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Raccolta di saggi di Danilo Mar
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Letteratura

La scuola siciliana

La scuola siciliana si può considerare il primo vero laboratorio organizzato di quella nuova lingua che si andava imponendo e che veniva chiamata "volgare. Ma perché "volgare"? Perché era parlata dal popolo, ovvero da un ceto basso, ovvero ancora dal "vulgus", che divenne col passare degli anni "volgus", per trasformarsi in "volgo" da cui "volgare".

Quella della trasformazione delle parole è materia interessante. Facciamo un esempi brigante e ministro. Oggi essere un brigante equivale ad essere un criminale, un delinquente, uno da evitare. Se sei - invece - un ministro sei persona potente, rispettabile e degna di considerazione. Ma è così da circa 3 secoli. Andiamo al 1200/1300 e le cose si capovolgon brigante era colui che comandava una brigata, ovvero un gruppo di attori che si recava nelle regge dei potenti a tenere spettacoli. Il brigante era degno del massimo rispetto perché era colui che indiceva gi spettacoli e se rimetteva denaro, pagava di tasca propria; il ministro, invece, era il servo più fedele, ma sempre servo era! Provate a cercare altre parole il cui valore e significato s'è modificato nel tempo…
Ma non divaghiamo e torniamo alla Scuola siciliana.

Il nome "Scuola siciliana" si deve a Dante che nel "De vulgari eloquentia", definì "siciliana" tutta la produzione antecedente quella "toscana". Affermava infatti il Sommo Poeta che "per il fatto che molti poeti indigeni poetarono solennemente tanto che tutto ciò che a loro tempo producevano i migliori tra gli Italiani, appariva dapprima nella corte del sovrano e per il fatto che la corte aveva sede in Sicilia, è avvenuto che tutto ciò che si è prodotto di poetico prima di noi, fu detto ". Non c'è che dire: uno spot niente male!

Ma ad onore del vero c'è da dire che alla corte federiciana, non si svilupparono solo opere letterarie in volgare, ma c'erano studiosi di filosofia, di scienze, di giurisprudenza e quindi non è un caso che alla Scuola siciliana appartenesse anche Michele Scoto, formatosi ad Oxford, a Parigi, a Bologna e a Toledo dove studiò la cultura araba che portò in occidente. E fu grazie agli studi dello Scoto, ripresi da Stefano Protonotaro, che quest'ultimo potè tradurre due opere arabe: "Liber rivolutionum" e "Flores astronomiae",

Ma chi era Federico II?

Federico II era nipote del Barbarossa e fu incoronato Re nel 1226. regnò fino al 1250, anno della sua morte e gli succedette il figlio Manfredi che nel 1266 fu sconfitto da Carlo d'Angiò.

Come si vede, la Scuola siciliana ebbe vita breve perché si condensa tutta nei 24 anni di regno di Federico II, anche se Manfredi provò a dare un seguito ma non essendo illuminato come il padre, quel seguito fu un decadentismo annunciato. Ciò contrasta con quello che afferma Dante, ma egli inserisce nella Scuola siciliana "tutto quello prodotto prima dei toscani", prendendo - a mio avviso - una paurosa cantonata perché sia la Scuola religiosa umbra sia quelle più modeste (ma non meno importanti) lombarde e venete, ed anche l'influenza provenzale, non possono essere considerate siciliane.

La scuola siciliana si sviluppò perché lo stesso Federico II era amante dell'arte del poetare e sappiamo bene che se una cosa non si ama non ha futuro! E Federico amava la poesia. Tra le sue opere ci restano tre composizioni: "De la mia distanza" , "Poi ch'a voi piace amore" e "Misura, provvidenza e meritanza".

E proprio quest'ultima pongo alla vostra attenzione:



Misura providenzia e meritanza

Misura, providenzia e meritanza
fanno esser l'uomo sagio e conoscente
e ogni nobiltà bon sen[n]'avanza
e ciascuna ric[c]heza fa prudente.
Nè di ric[c]heze aver grande abundanza
faria l'omo ch'è vile esser valente,
ma della ordinata costumanza
discende gentileza fra la gente.
Omo ch'è posto in alto signoragio
e in riccheze abunda, tosto scende,
credendo fermo stare in signoria.
Unde non salti troppo omo ch'è sagio,
per grande alteze che ventura prende,
ma tut[t]ora mantegna cortesia.

Evito la traduzione perché è molto comprensibile. Si può notare l'uso specifico di taluni termini che si integrano col verso dando una musicalità unica ad un brano che, se fosse stato scritto da Dante sarebbe divento oggetto di studio.

Ma come in tutte le cose, ruolo fondamentale lo gioca la fortuna e Federico II ne ebbe iosa quando alla sua corte si presentò uno sfrontato giovanotto che rispondeva al nome di Michele e veniva da Alcamo. Conosciuto oggi come Cielo D'Alcamo. Egli propose a Federico una sua composizione che aveva titolato "Rosa fresca e aulentissima", in seguito chiamata "Il Contrasto". Se vi va potete leggere questo capolavoro della Scuola siciliana nel settore "poesia", perché c'è un mio lavoro proprio su Contrasto.

Fattami questa gratuita pubblicità, proseguiamo.

La corte di Federico diventa così un punto di ritrovo di giovani scrittori e diventa soprattutto un esempio di come l'arte possa superare le diversità sociali, culturali ed anche religiose, formando un ceto culturale che abbraccia il nobile, il militare, il servo, abbattendo le barriere classiste a vantaggio della poesia.

E vediamoli questi poeti che hanno segnato un'epoca:

Jacopo da Lentini, era notaio, a lui si deve l'invenzione del sonetto, ed è stato alla corte di Federico II dal 1233 al 1240;

Giacomino Pugliese, il cui vero nome era Giacomo di Enrico e veniva da Morra, era un funzionario pubblico;

Guido delle Colonne, giudice a Messina e frequentatore della Corte di Federico dal 1243 fino alla morte del Re avvenuta nel 1250;

Stefano Protonotaro (il cognome dice tutto: notaio), colui che tentò di mantenere viva la Scuola sotto il regno del figlio di Federico II, Manfredi;

di Cielo d'Alcamo s'è detto;

Pier delle Vigne, Gran Cancelliere, è sicuramente la figura più complessa e importante della scuola siciliana. Nasce a Capua nel 1180 e ben presto si fa notare come compositore di versi tanto che Federico lo chiama alla sua corte e lo promuove prima scrivano, poi funzionario e quindi notaio, fino alla massima carica di Gran Cancelliere dell'Impero. Accusato di tradimento nel 1249, fu arrestato e, urlando la propria innocenza, si tolse la vita.

Riprenderemo inseguito a conoscere i poeti della Scuola siciliana. Ora soffermiamoci su Federico II, sulla sua figura di uomo politico, di uomo di potere, di mecenate e anche di uomo fuori dal tempo che viveva.

L' obiettivo culturale, oltre al progetto politico generale che intendeva realizzare, era di costituire attorno alla corte un centro culturale autonomo che facesse concorrenza a Bologna e Parigi, che erano i centri di cultura - grazie alle loro Università - che più attraevano gli studiosi.

La situazione politica è però complessa, Federico non controlla saldamente i territori di cui rivendica il dominio, ed ha a che fare con una realtà molto più frammentata ed eterogenea. Fortissime sono le spinte centrifughe e infatti la sua "riforma politica" non avrà seguito a causa della improvvisa sua morte (avvenuta a Castel Fiorentino [Lucera] nel 1250).

La sua è una riforma di tipo "imperiale" che vuole essere unitaria, continentale, il canto del cigno del feudalesimo, nel momento in cui altre forze politiche ed economiche (i Comuni, la borghesia mercantile ecc.).

Riprendiamo la conoscenza di alcuni autori della scuola siciliana e ripartiamo da:

Ruggieri d'Amici, superba la sua "Sovente amore na ricuto manti".

Tomaso di Sasso, di cui ricordo due opere, "L'amoroso vedere" e il "D'amoroso paese".

Re Giovanni, leggete questa splendida opera: "Donna, audite".

E poi Odo delle colonne, Rinaldo d'Aquino, Paganino da Serenano, Jacopo d'Aquino, Jacopo Mostacci (del quale segnalo "Amore ben veio", "A pena pare", "Umile core" e "Mostrar vorria in parvenza").

Segnalo ancora Ruggerone da Palermo, Mazzeo di Ricco, Re Enzo, Perzival Doria di cui apprezzo molto - e ve la propongo -
"Amore m'avè priso":

Amore m'avè priso

Amore m'a[ve] priso
d'alto mare salvagio;
posso ben, ciò m'è aviso,
blasmar la segnoria,
che già m'à fatto oltragio,
chè m'à dato a servire
tal donna, che vedire,
nè parlar non mi vole,
onde mi grava e dole
si duramente - ca, s'io troppo tardo,
consumerò ne lo doglioso sguardo.
Pec[c]ato fece e torto
Amor, quando sguardare
mi fece la più bella,
che mi dona sconforto
quando degio alegrare,
tanto m'è dura e fella.
Ed io per ciò non lasso
d'amarla, oi me lasso;
tale mi mena orgoglio
as[s]ai più che non soglio,
sì coralmente - eo la disio e bram
Amor m'à preso come il pesce a l'amo.
Eo son preso di tale
che non m'ama neiente
ed io tut[t]or la servo;
nè 'l servir non mi vale,
nè amar coralemente.
Dunque aspetto, ch'io servo
sono de la megliore
e seraio con amore
d'amare meritato
. . . [-ato]
. . . [-ente] - che lo servir non vaglia,
eo moragio doglioso sanza faglia.

Anche in questo caso ritengo inutile una traduzione stante la semplicità del brano stesso.
Tra i poeti cito ancora Compagnetto da Prato,(sarà mica parente del nostro Misterbraun, al secolo Marco da Prato?) Filippo da Messina, Folco di Calavra, Neri Poponi, Guglielmo Beroardi, Folcacchiero da Siena, Ugo da Massa conte di Santafiora, Inghilfredi e Arrigo Baldonasco.
Per finire vi propongo un'opera a me cara perché da me rivisitata. È di…..vediamo se indovinate, si intitola

Nostalgia d'amore

La bocca profumata e i capezzoli
del seno le cercavo,
fra le mie braccia la tenevo.
Baciandola lei mi diceva:

non state a lungo lontano
perché non è bello
lasciare l'amore a lungo solo >.

Allora quando me ne andai
e dissi : - a Dio vi raccomando -,
la bella guardò verso me
sospirando e piangendo.
Tanti erano i sospiri
che a fatica mi rispose
quella dolce donna mia
non mi lasciava sortire.

Io non vi fui così lontano
che il mio amore vi obliasse,
e non credo che Tristano
Isotta tanto amasse.
Quando vedo la bella
tra le donne apparire
la gioia mi toglie ogni dolore
E mi rallegra la mente
il suo gioire

Spero d'essere stato esaustivo, anche se è difficile contenere tutto in poche pagine.


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- Letteratura

Le lingue in Italia dal 600 aC alla caduta dell’Im

Le lingue parlate nella penisola italica dal 600 a.C. alla caduta dell’Impero Romano

Questo è il titolo giusto che però non entrava nella zona TITOLO così che ne è sortito un titolo - oltre che sbagliato (non esisteva l'Italia) - anche incompleto. Chiedo venia.

Prima di tuffarci nella bolgia dei dialetti italici, è bene vedere le lingue che hanno fatto la storia della nostra penisola. C'è da dire una cosa: le lingue che si sono parlate in Italia sono tutte lingue del gruppo indoeuropeo. O, meglio, sono un sottogruppo di quella famiglia. Anche il latino, che pure è stata lingua imperiale, appartiene al sottogruppo indoeuropeo.

Il latino lo possiamo considerare "lingua viva" perché è oggetto di studio (più all'estero che da noi, purtroppo!). Accanto al latino troviamo altre lingue, antecedenti il latino stesso e una nota va spesa per l'osco e per l'umbro. Vediamo.

Osco era la lingua dei Sanniti, popolazione che occupava la zona centrale della penisola italica, che dal Lazio meridionale, arrivava fino alla valle del Sannio (da cui il nome). Ben presto questa lingua si fuse con un'altra lingua simile, ovvero l'Umbro, parlato appunto in Umbria. Questa fusione da vita all'osco-umbro.

Accanto a questa lingua, esisteva già una lingua simile al latino romano. Solo che Roma rese nobile quel modo di parlare e dettò anche delle regole. Questa lingua preromana era il "Falisco".

Il Falisco era parlato lungo il Tevere e nella città di Faleria - da cui Falisco - , città di origine etrusca. Con l'espandersi territoriale di Roma, il Falisco fu accorpato al latino romano e così si formano, nel centro della penisola, due gruppi linguistici:

1. l'osco umbro
2. il latino falisco.

Osco-umbro

Come si è detto, l’Osco-umbro è la lingua che veniva parlata dagli Umbri e dai Sanniti. I Sanniti formavano insieme ad altre popolazione, gli Osci o Oschi (ora capite il perché del nome della lingua). Oltre ai Sanniti, nel gruppo degli Oschi c'erano i Campani, i Lucani e i Bruzi. V'erano, inoltre, popoli del Lazio, che vivevano in piccoli territori godendo di una loro libertà ed indipendenza, sono i Sabini, gli Equi, gli Ernici, i Volsci, i Marsi e i Vestini. Si aggiunsero poi i Marruccini e i Peligni.

Il testo più importante per l'umbro sono le "Tavole Iguvine" mentre per l'osco abbiamo la "Tabula Bantina". Le "Tavole Iguvine", ovvero Tavole di Gubbio, furono trovate appunto nella città umbra durante gli scavi presso l'anfiteatro. Si tratta di sette tavole in bronzo con l'alfabeto umbro e - accanto -quello latino. Capirete da soli l'importanza della scoperta: si sono potuti tradurre i testi umbri. La Tavola Bantina, seppure non è così importante come le tavole eugubine, ha una propria valenza storica perché conferma quello che gli studiosi avevano intuito riguardo la lingua osco.

Latino Falisco
Come abbiamo già detto, Falisco deriva da Faleria, che era la città dei Faleri, popolo che viveva lungo il Tevere che dalla piana di Fidene, arrivava fino al mare. I Faleri si trovarono ben presto a combattere coi Romani e furono da quest'ultimi sconfitti e sottomessi. Era - quello dei Faleri - un popolo di ampia cultura perché risentirono dell'influenza etrusca prima e di quella romana poi, ma non era un popolo bellicoso: combatteva suo malgrado! Col passare degli anni il falisco - inteso come lingua - lasciò il posto al latino di Roma.

Altre lingue preromaniche

Tra queste annoveriamo il Venetico, detto anche paleoveneto. Era parlato dai popoli che abitavano lungo il delta del Po. Da documenti giunti fino a noi, risulta ch'era una lingua parlata anche in Istria, oltre che in tutto il Veneto. Era questa l'unica zona che non risentiva dell'influenza celtica che invece aveva pervaso tutto il restante nord della penisola italiana.

