chiudi | stampa

Raccolta di saggi di Paolo Ottaviani
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

- Filosofia

La teoria gnoseologica di Bernardino Telesio

La teoria gnoseologica di Bernardino Telesio

Analisi dei libri VII, VIII e IX del
«De rerum natura juxta propria principia»

di Paolo Ottaviani

 

«Qui 1 ante nos mundi hujus constructionem rerumque in eo contentarum naturam perscrutati sunt, diuturnis quidem vigiliis magisque illam indagasse laboribus, at nequaquam inspexisse videntur. Quid enim iis illa innotuisse videri queat, quorum sermones omnes et rebus et sibi etiam ipsis dissentiant adversique sint? Id vero propterea iis evenisse existimare licet, quod, nimis forte sibi ipsis confisi, nequaquam, quod oportebat, res ipsas earumque vires intuiti, eam rebus magnitudinem ingeniumque et facultates, quibus donatae videntur, indidere. Sed veluti, cum Deo de sapientia contendentes decertantesque, mundi ipsius principia et caussas ratione inquirere ausi, et, quae non invenerant, inventa ea sibi esse existimantes volontesque, veluti suo arbitratu mundum effinxere».

Vale a dire:

 

«Chi 2 prima di noi ha esaminato la struttura del mondo e la natura delle cose pare che abbia faticosamente ed incessantemente indagato senza tuttavia giungere a fare chiarezza su tali questioni. Che cosa, d’altra parte, potrebbe far pensare che tali problemi siano stati chiariti proprio da quegli uomini i cui discorsi contrastano fortemente con la realtà e persino con sé medesimi? È lecito supporre che tutto ciò sia accaduto perché quegli uomini, troppo fiduciosi in se stessi, non sufficientemente attenti – come era invece necessario – alle cose e alla loro forza, non riconoscendo quella grandezza, quella intelligenza e quelle capacità di cui le cose stesse sono dotate, gareggiando superbamente in sapienza con Dio, osarono indagare con la ragione le cause e i principi del mondo e, credendo e pretendendo di aver ritrovato cose che trovato non avevano, dipinsero il mondo secondo la loro arbitraria immaginazione».

 

Erano oramai trascorsi dieci anni di intenso studio e di meticolose ricerche dal conferimento del dottorato, avvenuto nella città di Padova nel 1535, quando «il giudiciosissimo Telesio cosentino» 3 cominciava a mettere mano alla sua opera maggiore: dopo un decennio di riflessioni e di indagini egli non poteva scrivere nel suo Prooemium al «De rerum natura juxta propria principia» parole più pacate e, nel contempo, più polemiche. Fin dalle prime battute dell’opera traspare evidente il carattere dell’uomo: attento, scrupoloso, dubbioso dell’altrui e delle proprie forze, teso alla conoscenza e alla continua verifica dei fenomeni naturali, disposto a discutere se stesso e le proprie scoperte, propugnatore di una sapienza che non ha in sé nulla di mirabile o divino, ma che nasce e si sviluppa unicamente dalla concretezza della esperienza e della natura. Sono qualità morali ed intellettuali che, da sole, lo fanno uomo dell'era moderna. Ascoltiamolo:

 

«Nos 4 non adeo nobis confisi, et tardiore ingenio et animo donati remissiore, et humanae omnino sapientiae amatores culturesque (quae quidem vel ad summum pervenisse videri debet, si, quae sensus patefecerit et quae e rerum sensu/perce' tarum similitudine haberi possunt, inspexerit), mundum ipsum et sing as ejus partes, et partium rerumque in eo contentarum passiones, ctiones, operationes et species intueri proposuimus. Illae enim, recte perspectae, propriam singulae magnitudinem, hae vero ingenium viresque et naturam manifestabunt. Ut si nihil divinum, nihil admiratione dignum, nihil etiam valde acutum nostris inesse visum fuerit, et nihil ea tamen vel rebus vel sibi ipsi repugnent umquam; sensum videlicet nos et naturam, aliud praeterea nihil, secuti sumus, quae, perpetuo sibi ipsi concors, idem semper et eodem agit modo atque idem semper operatur».

