nell’aggregazione del defunto al mondo dei morti. Si tratta di aspetti rituali che introducono alla nuova condizione esistenziale: i vivi con i vivi, i defunti con i defunti.

Succede però che nella originale e concretissima surrealtà di In che luce cadranno, volendo adottare lo schema tratteggiato, per quanto non perfettamente calzante, Galloni esplora con versi radi e incisivi una fase post-postliminare, dove la comunità dei morti pare ormai da tempo (ri)costituita, dove anzi sembra che essa sia tale da sempre, quasi fosse nata altra rispetto a quella dei vivi, ma non del tutto ulteriore, né opposta, semplicemente altra.

Che questa raccolta proponga, oltre a ben precise scelte stilistiche, su cui ritornerò, un sentimento o una speculazione o entrambe sul rapporto universale tra essere vivi ed essere altro pare chiaro; quali ne siano le fondamenta è meno semplice da dirsi. Si noti bene: si parla di morti, ma non di morte, vista di qua o di là dalla soglia. La separazione e il margine non sono oggetto di osservazione. Troviamo i morti come tali, tanto che viene da chiedersi chi siano davvero e se e quanto siano accomunabili ai defunti del nostro immaginario.

Questi morti non vivono in una realtà aumentata: sono anzi spesso descritti in minus, impacciati, incompleti ed agiscono con tutte le finitezze dei viventi, come cloni di dubbia riuscita (vanno in cerca di riposo, hanno la febbre, masticano e hanno necessità fisiologiche – il poeta è più diretto! -, si filmano a vicenda, si danno soprannomi, ridono, si sposano, si separano, sognano ecc).

Non sanno nulla più dei vivi, non riscuotono i canonici premi dell’aldilà, che è poi un aldiquà (e “continuano a porsi/ le stesse domande dei vivi”) né scontano pene se son quelle vivissime dell’esistere e dell’essere in attesa, ancora, di un’altra esistenza o di un’ulteriore morte (“Ho conosciuto un uomo che leggeva/ la mano ai morti. […] prediceva loro/ le coordinate per un’altra vita.”; “il più piccolo […] sgozzalo […] e seppelliscilo”). Sono tratteggiati quasi come autistici “sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile/ della conversazione”; “faticano/ a rispondere a tutte le domande/ che gli vengono fatte”; “Ci diranno zero”; “recitano […] i classici” ma “Li stravolgono con varie/ amenità: li narrano al contrario”; “Il lessico dei morti/ è la metà del nostro” e il rapporto tra loro ed i vivi è variegato e mutevole, neutro o straniante, risultandone un modus complessivo indecifrabile: “tentano di consolarci”; “Si parlava dei morti”; “un uomo/ leggeva la mano ai morti”; “rientreranno nudi nelle/ loro città. Li vestiremo…”; “Li vedi; non ti vedono. Li chiami/ e non ti sentono”.

Una governata aura di surrealtà e di paradosso strania diversi brani: “Ai morti si assottiglia il naso. Quando/ li sogni se lo coprono”; “Tra i sette morti tu scegli il più piccolo/ conducilo a passeggio e infine sgozzalo./ Avverti i suoi fratelli e seppelliscilo.”; ” Così un giorno, per caso,/ i morti costruirono/ il primo cimitero sotto il mare./ Se ne dimenticarono/ in un tuffo soltanto.”, ma di tanto in tanto (il sublime non ama il numero e la quantità) riverberano toni elevati, perché aldilà della veste scelta, il tema è elevato: “Ma stanne certo: un giorno tornerà/ alla vita e avrà voce di Creatore.”

Galloni utilizza uno stile compiuto, ma essenziale. Realizza testi brevi, dove prevale l’endecasillabo, spesso sdrucciolo e con enjambements, talora intervallato da settenari. “Ritmo figlio della grande tradizione lirica” osserva puntualmente Antonio Bux nell’Introduzione. Composizioni “scarnificate” aggiunge Bux e Anna Maria Curci, in una recensione sul sito poetarumsilva, rimarca “con la sapienza del sottrarre”. Ogni verso, ogni immagine finisce per assumere penetranza notevole, efficacia e una straniata singolarità, né facile né casuale. Nell’attingere a qualche citazione esemplificativa, come ho fatto nelle righe precedenti, ogni verso avrebbe avuto un suo senso, una sua collocazione. Si nota in molti componimenti un ultimo verso staccato, quasi a catalizzare il componimento, ma al tempo stesso a stroncarne uno slargamento nell’inessenziale.

Che questa raccolta del già prolifico giovane poeta romano possa restare piantata come un menhir nel suo percorso creativo è ipotesi concreta. Certamente è un’opera che colpisce per l’omogeneità, di tema e stile, per l’incisività e l’originalità.

E perché, compiendo le intenzioni dell’autore, possiede “il perimetro di una stanza ma la capienza degli oceani”.

 

Alfredo Rienzi,

Ottobre 2018

 

 

I morti – loro, l’ultima

didascalia del mondo

conosciuto – in colloquio

fitto tra un buio di falò e la resina

 

delle pinete a mare.

 

(pag. 12)

 

 

 

Lecito chiedersi come resuscitino

i morti e quale voce verrà data loro

in dono. E quale lingua e che corpo.

 

I morti hanno la febbre. Non è tempo.

 

(pag. 18)

 

 

 

Un corpo morto non è abbandonato.

Ignora – è verità – le altre creature;

ignora i diktat dell’eternità.