Una lingua diffusa nel nord-ovest era il Gallico, parlato in Piemonte e parte della Lombardia. Tornando al sud troviamo il Messapico, parlato in Puglia, oggi è l'attuale albanese.

Al nord troviamo il Ligure, limitato alla Liguria e al Piemonte del sud. Anche se, alcune iscrizioni, portano a pensare che fosse diffuso anche nel Canton Ticino. Il Ligure è lingua di difficile classificazione: alcuni esperti lo legano alle lingue celtiche, altri al ceppo latino. Personalmente condivido questa ultima ipotesi.

Abbiamo poi il Greco, diffuso nel sud della penisola, in Sicilia soprattutto, e in quella area che sarà la Magna Grecia.
In Toscana si parlava Etrusco, ma vi erano delle zone che subirono l'influenza umbro-osca (Cortona, Camucia e Terontola) e l'influenza ligure (Garfagnana). L'etrusco era parlato anche in Emilia (Bologna in etrusco si chiamava Felsinea), mentre la Romagna risentì - nel ravennate - l'influenza veneta e da Rimini in giù, Marche comprese, imperava il latino preromano.


Effetto sostrato
Con il diffondersi del latino come lingua di gran parte della penisola italica, le cosiddette "lingue minori" si dispersero. Restò solo il greco, che "minore" non era, radicato in Sicilia e parte della Calabria.

La scomparsa delle lingue minori è il germe del dialetto e, meglio, dei vari dialetti. Non solo: scomparendo dagli atti ufficiali la lingua estromessa si ramifica in varie cadenze dialettali e si insinua nella lingua corrente con forme lessicali e fenomeni fonetici che sembrano sfuggire ma che - se ci pensate - tutti i giorni sono presenti nei nostri dialoghi. Questo fenomeno è noto come "effetto sostrato".

Sostrato, ovvero substrato, quando ad una lingua parlata se ne sovrappone un'altra. Ma la lingua usurpata, "vive" con forme lessicali e fonetiche. Sembra complicato ma non lo è! Facciamo qualche esempio: in gran parte della Toscana si parlava l'etrusco poi diventato sostrato del latino che a sua volta è diventato sostrato del volgare e quest'ultimo sostrato dell'italiano. Orbene, dove e come si manifesta l'etrusco? Pensateci: in Toscana la lettera "c", seguita da vocale è detta in modo "aspirato", ovvero la "casa" diventa "hasa", così come il "cane" diventa "hane". Questo perché la lingua etrusca era una lingua molto "aspirata" e i toscani, nel tempo hanno mantenuto questa specifica etrusca.

Ancora un esempio che riguarda il centro Italia: in alcune zone il fenomeno dell'assimilazione dei nessi consonantici "nd" ed "mb" diventano rispettivamente "nn" e "mm", così "mondo" diventa "monno" e "gamba" diventa "gamma". Questo fenomeno è presente nelle zone dove si parlava l'osco-umbro. A Foligno, che dicono essere il "centro del mondo" (ma non è vero), la dizione è "centro de lu monno".

Ancora un esempio: nel viterbese la "V" è sostituita spesso dalla "B"! C'è un detto che recita "se vuoi bere bevi, se non vuoi bere vattene", in viterbese diventa "se bo bi, bi, se non bo bi, battene".Non ridete!

A Bastia Umbra la "B" spesso viene sostituita dalla "V", per cui "domani vado alla fiera di Bastia”, diventa "domani vo alla fiera de Vastia". E durante le feste natalizie c'è un gioco chiamato "bestia". Ed allora a “Vastia si gioca a vestia".

A Narni si parla senza usare quasi mai gli articoli!
Esempio: "prendo una lametta e mi taglio le vene" diventa "pijo lametta e taijo vene"!

Ed ora pensate alle vostre zone e vedrete che troverete molti sostrati.


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- Società

I dialetti

I dialetti
Affrontiamo il discorso dei dialetti italiani.
Possiamo dividerli in gruppi:

1. dialetti galloitalici (Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia e Romagna);
2. dialetti veneti;
3. dialetti toscani:
4. dialetti romaneschi;
5. dialetti centromeridionali;
6. dialetti sardi;
7. dialetti ladini e friulani.

Sono 7 gruppi che a loro volta hanno dei sottogruppi e, in modo più marcato, i gruppi 1 - 5 - 7.

Partiamo dal gruppo numero 1, ovvero i dialetti galloitalici. Essi riguardano il nord Italia ed il confine lo possiamo immaginare come una linea che dalla punta più a levante della Liguria - dove confina con la Toscana - arriva fino al confine tra Romagna e Marche.

Questa linea di confine separa - idealmente - i dialetti del nord da quelli centromeridionali, escluse quelle regioni che fanno testo in proprio e che sappiamo essere Veneto, Toscana, Lazio e Sardegna.

Caratteristica dei dialetti del nord è la perdita di vocali e consonanti nel comune parlare. Al contrario, nei dialetti centromeridionali s'è portati di più al raddoppio delle stesse, più nel meridione che nel centro. Nel quale centro, nei dialetti, si è portati a confondere la "T" con la "D", la "C" con la "G" e la "S" con la "Z".
Tanto per capirci: Macerata diventa "Magerata"! Aranciata diventa "arangiata"! Senza diventa "sensa" e lavandino diventa "lavantino".

Ma queste differenze sono solo fonetiche perché quando vanno a scrivere, tutto torna a posto.

Tornando ai dialetti del nord di influenza galloitalica, c'è da dire che questa influenza la ritroviamo nel Principato di Monaco, nel Cantone Ticino ed in alcune enclave meridionali situate in Sicilia e Basilicata. Anche in Sardegna - che pure ha un suo proprio gruppo di dialetti, troviamo enclave galloitaliche. Esse sono presenti nelle isole di San Pietro e Sant'Antioco. Vedremo in seguito come si sono formate.

Per quel che riguarda i dialetti veneti, li ritroviamo in Istria, questo perché l'Istria è stata italiana per molto tempo ed ha influenzato anche le regioni interne di Slovenia e Croazia - un tempo tutta Yugoslavia.

I dialetti centromeridionali hanno influenzato la Corsica. Soprattutto i dialetti umbri. Infatti c'è molta assonanza tra la fonetica corsa e quella umbra: "u populu corsu, anch'ellu ha dirittu a parlà" è un detto popolare per rivendicare l'indipendenza corsa dalla Francia. Ora se analizziamo il testo e lo confrontiamo con un testo umbro centro-meridionale, ovvero da Foligno a Terni, le somiglianze si notan "piju nu turturu e te scocciu lu mellone", (prendo un bastone e ti rompo la testa) le assonanze in "U" sono imbarazzanti! Poi, altra cosa che ci dice di un rapporto tra la Corsica e l'Umbria, sono le città. Ben due città corse, Bastia e Calvi, le ritroviamo in Umbria. Di Bastia abbiamo già accennato e si trova in provincia di Perugia. Di Calvi dico che il dialetto calvese risente dell'influenza romana e quindi oltre ad usare molto la lettera "U" per chiudere le parole, difetta della doppia "erre", come i romani, quando parlano. Ecco allora che "RR" diventa "R", terra diventa "tera". Con una aggravante: la erre viene raddoppiata dove non serve. Ed allora "la famiglia Ferrante abita in via Taro", foneticamente per i calvesi diventa "la famiglia Ferante abita in via Tarro"! E vi può capitare, come è capitato a me, di ascoltare una telefonata di questo genere: una signora da un telefono pubblico stava dettando un indirizzo e . Mi posso immaginare la faccia del ricevente la telefonata!

Abbiamo accennato ai dialetti sardi e ladini, ma è sbagliat bisogna parlare di due vere e proprie lingue.

La lingua sarda è divisa in due sottogruppi:

1. sardo settentrionale;
2. sardo centromeridionale.

La lingua ladina ha tre sottogruppi:

1. ladino dolomitico, che si parla a cavallo delle province di Trento, Bolzano e Belluno;
2. ladino friulano, in Friuli;
3. ladino romancio o grigionese che si parla nel Cantone dei Grigioni, in Svizzera.

Torniamo alla lingua sarda e ai suoi 2 sottogruppi. Quello settentrionale è anche detto logudorese ;
quello centromeridionale è detto campidanese.

È questa la divisione per così dire "storica" della lingua sarda. Ma oggi, per semplificare, s'è portati a dividere la lingua sarda in 5 sottogruppi:

1. nuorese, parlato nella parte centrale dell'isola;
2. gallurese, parlato nella parte nord orientale;
3. logudorese, parlato nel centor nord;
4. sassarese, nella città di Sassari e dintorni;
5. campidanese, parlato nel sud dell'isola.

Tra questi sottogruppi il logudorese è quello che meno di tutti ha risentito delle influenze esterne, ovvero continentali. Chi ne ha risentito di più è il campidanese e, in tono minore, il gallurese. Ciò è dovuto alla forte spinta turistica che porta sempre più gente continentale ad eleggere la Sardegna come seconda zona di residenza.

Ma la storia della lingua sarda viene da lontano ed ha subito diversi influssi. Nell'VIII secolo a.C. l'isola fu colonizzata dai Fenici per poi passare nel VI secolo a.C. ai Cartaginesi. L'influsso punico - non alterò una cultura sarda già radicata, tanto è vero che Cagliari mantenne il suo nome "Kalaris" e i Cartaginesi non fecero nulla per incidere sulla lingua. Resta il fatto di una occupazione e qualche riflesso ci sarà pure stato.


Influsso greco-bizantino
Sicuramente Olbia fu colonia greca, così come Sant'Antioco dove le chese denotano una spiccata architettura greco-bizantina.

Influsso germanico
Quello che meno ha inciso nella lingua sarda. Il suo passaggio non fu avvertito dagli isolani e solo studiosi attenti ne vanno alla ricerca di tracce labili.

Influsso arabo
Anche questo incide poco ma certamente più del teutonico. Gli Arabi fecero incursioni nell'isola intorno all'anno 1000 per l'esattezza nel 1015 e sicuramente è araba la città di Arbatax, che vuol dire "14". La spiegazione di questo nome sta nel fatto che in quella zona era posizionata la 14esima torre nautica di avvistamento. Spiegazione che non mi convince ma che prendo per buona. Se qualche amico sardo ne ha una più plausibile e documentata, tanto meglio.

Influsso catalano
Gli Spagnoli occuparono l'isola dal 1323 al 1478. l'influsso è molto forte perché gli occupanti imposero la loro lingua. Ciò comportò la traduzione di tutti gli atti amministrativi e tutti i decaloghi di legge. Gli Spagnoli fecero quello che sapevano fare: colonizzare! Ma lo facevano con la leggerezza latina e non con la determinazione inglese. Ma questo non c'entra un accidente.

Siamo all'influsso italico
Già prima degli Spagnoli le Repubbliche marinare di Genova e Pisa erano sbarcate in Sardegna. E vi era tra l'isola e le due Repubbliche un forte scambio economico che portò maestranze pisane e toscane in genere ad insediarsi sull'isola radicando ed incidendo il toscano ed il sardo. Poi col Regno dei Savoia l'incidere fu quasi legislativo.


Da anni in Italia si dibatte a proposito dei dialetti: dialetti si o dialetti no? Io sono per il SI! Credo che essi siano ricchezza e che la nostra storia e cultura non può farne a meno.

Tra le varie forme dialettali, quella più fortunata è stata quella toscana e fiorentina specialmente. Il perché va ricercato nell'ampia produzione di quelli artisti e - in particolare - della triade inarrivabile: Dante, Boccaccio e Petrarca. Tre campioni di questa stazza e contemporaneamente, è cosa rara. Le fortune del dialetto toscano nascono da qui! E con l'affermarsi del modello Toscano, anche chi toscano non era, era portato ad andare in Toscana e scrivere con quel modello di scrittura. Un esempio è il Boiardo, Emiliano, che si trasferisce in Toscana per meglio capire questa nuova lingua.

Sono d'obbligo i ringraziamenti a due persone più una che mi hanno fornito notizie utili a questo post. E rispettando la rigidità alfabetica dico grazie al Professor De Robertis che, quando non è invasato di politica - e quindi non litighiamo - sa essere persona splendida! Ma si sa: la perfezione non è di questo mondo!

E grazie anche al signor Marongiu, conosciuto occasionalmente. E ringrazio il Padreterno di averlo incontrato perché mai m'è capitato di conoscere una persona più attenta e precisa nelle sue ricerche. La mia post-fazione ad una sua dispensa ha gratificato più me che lui.




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- Società

Le lingue e le etnie in Italia

Le lingue e le etnie in Italia

Se esistono lingue diverse dall'italiano, parlate nella nostra penisola, è perché queste lingue sono state importate dai Paesi d'origine. È pacifico che se io me ne resto a casa mia, nessuno conoscerà l'italiano, ma se io mi trasferisco nel Burundi con altre 100 famiglie, ecco che l'italiano comincia a farsi sentire e col passare degli anni, col crescere della comunità italiana, diventerà sempre più una lingua parlata in Burundi.

Questo banale esempio è per dire che all'origine c'è sempre un " trasferimento" di genti, dall'uno all'altro stato. E il trasferimento può avvenire per diversi motivi: commerciali , militari, culturali e per spontaneità. C'è anche un altro motivo, meno nobile ma sempre il più diffuso: l'occupazione.

E vediamole queste etnie in Italia.

L'etnia albanese
Fu Alfonso I d'Aragona che, nel XV secolo favorì la venuta degli Albanesi nel Regno di Napoli. L'insediamento albanese continuò incessantemente fino al XVIII secolo e agli inizi del 1900 vennero istituiti anche due vescovati obbedienti al rito greco-ortodosso; uno in Sicilia ed uno in Calabria. Questo per dire quanto forte era la presenza albanese.

La lingua albanese, l'Araberesh, a cavallo dei secoli sopra citati (XV - XVIII) ebbe un grosso sviluppo anche letterario grazie al De Rada che pubblicò ampie raccolte di canti popolari, novelle e tradizioni popolari del popolo albanese, nel rispetto della sua convinzione che l'Italia doveva essere unita sotto i Savoia, tant'è che partecipò al Risorgimento italiano.

Oggi la comunità albanese in Italia, a causa dei notevoli cambiamenti ambientali politici di tutto il sistema Europa, ha subito delle trasformazioni e, abbandonate le campagne, oggi si sono insediate nei grandi centri urbani. Ciò ha comportato una perdita dell'identità linguistica Araberesh, a vantaggio di in linguaggio che risente degli altri insediamenti slavi
Accasatisi da noi.

Il nome Arberesh deriva da Arberia, che era il nome della prima comunità albanese stanziatasi in Italia. Secondo i dati ISTAT relativi al 2001 (il prossimo censimento lo avremo nel 2011, ovvero in tutti gli anni confinale 1), la comunità albanese presente in Italia e in regola con le nostre leggi, conta quasi 100.000 unità e circa 80.000 si riconoscono nella lingua Araberesh.

La loro presenza - a macchia di leopardo - interessa la Campania, la Lucania, il Molise, la Puglia, la Calabria e la Sicilia.