 

«Noi, non confidando così smisuratamente in noi stessi, dotati di ingegno più umile e d’animo meno superbo, cultori amorevoli di una sapienza affatto umana (sapienza che deve considerarsi massima se sarà riuscita a ben esaminare le cose che il senso manifesta e quelle che si possono ricavare in virtù della similitudine delle cose percepite con il senso) ci siamo prefissi di scrutare il mondo e le sue parti, le passioni, le azioni, le operazioni e le specie delle parti e delle cose in esso contenute; quelle infatti, se attentamente osservate, sveleranno la grandezza che le è propria, queste l'intelligenza, la forza e la natura loro. E così, se potrà sembrare che nelle nostre riflessioni non vi sia nulla di divino, nulla di mirabile e persino nulla di molto penetrante, tuttavia le nostre analisi non cozzeranno mai con le cose né, tanto meno, con sé medesime: abbiamo pertanto seguito esclusivamente il senso e la natura che, eternamente coerente con se stessa, fa sempre nel medesimo modo le stesse cose e sempre agisce egualmente».

 

Eppure, anche in tempi relativamente recenti, si è parlato di Telesio come di un filosofo che solamente «accenni alla età moderna... e resta un uomo del Rinascimento» 5;sono queste parole di Giovanni Gentile la cui interpretazione del naturalismo telesiano meriterebbe una più lunga e dettagliata analisi; noi qui, limitandoci a trattare esclusivamente il problema della dottrina gnoseologica del filosofo cosentino, faremo solo alcune osservazioni generali tendenti a mostrare i limiti e le contraddizioni della teoria dell’attualismo sia rispetto all'interpretazione complessiva del pensiero filosofico rinascimentale italiano sia, più in particolare, rispetto all'interpretazione del naturalismo di Bernardino Telesio.

 

È noto come il fondamento teorico di tutta la visione attualistica della realtà risieda nel principio della distinzione tra «pensiero pensante» e «pensiero pensato»: il primo, che avrebbe le caratteristiche della concretezza e della razionalità, è l’universale che comprende in sé sia tutti i pensieri dei singoli individui sia tutti i pensieri individuali determinati, applicati ad un qualsiasi contenuto: è pensiero concreto, unità che pone tutto il molteplice; il secondo invece è pensiero astratto, molteplicità, attività intellettuale esercitata su dati empirici.

 

La natura viene ad essere esaminata nell’ambito del pensiero applicato ad un contenuto - non considerando invece che si tratta propriamente e semplicemente del contenuto del pensare - e per questa via respinta fuori dal pensiero «attuale» proprio in virtù del fatto che il filosofare neoidealistico, totalmente privato dell’esperienza, ne stabilisce astrattamente l’indipendenza e l’esteriorità. La natura intesa come pensiero che sulla natura medesima si applica, e le scienze naturali non sarebbero così conformi ai principi della concretezza e della razionalità poiché prescindono dal «pensiero pensante», dall’universale, dall’unità che pone tutti i dati del molteplice; ed in questo modo ogni aspetto del reale - sia che appartenga alla sfera della natura o della scienza sia che attenga alla problematica della religione, dell’etica, della storia civile ecc. - esisterebbe solo in forza dell’Atto che pensa, l'unico considerato - in strettissima osservanza idealistica - reale e razionale. I risultati di questo schema preconcetto applicato a quel grandioso, per molti versi radicalménte innovatore, movimento filosofico del Cinquecento italiano si possono enunciare con le parole stesse del Gentile: «Il problema 6 filosofico concerne, da una parte, la posizione dell’uomo di fronte a Dio inteso come principio trascendente della realtà; e riceve nel Rinascimento una soluzione naturalistica, poiché si assegna alla vita umana un fine immanente. Ma, dall’altra, riguarda la posizione dell'uomo di fronte alla natura, con la quale egli era dalla filosofia antica mescolato e confuso; e riceve per questo rispetto una soluzione opposta alla prima; una soluzione che rivendica l’autonomia dell’uomo di fronte alla natura inferiore, ricollegandolo alla divinità trascendente. Onde per un verso si nega, ma per l’altro si è condotti a riaffermare l’immortalità». Viene così oscurato uno dei fondamentali punti d’arrivo di tutta la speculazione filosofica del naturalismo rinascimentale che, sia pure attraverso un lungo, travagliato e contraddittorio cammino, aveva tuttavia portato a compimento quel processo di progressiva contrazione ed abolizione di ogni teoria volta alla rappresentazione trascendente, dualistica e metafisica della realtà.