Ma stanne certo: un giorno tornerà

 

alla vita e avrà voce di Creatore.

 

(pag 20)

 

 

 

Il giardino dei morti è come l’Eden.

Come l’Eden ma non c’è alcun serpente.

Senza serpenti o voci tentatrici

tra le fronde degli alberi –

poiché un albero, lì, è solo radici.

 

Il giardino dei morti è come l’Eden.

Come l’Eden ma non c’è alcuna regola.

Nessun frutto inviolabile o cancello

di uscita; ogni mattina

vi razzolano il cane con l’agnello.

 

(pag. 31)

 

 

 

Ogni defunto è il santo

patrono di se stesso.

È un cero la sua chiesa;

e il suo altare il sesso

 

di un parente amorevole.

 

(pag. 37)

 

 

 

Se la madre dei morti è sempre polvere,

i morti cercano la loro madre

 

ogni sabato sera sulle spiagge

libere; sotto le sedie o nei gelati

 

caduti di mano ai ragazzini

in chissà quante estati, in chissà quanti

 

alberghi, marciapiedi, lungomari.

 

(pag. 45)

 

 

 

La musica dei morti è il contrappunto

dei passi sulla terra.

 

(pag. 46)

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- Poesia

Una lettura de L’opera in rosso di Massimo Morasso

Una lettura de L’opera in rosso di Massimo Morasso

(Passigli, 2017, pp. 104, con Presentazione di Giancarlo Pontiggia)

 

È la fase più ardua della Grande Opera, e la più sublime, quella al rosso. Simbolicamente il poeta-cercatore ha portato eroicamente a termine la nera catabasi e la bianca anabasi, scolpite mirabilmente anche nell’opera dantesca (non a caso evocata da Giancarlo Pontiggia nella Presentazione de L’opera in rosso di Massimo Morasso). Ora torna nella parola per testimoniare: «l’arte di scrivere/ è l’arte di pensare anche per gli altri» (p. 94). Non c’è compimento in sé, se non per testimoniare il proprio percorso «nel mezzo del mistero del vivente» (p. 17), nei limiti della dicibilità («senza saperlo esprimere io, il senso,/ per carenza di luce/ di nomi/ di divinità» (p. 87).

 

Ma una semplice preposizione da “al” a “in” rosso, mi fa supporre che quest’ottica, l’alchemica, non vuole essere la prevalente o l’esclusiva., Rossa è, infatti, anche la parola incandescente di passione, la parola – forse – conclusiva, oltre la quale sul piano tradizionale della luce (oscura-chiara-rossa) può solo collocarsi la luminosità incomunicabile che trascende l’esperienza della parola stessa:

«L’attimo, e subito dopo il suo dopo/ che ne rimbalza il fremito mortale/ eco di una bellezza che s’intuì/ prima di andarsene.// E la rivelazione che s’interna, torna/ illeggibile.» (p.41)

«ogni potenza, dentro,/ tenta di articolare la sua voce,/ e io trascrivo,/ ravvivo lontananze irriducibili in parole.» (p. 11)

 

Ritrovo, a conforto di queste mie osservazioni sul titolo, quelle analoghe di Marco Ercolani[1], in un bellissimo e precisissimo saggio, fortunatamente letto a chiusura di queste mie poche note, ché le avrebbe rese e, di fatto le rende, poco più che un sentito tributo.

 

Quest’opera «viene prima rispetto alle parole» (p. 77) che la compongono, nasce nel «respiro, e sangue, e tutto il resto» che rivelano al poeta se stesso, nel sondare «veementi ricordi»  e nel divenire di reminiscenze, (comprese «quelle da bimbo su uno scalino di rocce» «nella villetta primonovecento» di via Paleocapa), nelle aperture improvvise di senso («sorridendole sente la grazia/ la misteriosa compresenza/ di ogni vita», p. 99; L’attimo e subito dopo il suo dopo, cit., pag. 41), nelle riflessioni a volte limate dall’intuizione («Cos’ero allora?/ Perché/ iniziò quest’ansia di scavare/ in me, ma in quale/ direzione?, p. 60; «Mi sono stancato la vista a furia d’orizzonte/…/ma poi ho capito senza più guardare», p. 34).[2] «Una forma di pensiero senziente che in alcuni miei scritti ho definito “sentipensiero”, e che mi sembra sappia andare più di un passo oltre il cosiddetto pensiero razionale» è la lucida definizione che l’autore offre della sua indagine. (cfr. nota 4). Aggiungo io: è il pensiero dell’Androgino, del Rebis ermetico, potente figura simbolica che sa fondere e integrare magistralmente, le due vie – razionale e intuitiva (e delle ubiquitarie analoghe figurae tradizionali). Ancora ci aiuta Marco Ercolani: «Morasso[…] accosta l’energia estatica dell’ispirazione alla riflessione prosastica sulle cose del mondo. Le due anime non si combattono, né si oppongono l’una all’altra». Una dualità alla ricerca del centro, semplificando.

 

Ma torniamo alla parola.

 

Il viaggio del poeta si compie nell’embrice chiaroscurale dei “due mondi”, luogo di confine personale, che non è osservazione “da – a” o espressione di un vagheggiato “altrove” o caproniana metafora di quel limite, ma un luogo reale di esistenza, («abitare vuol dire stare qui», p. 19). Il cammino è contemporaneamente nella pietra delle strade di una Genova o di una Liguria, umana e materica, e nella luce – o nell’ombra - che si riflette su di esse o le avvolge e che si lascia avvicinare dai sensi del poeta.