Sono attive molte associazioni culturali italo-albanesi, e si stampano anche opuscoli che vengono distribuiti tra le comunità censite. Sono opuscoli, meglio dire giornali, che parlano delle loro comunità e mantengono i rapporti con la madre patria. E che rientrano nella legge per l'editoria per cui accedono ai finanziamenti pubblici!

I brigaschi
Dobbiamo andare indietro fino al 1582. Dovete sapere che in quel tempo, i Conti Liscaris di Ventimiglia, godevano della possibilità di governare su uno stato tutto per loro. Non deve meravigliare la cosa perché anche in Umbria - e ci risiamo - esisteva uno staterello indipendente ed era la Indipendente Repubblica di Cospaia , situata nella punta nord dell'Umbria, poco distante da San Sepolcro. Quindi se esisteva in Umbria, non vedo perché non ne dovessero esistere altre.

E torniamo al 1582. I Conti Liscaris cedono alle lusinghe savoiarde e donano agli eredi di Biancamano lo staterello su cui governavano.

Il trattato del 1947, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, non portò a grandi modifiche quella parte di confine, se si eccettua il passaggio del Col di Tenda e di Briga alla Francia.

E saltiamo ancora al 1582. Quelle persone che abitavano lo Stato dei Liscaris - che a loro volta si erano trasferiti a Ventimiglia, a godersi quello che i Savoia avevano loro promesso per come erano andate le cose - quelle persone, dicevo, pur ora facente parte del regno dei Savoia, mantennero la propria lingua. È una lingua che si rifà all'occitano e che ha ripreso vivacità negli anni '80 allorché fu fondata una Associazione culturale - A Vastera - cui fece seguito anche una rivista, che ancora si stampa, "R ni d'aigura".

I Carinziani
Vivono nel comune di Timavo, in Carnia, nella Val Canale. Da sempre sono lì e vivono con le loro tradizioni e i loro usi, tranquillamente, non hanno Associazioni con la Regione Friuli e non hanno giornali. Il loro numero è molto limitato.

I Carnici
Questo gruppo linguistico è una anomalia tutta italiana. Eh si perché sono italiani a tutti gli effetti, parlano italiano - considerate che sono 40.000 e solo 1.000 parlano un dialetto tedesco! Ovvero il 2.5 percento!

Il dubbio che mi assale è che qualcuno vuole lucrare sulla legge 15/96 e successiva 482/99 che parla di tutela per le minoranze linguistiche. Io capisco le minoranze ma che il 2.5 percento sia quota da tutelare mi fa sorridere! Non si possono dare percentuali così…come fossero quisquiglie! Bisogna motivare e dare dei parametri. Perché un 2.5 percento su 1.000.000 ha una valenza numerica,ma su 1.000 fa ridere come fa ridere su 40.000! m per favore!!
Anche questi sono misteri italici!

I Catalani ad Alghero
Ad Alghero, splendida città sarda nel versante ovest dell'isola, su 32.000 abitanti, circa 20.000 parlano il catalano.

Tutto comincia nel 1323 quando Alfonso D'Aragona comincia l'occupazione della città. Alghero, fedelissima di Genova, non restò passiva ma lottò strenuamente e solo nel 1353 (dopo 30 anni) le truppe di occupazione entravano ad Alghero.

Ma nonostante la sconfitta e la dura occupazione, i cittadini di Alghero sfruttavano ogni pretesto ribellarsi agli occupanti. Le continue rivolte degli abitanti di Alghero indussero il re "Pietro il cerimonioso" ad espellere tutti i genovesi e i sardi più facinorosi -che erano la gran parte. Questo accadeva nel 1572. svuotata da braccia lavoratrici e da combattenti, Alghero si trovò senza forza lavoro e con i soli vecchi e bambini e le donne.

Da qui l'idea di ripopolare quelle terre con nuovi nuclei familiari e riprovare così a far ripartire l'economia della zona.

Arrivarono famiglie da Terragona, Valencia, Barcellona le isole Baleari e da altre città della costa orientale iberica. ben presto il catalano divenne la lingua ufficiale di quasi tutta la Sardegna nord occidentale.

Alghero, godendo di uno statuto speciale, divenne città ricchissima e potente ma legata fortemente alla madre patria di Spagna. E anche quando passò ai Savoia, che imposero l'italiano come lingua, la zona di Alghero mantenne il proprio linguaggio, ovvero il catalano. E ancora oggi, come s'è detto, oltre la metà degli abitanti di Alghero parlano il catalano!

Ancora oggi si stampa un quotidiano in lingua catalana: La Rivista de l'Alguer, il che la dice lunga sull'influenza che il catalano esercita ancora sulla città dei coralli. E neanche il Fascismo, che pure riportò centinaia di famiglie in Sardegna, soprattutto a Fertilia, zona paludosa bonificata dal Regime, dicevo appunto che neppure il Fascismo riuscì a sradicare il catalano.

I Cimbri
Il cimbro trae origine dal tedesco. Tra i secoli XII e XV assistiamo ad una migrazione dalla Baviera verso le Alpi e queste genti andarono a stabilirsi - per la gran parte - sull'altipiano di Asiago, altri sulle colline veronesi.

Queste comunità, in tempi brevi, ottennero il riconoscimento della Serenissima, che su quei territori comandava. Questo riconoscimento comportò - come nella logica delle cose - il diffondersi della lingua parlata dai bavaresi. Una lingua che col tempo si è "venetizzata": si può dire? Ovvero ha risentito del dialetto Veneto. Dando vita ad una miriade di dialetti. Il più diffuso è il "baiuvaro" parlato in una dozzina di comuni, mentre - ahimè - si sta perdendo il dialetto di Lucerna, sono rimasti circa in 300 a parlarlo. Si conserva bene - invece - il dialetto di Sappada.

A quello che risulta, sono attive due Associazioni Culturali, con sede a Palù di Giovo e Lucerna. L'ISTAT ci dice che i dialetti di ceppo cimbro sono parlati da circa 2.300 persone e il rischio estinzione è concreto.

I Corsi
Sono legato ai Corsi perché la famiglia di mia madre è di origine corsa ed è imparentata con quel Pasquale Paoli che della Corsica rappresenta lo spirito di indipendenza. Anche se - va detto per onore di verità - qualche errore lo ha commesso. Uno su tutti: d'essersi fidato degli Inglesi! Stramaledetti Inglesi. Mi consolo pensando che anche un altro Corso, ben più famoso, commise lo stesso errore dopo Waterlo gli dissero che lo avrebbero portato in Inghilterra ed invece lo sbarcarono a Sant'Elena, che proprio la stessa cosa non è!

Dopo questa dissertazione che nulla c'azzecca (per dirla alla Di Pietro) veniamo ala comunità corsa. Poco da dire: sono circa 10.000 e tutti concentrati alla Maddalena. Non mi risulta abbiano Associazioni culturali né giornali.

I Croati - meglio dire "Serbo-Croati".
Quasi tutti in Molise, nella provincia di Campobasso. Ma parlare di"Croati" è improprio
Arrivarono nei nostri lidi tra il XV e XVI secolo per sfuggire ai Turchi (mamma li turchi…), approdarono sulle coste adriatiche da Ancona fino alle Puglie, per poi trovare ospitalità più sicura in Molise appunto. Ad oggi risultano essere circa 3.500 e parlano un dialetto arcaico denominato Stovako. Questo dialetto si stava perdendo ma poi, negli anni '70 riprese vigore quando gli anticomunisti di Tito - allora padrone di una nazione che non c'è più: la Jugoslavia - per sfuggire alla repressione titina, ripararono in parte in Italia, andando ad ingrossare le fila dei serbo-croati in Italia.

Dopo la frantumazione della galassia jugoslava e la nascita di altri stati (Slovenia, Croazia, Serbia, Montenegro, Bosnia Erzegovina, Kossovo, Macedonia e forse ne dimentico qualcuno), ci fu una nuova ondata di profughi che raggiunsero le nostre coste orientali. Ma questa ultima ondata s'è praticamente affrancata dal dialetto originale per cui è lecito pensare che nel giro di qualche decennio si perderà del tutto!

Gli Ebrei
Non parliamo qui di minoranza linguistica, ma minoranza etnico-religiosa. Il discorso si fa complicato e ci porterebbe lontano, ma mi riprometto di tornare sull'argomento, sull'olocausto, sul problema palestinese, sulla diaspora, sul sionismo, sull'economia e su tutto quello che ancora oggi è "la questione ebraica".

Gli Ebrei in Italia sono circa 30.000 divisi in 21 comunità. Le due principali sono Roma e Milano, seguono poi le comunità di Firenze, Livorno, Trieste, Torino e Venezia. Se consideriamo che fra Roma e Milano sono in 25.000, le altre comunità contano in totale 5.000 iscritti con una media di circa 260 iscritti. Terni ne conta circa 300 ed all'interno del cimitero cattolico c'è il cimitero ebraico.

Non hanno una loro lingua anche se fino a qualche decennio fa parlavano una loro lingua chiamata "Italkian".

I Francofoni
Sono i valdostani di lingua francese e sono circa 22.000. il bilinguismo in Valle d'Aosta è riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico. Con L'Union Valdotene sono presenti in Parlamento.

I Franco-Provenzali
I dialetti francofoni della Val d'Aosta sono riconducibili al franco-provenzale che ebbe sviluppo proprio da quelle parti, laddove ovvero prosperò l'occitano.

Nel 1970 ci fu un tentativo - aberrante - di "creare" un nuovo dialetto chiamato "arpitano". Mai idea fu più disastrosa! E ciò dimostra che i dialetti così come le lingue, nascono spontanei e non per inventiva.

Quando nel 1861 ci fu l'unità d'Italia, il governo dichiarò l'italiano unica lingua del Regno. E che venivano di conseguenza abolite tutte le altre lingue. Mai decisione fu più avventata! Come poteva un popolo che aveva parlato sempre il francese rinunciare al proprio idioma? E poi quello stesso Governo glissava sul fatto che a Corte si parlasse il francese…ma per favore…

Ed infatti non vi rinunciarono e le cose si misero in una brutta situazione nel 1925 quando il Fascismo, appena andato al potere, impose una forte repressione verso chi non adottava l'Italiano per parlare: si passò dall'abolizione delle doppie indicazioni alla italianizzazione dei cognomi. Un esempi Renato Rascel divenne Rasceli! Cose assurde!

Nel 1941 una sommossa popolare con a capo il religioso J. Treves portò alla fondazione di un movimento partigiano chiamato "La giovane Valle" che raccoglieva i partigiani di lingua francese.

Nel 1944 viene assassinato il letterato E. Chanoux che nel frattempo era succeduto a Treves nella guida del movimento. E proprio da quel movimento partigiano nasce "L'union Valdotaine".

Come s'è detto col tempo il Governo ha riconosciuto il bilinguismo ma con un vizio di forma grave: ha riconosciuto quello francofono e non quello franco provenzale! E così una minoranza francofona - circa 22.000 persone - ha privilegi che non ha la maggioranza franco-provenzale - oltre 95.000 persone - che, per far fronte a questa ingiustizia, si sonno associati in movimenti di pressione su Roma politica.

Gruppi gallo-italici nel mezzogiorno d'Italia
In alcune zone della Sicilia e della Lucania si parlano ancora i dialetti del nord. La cosa non deve stupire perché anche se può sembrare una anomalia, tale non è!

Tutto risale all'XII secolo quando nobili del sud e nobili del nord contrassero matrimoni tra di loro. Furono soprattutto i Marchesi del Monferrato che si legarono ai nobili siciliani e lucani. Questi matrimoni hanno fatto in modo che ingenti nuclei familiari piemontesi scendessero a l sud e il resto è storia di oggi.

I grecanici del Salento e dell'Aspromonte
Questo gruppo di dialetti è ancora oggetto di discussione da parte degli esperti in materia.

Come si evince dal nume tutto nasce dalla cultura greca, quindi dalla Magna Grecia, con una mutazione però della lingua di origine dovuta all'intrecciarsi di lingue diverse.

Oggi le zone influenzate da questi dialetti sono limitate al Salento e all'Aspromonte mentre si sono perse le zone siciliane. Nel Salento i Grecanidi sono circa 35.000, mentre in Aspromonte sono poco più di 13.000.

Questi due gruppi, pur parlando lo stresso ceppo dialettale, si differenziano per sfumature e locuzioni ed si può dire - senza andare lontano dalla verità -
Che i dialetti sono praticamente due, diversi l''un l'altro. Quando all'inizio dicevo che questi dialetti sono ancora oggetto di studio, mi riferivo proprio a questa diversità. E allora il grecanico talentino si chiama si chiama "Grico" e quello calabro "Romaico".

Gruppi gallo-romanzi nel meridione
In provincia di Foggia ci sono due comuni dove si parla un dialetto di tipo franco-provenzale, in tutto sono poco meno di 2.000 persone ed ancor oggi non si è giunti a capo del perché di queste isole così distanti dalla fonte. Da tenere presente che questo dialetto è una forma arcaica di quello parlato nella Val Felice!!!! Regno indiscusso dei Valdesi e della loro Chiesa.

Ora sappiamo che tra il 1500 e il 1600 i Valdesi furono soggetti a vere persecuzioni, seconde a nessuno per atrocità, cattiveria e accanimento. E quindi l'unica spiegazione raziocinante è che dei gruppi avessero deciso di abbandonare la Val Pellice stabilirsi in zone più sicure!

C'è poi un'oasi che parla l'occitano. Sono 350 persone circa e questo dialetto sarà presto dimenticato.

I Ladini
Sono circa 55.000 i fruitori del ladino. Essi sono divisi tra le valli Gardena, Badia e Marebbe in Tirolo, Fassa e Moena in Trentino, Livinallongo, Ampezzo, Borca di Cadore e Pieve Complico in Veneto.

Durante il fascismo i ladini, come per le altre minoranze, furono obbligati a rinunciare alla loro libertà linguistica. Cosa che nei fatti ufficiali risultava essere cosa fatta, ma nella realtà non lo era perché essi continuarono a parlare il loro a diletto.

Il Fascismo, pur di ottenere il proprio scopo divise il gruppo dei Ladini modificando i confini delle loro zone. Ma anche questo non fu un deterrente utile allo scopo. Anzi: rafforzò l determinazione ladina ad avere uno spazio proprio.

Nel 1948 chiesero la reintroduzione dei vecchi confini ma la lentezza della burocrazia non ha sortito alcuni effetto.

Varie sono le Associazioni Ladine e tutte regolarmente registrate.

I Mocheni
Questa minoranza è di origine Cimbra e in Trentino tra i comuni di Palù di Giovo, Fierozzo e la Val Ferina.
Sono poco meno di 2.000 ed il dialetto mocheno è a rischio estinzione.

Gli Sloveni
Ho già parlato della minoranza Slovena, mi core solo l'obbligo di fornire il numero delle persone che usufruiscono di questa lingua e dei dialetti d essa derivati. Le stime del Viminale, basate sull'ultimo censimento, dicono che sono circa 80.000 e tutti sul le zone di confine.

I Tabarchini
Nelle isole di Sant'Antioco e di San Pietro, e precisamente nei comuni di Carloforte e Calasetta, si parla un diletto genovese che interessa circa 10.000 persone.

