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Raccolta di saggi di Nicola Lo Bianco
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Poesia

la poesia schermo e rifugio

Piero Carbone,

-Poesie sotto il pino-,

 SCe, edizioni, 2022

 

 La poesia schermo e rifugio

-Poesie sotto il pino-,

e la memoria va immediatamente al “Tytire, tu recubans sug tegmine fagi…”,

al Melibeo virgiliano che si rivolge sconfortato a -Titiro, tu, sereno, all’ombra di un  grande faggio- , “silvestrem tenui musam meditaris avena” …- moduli un canto agreste sull’umile zufolo…- ;… “nos patriam fugimus…” , -noi(io), invece, siamo costretti ad abbandonare la nostra terra-… :

l’armonia del canto di Titiro di contro alla disarmonia ed alla violenza della realtà di Melibeo.

E non è solo il titolo a richiamare l’egloga virgiliana.

A parte che la figura di Virgilio compare già nel “Dialogo nel bosco” (‘01), un Virgilio arcadico “antico” che si contrappone al modernista “tecnologico” Marinetti, questa poesia (’22) sembra riecheggiare, in forme, strutture e pensieri, ovviamente, diversi, l’antitetica tematica di Titiro e Melibeo.

Il richiamo letterario sembra ancor più giustificato, se consideriamo gli esergo dei tanti scrittori e poeti, posti a mo’ di introduzione delle varie liriche.

E allora la domanda: ma perché in Piero Carbone tutte queste allusioni letterarie?

Sembra che il poeta Piero Carbone voglia allontanarsi in un universo poetico-letterario, ritrovarsi nel canto della poesia, il locus amoenus, uno scenario di musicale requie, desiderio, vaga aleatoria speranza.

Il canto e controcanto di Titiro e Melibeo, qui si converte in un sommesso dialogo con se stesso, un dialogo interiore tra ciò che detta la vigile coscienza

e ciò che vede l’intelligenza.

Non a caso, la parola chiave, con l’area semantica che ne deriva, è “pinzera” : assidui pensamenti tra ciò che era e ciò che è, tra ciò che dovrebbe essere e che non è, e tutto ciò non come raffronto esplicito, proposito di denuncia, ma modo di sentire il presente e il passato, come ispirazione che tracima in flusso poetico.

Come in queste due liriche che possiamo considerare un manifesto programmatico

 

Scrivu in dialettu strittu,

vaju pinzannu

ca li pinzera

comu viennu vannu

però na cosa sacciu, s’è puisia,

senz’essiri farina ti sazzìa.(p.28)

 

E nomentri la varcuzza scinni a picu

-ca si l’agghiutti lu putenti mari-

lu pueta talìa e si fa l’ali!

Pari ca vola , ma si catamina.

Pari cuntentu appriessu a li palori.

Cu l’uocchji chjusi sta e tuttu vidi,

cunta li stiddri, va pinzannu in rima,

scrivi na cosa dunci, ammeci è amara.

… 

(p.98)

 

Il poeta non si lascia andare alla drammatica del reale: “…la varcuzza…

ca si l’agghiutti lu putenti mari…” è uno scenario tenuto a distanza,

che, comunque, sollecita la fantasia poetica ad alzarsi in volo “cuntentu

appriessu a li palori”… “Palori” che vorrebbero essere “na cosa dunci”,

una rappresentazione di serenità e appagamento, un anelito della coscienza, ma sotto l’occhio vigile dell’intelligenza, la “cosa” che vorrebbe essere “dunci”,

si rivela “amara”.

Come in Titiro , “…lentus in umbra…” , non oppresso dall’angoscia degli eventi,

solo l’armonia del canto, della forma poesia, in definitiva, dice il poeta,

“ti sazzìa”, cioè, ti dà rifugio, conforto, in qualche modo ti acquieta.

E se nell’egloga virgiliana è l’ambiente agreste-pastorale separato, e lontano  dalle turbolenze della massa urbanizzata, in queste Poesie sotto il pino il “luogo separato” è la memoria della tramontata cultura contadina, che propriamente   fa da trama ai “pinzera”.

Il fatto è che se Piero Carbone deve moralmente scegliere, sceglie il passato e non il presente, la lontananza e non la prossimità, e l’afflato poetico, per l’appunto, emerge non dall’informe caos del presente, ma dall’eco risorgente di quella cultura.