 

I due mondi, tra loro dialoganti, sono quelli del vivente e quello dei morti, che sono attorno e dentro il flusso di eventi e memorie che ci definiscono, i morti «che ritornano a parlarci/ quando è notte/ [che] ci fanno compagnia per non abbandonarci/ in mezzo al buio» (p. 69), «stretti ab aeterno in una legge condivisa» (p.23), come «foglia, radice, tronco» inseparabili:

«torno anche stanotte ai miei fantasmi/ ne ascolto la voce ipnotica, rupestre» (p. 46);

«I miei morti/ […]/ sono la sostanza dei sogni. Spazzano/ le strade del pensiero,/ ripulendolo./ Incisi nel mio corpo/ affondano. Qui, con me,/ in me, io/ dentro di loro» (p.53).

 

Il dialogo tra viventi e «i senza più corpo», dialogo tautologico sulla vita stessa, affidato a un esploratore acutissimo e sensibile come Morasso non può che avere quale più alto esito quello morale: «Qualcosa cambierebbe sulla terra/ se l’amor proprio si inchinasse a povertà» (p. 29). Vero è che in questo testo la morte è obliqua e impronunciata, dietro un calibrato rimando di citazioni, tra la Nota dell’Autore a fondo e il precedente volume La caccia spirituale.  Ma questo, a parer mio, ne rafforza e potenzia il senso.

 

Se le arcate della poesia di Morasso aggettano, come tensione e dimensione, in Novecento alto, tra Luzi[3] e Caproni (molti altri riferimenti e dirette citazioni sono presenti), la lingua si proietta oltre, si riscrive: esatta, asciutta, spesso limitata a soggetto e verbo, usando «una sintassi spezzata e frammezzata […] con movimenti frastici sussultori e ondulatori» (G. Linguaglossa[4]) e, come osserva Daniela Bisagno[5], flash prosastici, versi lunghi, inarcature frazionate in versi brevi e brevissimi disallineati nell’estensione della pagina.

 

Interi componimenti sono potati da qualunque aggettivazione. Quelle superstiti assumono la forza impattante di una freccia. Con paradosso solo apparente, questa lingua che rifugge la ridondanza si fa più ricca proprio perché più precisa, anche nel dato descrittivo, con un meccanismo di definizione e di occultamento:

«Le ombre s’allungano. Il faro butta lampi./ Il filo delle macchine e il brusio,/ e l’impressione che qualcosa si inabissi/ fra le antenne e le altane./  Il rivolo d’immagini che sgronda la memoria». (p. 21)

 

L’attenzione del poeta genovese alla parola, alla costruzione versale è naturale approdo della sinopia che conduce la riflessione sul fare poesia, sull’essere tramite non inerte tra il dicibile e il detto:

«Ogni potenza dentro/ tenta di articolare la sua voce/ e io trascrivo,/ ravvivo lontananze irriducibili in parole» (p. 11);

«Ogni indicibile è uno scacco della mente./ Ma anche il dicibile/ dissimula il suo nulla» (p. 79).

 

È, quest’Opera in rosso, un racconto moderno dell’eterno, un resoconto semplice e articolato al tempo stesso, coltissimo eppure quasi familiare. Opera di un poeta dall’io «multiplo, infantile, terreno, profetico, biografico, minimale, desiderante, inappagato» (M. Ercolani), «limpido e febbrile, visionario e sentenzioso» (Giancarlo Pontiggia nella sua nota) che sa risultare anche così incisivo e fertile ha tra le dita i segreti di una sublime scrittura.

 

Il lettore e, in particolare, il lettore che tenta di lasciarne testimonianza, rischia il vortice degli innumerevoli percorsi e incroci, rimandi e citazioni, rinforzi e attenuazioni. Questo vortice, questa vertigine scaturita dalla ricchezza dei testi è, pare di cogliere, la stessa esperita – cercando e cercandosi - dal poeta che, va detto, forte del rigore del suo pensiero e della sua scrittura, illuminato da una spiritualità forte quanto essenziale nel suo mostrarsi, anziché lasciarsene confusamente travolgere, la domina e la transustanzia in immagine e parola viva e netta: «non per questo/ non crede/ di non poter sentire in lei il suo stesso fremito,/ quando sfonda il suo perimetro la mente.

 

Si tenta, infine, di porre rimedio alla fatale sintesi di queste mie osservazioni rinviando ad una sitografia[6], parziale, ma già corposa, che ha accolto con netto favore la pubblicazione di questa veramente preziosa raccolta.

 



[1] Marco Ercolani, Massimo Morasso, L’opera in rosso,  https://rebstein.wordpress.com/2016/12/11/lopera-in-rosso/

[2] Stefano Vitale (http://www.ilgiornalaccio.net/libri/lopera-in-rosso-di-massimo-morasso/), identifica memoria, immaginazione, pensiero, oltre che paesaggio, quali pilastri che reggono la costruzione dell’Opera.

[3] Sul “debito” di Morasso verso Mario Luzi è illuminante l’intervista di Pasquale di Palmo in Succede oggi del marzo 2017: La voce del poeta: Massimo Morasso. Canto di pietà, http://www.succedeoggi.it/2017/03/un-canto-di-pieta/

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- Poesia

Corvi con la museruola di Sergio Gallo: una libera lettura

Del regno degli alati e degli umani: una libera lettura di Corvi con la museruola, di Sergio Gallo (Lietocolle, 2017), divagazioni su poesia e scienza con testi di Giancarlo Baroni, Fabrizio Bregoli e Roberto Maggiani e traduzioni di quattro Corvi.