Il nome Tabarchini deriva all'isola Tabarca da dove venivano i coloni che fondarono i due centri, rispettivamente nel 1738 e nel 1770.

I Tirolesi
Qui c'è da fare tutto un discorso che occuperebbe molte pagine, per cui dedicherò a questa minoranza un post ad hoc.

I Walser
La Comunità Walser vive nella zona della Val d'Ossola. Discendono da un gruppo tedesco ed arrivarono in Val d'Ossola nel XII secolo.parlano un dialetto denominato Titsch e le ultime stime ci dicono che sono in circa 2.000.

Ad Alagna hanno un loro muso che ci racconta delle loro origini e tradizioni.

Gli Zingari
Anche per i ROM vale il discorso fato per i Tirolesi, se non altro perché, insieme agli Ebrei sono stati quelli più perseguitati dai Nazisti. E poi c'è tutta una cultura ROM che non può essere liquidata in poche righe.

Un ringraziamento affettuoso alla Chiarissima Dottoressa Professoressa Maria Pia Cimarelli ed al gruppo dei suoi assistenti che mi hanno fornito le notizie qui riportate.

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- Storia

Il caso Moro: 33 anni di misteri

Caso Moro: trentatre anni di misteri
Il 16 marzo prossimo saranno 33 anni del rapimento e l’assassinio di Moro e la sua scorta. Trentatre anni che hanno segnato la vita del nostro Paese, nel bene e nel male! Trentatre anni in cui troppo spesso l’antipolitica ha vinto sulla politica. Trentatre anni che hanno segnato la fine di un’epoca: quella della Democrazia Cristiana! E con essa sono spariti il PSI, il PLI, il PSDI e il PRI. Trentatre anni ! Eppure sembra ieri!


Quella che segue non vuole essere una ricostruzione storica – troppo vicini sono i fatti che ci interessano – ma una ricerca di verità che oggi ancora non si conosce. E mi pongo delle domande che so rimarranno senza risposta. Mi rivolgo soprattutto ai più giovani che di quel fatto poco conoscono perché da sempre poco se ne parla. È come se questa nazione volesse rimuovere dalla memoria un pezzo di storia. E a volte mi domando come sarebbero andate le cose se il “progetto Moro” fosse andato a buon fine, ovvero se si fosse attuato il “compromesso storico”!

Il progetto si arenò e da quel fatale giorno prende vita un governo di “Unità Nazionale”, ovvero un monocolore DC cui il PCI da un appoggio esterno. Sarà un’esperienza che durerà lo spazio di un attimo e si tornerà alla contrapposizione DC – PCI.

Alla fine degli anni ‘80 – esattamente nel periodo che va dal 1987 al 1992 – ci sarà un nuovo tentativo di varare una alleanza col PCI. I nuovi teorici siamo Maurizio Giraldi – una mente lucida e creativa – ed il sottoscritto. Nascono i Centri Studi chiamati “Unità Popolare” che attecchiscono in tutta Italia. Aderiscono personalità della DC molto in vista: Andreotti su tutti, ma anche D’Onofrio, Luigi Baruffi, Don Giussani con tutta “Comunione e Liberazione”, Formigoni,Lima, Ombretta Fumagalli Carulli, Gaspari, Bisaglia, i Gava, Vito, Forlani, e i “pontieri” di Zamberletti. Il progetto è chiamato “Il Governissimo” e riprende il discorso avviato da Moro.

Nel 1990, a Roma, presso l’hotel Ergife, si tiene una grande riunione per sancire la nascita di questa maxi alleanza cui partecipano tutte le personalità interessate ma…Ma tutto finisce con Mario Chiesa, Presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano che viene beccato con 7 milioni delle vecchie lire, una tangente che aveva incassato…il ciclone Di Pietro mette fine ad una stagione politica. E con la fine della DC muoiono le speranze di Giraldi e mie di vedere realizzato il nostro progetto. Maurizio Giraldi morirà nel 1992: dializzato, era in attesa di un trapianto di rene che non fece in tempo a fare.

E veniamo a quel tragico giorno.

Il 16 marzo 1978, il Presidente della DC (Democrazia Cristiana), On. Aldo Moro, venne sequestrato a Roma – in via Fani – dalle Brigate Rosse e gli uomini della sua scorta assassinati.

Quel 16 marzo, per la politica italiana – e per lo stesso Aldo Moro – è un giorno importante: alla Camera si vota la fiducia al Governo Andreotti che presenta una grossa novità: l’ingresso del PCI al Governo! Artefice di quello che viene definito “il compromesso storico” è proprio l’On. Aldo Moro! La sua teoria era molto semplice: per arginare la crescita di consenso del PCI, bisogna che abbia responsabilità di Governo, perché l’elettorato è portato a scaricare ogni colpa su chi governa e mai su chi fa opposizione!

Per tutta la durata di quel sequestro (55 giorni) i media e l’opinione pubblica italiana, europea e mondiale seguirono col fiato sospeso quel tragico fatto. Con vari ultimatum, pena la vita dello statista, le BR chiedono un riconoscimento politico del loro movimento e la liberazione dei brigatisti sotto processo a Torino. PCI-DC sono per la “fermezza”, “rifiutare ogni compromesso”, il PSI è invece per la trattativa. Passano giorni di lacerazioni politiche. Vennero mobilitati politici di ogni Paese, lo stesso Papa Paolo VI, addirittura Cosa Nostra: invano. Il 9 maggio, dopo 55 giorni di prigionia, lo statista venne ucciso dalle BR. Il suo corpo sarà trovato nel bagagliaio di una Renault R 4 rossa, posta emblematicamente a metà strada tra Piazza del Gesù e via delle Botteghe Oscure.

Ai funerali di Stato sono presenti tutti i partiti, ma è assente la famiglia, che non perdona alla classe politica la linea della “fermezza”, escludendo ogni possibilità di trattativa.

Ma nonostante gli anni trascorsi, i “misteri” del “Caso Moro” restano senza risposte. Per i più giovani cerco di riassumere i “lati oscuri” della vicenda, fatti di “stranezze” e “coincidenze”. Vediamoli:

1. I fatti si svolgono in via Fani 109 e un signore, tale Gherardo Nucci, dal terrazzo di casa vede ciò che accade e scatta una serie di foto – 12 per l’esattezza – che consegna alla Magistratura. Ma, come troppo spesso succede, quelle foto spariscono! Chi o cosa aveva immortalato con un click il signor Nucci? C’era qualcuno che lì non doveva essere? Di certo non ha fotografato persone conosciute – a parte Moro – ma forse c’era qualcuno che negli ambienti che contano – forse, e dico forse – era conosciuto. Resta il fatto che le foto sono sparite.

2. Poco distante da via Fani, c’è via Bitossi. Lì abitava il Magistrato Walter Celentano ed una macchina della polizia stazionava perennemente sotto la sua abitazione. Ma guarda caso, quella mattina, pochi minuti prima dell’assalto al Presidente della Democrazia Cristiana, un falso allarme fa muovere la pattuglia sotto casa del Magistrato Celentano. La pattuglia si assenta pochi minuti, proprio quelli durante i quali le BR portano il micidiale assalto a Moro e alla sua scorta.

3. Proprio in via Bitossi le BR lasciano la loro auto rubata e salgono su un furgone che lì era parcheggiato! E non ditemi che è questione di culo!


4. Nell’agenda di Morucci – posta sotto sequestro il giorno del suo arresto – fu trovato il numero di telefono dell’allora Vice Commissario Antonio Esposito – affiliato alla P2 di Gelli e – moh guarda te – capo pattuglia quel giorno – 16 marzo 1978 – dell’auto che sostava in via Bitossi.

5. Per portare a termine il rapimento Moro, sono state usate solo due auto, o meglio, un auto ed un furgone. Considerate che quando le stesse BR rapirono il rampollo dei Gancia (quello degli spumanti) il giovane Vallorino, le auto usate furono tre. Quasi a dimostrare che c’era una pianificazione – o complicità? – metodica e precisa.


6. I terroristi che hanno agito in Via Fani erano 12 mentre per rapire il Giudice Sossi – che non aveva manco la scorta – ne furono impiegati 18! Erano solo più “bravi” o c’erano complicità esterne?

7. Quel furgone che fine ha fatto? Fu abbandonato in una piazza romana – stando alle confessioni rese dagli indagati – ma non è stato mai trovato chi lo ha fatto sparire?


8. Compiuta la strage e rapito l’On. Moro, durante la fuga, un black-out telefonico interessa la zona che da via Fani porta a via Stresa, guarda caso proprio la zona dove transita il furgone con l’esponente DC rapito. I telefoni muti della zona fanno si che nessuno possa telefonare per dare notizie di un furgone che potrebbe avere a bordo Moro.

9. Moro si spostava sempre con 5 borse da lavoro, anzi diciamo 4, la quinta era adibita a piccola farmacia visti i problemi di salute che aveva. Bene, di quelle borse due sono sparite e tre sono state ritrovate sulla scena del crimine. Ora la cosa strana è questa: perché proprio quelle due borse? E siamo certi che le presero i brigatisti? O, piuttosto, non furono prese da qualcuno che sapeva che lì ci sarebbe stato l’attentato? E che forse forse le foto scattate dal signor Nucci riguardavano questo particolare?


10. Quando furono smantellati i covi delle BR, delle borse di Moro non fu trovata traccia: mistero! Ma qualcuno, molto vicino allo statista pugliese, dice che in quelle due borse c’erano le prove che l’accusa mossa a Moro di avere preso fondi illeciti con lo scandalo Lockhed, era infondata e che era stata tutta una macchinazione dell’allora Segretario di Stato americano Harry Kissinger. Il quale Kissinger – stando a questa versione dei fatti – voleva incastrare Moro perché colpevole di sdoganare il PCI.

11. Il Colonnello Guglielmi, facente parte del SISMI (Servizi Segreti) quella mattina era stranamente in via Stresa, circa 300 metri da via Fani 109 dove si consumò la tragedia. La presenza è singolare: che ci faceva lì? La giustificazione di Gugliemi fu che doveva andare a pranzo a casa di amici! Alle 9.00 di mattina!! E dichiarò di non aver sentito nulla! Eh si che ci fu una sparatoria degna dell’OK Corral!


12. Sapete chi era il diretto superiore di Guglielmi? Il Generale Musumeci. E sapete su quale lista si trovava il nome del Generale? Quella della P2!! Che, come s’è già detto, accoglieva anche il nome del capo scorta del Magistrato Celentano. Scorta che si allontanò poco prima della strage.


13. E non è strano che il Colonnello Guglielmi appartenesse a Gladio? Gladio…P2….Bah….

14. Nel 1991, un ex agente del SISMI – tale Ravasio – dichiarò che i servizi segreti avevano un infiltrato nelle BR e che questi avvertì del rapimento Moro! Vero? Non vero? Resta un fatto: un agente del SISMI quella mattina si trovava nei pressi di via Fani!


15. Tra i partecipanti all’assalto c’era un tale che i testimoni hanno definito un “Tex Willer”. Vediamo il perché. Dei circa 100 colpi esplosi dai brigatisti, 50 colpi sono stati sparati da “Tex”! Colpi di estrema precisione se è vero – come è vero – che il killer uccise con estrema sicurezza i due carabinieri che fecero da scudo a Moro, senza esitazioni e senza timore di colpire l’uomo politico. Tra i testimoni c’era un certo Lalli, esperto di armi, che dichiarò che “Tex” era sicuramente un grosso esperto di quell’arma ed un tiratore eccezionale. Quando il commando fu arrestato nessuno dei brigatisti catturati e sottoposti a vari test balistici, era riconducibile a “Tex”! Chi era costui?

16. La ricostruzione dei fatti dimostrò che una capacità come quella dimostrata da “Tex” era specifica dei militari o degli agenti dei servizi segreti anche civili. Non solo, al processo la Faranda dichiarò che facevano pochissimi esercizi di tiro con pistole e fucili.


17. Un altro mistero perché il commando brigatista indossava le divise dell’Alitalia? Non è logica una cosa del genere perché danneggia chi agisce in quanto riconoscibili dai testimoni. A meno che non sia intervenuta una componente esterna alle BR, che quindi non conosceva “de visu” e c’era necessità di capire chi fossero i i brigatisti e chi gli uomini della scorta Moro. Questa tesi darebbe valore a chi sostiene che “Tex” era un esterno e che doveva capire chiaramente a chi doveva sparare e a chi non doveva.

18. Si pensa che il killer poteva essere stato contattato all’interno delle carceri, dove tutto è possibile purtroppo. E la cosa strana è che un detenuto, certo Salvatore Senese, il 16 febbraio 1978 – esattamente un mese prima – informò il SISMI che le BR progettavano il rapimento di un grosso personaggio della DC! E cosa ha fatto il SISMI? Ah si! Mandò Guglielmi!


19. Che ruolo recitò Curcio nel rapimento Moro? Era lui il tramite tra le carceri e l’esterno? Curcio venne a contatto con esponenti della Ndrangheta calabrese e perché Morucci e Moretti hanno fatto – nel periodo precedente il rapimento – diversi viaggi in Calabria? Potrebbe venire dal mondo della Ndrangheta il “Tex” di cui s’è parlato?

20. Non è strano che subito dopo il rapimento Moro venga arrestato un boss calabrese – Aurelio Aquino – trovato in possesso di banconote segnate provenienti dal sequestro Costa, sequestro effettuato dalle BR? Perché la mafia calabrese aveva quei soldi? Ecco tornare il caso “Tex”!


21. Non trovate strano che i primi documenti emessi dalle BR dopo il rapimento siano stati scritti dal Professor Franco, docente all’Università di Cosenza? Fatti appurati dopo l’arresto del professore.

22. A “Tex” vengono associati due nomi: Antonio Nirta e Agostino de Vuono, entrambi indicati dal pentito Saverio Morabito. Perché si sono lasciate cadere le indagini su i due presunti killer?


23. Quella mattina del 16 marzo 1978, chi incontrò Gelli all’Hotel Excelsior di Roma tanto da fargli dire – alle 9.30 – “ormai il più è fatto”? Fatto raccontato durante il Processo Gelli dalla sua segretaria, signora Nara Lorenzini.

24. Moro fu davvero tenuto prigioniero in via Montalcini, 8 interno 1? Patrizio Peci, il superpentito che farà crollare il disegno delle BR dice di no. Egli dice che Moro fu tenuto in un retrobottega di un negozio poco fuori Roma. Affermazione – questa – smentita da Savasta, a sua volta arrestato nel 1982. Ora mi chiedo perché Peci – attendibile in tutte le sue altre affermazioni – non lo è in questo caso? Perché si crede a Savasta e non al numero 1 dei collaboratori di giustizia? Che pentola andava a scoperchiare Patrizio Peci?


25. Dopo l’arresto Savasta si pente e da una nuova versione; Moro era tenuto prigioniero in un appartamento in via Laurentina. Appartamento di proprietà di Anna Laura Braghetti. Però in questo caso non viene ritenuto attendibile e gli inquirenti dichiarano che l’appartamento-prigione è quello di via Montalcini, al numero 8 e all’interno 1! Perché scartare e liquidare sommariamente le altre due ipotesi?