Ne è spia, peraltro, la presenza qui e là diffusa di motti, detti, aforismi, forma mentis di chi non rinnega la tradizione, anzi la accoglie come segno positivo di verace saggezza.

Un esempio per tutti

Cuogli babbaluci

 

Buttana di la luna maiulina

Attu ca ridu e chianciu senza frenu,

lu zuccaru mi sapi di vilenu.

Sorti la sorti! Si sorti nun dici,

jeccati nterra e cuogli babbaluci.

Forti cantannu, lu pienzu e lu dicu:

passa la vita e resta l’allammicu.(p.72)

 

E per non trascurare il nostro Virgilio, ricordiamo la poesia didascalico-morale delle Georgiche, ispirata alla poesia sapienziale del greco Esiodo.

Ma riprendiamo la poesia di Piero Carbone, dove, a scanso di equivoci, non c’è traccia del “buon tempo antico”, e , se c’è nostalgia, è una nostalgia velata, intrinseca al lirismo del verso: a significare piuttosto una non rassegnata accettazione del mondo così com’è.

Insomma, quello che andiamo dicendo significa che la poesia di Piero Carbone si configura come uno, forse inconsapevole, istintivo, schermo (il “locus amoenus”?), una conformata  barriera per tenere a bada, direbbe Pasolini, “l’universo orrendo” .

La scelta pure del siciliano, lingua “antica”, è già di per se espressione di un pensiero che non intende immergersi  nella realtà contemporanea .

Il linguaggio, fissato in un lessico desueto e, talora, in arcaismi(al sottoscritto sconosciuti), conferma l’interpretazione di poesia “schermo”, e le parole, con la cadenza musicale propria del dialetto, sembrano suggerire un affrancamento dalle miserie del presente.

E se noi percepiamo, sentiamo, quello che il poeta sente e trasmette, significa che il linguaggio è consono e conforme all’intenzione poetica, senza il quale, come si sa, non sussiste liricità, fondamento di ogni opera d’arte.

 

Nicola Lo Bianco

 

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- Letteratura

L’inquietante assenza del bene

 

Sulla poesia di Cruciano Runfola

 

L’INQIUIETANTE ASSENZA DEL BENE

 

“Bonum sequi, mala fugere” (Cic.) , che potremmo tradurre “abbraccia il bene, rifuggi dal male”: ero tentato di dare questo titolo a queste mie note sulla poesia di Cruciano Runfola in omaggio ai diffusi riferimenti letterari, che danno la misura della sua sensibilità alle istanze spirituali.

Ma avrei messo fuori strada il lettore, perché il cruccio di Cruciano (lo chiamo confidenzialmente per nome) non è, ovviamente, scegliere tra bene e male, ma è più propriamente l’inquietante costatazione dell’assenza di quei valori che dovrebbero costituirsi come “bene” morale e civile.

Invero, l’ansia dell’ uomo e del  poeta è la realtà che gli si presenta crudele, inafferrabile, irriducibile. Se potesse, Cruciano questa realtà la metterebbe fra parentesi.

Ma, ovviamente, non può, e, poeticamente, ne fa risuonare solo un’eco, a cui subito contrappone la voce di ciò che dovrebbe o potrebbe essere  il “bene”,

 

Sono in una buona parola

Nella tolleranza,nella comprensione

In un sorriso affabile,

in un richiamo amorevole

Non sono …

Negli occhi dei cattivi, degli indifferenti,

dei superbi,, degli esecrabili saccenti

…(Vita aeterna p.78)

 

 

Cruciano ha un animo di verace poeta, ciò che vede, sente, pensa, ha la “distorsione” dell’istintivo sguardo poetico, quello che vorrebbe coprire la realtà di nobile esistenzialità o liberarla d’un tratto della sua incoercibile durezza.

E’ il poeta che sogna il bene e si rattrista del male, alla ricerca di un conforto che sia la fede o la famiglia, luogo e rifugio di incorrotti sentimenti, che, tuttavia,non appagano, perchè il mondo fuori e la vita incombono minacciosamente.

La vita, in questo mondo, se presunta come valore morale, si rivela, appena calata nel sociale, una trappola senza via d’uscita, perché per Cruciano non c’è dialettica tra bene e male, o c’è l’uno o c’è l’altro, è una dicotomia assoluta, non c’è scampo, non c’è speranza, se non nella fedeltà tutta personale agli insegnamenti del Cristo, e non certo nella buona volontà degli uomini.