Più in particolare l’interpretazione gentiliana si mostra incapace di intendere correttamente il nucleo centrale del naturalismo di Telesio affermando che proprio questa «spiegazione naturale non è senza residuo» 7 (e si tratta di un «residuo» del peso e dell’ingombro della metafisica) e di conseguenza non sa dar conto della realtà «se non meccanicamente» 8, per poi concludere, come è ovvio, che «il puro meccanismo non è intellegibile» 9. Ora, se è vero che una sorta di impostazione meccanicistica è effettivamente presente nell’indagine telesiana soprattutto, come vedremo, nella descrizione dello scontro delle due principali forze che agiscono nella natura - il caldo e il freddo -, tuttavia è certamente fuorviante far apparire l’intero sistema della filosofia naturale come non autonomo, dipendente da una superiore concezione metafisica. È vero l’opposto: la natura viene considerata come un mondo a sé, a se stesso sufficiente, autonomo, retto da propri principi, spiegato in base a cause interne che sono sempre di ordine naturale e che escludono ogni forza trascendente, ogni causa soprasensibile. È vero che si parla, in un contesto dove si dispiega larga e nel contempo penetrante e minuta la polemica contro Aristotele, del termine supremo della dualità metafisica: Dio; ma, respinta decisamente la posizione peripatetica del motore immobile, il concetto della divinità sembra assumere la sola funzione strumentale di un principio posto a garantire l’ordine e l’autonomia dell’universo attraverso l’autoconservazione di tutti i viventi, di tutte le energie naturali, che altrimenti tenderebbero alla distruzione reciproca, alla rottura definitiva ed irreparabile dell’armonia cosmica.

E sarà proprio questa nuova concezione della natura vista nella sua mera oggettività ed indipendenza che, eliminati gli aspetti magici ed animistici che saranno ancora presenti in Giordano Bruno e Tommaso Campanella, costituirà il fondamento teorico di tutta la ricerca scientifica moderna da Leonardo a Copernico, da Keplero fino al Galilei.

L’uomo, per conoscere ed interpretare i fenomeni naturali, deve quindi lasciarsi guidare dalla natura medesima affidandosi ai sensi che non possono condurre in errore poiché ciò che essi testimoniano non è cosa diversa da ciò che la natura rivela. Non si tratta di una anticipazione delle dottrine sensiste del Berkeley, anche se corpose analogie esteriori sono agevolmente rintracciabili; diverso è però il presupposto teorico: il sensismo filosofico si preoccupa di pervenire alla conoscenza delle cose partendo dalle sensazioni passate al vaglio dell’analisi psicologica; è appunto la psicologia l’istanza suprema che conduce alla comprensione e alla spiegazione dei fenomeni fisici. La teoria gnoseologica telesiana si muove in un contesto affatto diverso: il processo conoscitivo si definisce essenzialmente come passaggio da cosa a cosa: ciò che si afferma è la inscindibile unità del cosmo, l’indifferenziata uguaglianza tra ente e senso, tra natura e umana capacità di sentire, di conoscere. Siamo, come è facile intendere, agli albori delle teorie materialiste della conoscenza scientifica della realtà: errori, ingenuità, contraddizioni sono innegabili ed evidenti ma non può essere sottaciuto il grande valore filosofico e scientifico che le investigazioni di Telesio costituiscono per lo sviluppo successivo del pensiero e della civiltà occidentali. È bene quindi vedere da vicino come vengono posti i capisaldi di questa nuova teoria gnoseologica.

 

«Spiritus 10 modo passiones operationesque aperiendae essent, modus scilicet quo rerum, quae universae externa nimirum specie internisque viribus in spiritum agunt, speciem naturamque et motus percipit, quod sentire dicitur: tum et quo earum quae vel externa modo specie vel internis modo viribus spiritui innotuere, quod ignotum est percipit, quod intelligere dicitur; postremo et modus quo ab iis, quae sentit et quae intelligit, cupiditatibus odiisve et aliis hujusmodi afficitur passionibus, et juxta eas ad operationes commovetur quae et ipsae bonae pravaeque et virtutum vitiorumve, et prout has vel illas operatur, bonus et ipse pravusve et virtutibus donatus vitiosusve dicitur, et mensura insuper qua, recte ut operetur probusque ut sit vel fiat, afficiendus est commovendusque spiritus: summe omnia inquiri dignissima, et quibus si liceat explicatis, labori huic finis imponi possit».