26. Come la mettiamo col fatto che Morucci, dopo l’arresto, dichiarò che Moro fu portato in via Laurentina? E se Savasta aveva detto il vero, di chi furono le colpe della mancata indagine? Era il Magistrato Ferdinando Imposimato!! E, udite udite, dopo questi fatti è andato a lavorare su Retequattro, in un programma chiamato Forum!


27. Ma la domanda più inquietante è un’altra: perché facendo dei controlli in via Montalcini, arrivati al numero 8 e bussato all’interno 1, non ricevendo risposta, i carabinieri non hanno forzato l’ingresso? Cosa si aspettavano? Che i brigatisti dicessero “accomodatevi abbiamo noi l’On. Moro”! E allora delle due una: o sapevano che lì non c’era nessuno o sapevano che c’era qualcuno! Se non c’era nessuno allora ha ragione Savasta; se c’era qualcuno allora vuol dire che le complicità con le BR venivano dall’alto.

28. Nell’aprile 1978, Moro era stato rapito ed era prigioniero delle BR, accadono due fatti “strani”. Viene casualmente scoperto un rifugio brigatista in via Gradoli e – contemporaneamente – viene trovato un falso comunicato delle BR, quello che porta il n° 7. Curiosa è la circostanza della scoperta: qualcuno lasciò aperta la doccia rivolta verso il muro tanto che l’acqua filtrò nell’appartamento vicino e chi l’abitava chiamò i il 113 visto che bussava ma non otteneva risposta. I poliziotti del 113 aprirono di forza il portone e perquisendo l’appartamento si resero conto che l’abitava qualcuno delle BR (si seppe in seguito che lì soleva dormire Mario Moretti, capo delle BR). Ora ditemi: vi sembra credibile che un capo dello spessore di Moretti lasci la doccia aperta? E se lo ha fatto di proposito è perché voleva “bruciare” quel rifugio! Se così è, perché “bruciarlo”?
Anche Prodi, seppure in maniera comica, entra nella faccenda Moro. Stava nella sua casa di campagna – nel bolognese – insieme ai suoi parenti ed alcuni amici con le rispettive famiglie quando qualcuno (chi?) decide di fare una seduta spiritica evocando gli spiriti di La Pira e don Sturzo. Stando a quanto raccontò poi l’On. Prodi, gli spiriti evocati fecero tre nomi (Viterbo,Gradoli, Roma). Che ne sapeva Prodi di Gradoli? E se non ne sapeva nulla, nello stesso momento in cui ne parlò con gli inquirenti, perché gli stessi non indagarono subito su via Gradoli anziché andare a controllare il paese di Gradoli? Alle stesse obiezioni mosse dalla signora Moro, Eleonora, risposero che “Via Gradoli” non era riportata sullo stradario! (sic). Ma la signora Moro, al processo, dichiarò che appena ebbe quella “ridicola risposta” guardò il Tuttocittà trovando via Gradoli!


29. Un’altra ipotesi che si fa circa quel rifugio, è che esso sia stato segnalato dall’infiltrato nelle BR. Però manco questo mi torna: se davvero l’infiltrato segnalò quel rifugio, perché non segnalarlo quando lì a dormire c’era Moretti? Molto probabilmente non esisteva nessun infiltrato. O – se esisteva – era ormai omologato al “sistema!”.

30. I rapitori sentono la necessità di “allentare” la morsa che li opprime ed ecco inventarsi il famoso comunicato n° 7 dove si dice che Moro è stato gettato in fondo al Lago della Duchessa. Tutti al lago a trovare…nulla! Ma ormai quello che doveva sparire (da via Gradoli) era sparito! Cosa? Forse sempre la documentazione che provava le responsabilità di Kissinger nelle false prove contro Moro, accusato di avere preso soldi dalla Loockhed.


31. Ma se chi indagava sapeva dell’esistenza di via Gradoli, perché nessuno ha fatto nulla per trarne un vantaggio?

32. C’è un altro mistero che riguarda l’appartamento di via Gradoli: il giorno stesso del rapimento Moro – 16 marzo 1978 – la polizia fece dei controlli in via Gradoli ma anche in questo caso – bussando – nessuno risponde e gli agenti se ne vanno! Ora a me sembra più un “avvertimento” che una perquisizione. Come a dire: vi stiamo alle costole, provvedete! La giustificazione della Polizia fu che erano controlli di routine e non si poteva forzare una serratura perché non ce ne erano gli estremi! Capito? Quante coincidenze quel giorno! I controlli di routine interessano un covo BR, il colonnello Guglielmi per caso si trova lì nei paraggi, la scorta del Magistrato Celentano si assenta per un falso allarme, il black out dell’allora SIP riguarda proprio la zona del sequestro, il furgone – miracolosamente – sparisce….ma non prendeteci per il culo…

33. Anche Prodi, seppure in maniera comica, entra nella faccenda Moro. Stava nella sua casa di campagna – nel bolognese - insieme ai suoi parenti ed alcuni amici con le rispettive famiglie quando qualcuno (chi?) decide di fare una seduta spiritica evocando gli spiriti di La Pira e don Sturzo. Stando a quanto raccontò poi l’On. Prodi, gli spiriti evocati fecero tre nomi (Viterbo,Gradoli, Roma). Che ne sapeva Prodi di Gradoli? E se non ne sapeva nulla, nello stesso momento in cui ne parlò con gli inquirenti, perché gli stessi non indagarono subito su via Gradoli anziché andare a controllare il paese di Gradoli? Alle stesse obiezioni mosse dalla signora Moro, Eleonora, risposero che “Via Gradoli” non era riportata sullo stradario! (sic). Ma la signora Moro, al processo, dichiarò che appena ebbe quella “ridicola risposta” guardò il Tuttocittà trovando via Gradoli!

34. Il giorno dopo Giovanni Moro, figlio di Aldo Moro, parla con Cossiga il quale gli conferma che via Gradoli non esisteva! Cossiga smentirà il colloquio, ma i dubbi restano.

35. Perché Andreotti se ne esce con una dichiarazione dove afferma che “via Gradoli” non esce dalla seduta spiritica ma dalla autonomia bolognese che si dimostrò ben informata?

36. Perché il Presidente della Commissione Parlamentare, Senatore Pellegrino (PCI) avalla le dichiarazioni di Andreotti? In qualità di Presidente di quella Commissione doveva convocare la signora Moro, il figlio Giovanni, il Senatore Cossiga, l’On. Prodi e mettere tutti a confronto. Invece nulla di tutto questo! Pilato docet!

37. Anche le BR sono divise: c’è chi considera un errore uccidere Moro e chi, al contrario, lo ritiene necessario. Vince la linea dura.

38. Che rapporti c’erano tra le BR e la banda della Magliana? Ovvero, perché per il falso comunicato (il n° 7) le BR si avvalsero di Tony Chichiarelli, falsario della Magliana? E perché in seguito lo stesso Chichiarelli fu ucciso? A chi aveva fatto lo sgarbo? O doveva solo morire perché aveva falsificato cose che no doveva sapere?

39. Perché dopo la Ndragheta calabrese si affaccia anche la Camorra partenopea? E lo fa in grande stile con quello che al tempo era il capo indiscusso: don Rafè! Raffaele Cutolo.

40. Perché lo Stato ha trattato in modo così diverso i vari brigatisti catturati? Mario Moretti, capo delle BR e pluriomicida s’è fatto meno di 20 anni di galera, così anche la Balzerani, mentre Franceschini – che mai ha sparato un colpo – si è fatto poco meno di trenta anni. Per non parlare poi di Curcio che fu condannato all’ergastolo.

41. Va fatta una considerazione: le BR furono il braccio armato che operò, ma chi armò quel braccio? Quali poteri? Quella parte della DC che non voleva l’accordo col PCI? O il PCI che, morto Moro avrebbe trovata un’onda emotiva favorevole? O la Massoneria che da Garibaldi in poi ha sempre inciso sulla vita politica italiana? O la Confindustria che vedeva come fumo negli occhi un accordo col PCI? O la malavita organizzata che tutto aveva da perdere da un Governo forte? O gli USA che non potevano permettere due cose:
a) un accordo col PCI;
b) che venisse sputtanato Kissinger.

O lo stesso KGB che temeva di perdere l’influenza sul PCI? O magari i socialisti che si vedevano scavalcati a sinistra? E sostenendo la trattativa mascheravano il loro disagio. O forse i nostri servizi segreti che non potevano accettare un governo col PCI? O addirittura la stessa Gladio? O tutte queste cose insieme? Chi ci darà risposte? Due cose sono certe:

a) che le BR non agirono di propria iniziativa;
b) che nessuno – e ripeto NESSUNO – amava Moro!

C’è anche possibilità che a volere la testa di Moro possa essere stato lo stesso Vaticano, e i motivi sono ovvi! Di certo non sono stato io!

42. Perché la malavita organizzata, che tutto aveva da perdere da un lungo sequestro, all’inizio operò in aiuto allo Stato e poi prese una posizione diversa? Chi intervenne? È chiaro che la malavita aveva tutto l’interesse che Moro venisse trovato presto così le forze dell’ordine allentavano la presa sulla città. Ed è dimostrato che all’inizio ci fu una sorta di “collaborazione” fra istituzioni ed anti istituzioni, poi vanificata.

43. Perché gli investitori stranieri sono intervenuti in modo massiccio sulla borsa di Milano solo dopo che fu appurata la morte di Moro? Vediamoli questi interventi di capitale:

Montedison + 102 percento;
SNIA + 60,8 percento;
Acqua Marcia + 70.8 percento;
Rinascente + 95,2 percento;
FIAT + 40,5 percento.

Una vera dimostrazione di fiducia nel nostro capitalismo proprio nel momento in cui entra in crisi il Governo di Unità nazionale ridando fiato alle forze più a destra. Coincidenza? Difficile crederlo!

I misteri sono tanti! Le risposte – come cantava Bob Dylan, sono nel vento.


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- Economia

La gaia apocalisse

La gaia apocalisse

Tornare alla moneta di stato libera da interessi;
vietare l’espansione del credito che le banche creano per speculare;
togliere ai privati le BCN, ovvero Banca Centrale Nazionale, che nel caso UE – Unione Europea – vuol dire BCE, Banca Centrale Europea.
Solo così salveremo il mondo da un imminente tonfo mondiale.

Gestire l’economia mondiale attraverso la gaia apocalisse di una economia basata sul sistema odierno, è da irresponsabili, se non addirittura da matti. E quel che è peggio, i matti sono ai vertici dei manicomi, ovvero le banche.

La crisi investirà, entro 3, massimo 5 anni anche Cina ed India: a quel punto saranno cazzi amari per tutti perché la ripresa USA ed europea non compenserà il crack di Cina ed India e perché la disoccupazione sarà ancora alta e crescerà ancora il debito, soprattutto quello esterno che porterà Germania e Francia alle soglie del baratro. Continueranno a crescere le materie prime, caleranno – di conseguenza – i già insufficienti aiuti ai paesi più poveri, africani in testa – e ciò comporterà lo spostamento di massa di milioni di persone verso USA e UE.
Non si tratterà più di semplici sbarchi di clandestini, ma di una vera e propria migrazione di massa. E crescerà la criminalità organizzata: l’unica che in un simile bailamme, avrà da guadagnare.

Dirò di più: già dalla prossima primavera potremo avere crisi economiche che destabilizzeranno i paesi africani e quelli dell’estremo oriente. Siamo ormai vicini al momento in cui gli uomini di finanza dovranno abbandonare le poltrone che – truffando – hanno occupato. E dovremo prestare attenzioni ai militari dei paesi sudamericani e a quelli dei paesi ex URSS. E alla stessa Russia.

Vediamo le cause che sono alla base di questa mia previsione. Anzi: la causa: la proliferazione di masse di credito bancario usato per tenere a galla il mercato azionario e alimentare i giochi speculativi dei fondi di copertura e sui derivati.
Questa massa di liquidità ha tra i suoi effetti di aver provocato l’abbattimento dei salari a causa della inflazione che ha generato.

Tanto per cercare d’essere compreso da tutti: gli Stati Uniti, a metà degli anni sessanta, avevano un dollaro fortissimo ma in poco più di 40 anni ha perso l’85% del proprio valore generando i “nuovi ricchi”: gli speculatori.

Erano la potenza industriale più grande del mondo, oggi sono de-idustrializzati e reperiscono fuori tutto ciò cui abbisognano.

Purtroppo l’attuale economia è basata sui:

1. FIRE: Finance Insurance Real Estate, ovvero Finanza, Assicurazioni e Speculazioni Immobiliari
2. il terziario non avanzato – ristoranti e bar: avete notato quanti ne sono spuntati in questi ultimi anni?-
3. il traffico d’armi.

Manca l’industria totalmente.
Ma giocare coi FIRE rischi però di bruciarti! In Italia ci ha giocato Italease che ha perso la metà del suo capitale.

Ora vi chiederete: ma come hanno fatto persone prive di denaro a speculare: senza soldi non si va da nessuna parte.

Risposta: col credito frazionale. E che minchia è? Provate ad andare in banca e chiedere un prestito col “credito frazionale”. Il più veloce vi dirà che non esiste; il più villano vi dirà che “lei non rientra nei parametri” vi tenderà la mano alzandosi indicando chiaramente che dovete andarvene;
il più cretino vi darà una spiegazione tecnica forbita di paroloni i cui non comprendete il significato e vi licenzierà col sorriso accattivante, vi accompagnerà alla porta, ancora una stretta di mano e…”è stato un piacere Signor….come ha perfettamente compreso noi – come banca – siamo a sua completa disposizione”.
Ma tu non hai capito una mazza e l’altro sa che non metterai più piede nel suo ufficio per un “credito frazionale”. E ti continuerai a chiedere di che cazzo si tratta.

Eccolo qua:

Se un risparmiatore deposita nel suo conto corrente 100 euro, la banca presterà non quei cento euro, ma mille.
Il deposito del risparmiatore (un «passivo» per la banca, perché su di esso paga i modestissimi interessi al depositante) è solo la «riserva» in base alla quale può «creare denaro dal nulla», moltiplicandolo al momento di aprire un fido ad un imprenditore o un mutuo a chi compra una casa. Questi prestiti sono «attivi» per la banca (perché lucra interessi non modesti su 900 euro che non ha), ed è interesse della banca minimizzare i passivi e aumentare al massimo gli attivi.
In teoria, la banca vorrebbe operare con pochissimi depositi (passivi) e fare tantissimi prestiti creando denaro dal nulla.
Le Banche Centrali impongono perciò una riserva obbligatoria, ossia la percentuale di soldi che la banca deve avere in cassa rispetto ai fidi che ha aperto.
Per lo più le banche amano operare con una «riserva» del 3-5%, il che consente di prestare circa venti volte il denaro che hanno in deposito, ma aumenta il rischio della loro insolvenza.