L’unica difesa  il ripiegamento interiore a ritrovare, quanto meno in se stesso, ciò che è mite, bello, buono.

Si capisce, allora, questo suo affacciarsi al mondo attraverso le parole della poesia, questo confrontarsi con la realtà attraverso la scrittura, un modo per Cruciano di ammansirne l’assurdità

Osservo il mare calmo letale.

Il mio abnorme urlo silente plasma il creato

trasfigurandolo in atomo opaco di male

mentre alzo il pugno versus il cielo

la mia mente esplode la mia carne brucia

….(XI agosto, p. 44)

 

o anche un modo di obliarla per ritrovarsi cullato dal sogno

 

e poi…non ho sentito più dolore

non mi sono accorto di niente

son passato mentre dialogavo

ho lasciato il mio inferno

e ho trovato la beatitudine.

(Il sogno di John, p.50)

 

 

Ma è un acquietamento temporaneo, effimero, perché il sole del mattino ripropone l’asprezza del vivere.

E così la poesia non può che essere introversione, riflessione, dove il riferimento alla “cosa”, al fatto concreto, rimane sullo sfondo, si lascia intuire, prevalendo la reazione emotiva con parole che affiorano talora come sospiri

 

Lì staremo bene, amore mio

niente di male ci succederà

non sarò ingannata e violentata

ma godremo della vita mancata

fingerò la presenza, vivrò nell’assenza

sarò un angelo, non Angiolina

(Il fiore, p. 52)

 

Cresciuto in ambiente contadino, vive degli ultimi bagliori di una civiltà al tramonto, viziata per di più dal torbido, corrosivo, “subitaneo materialismo”.

Di quell’ambiente che non riesce ad accogliere senza riserve e perplessità, si percepiscono tra le pieghe del dettato poetico i valori della semplicità, essenzialità, decoro morale, ma non basta a farne base tematica primaria e prediletta, perché

 

Figghiu mia, vinisti tuttu diversu

Lu munnu un è fattu

di li to sogni a uocchi aperti

lu munnu è ‘milinatu

di la nmiria, di li suordi, di l’avarizia

di la malatia, di la solitudini, di l’odiu. (Patres filique, p.28)

 

 

Questo è un punto focale della poesia di Cruciano Runfola: da un lato, la terra, “alma mater”, è legame, memoria, famiglia, ormai irriconoscibile

 

Niente sarà più lo stesso, Demetra

né le stagioni, né il cielo stellato

il tutto si è smunto innanzi a te

i carciofi, le lattughe, i melograni

il consorte,l’erede, gli avi,

mammona, lussuria, potere

…(Demetra, p.31)

 

dall’altro la ripulsa della cosiddetta “modernità”, “barbarie”, “vuoto”, “nulla”, dove

 

la polvere della distruzione copre

il tutto, e ormai nel pieno del nulla,

rimane il ricordo del tronco nello stagno

(L’anguilla, il tronco e lo stagno, p.43)

 

 

Rifuggendo dall’uno e dall’altro mondo, l’uomo e il poeta, inerme a costatare la desolazione morale, e irresoluto, non riesce a percorrere fino in fondo i risvolti culturali ed esistenziali, dove forse avrebbe potuto o ancora potrebbe rintracciare più compiutamente le radici della sua poesia.

Questo potrebbe spiegare,ad es, la propensione a trarre spunti e suggestioni dalla grande poesia antica e moderna, a farne trama mimetica dei motivi che più gli stanno a cuore.

Stretto tra il turbinio della realtà, le risonanze del mondo contadino e gli stimoli letterari, la poesia di Cruciano risente della ricerca estemporanea di armonizzare i vari elementi della sua ispirazione.

La “compresenza”, definiamola così, sembra perciò essere il tratto distintivo della struttura compositiva, sia sul piano emozionale che linguistico, determinando, in genere, esiti stilistici non omogenei.

A meno che non ci soffermiamo sul nucleo emotivo dove si concentrano, a mio parere, tensione, compattezza espressiva ed afflato lirico.

Mi riferisco a strofe e componimenti ,che sono parecchi, si capisce, ma qui ne cito alcuni a mo’ d’esempio : Demetra; Bianco e nero; Lasciami qui; Melibeo; Amore mio; ecc.