 

 

C’è una pagina che non c’è, in Corvi con la museruola, che sarebbe veramente straordinaria se ci fosse: in effetti c’è, ma come se fosse conscia della propria straordinarietà, si eclissa e si disperde. lasciando di sé solo la traccia. Si trova oltre l’estremo confine della numerazione delle pagine, ed è l’indice!

Che riporta solo i titoli delle sei sezioni del volume. Lo ricostruisco qui, con la licenza delle parentesi di mia creazione, come a ritrarne gli oggetti su un cartellone illustrativo della flora o della fauna di un parco naturale. Mi limiterò, perché intendo semplicemente fornire un’esemplificazione, all’indice virtuale della seconda sezione, Animalie: Flamingo road (ovvero Del fenicottero), Il rospo e la natrice, L’argironeta, Il ritorno dei guardabuoi, Le urla del riccio, Massaciuccoli (Hic sunt tarabusi, folaghe, cormorani, martin e falchi pescatori e, giocoforza, qualche carpa a rappresentare il pescato), L’invasione (di una coccinella dai sette punti), Bombardamenti (di scoiattoli rossi), Chiocciole, Ardea cinerea, Lepisma saccarina, Salamandra lanzai, Le capre del Mèris, L’uccello dalle ali di farfalla (cioè il picchio muraiolo, l’eletto tra gli altri diciassetti alati considerati), Turdus merula, Solo un piccolo codirosso, Passerotti suicidi. Per ultimo: Corvi con la museruola.

Credo basti e avanzi questo giocoso indice per cominciare a tracciare un invece serio percorso di esplorazione dell’ultimo lavoro di Sergio Gallo, poeta saviglianese, autore che ha già varcato il quarto di secolo di testimonianza poetica, da  Pensieri d’amore e di disastro, 1991, fino a Pharmakon edito da Puntoacapo nel 2014. Ma se si volesse proseguire lo stesso divertissemant per le altre Sezioni, sarebbe confermato al di là di ogni superfluo commento la caratteristica principale del poeta, prima ancora che della sua poesia: una vigilissima attenzione e una voracità di sguardo inesausta. Che poi, in questa raccolta, e in parte significativa nelle due precedenti (Canti dell’amore perduto, poderosa raccolta del 2010 e, la già citata, Pharmakon) l’occhio viaggi nei Tre Regni pre-umani della Natura, non sposta questa attitudine all’esplorazione e al viaggio: «attraverso la varie fasi della vita, nella natura, nell’umana sofferenza, alla ricerca di sé, nel silenzio e nella parola, nel microscopico mondo cellulare» ecc, secondo la personale geografia cartografata dallo stesso Autore nella Nota confidenziale, in Canti dell’amore perduto (p. 237) e finanche tra visibile e invisibile, come evidenzia Alessandra Paganardi nella Prefazione, ispirandosi, per l’occasione, al testo-sezione Lo spettro di Broken. Concordo perfettamente con la stessa prefatrice, quando sintetizza ottimamente che: «Come i libri precedenti […]  Corvi con la museruola non è “soltanto” una raccolta di poesie. È un’enciclopedia, un trattato filosofico, un diario di viaggio». Sull’asse primariamente visivo, s’inscena, dunque, un catalogo che non è arida tassonomia, ma ricettario del mondo, vista del mondo, ed anche pronuncia delle leggi note e ignote che lo costituiscono e lo governano, dell’intreccio infinitamente complesso tra uomo e natura. Tutto questo avviene grazie ad un’operazione a cui Sergio Gallo sta lavorando da tempo, apportando tecnicamente (ovvero lessicalemnte) un pregevole contributo al non certo nuovo o raro rincorrersi interrogativo, di poesia e natura, celeste («Che fai tu, luna, in ciel?») e terrestre (dalle celebri Correspondances baudelairiane) o al più episodico intreccio di poesia e scienza o tecnologia.

Parlo di ciò che Alessandra Paganardi chiama «la scelta apparentemente bizzarra di scrivere versi in linguaggio tecnico».

 

§ § §

 

Qui si aprirebbe un discorso potenzialmente esteso, che, non nego, mi è stato, in certe fasi della mia scrittura molto a cuore e che tutt’ora reputo di estremo interesse e su cui apro un necessariamente breve inciso. Chiaramente andrebbero fatti dei distinguo sulla diversificazione dei metalinguaggi: una cosa è, sulle orme di Linneo, avventurarsi tra generi, famiglie e specie animali latinizzate, un’altra è attingere a quanto, innominato, in quanto “inesistente” ha preteso nominazione all’atto della sua comparsa agli orizzonti delle nuove scienze, tra bosoni, buchi neri e magnetosfere. Ma ci porterebbe troppo lontano. La curvatura gravitazionale del linguaggio a nuove e vecchie, ma ai margini letterari, scienze/tecnologie è certo poco osservata e viene elusa, ma non del tutto.