Ovvio che se ti chiami PincoPallo quel tipo di finanziamento te lo scordi, magari se ti chiami Tanzi o Cragnotti o Canavesio e siamo agli inizi degli anni ’80, quel prestito te lo danno. Come lo hanno dato a Ricucci, Coppola similari che – ingordi – ne hanno approfittato finendo come sono.

Capito? Si fanno soldi coi soldi che non esistono e sono solo scritturali, ovvero si tratta di denaro creato dal nulla - non guadagnato, non corrispettivo alla produzione di merci reali, non frutto di risparmio - che circola nell'economia come moneta, ed è la causa prima dell'inflazione.

Inoltre, è denaro privato, come lo è tutto il denaro degli stati (leggete il mio post di ieri).
Col sistema del credito frazionale la valuta esiste solo sotto due forme:
1. prestiti;
2. interessi.
E gli interessi, seppur bassi, diventano alti se l’economia del Paese non cresce.



I Buoni del Tesoro, le spese fatte con le carte di credito, la contrazione di mutui per la casa, fino ai prestiti miliardari frazionali sono prestiti. E i prestiti vanno restituiti. E si restituiscono quando c’è lavoro: è il lavoro la sola vera ricchezza di una famiglia e – quindi – di uno stato.

Oggi il nostro PIL (Prodotto Interno Lordo) mediamente cresce dell’1% e i tassi passivi che subiamo viaggiano intorno al 14%.

La Germania cresce molto più di noi – quasi il 3% eppure i suoi tassi sono simili ai nostri. Questo perché il suo debito pubblico è per la maggior parte esterno.

Negli Stati Uniti, il rapporto è più o meno lo stesso.
Ne consegue che le imprese che non si autofinanziano, ma devono ricorrere a prestiti bancari, devono produrre il 20-22% per restare a galla.
Cosa impossibile in un'economia anemica.

Nella gaia apocalisse di una finanza che ci indebita tutti, l’economia reale occidentale muore.


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- Economia

Rendite da capiali e da lavoro

A proposito di rendite da capitali e da lavoro: un imbroglio tutto italiano

C'è una cosa da fare, e da fare in maniera radicale, forse impopolare per certi settori, ma necessaria a salvare il culo di questo Paese! Ribaltare il prelievo fiscale tra ricchezza prodotta dal lavoro e quella prodotta dalle rendite finanziarie! Non sono diventato comunista e nemmanco oltranzista, sono solo realista. Vi prego, seguitemi nel mio ragionamento e poi mandatemi pure a fare in culo!

Le rendite finanziarie sono tassate del 12 percento, quelle da lavoro fino ad oltre il 45. Praticamente un imprenditore che rischia capitali, che ci mette impegno e che da lavoro e quindi produce ricchezza, se a fine anno ha guadagnato 10 milioni di euro, ne versa quasi la metà allo Stato. Mentre il finanziere rampante che guadagna gli stessi soldi tenendoli tranquillamente investiti in titoli garantiti, paga poco più di 1,2 milioni allo Stato. Qualcosa non mi torna! Quell'imprenditore è un coglione! Dovrebbe vendere tutto, investire in titoli garantiti e starsene tranquillo a fare i cazzi suoi e se 1.000 operai perdono posto e 1.000 famiglie non hanno di che vivere, saranno cazzi loro! È quello che è successo da noi con questa assurda legge! Ricordate i Falck? E i Doria? Gli Olivetti? E i Lancia? E i Bianchi di Milano? E la famiglia Martini di Torino? E i Carpano? La famiglia Pezziol? E potrei continuare con i Tanzi di Parma per parlare dei giorni nostri, o di Cragnotti. E i Motta e gli Alemagna…

Aziende fallite, direte voi. Ed è vero! Ma il piccolo commerciante fallisce coi debiti e senza una lira, questi signori sono saltati con le tasche piene di soldi! Tanto per non fare nomi: Tanzi. Spariti migliaia di miliardi! Dove sono dove non sono, resta il fatto che non li ho io e credo manco voi. E allora? Allora sono investiti in titoli ed altro che si rifanno a società con sede a Cayman o qualche altro posto ed in culo lo hanno messo ai lavoratori.

I più raffinati - e furbi - hanno fatto ancora meglio: si sono comperati le banche! E quando l'industria entra nelle banche e i ruoli si confondono, è la fine! Ma che sia successo questo è normale! Chi è quell'ingenuo che potendo guadagnare di più rischiando di meno preferisce rischiare?

Sono i piccoli imprenditori - i grandi non esistono più, sono diventati uomini di finanza – quelli che reggono le sorti dell'economia nazionale: sono loro che producono lavoro e ricchezza, e se a fine anno le cose sono andate male rimettono di tasca propria. Non così la grande impresa: essa incassa i profitti e passa allo Stato, ovvero a noi - le perdite! Imprenditori del cazzo! Sono solo "prenditori"!

Guardate Tronchetti Provera: gioca con le banche! E dei problemi di Pirelli e prima anche Telecom se ne facesse carico lo Stato, se non vuol vedere sulla strada migliaia di famiglie! Come si fece carico delle perdite della Motta e di Alemagna dando vita al "polo alimentare" chiamato prima Sidalm e poi "vattelapesca" ed appena risanato dopo decenni di perdite, regalato per quattro lire a Cragnotti che ci ha fatto i cazzi suoi per poi riconsegnarlo allo Stato pieno di debiti! Ne sa qualcosa Prodi, pupillo di Nobili all'IRI, e gran commis dei poteri forti che con lui hanno fatto e disfatto lucrando su tutto!

Ed allora bisogna ribaltare tutto e tassare di più le rendite e di meno il lavoro. Solo così si spinge l'imprenditore a fare l'imprenditore e a non mollare tutto per fare il banchiere. Tassare meno il lavoro vuol dire dare più soldi alle maestranze e non fare arricchire di più l'industriale! Meno tasse più soldi in busta paga!

E qui si alza l'obiezione populista e subdola che dice: ma se si tassano di più le rendite finanziarie si puniscono i piccoli risparmiatori che hanno i 20/30 mila euro investiti in BOT e non è giusto! Palle! Quel tizio ci guadagna. E ci guadagna anche se avesse 100 mila euro investiti in BOT!
Vediamo: 100 mila euro in titoli garantiti rendono all'incirca 3.500 euro che - col prelievo attuale del 12 percento - scendono a 3.080 ovvero si pagano tasse per 420 euro. Se, come vorrei fosse, il prelievo salisse al 25 percento, le tasse pagate sarebbero 875 euro, ovvero 455 euro in più. Ma questo nostro dipendente, poiché verrà tassato meno il lavoro e, ripeto, quei soldi ridati ai lavoratori, si ritroverebbe in busta paga almeno 100 euro netti in più! Forse anche qualche euro in più.
Ma restiamo coi piedi per terra e ragioniamo nell'ordine dei 100 euro. Vuol dire, a fine anno, 1.300 euro netti in più! (13 mensilità). Ora è vero che ha pagato 455 euro in più sulle rendite, ma è anche vero che ha incamerato 1.300 euro quindi ci ha guadagnato 845 euro (1.300 - 455).

Signori, stiamo parlando di operai con 100 mila euro in banca! Ce ne sono? Ragionando nell'ordine dei 20 mila euro fate voi i conti.

Ripeto: non si possono tassare meno le rendite finanziarie e di più le rendite da lavoro! Una cosa simile è un invito a congelare capitali che - invece - dovrebbero circolare e fare mercato.

E veniamo all'altro punto scottante: le superpensioni. Si dovrebbero bloccare gli aumenti di queste pensioni. Aumenti che percentualmente incidono in maniera negativa. Se v'è un aumento del 2% ad esempio, su una pensione di 516 euro mese, l'incremento è di 10.35 euro, che su base annua diventano 134,55 euro. Ma, tanto per non fare nomi, un certo Scalfaro Oscar Luigi, quello del famoso "non ci sto", cumula la pensione di Magistrato, quella di deputato e quella di Ministro, che non va sotto la voce "pensione" ma viene definita come un "rimborso". A conti fatti l'uomo arraffa circa 120.000 euro l'anno più lo stipendio di Senatore! E qui il famigerato aumento ipotetico di 2 punti porta nelle casse dell'uomo di Novara 2.400 euro l'anno! Siamo impazziti? Riporto una cifra tratta dal bilancio del 2005: godono il vitalizio della Camera circa 3 mila tra onorevoli e loro eredi. Nel 2005 lo Stato ha pagato per i vitalizi 122 milioni di euro. Avete letto bene! E parliamo solo del Parlamento. Pensate alle Regioni (un consigliere regionale arraffa quanto un deputato) pensate ai grandi boiardi di stato, pensate ai vari manager pubblici e privati! Pensate ad uno come Cimoli che ha sfasciato le FS e se ne è andato con 60 milioni di euro di liquidazione per approdare all'Alitalia, sfasciare anche quella e prendere un'altra liquidazione d'oro! Ma che cazzo!

Ora dipendesse da me decurterei del 50% le loro pensioni e riattiverei il "fondo di solidarietà" che con una "leggina" votata da tutti, ripeto tutti, avevano abolito. Il fondo era del 2 percento! Lo porterei al 10%. Se potessi farlo lo farei anche se poi rischierei davvero la pellaccia. Ma restando coi piedi per terra, bloccare i loro aumenti si può e si dovrebbe fare! Così come reintrodurre quel fondo anche solo del 2 percento.

E sarà interessante, prossimamente, vedere chi sono sti pensionati d'oro e quanto arraffano. Ci sarà da incazzarsi!
Ultima cosa. Va tassata la ricchezza disponibile non quella prodotta! Sto parlando delle tasse che paga chi ha reddito fisso. Un singolo che guadagna 1.400 euro mese e vive in famiglia è quasi ricco: a tutto pensano mammà e papà. Uno che invece ha famiglia è quasi povero! Affitto è bollette si mangiano quasi tutto e poi bisogna sopravvivere….eppure sia il “bamboccione”, sia chi tiene famiglia hanno la stessa ritenuta fiscale. E questo è sbagliato perché chi ha famiglia deve spalmare la sua ricchezza prodotta – il salario – sui componenti il suo nucleo familiare. Orbene, se il nostro capofamiglia ha 2 figli la ricchezza disponibile è 1.400 diviso 4 (si presume ci sia anche una moglie) ovvero 350 euro. Questa è la ricchezza disponibile e avrà il prelievo fiscale su 350 euro e non su 1.400.
L’obiezione comune è: ma lo stato incasserà meno. Non è così: quei soldi in più l’operaio non se li mette in banca ma li spende e allo stato rientrano come tasse indirette: ovvero come IVA sulle maggiori spese che gli operai andranno a fare. È pacifico che questo sistema va applicato sugli stipendi medio-bassi, diciamo fino a 1.700/1.800 euro. Capisco che si incazza chi guadagna oltre 2.000 euro, ma bisogna essere pragmatici e fare bene i conti, ovvero bisogna evitare che quel “di più” resti alle banche: quello si che sarebbe un danno!
Questo è il famoso “quoziente familiare” caro a Casini ma che altro non è che una proposta di legge presentata dal mio amico Giraldi nel 1992 su un elaborato da me fatto dove sostenevo queste cose. Ci sono gli atti parlamentari che danno la paternità all’idea. Tanto per amore di verità.


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- Economia

Microeconomia e macroeconomia

Microeconomia e macroeconomia

Come detto in precedenza, l’Economia Politica si divide i due rami:

1. la microeconomia
2. la macroeconomia.

La microeconomia è il ramo dell’analisi economica che si occupa dell’interpretazione dei comportamenti e delle relazioni tra i singoli soggetti economici, e che quindi studia il comportamento dei consumatori, delle imprese e delle famiglie.

La macroeconomia è il ramo della scienza economica che ha lo scopo di individuare le relazioni esistenti tra le grandezze economiche che caratterizzano un sistema nella sua globalità. La macroeconomia studia, per esempio, la relazione tra i tassi d’interesse e le attività economiche, oppure la relazione tra reddito nazionale e disoccupazione. Lo studio della macroeconomia consente anche l’individuazione delle azioni più utili nel campo della politica monetaria e fiscale..
Detto così il concetto verrà recepito da pochi ma, poiché sono convinto che bisogna parlare a tutti, cercherò di spiegare le due cose in maniera che tutti, o almeno chi è interessato, possano capire.
Proviamo:


la microeconomia studia i singoli operatori economici o le singole tipologie. Esempi il gestore della macelleria sotto casa che, pur trattando un solo tipo di prodotto, ne commercializza più tagli. Altro esempi i mercati generali della frutta. In questo caso viene studiata una sola tipologia e la sua redistrubuzione. Per semplificare porto l’esempio che si lega al nostro macellai il mattatoio! Entrambi usano un solo tipo merceologico ma mentre il macellaio agisce sul dettaglio, il mattatoio agisce sui flussi distributivi;

la macroeconomia studia le stesse cose ma in un ambito più vasto. Esempi tutto il mercato della carne di un Paese attraverso i suoi operatori economici o tutti i mercati della frutta. Contribuendo alla politica fiscale e monetaria.

Torniamo un attimo alla microeconomia. Va vista sotto due aspetti:


quello dell’equilibrio economico generale
quello dell’equilibrio economico parziale.

L’equilibrio economico generale, anche detto Scuola di Losanna, tiene conto di ogni minima
variazione di mercato, l’analizza e cerca di comprenderne i bisogni. Ovvero tutte le necessità che si vanno a muovere. E in un mercato che tende alla globalizzazione, questa forma attenta e precisa di microeconomia, sembra molto attendibile, anche perché non si rifà a modelli matematici (grafici equazioni ed altro) ma solo alla domanda e all’offerta.

L’equilibrio economico parziale, anche detto Scuola di Cambridge, il cui fautore è Alfred Marshall, studia lo stesso mercato tenendo presente anche tutte le variabili che con quel mercato non c’entrano direttamente ma indirettamente. Esempio : torniamo al nostro negozio di macelleria. La scuola di Losanna bada solo alla domanda del cliente e all’offerta del mattatoio; la scuola di Cambridge ci aggiunge alcune variabili come - ad esempio - la difficoltà di piazzare carne di maiale ove sia presente una comunità islamica, oppure la variabile che tiene presente la forza di incidere sul mercato dei vegetariani.

Mentre la prima - come detto - analizza solo domanda ed offerta, senza tenere conto delle variabili, la seconda si affida anche alle turbolenze che possono modificare il mercanteggiare del nostro macellaio.

Approfondiremo lo studio della Scuola di Cambridge perché è più complesso e certamente - alla lunga - risulterà più utile.

Facciamo un passo indietro e torniamo alla domanda illimitata e all’offerta limitata. Qui si impongono delle scelte di produzione e l’allocazione del bene prodotto. Ovvero il mercato detta i consumi. Vi è mai capitato di entrare in un supermercato e comprare cose che non avevate preventivato? Sicuramente si! E quando questo succede si entra in un’altra branca della microeconomia: la frontiera di produzione. Quella produzione non necessaria ma che va ad incrementare il fatturato e che ha la più ampia forbice alle voci costo/ricavi.

Tutto questo è la microeconomia che - potete constatarlo ogni giorno - fa parte del nostro vivere quotidiano. La prossima volta affrontando il tema dell’economia proutista.