L’incertezza stilistica (ripeto, secondo me) assume particolare evidenza in XI Agosto e Agnus Dei, dove enfasi linguistica e forzature espressive rendono il testo nebuloso e retorico, pur non mancando qui e là, come in altre composizioni analoghe, versi corposi, incisivi, trasfiguranti.

In conclusione, il sentimento del mondo di Cruciano ha un sottofondo di “innocenza” (per Pascoli, come si sa, era il  “fanciullino”),che è proprio dei poeti autentici;il suo cuore è ricco e denso di trasporto emotivo, ma tutto questo non sempre si traduce in empito lirico, interferendo ridondanza tematica e difformità di linguaggio che, talora, sfiora l’ibridismo come  ad es. in Decem.

Se è vero che  “lo stile è l’uomo” come sosteneva G.L.Buffon, ripreso dal De Sanctis come principio etico-estetico della critica letteraria, a Cruciano uomo e poeta sospeso tra il “finito” e “l’infinito”, io indicherei come paradigma della sua poesia Demetra e Tesoro, due composizioni esemplari delle radici e del valore di Cruciano poeta.

 

NICOLA LO BIANCO

 

 

 

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- Letteratura

Per amore di Dante Alighieri

 Per amore di 

 

DANTE ALIGHIERI ( Firenze1265-Ravenna1321)

 

Facesti come quei che va di notte

Che porta il lume dietro e se non giova

Ma dopo se fa le persone dotte .

 

Dicono che i poeti incarnano la coscienza degli uomini.

Dicono pure che ciò è vero e che la risposta è in ciascuno di noi.

 

Qui vogliamo rendere omaggio al Poeta di sempre,

Dante Alighieri, fiorentino, onorato in tutto il mondo.

 

Quando nacque

racconta la leggenda

in cielo si accese una meteora.

 

Fu padre di quattro figli, Pietro Jacopo Giovanni

e Antonia, che si fece suora, e marito di Gemma Donati.

 

Nel 1300 a trentacinque anni

nella città assediata dalla paura straziata dal sangue , dalla violenza delle fazioni in lotta Guelfi e Ghibellini,Guelfi Bianchi e Guelfi Neri, mentre tenta con senso di giustizia e di equità di riportare pace e concordia, viene cacciato in esilio, gli si confiscano i beni

lo si condanna a morte.

 

Non rivide più la sua casa, i suoi amici, la sua Firenze.

 

Per ventanni fu ospite di città in città senza requie

solo e senza affetti.

 

Morì a Ravenna nel 1321 subito dopo avere scritto l’ultimo verso

del suo grande poema:

“l’amor che move il sole e l’altre stelle”.

 

 

 

 

Non è possibile ridurre l’esperienza spirituale di Dante alle dimensioni di un modesto profilo, tanto è grandioso il suo cammino intellettuale , morale e poetico, tanto egli spazia dall’ « uomo bestia » con le sue ignominie e le sue sozzure, ai misteri ed alla cosmicità delle cose celesti.

La Divina Commedia poi, il «poema sacro…/a cui ha posto mano e cielo e terra », è cosi’ intimamente connesso nelle sue varie parti, che è esso stesso un « cosmo » che va esplorato pazientemente seguendo passo passo il Poeta, che ci fa conoscere la sostanza delle cose del mondo che è, si’, viaggio all’Inferno, ma è anche risalita, ascesa, volontà e possibilità di liberarsi per accedere ad una visione « alta » e comprensiva della vita.

Intendiamo semplicemente trasferire sulla pagina qualcosa di cio’ che immediatamente s’impara leggendo la Divina Commedia, visto che Dante, a differenza di quanto generalmente si immagina, è di prorompente attualità, non certo nei dettagli di cronaca, ma nei fatti essenziali che tutt’oggi ci riguardano come esseri umani dotati di coscienza e ragione.

Si racconta che ancora in vita il Poeta, nella città di Verona, veniva indicato dalle donne del luogo come “colui che scende all’inferno e ne risale portando nuove dei peccatori”.

Il primo stupore è quello di sapere che tanti lettori/studiosi dilettanti, di estrazione popolare e d’istruzione elementare, si sono appassionati alla Divina Commedia. Ad esempio, un calzolaio al suo sgabello batteva chiodi e recitava, a noi adolescenti, interi canti del Poema a memoria .