Ha di certo un’inevitabile ricaduta lessicale anche lo scenario del Realismo terminale, pervicacemente proposto da Guido Oldani ma senza alcuno smarginamento matalinguistico, perché gli oggetti “terminali” sono ormai impiantati ben saldamente nella lingua corrente (petroliere, betoniere, lavatrici, camion). Ma, a parte questo minimo tributo lessicale ad una tecnologia addomesticata, GuidoOldani va in senso opposto a quello di Sergio Gallo e del suo padre ideale Pier Luigi Bacchini (il maggior poeta indagatore del mondo naturale, non a caso di formazione scientifica, come Gallo) quando dice, evidentemente sbagliandosi, almeno in questo caso: «La natura è stata messa ai margini, inghiottita e addomesticata. Nessuna azione ne prevede più l’esistenza […] Gli oggetti occupano tutto lo spazio abitabile» (Manifesto breve del realismo terminale).

Colgo invece, oltre alla esemplare ricerca e riflessione di Sergio Gallo, segni tra i poeti contemporaneissimi, che questo problema del rapporto tra linguaggio (e pensiero) umanisitico e scientifico si sta ponendo con insistenza.

 

Particolarmente interessante in tal senso sono il pensiero e l’opera di Roberto Maggiani, classe 1968, Fisico Nucleare e divulgatore scientifico che si occupa in particolare del rapporto tra scienza e poesia e che ha dedicato un interessante saggio alla questione  Poesia e scienza: una relazione necessaria?, CFR, 2011. Commentato su Poesia 2.0 (sic!), da Maurizio Soldini (altro medico, ma di parola nitida e classica) Maggiani argomenta come «non solo che la liason tra poesia e scienza sia necessaria, ma ancor più che è indifferibile ed ineludibile», fino alla  «poetizzare la scienza», Coerentemente, nella sua già ampia produzione poetica, Maggiani attinge con frequenza ad espressioni del linguaggio scientifico («universo metastabile», «risonanze elettromagnetiche»). Questo brano sembra fungere da personale manifesto:

 

Il rapporto tra poesia e scienza,

 

[…] Dove appoggi il tuo piede

la sua forma crea labirinti

e pozzi imperfetti e amari

dove i poeti

cadono spersi,

ma non io che non sono poeta ma scienziato

e ti parlo per tua gioia

di quel mondo così piccolo

o così lontano –

di atomi o stelle.

 

(da Scienza aleatoria, Lietocolle, 2010)

 

  

Un altro giovane e talentuoso poeta di formazione scientifica che ha recentemente contribuito ad irrorare il linguaggio poetico con apporti plurilinguistici, senza perdere un atomo di letterarietà (sostenuta anche da un maturo endecasillabo) e di potenza comunicativa è Fabrizio Bregoli, ingegnere elettronico lombardo del 1972. La sua opera prima, Il senso della neve (puntoacapo, 2015, prefatto da Ivan Fedeli e con postfazione di Tomaso Kemeny) è un esempio di «compenetrazione di termini tecnici […], o della tradizione, di neologismi impreziositi dalle forti cesure», dove viene adattato «il plurilinguismo a un qualsivoglia dettato comunicativo» (I. Fedeli).  Una breve sezione, Compendio di fisica applicata, o forse un solo testo o anche solo qualche verso, dicono sull’uso del linguaggio naturale-scientifico in poesia, ben più di quanto io abbia finora detto in questo scritto:

 

Complementi di fisica

 

Si sdipanasse in uno scioglilingua

l’appallottolata mappa del cosmo

- elettromagnetismo gravità

interazione forte forza debole -

si stanerebbe forse la ricerca

del cocktail squinternato che ci inebria

l’equilibrismo cronico del vivere

fra sponde contrapposte, sabbie mobili.

Quella corrente insana sotto pelle

di stimoli indizioni potenziali

che ci rabbrividisce di sorpresa,

unita all’ancoraggio insopprimibile

dell’attrazione antica per la terra

il suo farsi sostanza, esser radice

alla levitazione del pensiero,

imbrigliarlo al reticolo del cuore

avvilupparlo stretto, con tenacia

a quel sedimentato vecchio amore

e rianimarlo, non gettarlo a mare,

sorreggersi al precario delle gambe

a volubilità di cartilagini

all’innata debolezza delle ossa,

il loro sfarinarsi, svaporare

è il nucleo d’unità che ci affratella,

sintesi spiccia di quest’azzardata

teoria del campo unificato.

 

 

Genesi

 

Mulina attesa nel laboratorio

l’energia del fascio d’ha d’accrescere

a disgregare scindere collidere

sempre più minuti più esili più

più pargoli tasselli d’elementari e

più primordiali esotici pulviscoli

in più sottili opalescenti lamine

esponenziale vertice del nulla.

 

Gluoni bosoni

neutrini tachioni

barioni fermioni

quark ora pro nobis.

Neutrino muonico

protone barionico

leptone elettronico

miserere nobis.

 

Così l’ottavo giorno

l’uomo scomodò Dio

in surroga d’incrollabile scienza.

 

Amen.

 

 

Un’altra scrittura che usa come strumenti precipui l’occhio che reperta e la penna che registra è quella di Giancarlo Baroni, parmense, almeno nelle sue ultimi due opere edite: il pregevole Le anime di Marco Polo (Book Editore, 2015) e I merli del giardino di San Paolo e altri uccelli, edito da Mobydick nel 2009 e ripubblicato nel 2016. Infatti, sia che volga la sua attenzione alla Storia (luoghi, vicende e soprattutto viaggi e viaggiatori), sia alla Natura (nella sua rappresentanza alata e pennuta) lo scandaglio di Baroni esplora territori non privilegiati dalla scrittura poetica e, quel che qui più interessa, lo fa redigendo repertori inclusivi e attingendo a famiglie di res e  nomina inconsueti, per erigere i pilastri delle raccolte. Nel nucleo eponimo Federico II e i merli del giardino di San Paolo, i due territori, storico e ornitologico, coesistono e i linguaggi in osmosi delineano tutta la peculiarità di questo volume.

