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Raccolta di saggi di Arcangelo Galante
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Scienza e fede

Commemorazione dei defunti (convinzioni e teorie)

La domanda su dove vadano a finire i morti attraversa i secoli come un’eco che non si spegne mai. È un quesito che non appartiene soltanto alla religione o alla filosofia, ma all’essere stesso dell’uomo, che sa di dover morire e tuttavia cerca un senso anche nell’estinzione. La morte non è un evento da osservare dall’esterno: è l’unica certezza che possediamo, ma anche la più inafferrabile. Ogni cultura, ogni credo, ogni individuo ha tentato di darle un volto, una forma, una direzione.

 

1. Il credente: il viaggio dell’anima

 

Per il credente, la morte è una soglia. La vita terrena è solo la prima parte di un cammino che prosegue altrove, oltre il confine visibile del tempo. In questo “altrove” — che la mente razionale non può descrivere — l’anima sopravvive, svincolata dal corpo, e viene accolta o giudicata secondo la purezza del suo operato.

Il cristiano, ad esempio, immagina tre destini possibili: il Paradiso, luogo di comunione con Dio; il Purgatorio, spazio di purificazione; e l’Inferno, separazione eterna dall’amore divino.

Ma anche fuori dal cristianesimo, il credente trova un filo simile. Nell’Islam l’anima riposa nel Barzakh, una regione intermedia dove attende il Giorno del Giudizio; nell’induismo e nel buddhismo, essa entra nel ciclo delle rinascite, assumendo di volta in volta nuove forme di vita finché non raggiunge la liberazione finale.

 

Per il credente, dunque, la morte non distrugge, ma trasforma. È una metamorfosi dello spirito, un ritorno all’origine, un riunirsi con il principio che ha dato la vita. La tomba non è un punto di arrivo, ma un passaggio, e la speranza — forza invisibile ma tenace — diventa la chiave per accettare l’inevitabile.

Morire significa, in quest’ottica, tornare a casa: la vita è un pellegrinaggio, e il corpo un involucro temporaneo, un vestito che si lascia sulla soglia dell’eternità.

 

2. L’ateo: il ritorno alla materia

 

Per l’ateo, la morte non è un ponte, ma un muro. Non ci sono anime, paradisi o rinascite: la coscienza si spegne come una fiamma che ha consumato tutto il suo ossigeno.

Ciò che eravamo svanisce, e con esso l’illusione di un “io” destinato a sopravvivere. Tuttavia, questa visione non è necessariamente disperata.

La fine dell’individuo può essere letta come un ritorno alla natura, come una restituzione: ciò che siamo stati — carne, ossa, acqua, energia — ritorna al ciclo cosmico della materia. Nulla si perde davvero, tutto si ricompone.

 

Il corpo si decompone e diventa suolo fertile, nutrimento per altre vite. I nostri atomi, che un tempo respiravano e pensavano, si diffonderanno in nuove forme: un albero, una nuvola, forse il respiro di un altro essere umano.

La sopravvivenza, per l’ateo, non è personale ma universale. Non si è più “qualcuno”, ma si continua ad esistere come parte del tutto.

 

Anche il ricordo assume un ruolo importante. Se non c’è aldilà, ciò che resta è ciò che abbiamo lasciato agli altri: parole, gesti, affetti, opere. La memoria dei vivi diventa il solo “paradiso” possibile, e il modo in cui siamo ricordati è l’unico frammento di eternità che ci è concesso.

In questa prospettiva, la morte non è un castigo, ma la legge naturale che livella ogni distinzione e restituisce ciascuno alla materia primordiale da cui proviene. È un atto di equilibrio cosmico, non un annientamento.

 

3. Lo scienziato: la trasformazione dell’energia

 

Lo sguardo dello scienziato, più che negare o credere, osserva. La morte, da un punto di vista biologico, è un fenomeno naturale, il termine dell’attività vitale di un organismo complesso. Quando il cuore si ferma e il cervello smette di generare impulsi, la macchina della vita si arresta, e il corpo entra nel processo di entropia: l’ordine si disgrega, la materia si riconsegna al caos originario.

 

Eppure, anche in questa freddezza descrittiva, lo scienziato intravede un mistero. La materia non scompare: si trasforma. È la legge di conservazione dell’energia a ricordarcelo. Ogni molecola, ogni atomo che compone un essere vivente continua il suo viaggio nel cosmo. Nulla, nell’universo, si perde.

Un giorno, forse, gli atomi che costituivano il nostro corpo entreranno in una stella, in un fiore o in un altro essere umano. Siamo parte di un ciclo infinito di trasformazioni, di una danza chimica e fisica che unisce tutto ciò che esiste.

 

Per lo scienziato, dunque, la morte non è né punizione né salvezza, ma un evento di continuità naturale. La coscienza scompare, ma la materia resta. E in questa permanenza impersonale, qualcuno trova un conforto profondo: la certezza che, in qualche modo, non cessiamo mai completamente di essere, anche se non ne siamo più consapevoli.

 

Conclusione: tre strade verso lo stesso mistero

 

Credente, ateo e scienziato camminano su sentieri diversi, ma tutti convergono davanti allo stesso abisso: l’enigma della fine.

Il credente lo riempie di luce e di speranza, l’ateo lo contempla come un ritorno alla terra, lo scienziato lo misura, ne osserva i meccanismi, ma nessuno lo comprende davvero fino in fondo.

Forse la verità sulla morte non sta nell’una o nell’altra teoria, ma nella tensione stessa verso il suo mistero.

 

In fondo, l’uomo continua a chiedersi dove vanno a finire i morti perché, in quel domandare, ritrova il significato della vita.

Che l’anima salga al cielo, che la materia si disperda nel vento o che l’energia si trasformi in altre forme di esistenza, una cosa rimane certa: tutto ciò che è vissuto non si perde.

Forse non sappiamo “dove” vanno i morti, ma sappiamo che continuano a vivere, in qualche modo, in ciò che siamo, in ciò che ricordiamo, in ciò che amiamo.

 


Id: 1046 Data: 05/11/2025 16:10:28