Poi s’impara ad ammirare il Poeta, la sua poesia, la sua forza interiore, il suo coraggio di uomo e di artista, e si capisce perchè mai gli studenti devono studiare un poema lungo ed “aspro” di uno scrittore del ‘300.

D’altro canto, sono moltissimi quelli che credono che la poesia non ci riguarda, che non riguarda questo mondo: sarebbe lungo rispondere compiutamente a questo luogo comune, e forse sarebbe anche inutile.

Qui ci basta citare Primo Levi, l’orribile esperienza del campo di concentramento raccontata in « Se questo è un uomo », il capitolo intitolato « Il canto di Ulisse », dove lo scrittore nel pieno delle nefandezze che tendevano ad annullare l’uomo in quanto tale, cerca disperatamente, come un’àncora di salvezza, di ricordare i versi di quel canto, di trovarvi un’analogia con quella sua condizione, di trascendere cosi’ facendo, almeno per un giorno, l’inferno reale, e ricongiungersi idealmente alla parte più nobile dell’essere umano. 

Che cos’è dunque la poesia, e quella di Dante in particolare ?

Per tentarne una sintesi, qui diciamo che è anche una ricerca appassionata di libertà e di liberazione.

Questo mondo, il nostro animo, la nostra mente, ben sapeva il Poeta, sono una « selva oscura », un labirinto che ci condanna alla paura, all’infelicità, a un dolore inspiegabile, ad essere ombra di noi stessi.

La ricerca è dura, faticosa, tormentata, presuppone la conoscenza del male, anzitutto quello che si annida dentro di noi, il desiderio di superare questo male, di autocorreggersi, confessando a se stessi qual è il peccato che rode la nostra vita.

Il « peccato », questo termine che oggi appare tanto ridicolo, in Dante ha un valore eminentemente sociale: è una frattura, una divisione, un danno che si arreca a tutta quanta la comunità, e non un atteggiamento passeggero, un errore. Il goloso, per fare un esempio, non è tale perchè s’è fatto una bella mangiata, ma perchè il piacere carnale del cibo è lo scopo primario, ed in esso il peccatore racchiude il suo orizzonte esistenziale.

Per quella libertà, la prima cosa che ci insegna il Poeta è che ciascuno di noi, gli uomini in generale, hanno bisogno     di una guida, di un maestro, senza il quale « per questo aspro deserto…/a retro va chi più di gir s’affanna » .

Dante, pellegrino dell’Aldilà, si accompagna a Virgilio poeta e « famoso saggio », e a Beatrice « luce intellettual… piena d’amore ».

Gli uomini credono di procedere in avanti, sicuri di se stessi, arroganti, mentre, invero, vanno ciecamente all’indietro, perchè confondono i loro istinti, i loro scopi materiali, con la meta che più si addice alla loro qualità umana: essere interamente se stessi tenendo a bada la « matta bestialità », avere cura di coltivarsi spiritualmente, considerare se stessi e tutto cio’ che ci circonda come parte di un tutto, di un ordine universale al quale siamo chiamati a partecipare.

Tradire questo « sentimento cosmico » è principio di rovina, di smarrimento.

Questa, secondo Dante, è la vera libertà, questa è la via che dovrebbe additare all’umanità chi ha il governo del mondo, sia esso temporale che spirituale .

Fuori di quest’ordine universale, fuori di questa consapevolezza, non c’è che la « selva selvaggia e aspra e forte », « l’orrida fossa » infernale, dove l’arbitrio(quello che oggi chiamiamo libertà) si accampa sovrano, abbandonandoci all’angoscia, alla degradazione morale, a un dolore sordo e continuo.

Ora, non vorrei che si pensasse a Dante come a un giudice inquisitore: se il Poeta è giudice lo è anzitutto di se stesso, se c’è tormento, è tormento anzitutto della sua anima, per non dire della sua « pietosa » comprensione della limitatezza dell’uomo: nel suo immaginario viaggio, egli è peccatore tra i peccatori, ma è anche colui che vuole emendarsi, che infine acquista il privilegio di entrare in Paradiso, il regno della pace, della perfezione assoluta, della celeste felicità.

Il cammino che egli intraprende è anche confessione, personale e collettiva, cioè di tutte le anime che incontra nell’Aldilà, uno specchio del « male oscuro » che affligge l’umanità, ma anche della « luce » che possiamo seguire tra le tenebre.