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- Economia

Produzione: quantità, qualità, modalità e fruibili

Produzione: quantità, qualità, modalità e fruibilità



Sappiamo che ogni bene prodotto è soggetto a 4 regole.

1. la quantità. Va prodotta quella necessaria al fabbisogno interno ed eventualmente quella necessaria alla vendita, se programmata. Ma prima di tutto va individuato il bene di cui parliam se esso è agricolo o industriale. Se si tratta di un bene agricolo è soggetto al rispetto degli standard di produzione. Ovvero se in un ettaro di terreno, dove si coltivano pomodori sanmarzano, la produzione deve essere da X a 1X quintali per ettaro, bisognerà attenersi a quei parametri, perché se andiamo sotto la soglia minima - ovvero X - rischiamo di saltare coi conti. Se, al contrario, andiamo sopra la soglia massima, ovvero 1X, produrremo un bene scadente dal punto di vista nutrizionale e, soprattutto, si corre il rischio dì essere tacciati di frode. E questo perché andremmo ad incassare più di quanto ci spetta. Se si tratta di un bene industriale, le cose sono diverse nella forma ma non cambiano nella sostanza. Se produciamo biciclette, dovremo stare attenti a produrne quel numero che ci permetta di mantenere aperta la fabbrica, pagare i salari, accantonare gli ammortamenti e soddisfare il fisco. Programmato tutto questo possiamo pensare allo sviluppo e alla crescita. Il tutto senza incappare in quella che è la più pericolosa delle trappole: l’immagazzinamento. Se per soddisfare tutte le mie esigenze devo produrre e vendere X biciclette e più di quelle non riesco a vendere, anche se potenzialmente posso produrne X+1/2X di pezzi, non devo farlo, altrimenti corro il rischio di immagazzinare un bene che, per essere stato prodotto, ha avuto bisogno comunque di un investimento di capitali che però restano immobilizzati in deposito. Con un enorme dann o mi sono indebitato per produrre, visto che non ho venduto, o ho usato soldi non dell’azienda, ma personali. In entrambi i casi producendo danni irreparabili! Se mi sono indebitato gli interessi vanno a mangiare parte degli utili e i miei guadagni si riducono sempre più perché il debito - se non programmato - è un vortice che uccide. Se invece ho messo soldi personali sono fesso perché svuoto le mie tasche per produrre un bene che non vendo e che mi porterà, restando in deposito, alla bancarotta. In questi casi, ovvero con una azienda che potenzialmente può produrre più di quanto vende, la cosa migliore è cercare una partecipazione, estera o nazionale, che si occupi della vendita e riorganizzare la struttura commerciale.
2. la qualità. Sia che si tratti di un prodotto agroalimentare, sia di uno industriale, va mantenuta alta la qualità. Perché coi costi di produzione che abbiamo e con i tarocchi dì ogni genere, se noi rispondiamo con qualità unita alla cortesia, nulla ci può far paura. La qualità è l’arma vincente delle nostre aziende.
3. la modalità. È strettamente legata alla qualità. Se produco gelato debbo usare prodotti freschi. Un gelato alla fragola è molto più buono se usiamo le fragole fresche anziché quelle surgelate o, peggio, il surrogato in polvere di fragola. È ovvio che chi bara ha un utile maggiore, ma è altrettanto vero che, col tempo, chi punta sulla qualità e modalità, ne ha un ritorno in termini economici. Stessa cosa vale per la produzione di qualsiasi altro bene.
4. la fruibilità. Torniamo a quanto già dett il 30 percento della popolazione consuma il 70 percento dei beni prodotti! Ho definito questa cosa una aberrazione! Ma è di più: è una vergogna che ci dovrebbe investire tutti. Vedete, troppo facile prendersela coi politici. E non voglio essere io a difenderli. Però non ho sentito nessuno, della società civile, muovere un dito per modificare le cose. E non voglio fare lo struzz anche io ho le mie colpe, nel mio piccolo. Come le avete tutti voi. Se il merito dell’opulenza occidentale è di chi gestisce, anche le manchevolezze sono di chi gestisce! Non si possono assumere gli onori e ricacciare gli oneri! Un Governo dovrebbe, ad esempio, destinare un fondo di solidarietà per le popolazioni più sfortunate. Questo fondo - percentualmente - dovrebbe essere proporzionato alla crescita del PIL. Ovvero. Più cresce lo sviluppo del Paese, più sale il fondo di solidarietà. Qualcosa di simile esiste già, a dire il vero, ma non è regolato da leggi certe ed è svincolato dal controllo di Bruxelles. Ora se siamo - ahimè - in Europa, non possiamo esimerci dal fare una leggina che garantisca la certezza del fondo di solidarietà. Ma come troppo spesso accade, questi furbetti sventolano l’Europa solo quando giova a loro!

Abbiamo visto i 4 punti che regolano l’Economia Politica. Vediamo ora i soggetti economici. Che sono sostanzialmente tre: la famiglia, le imprese e le banche. Alle famiglie attiene il "mercato dei beni di consumo" ; alle imprese il "mercato dei fattori produttivi" e alle banche il "mercato dei flussi finanziari".

Tutto questo porta ad una logica: quella della domanda e dell’offerta. Questi due fattori generano il prezzo. Che aumenta quando la domanda sale, cala se la domanda scende. Se le famiglie chiedono mele e le mele non ci sono per soddisfare tutti, quelle disponibili aumenteranno di prezzo. Se, al contrario, chiedo mele e sul mercato ne vengono immesse un quantitativo più alto della richiesta, ovvero l’offerta supera la domanda, ecco che i prezzi tendono a scendere.

Una nota: nel gioco della domanda e dell’offerta un ruolo determinante lo recitano le banche. Perché finanziano i produttori e finanziano i consumatori! E la cosa sarebbe quasi buffa se non fosse drammatica! È drammatica perché sempre più famiglie ricorrono al Prestito al Consumo, ovvero i famigerati "soldi di plastica" che generano inflazione. Ci vengono propinati dati sull’inflazione che sono ridicoli (mi chiedo se sta gente è mai andata a fare la spesa!). Ricordate: il vero tasso d’inflazione è dato dagli interessi che pagate al Prestito al Consumo, depurati dal tasso di sconto della BCE.

Oggi, mediamente, il Prestito al Consumo registra in Italia un interesse del 8.65 percento annuo, ben 2 punti più alto di quello medio europeo. Il tasso BCE è del 4 percento, fatto il conto (8.65 - 4 = 4.65) la nostra inflazione reale è pari al 4.65 percento. Altro che 1.5 / 2 percento! Ma questo si guarderanno ben dal dircelo! È ovvio che Bruxelles è costretta ad aumentare il tasso BCE per tener sotto controllo l’inflazione. Soltanto il 5 dicembre 2005 il tasso BCE era del 2 percento. Se fosse stato mantenuto, ora la nostra inflazione galoppava al 6.65 percento!

Compreso il concetto di Economia Politica, andiamo a vedere i due rami in cui essa si divide: microeconomia e macroeconomia. Questo sarà il prossimo tema

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- Economia

Economia politica

L’economia politica

Cos’è l’Economia Politica? E’ la materia che studia il funzionamento di un sistema economico.
Questa è la definizione classica, poi – con l’andar del tempo - è stato aggiunto “moderno di tipo "occidentale". Io rifiuto questa aggiunta o, meglio, rifiuto quell’occidentale perché mi sa discriminante nei confronti di economie più povere o di quelle tribali, che pure hanno una loro logica. Ma i moderni guru del pensiero economico, che nelle Università “occidentali” fanno il bello e cattivo tempo, tengono a far valere le loro idee, che non necessariamente sono quelle giuste. Anzi, il più delle volte sono sbagliate. Ma se sbagliano tutti – o quasi – è come non sbagliasse nessuno! No, anzi chi sbaglia è la minoranza che non si omologa al pensiero di lorsignori. E per spiegare quell’Occidentale, tutti ormai – o quasi tutti – adottano la formula Stond che recita: Di tipo occidentale “perché il modello preso in considerazione è quello capitalistico della libera iniziativa produttiva e della proprietà privata dei mezzi di produzione, in contrapposizione al modello di tipo “collettivista”, caratterizzato dalla proprietà statale degli stessi mezzi. Anzi, attualmente questo criterio distintivo tra le due filosofie economiche è superato. Si parla più correttamente di economie con centri di decisione decentralizzati, per riferirsi ai paesi capitalistici, e di economie con una scelta centralizzata, per identificare i paesi socialisti.”Ma torniamo al concetto di Economia Politica e scusate lo sfogo.
Cos’è un sistema economico? È un insieme di persone ed Istituzioni che fanno parte di una collettività – più o meno grande – che può essere uno Stato, o una città o anche un quartiere, all’interno del quale si manifestano azioni economiche. Ovvero c’è chi avvia una attività commerciale, chi industriale, chi agricola, altri artigianale o di servizi. Ed è appunto del funzionamento di questi apparati che si occupa l’Economia Politica. E di spiegarli a chi deve controllare quegli apparati, ovvero la classe dirigente. Diciamo allora che l’Economia Politica è il primo vagito di uno Stato liberale e democratico.
Queste collettività, ad esempio uno Stato, possono anche essere un agglomerato di più Stati (vedi gli USA o L’Europa di oggi) hanno come impegno quello di soddisfare i bisogni dei cittadini, che possono essere soddisfatti con beni prodotti e/o con beni introdotti.
I beni che soddisfano i bisogni sono necessariamente “limitati”, mentre i “bisogni” sono illimitati! Cosa vuol dire? Che quello che l’uomo produce è “limitato”, ovvero non infinito. Illimitati invece sono i bisogni. Esempio: ci sarà sempre necessità di pane ma non è garantita una produzione illimitata di pane, da oggi all’infinito. Ci sono poi i beni illimitati, ma che non dipendono dalla funzionalità dell’uomo. Come, ad esempio, l’aria che respiriamo! E per questa contrapposizione tra bisogni illimitati e scarsità di beni, ha senso lo studio dell’economia politica.
Questa contrapposizione viene accentuata dalla diversità di fruizione di un bene. Esempio: il gelato che mangiano i nostri figli è molto più di quello che mangiano i bambini del continente africano! E così è per tutti i bisogni primari e non. Cosa voglio dire? Una cosa semplicissima: il 30 percento della popolazione mondiale consuma il 70 percento dei beni prodotti! Il restante 30 percento di beni prodotti è consumato dal restante 70 percento di popolazione! Una aberrazione! Cui è compito – o meglio, dovrebbe essere compito – della politica rimediare. Politica che se ne frega, perché troppo impegnata a far valere le proprie ragioni nel proprio orticello.
Ed allora parlano di globalizzazione, ma di globalizzato c’è solo la povertà! E meglio non sono i no-global, che nei fatti sono i primi fruitori della globalizzazione e, anzi, sono i primi ad alimentarla. Perché se è vero che vanno in piazza a fare casino, a distruggere tutto ciò che richiama alle multinazionali, dopo sono gli stessi che entrano da McDonald’s, bevono Coca cola, comprano i CD della Sony, giocano
con la play station fumano Marlboro e col bancomat di papà o con la carta di credito di mammà, vanno a prelevare i soldi presso quelle banche cui hanno distrutto le vetrate! Questi sono i no-global!!
Ma parlavamo dei bisogni della popolazione. Come abbiamo visto questi bisogni, illimitati, sono soddisfatti da beni limitati. Ed allora v’è necessità di produzione, di allocazione, di gestione e di qualità.
Ovvero:
cosa produrre, quanto produrre, come produrre e per chi produrre. Ce ne occuperemo la prossima volta.
[continua…]

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- Economia

Vendere per comprare, comprare per vendere



1. vendere per comprare e comprare per vendere

In un mio recente post concludevo dicendo che l’economia italiana deve passare dal “comprare per vendere ad un più giusto vendere per comprare”. In questa affermazione sono racchiusi tutti i sistemi economici mondiali e tutte le forme di Governo.

Prima di tutto vediamo le differenze fra le due affermazioni. Nel “vendere per comprare” uno Stato cede beni eccedenti per assumere i beni mancanti. Ad esempio ho eccedenza di mele e carenza di ananas, cedo le mele in cambio dell’ananas. In questo caso lo scopo è quello di soddisfare le esigenze del cittadino.

Nel “comprare per vendere” lo Stato acquista beni mancanti e li rivende: lo scopo primario è soddisfare le sue esigenze di cassa, non quelle del cittadino. Esempio: a te produttore di mele dico di distruggere la produzione eccedente, che ti pagherò con una sorta di rimborso spese, poi penso io a ricercare sul mercato i beni che riterrò utili. Lo Stato si fa commerciante! Così abbiamo assistito alla distruzione, nel corso degli anni, migliaia e migliaia di tonnellate di pomodori, di ortaggi vari e, negli anni addietro, lo Stato ha pagato chi ha dismesso l’allevamento dei bovini.

Nel 1951 per Decreto Presidenziale, si ottenne la creazione dell’Ente Maremma, avvenimento importantissimo che modificò gran parte del territorio di Capalbio. Nacquero strade, case e la sua fisionomia cambiò. Per più di un decennio l’Ente Maremma espropriò, frazionò, bonificò e trasformò tutta la zona, assegnando terreni e case a una classe contadina che non era mai stata proprietaria di nulla. Lo scopo era quello di creare lavoro e far si che anche da noi ci fosse una autosufficienza di prodotti agroalimentari e di allevamento (la famosa carne Chianina). L’Italia aveva imbroccato la strada verso il liberismo.

Poi, nel 1964, con la nascita dei Governi di centrosinistra, tutto cambia: deve essere lo Stato a controllare tutto e deve essere sempre lo “Stato” ad imporre le regole. L’Ente Maremma viene sciolto. A coloro che s’erano buttati anima e corpo nell’avventura vengono rimborsati, i capi abbattuti e la produzione agricola, almeno in parte, resa inutile. E lo Stato diventa commerciante, produttore, costruttore. Rileva aziende decotte e le mette nel calderone IRI. Nasce così il disastro economico che ancora subiamo.

Un disastro annunciato! Perché complici gli industriali, le banche ed una opposizione che con il Governo centrale era connivente ( il Governo centrale chiudeva un occhio sulle amministrazioni periferiche), si arrivò all’assurdo che l’IRI si caricava di debiti perché ripianava le perdite, mentre gli utili erano tutti degli industriali!

Sparirono così marchi storici nel settore agroalimentare (Motta ed Alemagna) e fu creata la Sidalm, che produceva panettoni con quei marchi. Nell’industria automobilistica sparirono i marchi “Bianchi”, “Lancia”, “Innocenti” mentre quello “Alfa Romeo” , regalato come gli altri alla FIAT, fu salvato. E il gioco era sempre lo stesso: i debiti a me Stato, ovvero a noi cittadini, e gli utili a te imprenditore “prenditore”. Sempre più eravamo impelagati nel “comprare per vendere”! E sempre più aumentava quel debito pubblico che ancora oggi cresce senza controllo.