Il fatto che l’opera,già edita nel 2009 sia stata riproposta e ampliata nel 2016, e accolta con buon interesse dalla critica, può testimoniare il bisogno di nutrimento della poesia attuale con lieviti e sostanze da ampi settori o almeno il beneficio che da questi apporti ne riceve il linguaggio. Ottime puntualizzazioni sulla «modalità di fare poesia», «giocata su un codice sostanzialmente denotativa», che mi sento di poter estendere anche a Le anime di Marco Polo, sono contenute nella Prefazione alla Seconda parte di Fabrizio Azzali: «La cifra realistica, a tratti scientifica […] proprio per il suo carattere “fisiologico”, nomenclatore, quasi lenticolare con cui vengono esibiti e studiati i più comuni attori della scena, raggiunge un effetto di straniamento […] e ci porta in una dimensione iperrealistica, diremmo di metafisica immanente». (Quanto di questa considerazione è esportabile anche a I corvi… di Sergio Gallo? Molto, a mio modo di vedere lo è spirito delle opere, ferme restando le differenze di stile e tono il diverso peso delle molecole di morale, raggrumate in Gallo e più aeree in Baroni.)

Anche in questa operazione aviaria ideale Nume tutelare è Pier Luigi Bacchini, che non a caso porge la sua delicata Prefazione all’edizione del 2009, dove rileva, tra l’altro, come tutta la «precisione ornitologia» utilizzata da Baroni non sia fine a se stessa e come l’osservazione del poeta prediliga un tono di distaccata ironia.

Non potendo, per brevità, soffermarmi sulle tante caratteristiche dei pennuti e, soprattutto, su quelle dello sguardo del poeta, mi limiterò a un'altra elencazione, didascalicamente utile. Così troviamo che (quando non in gabbia) transitano e vociano (tra ippocastani, querce, faggi, castagni, pioppi, cespugli d’erba selvatica e di sambuco ecc) passeri, fringuelli e pettirossi, gazze e cornacchie, merli e merli, storni, colombi e pavoni, quaglie, tacchini e fagiani, rondini e rondoni, anatre e morette, falchi pecchiaioli e pescatori, allocchi e civette, aironi, tarabusini e ibis, avocette e chiurli, beccaccini, pinguini, colibrì e altre livree senza nome, descritte o raffigurate nelle illustrazioni di Vania Bellosi e Alberto Zannoni (sì, c’è anche una montaliana upupa). Spesso si descrivono comportamenti o caratteristiche dei sottintesi attori pennuti i quali, non di rado, si trasfigurano, a specchio, negli umani che osservano e che li stanno osservando.

 

(Merli)

 

La melanina che scurisce il corpo

e ci rende simili a fantasmi

fa paura all’allocco.

Allora gonfiamo il petto

gli gridiamo te l’abbiamo fatta

un’altra volta, gioiamo

ma piano

come avessimo in gola dell’ovatta.

 

 

Airone

[…]

*

Da predatore a preda

il passo è breve

basta solo una svista. La mossa

del nemico che ti spiazza

impàri e la fai tua.

 

 

Da quassù

[…]

*

Dicono discendiamo

da un dinosauro immenso

ma i suoi figli risultano

piatti più della terra

a noi che li osserviamo

oggi dal cielo.

 

§ § §

 

Ma torniamo a Corvi con la museruola, perché, detto dello spirito enciclopedico e dell’operazione linguistica, altri aspetti meritano di essere notati.

La raccolta è composta da sei Sezioni: Dendrologie (ovvero “discorso sugli alberi”), Animalie, di cui si è già detto, Il bruco e la formica, altro corposo repertorio zoologico ed entomologico. Seguono tre sillogi più brevi: L’abisso e la sapienza, dove l’autore si fa viaggiatore ed esploratore alpino, Lo spettro di Broken, dedicata al fenomeno di illusione ottica ben noto ai frequentatori di quelle realtà tra magia (prima) e (ora) scienza; l’ultima sezione Antropocene, più composita, compendia molti degli elementi dell’intera raccolta, ed estende l’attenzione al Quarto Regno e alla condizione umana nella sua forse breve avventura, tra prime selci e «rischio d’estinzione», avventura della quale «resterà/ solo/ la poesia», verso che chiude il volume e che pare riconoscere sia la soggettiva necessità dell’Autore, sia il potere al tempo stesso demiurgico e testimoniale della parola.

Mi pare una questione significativa il fatto che il poeta compia questo suo personale viaggio nei Quattro Regni, nella loro remotissima origine utilizzando un estensione lessicale spinta fino al tecnicismo scientifico contemporaneo, ma incida epigrafi alle sezioni di ispirazione classica e sapienziale. Così vengono citati Aristofane (da Gli uccelli) e Seneca, brani Vedantici o Buddisti, Sure coraniche (XXVII, Le formiche), il Siracide e il poema persiano di Farīd Ad-Dīn ‘Attār, Il verbo degli uccelli, quello del Simurgh, per capirci (a cui Robero Mussapi ha dedicato bei versi e il titolo della sua ultima raccolta La piuma del Simorgh, il «grande uccello/ che fece nascere la vita nel mondo/ e il regno degli alati e degli umani/ con una remigante dell’ala sinistra», p. 9).