Seguire il Poeta in questo doloroso e gioioso cammino, dall’ “ignavia” alla “Gloria di colui che tutto move”, significa imparare a guardare dentro se stessi, a guardarsi attorno, per poi accedere ad una prospettiva superiore. E cio’ non significa essere « santo » o « eroe », ma semplicemente e gradualmente porsi delle domande che non riguardano solo la nostra persona, semplicemente e gradualmente esercitare la buona volontà nello scegliere cio’ che unisce gli uomini piuttosto che cio’ che li divide .

La poesia di Dante è per l’appunto una potente e persuasiva proposta morale e intellettuale, di conoscenza e coscienza, di inquietudine estrema e di pace sognata. Essa, ed è qui la sua forza, la sua bellezza e il suo fascino, ci trasferisce in un’atmosfera che è nello stesso tempo reale e fantastica, ci fa rivivere le molte esistenze che sono compiutamente vissute, ma nello stesso tempo superate, proiettate su un piano di sogno, che è poi la nostalgia di cio’ che potrebbe essere e non è.

Insomma, la Divina Commedia ci pone insistentemente la domanda: io chi sono? Che cosa lascio dopo di me?

Anche quelli di Dante erano tempi feroci, di drammatiche trasformazioni, di guerre e violenze, ma c’era, a differenza del nichilismo di questa nostra epoca, la coscienza del male, il senso e la speranza di una sicura giustizia, la certezza in una possibile pace, c’era cioè un ordine interiore, che nel corso del secolo scorso abbiamo definitivamente perso.

La grande poesia della Divina Commedia ha a fondamento questi sentimenti e questi valori, e senza di essi non sarebbe stata possibile.

Noi ancora ci illudiamo di poter correggere il mondo con la legge scritta e « gridata » dai poteri costituiti, di impedire il farsi o il non farsi con la legalità « poliziesca », ed è un sintomo di quanto abbiamo perso di vista cio’ che è essenziale, cio’ che fonda l’uomo nella sua interezza.

Al centro della nostra attenzione mettiamo sempre il « fatto » e ad esso subordiniamo tutto il resto, per cui già Dostojeski nell’ Idiota cristianamente rimproverava : « voi guardate solo i fatti, dunque siete ingiusto » .

Dante, come tutti i grandi spiriti dell’umanità, come tutti i grandi libri che permangono pur nelle trasformazioni epocali, è profetico, perchè sa cogliere il tormento dell’uomo, cio’ che lo opprime dal profondo, cio’ che gli manca, cio’ che vorrebbe, ma non sa cercare o non sa trovare, la pace: con se stesso, con gli altri, con la natura, con l’universo che, ci insegna ancora Dante, pur se lontano è parte di questa terra.

L’uomo non capisce che è questa la felicità, che la salvezza passa attraverso la ricreazione della parte spirituale, e attraverso di essa, di quell’ordine interiore che dobbiamo imparare a ricostituire.

Voglio ricordare che Dante, nel definire la « lupa » come figura della cupidigia, l’animale che « fe’ già viver grame le genti », « che dopo il pasto ha più fame che pria », usa l’espressione « bestia senza pace », a significare che quel peccato produce le convulsioni che ci straziano, ci tiene tristi e inquieti, perennemente insoddisfatti, ci fa perdere il senso del limite, dandoci la sensazione di non essere padroni del nostro destino.

Non è facile valutare quanto l’opera di questa mente eccelsa abbia influito sul carattere degli italiani, quanto e che cosa ha lasciato nella intelligenza delle varie generazioni di studenti.

Per non dire d’altro, questo fervido credente ci ha insegnato ad accostarci laicamente al cristianesimo, a cercare prima di credere, a credere nella forza della parola ben fondata  e saggia, che è poi, dice il mio dotto amico Giampiero Giampieri, « l’unico mezzo di cui l’uomo dispone per liberarsi davvero ».