Vedete, in apparenza il “comprare per vendere” può sembrare azione liberista. Ma così non è! Dove lo Stato controlla tutto, pensa a tutto e coordina tutto vige un regime statalista, ovvero di impronta socialcomunista.

Dove lo Stato, invece, si limita ad una azione di garanzia e tutela i fabbisogni della popolazione facendo si che i pomodori, anziché distrutti, vengano ceduti in cambio di altro, vice un sistema liberista. Perché il cedere qualcosa in cambio di altra cosa non vuol dire barattare! Vuol dire che io agricoltore vendo i miei pomodori ed incasso soldi veri e tu Stato indichi le priorità mancanti e ci sarà chi quelle priorità andrà a reperire sui mercati internazionali. Nascono le figure del broker, nascono le società di import ed export, si sviluppano reti di agenti di commercio, si riconverte l’italica industria.

Tutto questo proposto è Economia Politica, ne parleremo a seguire.
[continua…]

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- Teologia

Gesù Cristo: quanti misteri

Da un attento esame dei Vangeli della tradizione, solo Luca e Matteo parlano della nascita di Gesù. E lo fanno in modo opposto. Marco e Giovanni – invece – cominciano il loro racconto dal Battesimo sul fiume Giordano.

Ma vediamo le differenze tra Matteo e Luca. Differenze che sono state portate alla luce da esperti “evangelisti”.

1. Matteo, prima della nascita di Gesù, fa abitare Giuseppe e Maria a Betlemme, mentre Luca li fa abitare a Nazareth.
2. Matteo fa nascere Gesù nella sua casa di Betlemme, mentre Luca, pur facendolo nascere sempre a Betlemme, colloca il parto di Maria in un rifugio occasionale: una stalla.
3. Matteo fa arrivare i Magi dall'oriente per adorare Gesù, mentre Luca non parla di Magi, bensì descrive l'adorazione dei pastori.
4. Matteo parla della persecuzione del bambino da parte di Erode, che avrebbe costretto la famiglia a fuggire per rifugiarsi in Egitto, mentre Luca non fa cenno a tutto questo: il suo clima è sereno e il bimbo viene presentato al tempio senza timore che Erode possa trovarlo, nemmeno si parla di alcuna fuga in Egitto.
5. Matteo fa nascere Gesù al tempo di re Erode il Grande, cioè non oltre il 4 avanti Cristo, mentre Luca fa nascere Gesù durante il censimento della Palestina che il governatore della Siria Quirinio supervisionò nel 7 dopo Cristo: 11 anni dopo!
6. Matteo fa andare per la prima volta a Nazareth la famiglia betlemita, in occasione del ritorno dall'esilio in Egitto, mentre Luca, pochi giorni dopo la nascita di Gesù, fa tornare la famiglia al paese di Nazareth, dove già abitava sin da prima che Gesù nascesse.
7. Matteo e Luca propongono due alberi genealogici completamente diversi, già a partire dal padre di Giuseppe (nonno di Gesù) le genealogie divergono completamente fino al re Davide (che visse mille anni prima).
Come spiegare queste differenze?
Ma le differenze non si fermano qui! Nel libro “Cristo: una vicenda storica da riscoprire” di David Donnini, nei paragrafi 4.3.1 e 4.3.2 ci parla di un Gesù non figlio unico!
“4.3.1. Il numero dei figli. Il credente comune, davanti all'idea che Gesù avesse dei fratelli carnali, alza innocentemente le spalle: è semplicemente impossibile. Infatti Maria ha partorito una volta sola, ed ha miracolosamente conservato la sua verginità. Può darsi che i cosiddetti fratelli siano fratellastri, cugini, parenti stretti, ma non comunque fratelli nel senso in cui noi intendiamo tale espressione. Tutto ciò a dispetto della vasta costellazione di testimonianze in cui si parla insistentemente dei fratelli di Gesù, tanto nel Nuovo Testamento come fuori di esso. Addirittura un passo di Eusebio di Cesarea parla di un certo Giuda...
"...che era fratello carnale del Salvatore..." (Eusebio di Cesarea, Hist. Eccl., III, 19).
Perché l'evangelista Luca, parlando della nascita di Gesù a Betlemme, lo avrebbe definito esplicitamente primogenito?
"Ora mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo" (Lc 2, 6-7).
Anche il testo di Matteo porta la definizione "primogenito" ma, in verità, non ci è dato di poterla leggere comunemente, perché i traduttori, molto disturbati da questa parola, la hanno eliminata. Infatti i testi antichi del Vangelo di Matteo così recitano:
"...peperit filium suum primogenitum (= partorì il suo figlio primogenito)" (Novum Testamentum Graece et Latine, Ist. Bibl. Pont., Roma 1933, Secundum Matthaeum 1, 25).
Volendo essere precisi dobbiamo riconoscere che il testo di Matteo, nel passo in questione, è stato censurato non solo per quanto riguarda la parola primogenito, ma in una intera frase che porta implicazioni pesanti; questa è la versione latina completa:
"Et non cognoscebat eam donec peperit filium suum primogenitum: et vocavit nomen eius Iesum" (idem);
mentre questa è la versione greca completa:
"kai oik eginosken auten eos oi eteken ton uion auton ton prototokon kai ekalesen to onoma autou Iesoun" (Idem).
La traduzione corretta è:
"E non la conobbe [nel senso biblico di non ebbe con lei rapporto coniugale] finché ella non ebbe partorito il suo figlio primogenito, e gli dette nome Gesù".
Ciò che leggiamo oggi, invece, appare così:
"...la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù" (Vangelo e Atti degli Apostoli, versione ufficiale della CEI, Ed. Paoline, Roma, 1982).
E' chiaro che i tagli e le modifiche non sono casuali. Che cosa hanno fatto i traduttori? Innanzitutto hanno arbitrariamente deciso che Giuseppe non ha mai avuto rapporti coniugali con Maria, e non semplicemente finché ella non ebbe partorito Gesù; inoltre hanno deciso che il termine "primogenito" era del tutto superfluo, dal momento che di sicuro non esistevano altri figli. Allora, se noi osserviamo una sofisticazione del testo in tal senso, siamo ragionevolmente autorizzati a pensare che potrebbe essere vero il contrario: Giuseppe avrebbe avuto rapporti coniugali con Maria e avrebbe generato con lei numerosi figli. “
Ed ecco l’altro paragrafo:
“4.3.2. I fratelli di Cristo. Vediamo le testimonianze più comuni in cui si parla dei fratelli di Gesù. Soltanto nei Vangeli abbiamo le seguenti:
1. "Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano»" (Mc 3, 31-32).
2. "Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli. Qualcuno gli disse: «Ecco di fuori tua madre ed i tuoi fratelli che vogliono parlarti»" (Mt 7, 46-47).
3. "Un giorno andarono a trovarlo la madre e i fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla: Gli fu annunciato: «Tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e desiderano vederti»" (Lc 8, 19- 20).
4. "Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?" (Mc 6, 3).
5. "Non è egli forse il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi?" (Mt 13, 55).
6. "Dopo questo fatto, discese a Cafàrnao insieme con sua madre, i fratelli e i suoi discepoli e si fermarono colà solo pochi giorni." (Gv 2,12).
7. "Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, detta delle Capanne; i suoi fratelli gli dissero: «Parti di qui e và nella Giudea perchè anche i tuoi discepoli vedano le opere che tu fai..." (Gv 7, 2).
8. "Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui" (At 1, 14).
9. "Solo tre anni dopo andai a Gerusalemme per conoscere Pietro e non vidi nessuno degli altri apostoli, ad eccezione di Giacomo, il fratello del Signore..." (Gal 1, 18-19).
Poi abbiamo le citazioni extratestamentarie:
10. "Poi egli comparve a Giacomo, uno dei fratelli del Salvatore" (Eus. di Cesarea, Hist. Eccl. I, 12, 5).
11. "In quel tempo Giacomo, fratello del Signore, poiché anch'egli era chiamato figlio di Giuseppe, e Giuseppe era padre del Cristo..." (Idem II, 1, 2).
12. "Giacomo, fratello del Signore, succedette all'amministrazione della Chiesa insieme con gli apostoli..." (Ivi II, 23, 4).
13. "Della famiglia del Signore rimanevano ancora i nipoti di Giuda, detto fratello suo secondo la carne, i quali furono denunciati come appartenenti alla stirpe di Davide" (Ivi III, 20, 1).
14. "...convocò una sessione del Sinedrio e vi fece comparire il fratello di Gesù detto Cristo che si chiamava Giacomo" (Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche, XX, 200).
Non mancano certo le testimonianze! Ad una di esse, in particolare, vogliamo fare riferimento, alla penultima che abbiamo riportato: in essa Eusebio parla di una persecuzione che Domiziano (imperatore dal 81 al 96 d.C.) avrebbe effettuato nei confronti dei discendenti di Davide, "poiché anch'egli, come Erode, temeva la venuta di Cristo" (Eus. di Cesarea, Hist. Eccl., III, 20, 1). Nel corso di questa persecuzione furono condotti, come prigionieri, al cospetto dell'imperatore, alcuni componenti della famiglia di Gesù: i nipoti di Giuda (detto fratello suo secondo la carne), i quali erano accusati di attività sovversive come discendenti della stirpe regale di Israele, cioè come combattenti messianisti. Il passo è estremamente significativo, non solo perché testimonia l'esistenza di fratelli e nipoti di Cristo, ma perchè denuncia l'esplicito coinvolgimento dei componenti di questa famiglia nella lotta messianica, così come si sta evidenziando nelle varie fasi del nostro lavoro di indagine.
Insomma, non solo i fratelli di Cristo erano personaggi da censurare perché avrebbero messo in discussione il presupposto della verginità di Maria, ma anche perché, visto il loro ruolo nella lotta jahvista, avrebbero offerto una pericolosa connessione fra Cristo e le sette esseno-zelote. Ed ecco che i famosi fratelli di cui tanto si parla vengono talvolta considerati come cugini, ovverosia come figli di una sorella di Maria, anch'essa di nome Maria, detta "di Cleofa". A sostegno di questa ipotesi si avanza il fatto che nella lingua aramaica esisteva un solo termine per indicare i fratelli ed i cugini, ma la spiegazione non regge: il testo originale dei Vangeli non è aramaico, ma greco; il termine usato è adelfos, che significa inequivocabilmente fratello e non cugino.

Altre volte, invece, si dice che i fratelli erano figli che Giuseppe avrebbe avuto da un suo precedente matrimonio, ma questo dimostra che la dottrina neocristiana non sa come stiano le cose: cerca, semplicemente, una spiegazione che le faccia comodo. Questa precedente moglie di Giuseppe non poteva certo essere la cosiddetta Maria di Cleofa, sorella della madre di Gesù, sempre viva e vegeta ai tempi in cui è ambientato il racconto evangelico. Come numerosi altri personaggi, la donna ha qualcosa di misterioso. Che significa, infatti, "di Cleofa"? Moglie, o figlia di Cleofa?

Innanzitutto possiamo notare che il termine Cleofa è la forma italianizzata del nome Kleofas, versione greca dell'egizio Cleopatra, il quale ci è noto come nome femminile, piuttosto che maschile. C'è da dire che se Maria e Cleofa fossero, rispettivamente, la madre e il padre dei cugini di Cristo, come mai questi sono stati definiti, a volte, figli di un certo Alfeo? E' il caso, per esempio, di Giacomo il minore, detto Giacomo di Alfeo e, naturalmente, anche del fratello di costui: Giuda detto Taddeo. Insomma, secondo l'interpretazione tradizionale, Maria e Cleofa (o Alfeo), sarebbero i genitori di quei Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda, e anche delle sorelle, che troviamo nominati nelle precedenti citazioni. Maria di Cleofa è fatta comparire dai Vangeli sinottici ai piedi della croce, durante l'agonia del Cristo, con la definizione Maria di Giacomo e di Giuseppe nella quale, evidentemente, è sottinteso il termine madre. E' strano, perché secondo i tre sinottici la madre di Gesù non ci sarebbe stata o, almeno, non è nominata nell'elenco delle tre famose pie donne che avrebbero presenziato ai momenti fondamentali della passione: la crocifissione, la deposizione, la sepoltura e la scoperta del sepolcro vuoto. I Vangeli non sono d'accordo sulle identità di queste tre donne. Per Marco e per Matteo sarebbero la Maria di cui stiamo parlando, Maria Maddalena e Salomè, madre dei figli di Zebedeo; per Luca sarebbero la Maria di cui stiamo parlando, Maria Maddalena e Giovanna, la moglie di Chuza, il sovrintendente di palazzo di Erode; per il quarto evangelista sarebbero Maria la Madre di Gesù, Maria di Cleofa, definita sorella di sua madre, e Maria Maddalena. L'unico personaggio su cui sono tutti d'accordo è quest'ultimo, Maria Maddalena, e su lei non abbiamo dubbi. E' sulla madre che c'è confusione. E' fin troppo evidente che gli evangelisti hanno giocato sulla identità di costei perché, di fatto, c'è qualcosa che non si doveva sapere: laddove compare solo la presunta zia di Cristo (Maria di Cleofa) il terzo posto è occupato da Salomè o da Giovanna, mentre dove compaiono sia la zia sia la madre (nel quarto Vangelo), non c'è un terzo posto da occupare pertanto Salomè e Giovanna non sono nominate.
La soluzione del rebus è semplicissima: infatti non è vero che la madre di Cristo mancasse nella drammatica circostanza, come si dovrebbe dedurre dai Vangeli sinottici; la madre c'era ed era proprio quella che si definisce madre di Giacomo e di Giuseppe, in quanto, essendo costoro i fratelli di Cristo, la donna era madre tanto dell'uno quanto degli altri. E' solo il quarto Vangelo che si permette di sdoppiare esplicitamente il personaggio in due, facendo così comparire fianco a fianco le due presunte sorelle con lo stesso nome.

Non ci si meravigli se si parla di sdoppiamento di persona, è un meccanismo messo in opera altre volte nel corso della redazione evangelica, che riguarda numerosi fra i più importanti personaggi. Il quarto Vangelo lo effettua perché il suo redattore, o il revisore, vuole definitivamente risolvere la spinosa questione della donna che c'è ma non c'è ai piedi della croce; con questa soluzione ogni dilemma è superato: la mamma e la zia sono due persone distinte e nessuno può più pensare che i fratelli di Cristo siano veramente i suoi fratelli di sangue. Ma, come tante altre volte, noi abbiamo capito che è vero il contrario: i fratelli di Cristo erano proprio i suoi fratelli di madre e di padre. Quanti erano costoro? In tutto abbiamo potuto raccogliere quattro nomi maschili (Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda) e un numero imprecisato di sorelle anonime (a cui le tarde tradizioni definite apocrife danno i nomi poco attendibili di Assia e Lidia), ma alcuni manoscritti antichi aggiungono un altro nome, Giovanni, del quale non si capisce bene se si affianca a quello di Giuseppe o si sostituisce ad esso (Novum Testamentum Graece et Latine, Merck, Ist. Bibl. Pont., Roma 1933, pag. 46, nota 55)..... “

Ora fate voi una riflessione. La Chiesa non ha interesse ad aprire un dibattito.