Si potrebbe leggere in questa trama l’esplicito pensiero o la criptica coscienza che la nostra umana osservazione transeunte può aggiungere una goccia all’oceano delle ere e del divenire, ma che questa immensità ci precede e ci seguirà. Un respiro macrocosmico e un microcosmo popolato di ragni e ammoniti!

 

La primazia del contenuto non induca, però, a trascurare gli aspetti stilistico-formali dell’ultimo Sergio Gallo. Mi soffermerò solo su un paio di questi (ché altri saranno immediatamente evidenti nei testi che seguiranno, come l’uso di un verso libero con prevalente bassa tonalità musicale, più narrativo che lirico, o la ricorrenza in chiusura di componimento di asserzioni gnomiche di valenza morale). Il primo è l’uso talora ellittico della proposizione, arginata da una severa punteggiatura, dove il verbo è a volte assente o riecheggiato da strofe adiacenti o può essere reso all’infinito:     

«Appollaiati su pali/ al centro della laguna/ o dispersi sui rami/ d’un grosso albero morto.», p. 47

«Seguire le orme/ lasciate nella polvere/ da una coccinella/ dai sette punti», p. 48

 

Va ancora notato come l’arco lessicale sia sobrio e opportunamente calibrato per poter accogliere, senza frizioni e stridori la terminologia di settore, che già pretende attenzione, e come l’Autore solo in rari casi ceda alla tentazione di un’aggettivazione superflua, così che nell’ampiezza della raccolta i testi si mostrano asciutti e governati e mantengono molte delle suggestioni che la narrazione promette. Beppe Mariano, a ragione, sottolinea l’«accresciuta compattezza formale» di quest’ultima raccolta e come fortunatamente alla «precisione scientifica» si accompagni l’«emozione poetica». (Il Saviglianese, 11.3.2017)

Alcuni testi, isolatamente, si fanno particolarmente apprezzare per inventiva, originalità e sensibilità, ma è l’insieme dell’opera – a questo punto direi delle opere, coinvolgendo le precedenti – che merita attenzioni. In questo tempo di dispersione stilistica e disseminazione di poetiche, prendo atto che quella di Sergio Gallo è messaggera di fondamentali istanze.

 Alfredo Rienzi, aprile 2017

 

Poesie tratte da Corvi con la museruola (“Crows with the muzzle on”)

Traduzione di Dario Rivarossa (il Tassista Marino website).

 

Da Pinus cembra(nel millenario bosco dell'Alevè)

 

2.

È il cirmolo all’apparenza

ombroso e impenetrabile,

in realtà un savio dall’indole

mite, dall’esperienza secolare.

Capace di opporre resistenza

a persistenti siccità, a venti

siberiani, piegare i rami

 

sotto il peso di forti nevicate.

Un re dal taumaturgico potere,

il cui legno assai ricercato

al contempo docile e compatto

non conosce corruzione di tarlo.

Ancestrale sciamanico contatto

di prezioso effluvio balsamico…

 

Squame di corteccia resinosa

adagiate sul palmo, tra le dita

il rosario di verde-azzurri aghi

raccolti in fascetti di cinque;

sotto i polpastrelli i noduli

dei germogli ancora silenti

nella quiescenza invernale.

 

Formidabili radici s’innervano

nelle profondità del terreno

al suolo saldamente ancorate;

bramose di sostanze minerali,

di nuove sorprendenti simbiosi.

Barbe di licheni ricoprono i

rami, indice di buona salute.

 

Pinus cembra

 

2.

[…]

A Swiss stone pine appears

shadowy and inscrutable,

actually a sage whose nature

is meek, experience age-long.

Able to offer resistance to

persistent droughts, Siberian

winds, to bend its branches

 

under the weight of snow.

A king with a healing power,

whose wood––in great demand––

easily worked however solid

can ignore the wormʼs decay.

Ancestral shamanistic contact

with a rare balmy exhalation…

 

Scales of resinous rind lying

on your palm, on your fingers

the rosary of blue-green needles

in little bundles of five; under

your fingertips the nodules

of shoots still silent in

their quiescence of winter.

 

Tremendous roots innerved

down in the terrainʼs depths,

strongly anchored to the soil,

they long for minerals

for new surprising symbioses.

Branches covered by lichen

barbs, a sign of good health.

 

 

Flamingo road

 

Tutto mi sarei aspettato

quella tersa mattina di marzo

in via Cappuccini a Milano

che in un sontuoso giardino

tra esplosioni di magnolie

sorprendere immobili

un gruppo di fenicotteri

intenti a sonnecchiare.

 

Il dominante trampoliere

fulmineo capace d’estendere

il lungo e sproporzionato collo

per emettere dal becco curvo

grottesco e possente

uno stridente grido di protesta

come di tromba maldestra

al molesto passaggio d’un aereo.

 

L’intero stormo tra cacofonie

ridestarsi ma invece di prendere il volo

verso ancestrali rotte migratorie,

elegantemente ripiegare il collo

sulla nuvola rosa delle piume

e, celando la testa

sotto le ali color cremisi,

armoniosamente

 

riprendere a dormire.

Così altrettanti

avvezzi alla cattività

vivono incapaci di spiegare le ali.

 

Flamingo Road

 

Anything I expected

in that clear March morning

in Capuchins Street, Milan,

rather than, in a luxurious garden

among magnolia explosions,

catching a motionless

flock of flamingos

devoting themselves to dozing:

 

the imposing stilt-bird

capable of suddenly stretching

its long, disproportionate neck

to utter, out of its curved,

grotesque, powerful beak,

a shrill cry of protest

as with a clumsy trumpet

against one annoying airplane.