 

«Ci resterebbe unicamente il compito di spiegare le passioni e le operazioni dello spirito; vale a dire il modo con il quale il senso percepisce la forma, la natura e il moto delle cose che tutte insieme agiscono sullo spirito attraverso, come è ovvio, l’aspetto esteriore, ma anche attraverso forze interne: tutto ciò noi chiamiamo sentire; in seguito il modo con il quale il senso percepisce ciò che ci è ignoto di quelle cose che, o attraverso l’aspetto esteriore o attraverso forze interne, sono già note allo spirito: tutto ciò noi chiamiamo intendere; infine il modo con il quale esso può venire contagiato dalla cupidigia e dall'odio o da altre passioni di tal natura che sente e che intende. Lo spirito, secondo le sollecitazioni ricevute può essere mosso ad operazioni buone o cattive e quindi definito, in rapporto alle operazioni svolte, virtuoso o malvagio; pertanto è bene indagare in che misura occorre condizionarlo e disporlo affinché operi rettamente e sia o diventi virtuoso. Son tutti problemi degni della massima attenzione e tali che, se riusciremo, come è possibile, a risolverli, potremmo considerare conclusa questa nostra fatica».

Ciò che guida l’analisi telesiana è la convinzione profondissima che vi sia un’unica fonte dalla quale derivano tutte le nostre diverse sensazioni e di conseguenza tutte le molteplici possibilità di sentire e di conoscere. Dal punto di vista ontologico all’uomo non è riservato alcun posto di privilegio nel cosmo: lo sforzo massimo della filosofia naturale sta nel porre sullo stesso piano tutti gli esseri viventi. L’ardente, implacabile polemica contro la concezione aristotelica, più tardi sostenuta dal medico-filosofo Galeno, che affermava la tripartizione delle anime - razionale, irascibile e appetitiva -, sta ad indicare, al di là dello specifico valore filosofico della controversia, come ormai stia cambiando radicalmente il clima culturale, l'impostazione generale dei problemi scientifici.

L’unità del mondo non può più essere assicurata dalle vecchie concezioni trascendenti, occorre che una nuova filosofia sappia trarre dalla natura medesima i codici e le norme per la sua corretta interpretazione, che sappia porre l’uomo in una posizione di effettiva possibilità di conoscenza reale. Il brano che abbiamo riportato è, relativamente a queste tematiche, davvero illuminante; tutta l’attività dello spirito si definisce fondamentalmente come attività del senso e ciò può avvenire perché è stata superata una visione dualistica della realtà, perché l’uomo cessa di essere considerato come l’esclusivo depositario di un superiore disegno trascendente. La teoria della conoscenza umana non può più essere conforme a un progetto teleologico, essa si configura piuttosto come possibilità naturale di scambio di esperienze, come passaggio analogico da ente ad ente. I presupposti filosofici sono la inscindibile unità della natura, l’identificazione totale tra spirito e materia e infine la collocazione dell’uomo nell'ambito degli esseri naturali senza che vi sia alcun principio spirituale o divino che lo strutturi o lo fondi. Conoscere l’attività del senso significa conoscere l’attività dello spirito, compresi i suoi vizi e le sue virtù.

Gnoseologia ed etica si fondono in un’unica formulazione teorica: è questo senza dubbio un esempio del filosofare ingenuo di Telesio che non può tuttavia indurre a misconoscere il grande valore innovativo che il dispiegarsi delle concezioni della immanenza hanno in sé e pongono per il successivo sviluppo del pensiero filosofico e dell'indagine scientifica.

In questo contesto assume valore determinante la questione di «come lo spirito sente e di che cosa sia il senso» affrontata nel secondo capitolo del settimo libro.