Per far sentire il senso dell’ascesa emancipatrice che ci trasmette la poesia di Dante, l’ansia di libertà e la liberazione, citiamo i tre versi finali che concludono il viaggio del Poeta rispettivamente nell’Inferno, nel Purgatorio, nel Paradiso :

 

« e quindi uscimmo a riveder le stelle»

« puro e disposto a salire alle stelle »

« l’amor che move il sole e l’altre stelle »

 

 

 

NICOLA LO BIANCO
 
 
 
 

 

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- Letteratura

omaggio a ignazio buttitta

A margine di un progetto teatrale:
I TEMPI DEL POETA IN PIAZZA

Quando si pensa a Ignazio Buttitta, la prima immagine è quella di una piazza, di un pubblico, di un attore che occupa prepotentemente
la scena.Si pensa ad un evento teatrale.
L’immagine dell’evento teatrale è immediata, spontanea, non solo e non tanto per la figura del “poeta in piazza”, ma perché la poesia di Ignazio Buttitta nasce essenzialmente per essere, come dice Contini, “eseguita”, cioè teatralmente rappresentata.
La strofa, la misura del verso, il ritmo, non sono dettati dalla ricerca di una formalizzazione lirica, ma rispondono ad una esigenza teatrale.
La poesia per Buttitta non parole con le quali riempire la pagina.La parola è un semplice flatus vocis, fino a quando non si fa corpo, gesto, voce, fino a quando non si trasferisce viva e vibrante in chi ascolta.
Potremmo dire come accade nei momenti magici che il teatro riesce a produrre, che la poesia di Buttitta è corale, nel senso che è poesia in atto, creazione, che per reggersi presuppone una componente indispensabile, un co-autore:lo spettatore.
Come ben sapevano i greci, anche per questo nostro èpoeta poesia è poiéo:fare, agire, suscitare.
E vien fatto di pensare a Lu Hsun, il grande scrittore rivoluzionario cinese, al suo rovello per il tragico/ridicolo della parola -“spettro”, della parola che rimane al di qua dell’azione, e non è nulla finchè, appunto, non diventa azione.
C’è un passo nella prefazione a “Il poeta in piazza” molto significativo:Dice il poeta:<Pensavo tutte le volte alla possibilità di trasformare la recita in un discorso più nettamente politico, ma non riuscivo a trovare il linguaggio adatto>.
E si capisce:prima di ogni altra avventura intellettuale, Buttitta, come Lu Hsun, è un poeta.E’ vero, se avesse potuto, non avrebbe scritto un solo rigo.Ma naturalmente non poteva.
Non poteva ingannare se stesso e con se stesso quel popolo, dentro il quale era capace, come ebbe a dire, di “pescare pesci vivi”.
Eppure il dubbio, il cruccio, forsanche il rimorso del privilegio di essere poeta, di tanto in tanto percorreva il suo fare poetico:”U rancuri”, scritta nel ’69, è la più alta e commovente testimonianza di questo suo stato d’animo.


L’essere il “poeta in piazza”, possiamo suppore, fu un nobile, incoercibile compromesso.
Sappiamo del suo amichevole dispetto quando, ad es., Sciascia o Vittorini gli chiedevano di poter leggere con gli occhi in silenzio il componimento, prima di ascoltarlo dalla sua viva voce.
In questo senso e più profondamente, anche rispetto all’essere poeta che sta dalla parte del popolo, Buttitta è poeta popolare, l’ultimo grande poeta popolare, figlio legittimo della secolare cultura orale del mondo contadino, quando, come dice Sciascia, “il poetare coincideva con l’esistere”.Cioè, con la vita quotidiana, nell’alternanza di gioie e dolori, di accadimenti seri o buffi, entro un orizzonte forse meno ampio(ma è assunto questo tutto da verificare), ma sicuramente più autentico e profondo nel delineare lo stile e il destino di un popolo.
Non a caso, la più grande poesia di Buttitta trae spunto dalla cronaca, dalla tragedia di Portella, al ridicolo delle corna del marito tradito.
Il grande merito, la modernità e la grandezza di questa poesia è nell’avere innalzato, trasfigurandola, la cronaca a evento storico, nell’avere tramutato la storia particolare di questo o quel personaggio, che non fanno storia, in un emblema di una civiltà superiore, in simbolo di un riscatto umano e civile.
Turiddu Carnivali o Rosa Scordu, sarebbero nomi, come i tanti oggi, soprattutto oggi, dimenticati.
Il poeta li ha tolti dall’oblio della cronaca e ne ha fatto portavoce della parte migliore dei siciliani.
E di loro il popolo si ricorda come epopea che gli appartiene.
Questo volevamo dire per dire che uno spettacolo su Buttitta ci sembra l’omaggio più conveniente per onorare la sua memoria.

Nicola Lo Bianco