 

Lo! the whole flock cacophonically

wakes up, but, instead of taking off

towards ancestral migratory routes,

they elegantly fold their necks

on the rosy cloud of their feathers

and, hiding their heads

under their crimson wings,

harmoniously

 

go back to bye-byes.

As many as them,

accustomed to captivity,

live unable to spread their wings.

 

 

Lepisma saccharina

 

È in quel tuo apparire effimero

veloce lampo argenteo

di notturna creatura

che esposta all'improvvisa luce

fugge in cerca di riparo

 

o nell'argentea tua traccia

di sottili scaglie metalliche

lasciate sulle dita di chi

invano tenta di catturarti;

 

nel continuo inanellare di mute

che accompagnano da neanide

diafana a sfuggente imago

l'intera tua esistenza fragile

 

l'essenza dell'essere lepisma.

 

Quello stesso spirito

che sin dal tardo Siluriano

animava i tuoi illustri antenati,

tra i primi insetti

a colonizzare la terraferma.

 

Con cosa banchetterai oggi

zigzagando tra i detriti:

farina, forfora o francobolli?

Scaglie di pelle, fibre d'arazzi

rilegature di libri polverosi?

 

Avrai per dessert colla

a strati, inusitati

carboidrati o la tua stessa

dismessa esuvia?

 

È in quella strana danza d'amore

per attirare le femmine fino

al sericeo bozzolo di sperma,

la tua vita oltre la vita,

la tua vita oltre la morte.

 

Fuggendo ragni, millepiedi, forficule

a differenza d'estinte lucciole, cervi

volanti, sempre più rari lepidotteri... tu sì

che ci sopravviverai, insieme forse

a qualche robusto ratto delle cloache.

 

Silverfish

 

In appearing ephemeral

swift silvery flash

of a daughter of night

who suddenly enlightened

flees for a shelter

 

or in that silver strip

of thin metallic scales

left on the fingers that

tried to catch you, in vain;

 

in that chain of moults

that - from diaphanous neanis

to shifty imago - accompany

the whole of your frail life

 

is the essence of silverfishness:

 

the very same spirit

that from late Silurian

animated your great ancestors,

insects among the first

who colonized dry land.

 

What about your banquet today

zigzagging among debris:

flour, dandruff, post stamps?

Skin scales, tapestry fibres,

the binding of dusty books?

 

And, your dessert? Layer

glue or, just for a change,

carbohydrates or your

own cast-off exuviae?

 

In that strange love dance

to attract females towards

your silky sperm cocoon

lies your life beyond life

your life beyond death.

 

By escaping spiders earwigs millipedes -

unlike extinguished fireflies, stag-beetles,

rarer and rarer butterflies - you will

survive us, perhaps together with

a bunch of brawny sewer rats.

 

 

Gli amanti di Valdaro

 

Vi è un segreto tra gli amanti che non è possibile spiegare.

Né la penna né le parole lo hanno raccontato alle creature

As-Sulamî da Introduzione al Sufismo

 

Stimmi di zafferano

color sangue di bue

rosso oro dall’odor di miele

che solo delicate esperte mani

all’alba sanno raccogliere

e finemente lavorare…

 

Così di rubino le imenee strie

miste a rugiada di sudore

tra i corpi albini

parevano brillare

e sugli acerbi organi sessuali.

Lei dolce gli sorrise

ai primi raggi di luce,

la nuca carezzandogli.

 

Così mi piace immaginarli

e nel museo di Mantova

i loro scheletri politi

ancora poter ammirare:

da seimila anni giacciono

teneramente aggomitolati.

 

La zolla che li accoglie

al contempo è alcova

e neolitica tomba.

Sepolti nella necropoli

uno di fronte all’altra

 

le gambe intrecciate e raccolte

in posizione fetale; le mani

di lei sulle di lui spalle,

quelle di lui sul collo di lei

in un abbraccio eterno e mortale.

 

Mistero su cosa li abbia uccisi

se freddo, fame, malattia

o una morte volontaria

per astio, atto sacrificale

dissidi tra clan rivali, parole

sprezzanti come punte di silice.

 

Primevi Romeo e Giulietta

in un’epoca negletta,

avida di simboli d’amore

per noi vigliacchi e sensibili

ora riportati alla luce.

 

The Valdaro Lovers

 

Saffron stigmas

ox-blood-colored

red gold, smelling honey,

that only skilled gentle hands

can gather at daybreak

and work delicately…

 

So the ruby hymen stripes

mixed with a sweat dew

between their albino bodies

seemed to shine––on

their immature sex organs.

She sweetly smiled to him

in the first light rays while

caressing his nape.

 

This way envisaging them,

in that Mantuan museum

their polished skeletons

I still succeed in observing,

for six thousand years lying

tenderly curled up.

 

The clump containing both

is the alcove and at the same

time the Neolithic tomb.

In the necropolis buried

in front of each other

 

their legs intertwined folded

in fetal position, her hands

resting on his shoulders

his hands on her neck for

an eternal death embrace.

 

A riddle, what killed them

whether cold, hunger, illness

or a voluntary death out of

hate, a sacrificial action,

wars between clans, words

as sharp as the flint points.

 

Primordial Romeo and Juliet

of a forgotten era

longing for love symbols,

for us cowardly and sensible

brought back to light.