«Rerum 11 porro quae in spiritum agunt, et non quidem in aliud ipsum agunt ens sed ejus naturam oppugnant et dispositionem immutant, et quae novos agunt ad motus, cum sit sensus; ibi omnino is cum fiat, ubi externarum rerum actiones impulsionesque spiritum attingunt immutantque et commovent; utique vel illarum actio impulsioque, vel spiritus passio commotioque, vel illarum harumque perceptio sensus sit oportet. At actio impulsioque videri non potest, quae scilicet non spiritus est sed naturarum quae eum impellunt commoventque. Minus etiam passio ipsa ipsaque immutatio, nec motus ipse: manifeste enim aliud a sensu passio est immutatioque et motus etiam ipse, et non perpetuo simul sed ab illo seorsum et immutatio interdum fit et motus. Nam quae dubio procul assidue in spiritu fit immutatio et a qua ad corruptionem tandem agitur, et aliae multae, et bene eae magnae et a quibus statim exitio spiritus detur, nullo interdum fiunt cum sensu: nec motus, quibus assidue in cerebri ventriculis tunicisque et in arteriis vasisque omnibus, multis omnino in corporis partibus assidue movetur, moveri iis se sentit spiritus. Superest itaque ut rerum actionum aèrisque impulsionum, et propriarum passionum propriarumque immutationum, et propriorum motuum perceptio sensus sit; et horum magis. Propterea enim illas percipit, quod ab illis pati se immutarique et commoveri percipit. Et sensus quidem omnis hujusmodi esse et dicto modo fieri videtur omnis».

«Vi è dunque senso delle cose che agiscono sullo spirito e, sebbene non lo inducano a divenire un altro ente, tuttavia ne contrastano la natura, ne mutano la disposizione e lo sospingono a nuovi moti; e poiché ciò accade quando le azioni e gli impulsi delle cose esterne toccano, mutano e muovono lo spirito, necessariamente ne consegue che il senso sia esso stesso o l'azione e l'impulso delle cose o la sensibilità e i moti dello spirito o la percezione di questi e di quelli. Ma evidentemente il senso non può essere l’azione o l’impulso che non sono dello spirito ma di quelle cose che, avendolo colpito, lo contrastano o, avendolo eccitato, lo muovono. Meno ancora il senso può essere il moto, il cambiamento o la stessa sensibilità dello spirito: manifestamente infatti tutte queste son cose diverse dal senso tanto che il moto e il cambiamento non si verificano sempre contemporaneamente ma anche in tempi separati e in modi distinti. Infatti quella mutazione che senza dubbio avviene di continuo nello spirito e che alla fine porta al suo disfacimento, ed anche molte altre azioni che per la loro grande intensità ne possono determinare la morte, talora si verificano senza alcun intervento del senso; né lo spirito sente di essere continuamente agitato da quei moti che lo scuotono nei ventricoli e nelle membrane o nelle arterie e nei vasi del cervello o in molte altre parti del corpo. Pertanto non rimane che affermare che il senso sia la percezione delle azioni delle cose e delle vibrazioni dell’aria, la percezione della propria sensibilità e dei propri mutamenti, la percezione soprattutto dei propri moti. Infatti il senso percepisce le cose perché avverte - percepisce, appunto - di essere turbato e modificato e di ricevere marcati segni dalle cose medesime: non pare che vi siano altri tipi di senso né altri modi che questo per definirlo».

È evidente in questi concetti la preoccupazione di Telesio di colpire fin dalle fondamenta la teoria aristotelica dell’anima che, pur avendo una stretta relazione con il corpo, tuttavia se ne distingueva nettamente assumendo le funzioni di un principio indipendente, sostanza e causa di azioni intellettuali; ciò che preme al filosofo cosentino è di eliminare il primo tassello della costruzione di una possibile metafisica e di inserire quindi tutto il processo della gnoseologia dentro la problematica scientifica e biologica in una visione in cui tra la natura, le cose, gli enti da una parte e l’uomo e la sua capacità di intendere dall’altra non vi siano differenze sostanziali. Il problema della conoscenza si lega così saldamente al problema della vita universale degli esseri e delle cose, cessa di essere considerato nei termini separati, astratti e infecondi di soggettività ed oggettività per aprirsi alle ben più vaste problematiche della vita cosmica, del rapporto fra gli enti e della loro capacità di accogliere in sé e di riprodurre esperienze, sensazioni, conoscenze: in ultima analisi di rigenerare la vita stessa. E il tema della trasformazione perenne dell’universo che acquista una valenza determinante anche nella formazione dei processi conoscitivi; la vita è intesa come uno degli effetti della contrastante attività del caldo e del freddo concepiti come forze universali che incessantemente agitano e mutano la materia: tutto ciò che può essere percepito dai sensi viene ricondotto a questo originario ed eterno scontro di forze primordiali che, nella loro purezza e semplicità, sembrano assumere le caratteristiche degli archetipi del naturalismo presocratico e non ammettono quindi la possibilità di individuare, nel mondo della natura, differenze reali di qualità, di funzione, di sostanza. Lo spirito è esso stesso materia, sia pure più leggera e sottile, e sua precipua proprietà, a differenza della visione aristotelica, è l’unicità che tuttavia non esclude, anzi esige, la molteplicità e varietà delle funzioni sensitive: l’unicità dell'anima determina l’unicità del senso. Il primo grado di conoscenza si ha attraverso la percezione tattile e dipende quindi strettamente dalla distanza spaziale dell’oggetto; si tratta del primo, rudimentale contatto tra gli enti: tutti gli sviluppi successivi della conoscenza avranno come fondamento pratico e teorico questo primo mutamento, questo primo «segno» che le cose lasciano sullo spirito; la continuità e l’intreccio tra fisiologia e psicologia, tra le discipline biologiche e quelle più propriamente filosofiche non vengono mai messi in discussione, né lo potrebbero poiché non esistono sostanze realmente diverse ma soltanto infinite modificazioni, dovute, come abbiamo visto, all’azione contrapposta del caldo e del freddo, dell’unica realtà naturale: la materia. Il senso quindi si definisce come autocoscienza della natura, come autocoscienza di quella particolarissima modificazione della materia che va sotto il nome di spirito e che, proprio perché affonda le sue radici nel mondo delle cose, è in continuo movimento, strutturalmente aperto a molteplici mutazioni e sviluppi.

È nel libro VIII che Telesio affronta più da vicino il problema di queste progressive modificazioni del senso che determinano la nascita dell’intelligenza umana (Cap. III) e pongono i fondamenti teorici di tutte le scienze esatte a cominciare dalla geometria (Cap. IV).

«Itaque 12 intellectionis cujusvis principium similitudo est sensu percepta; intellectio vero ipsa, quae vero intellectio non est sed, ut inferius dicetur, existimatio vel potius commemoratio quaedam, sensus quidam, imperfectus nimirum et per similitudinem, non scilicet a re quae intelligitur quae nimirum penitus spiritum latet longeque interdum abest gentium, sed a sensu factus quem similibus a rebus fieri percepit spiritus, et cujus cognitio memoriaque bene dum ei inhaeret, ejus nimirum recolitio quaedam. Itaque hujusmodi intellectio longe est sensu imperfectior. Id vero et quae dicta sunt omnia (si quidem amplius declaranda videri possunt, ipso, ut videtur, percepta sensu), inde manifestissima fiunt omnia, quod non alia ulla, at ea modo quae sensu percipi apta sunt et percipi non possunt, seu remota occultave, aut languidissimis donata viribus et quae, quod nihil nos immutant, nullum sui ipsarum sensum nobis faciunt, intelligere quaerimus; nec aliti omnino ratione quam eorum, ut dictum est, quae percepimus, ope ac similitudine; et quod quae sensu percipimus aut percipi possunt, nihil ea ulterius ratione intelligere curamus dignamurve, ut quae scilicet multo quam ratione ulla intelligi queant, proximius percepta sint praestantiusque».

«Pertanto il principio di ogni intellezione risiede nella similitudine percepita dal senso; e la stessa intellezione non è in verità una vera e propria intellezione ma, come diremo più avanti, un credere o piuttosto un ricordare; è, in definitiva, una specie di senso, certamente imperfetto e per similitudine, vale a dire non ricavato in modo diretto dalla comprensione delle cose - esse infatti rimangono in parte nascoste allo spirito e talvolta risultano quasi del tutto inconoscibili - ma prodotto dalla conoscenza che lo spirito ha di cose simili e la cui ferma e tenace memoria si trasforma, per così dire, in una sua ricomposizione. Per queste ragioni l’intellezione è di gran lunga più imperfetta del senso. Tutte le cose fin qui dette (se pure possono apparir bisognevoli di ulteriori spiegazioni, soprattutto quelle percepite dal senso) in definitiva risulteranno tutte estremamente chiare per il semplice fatto che noi non ci sforziamo di intendere altro se non quelle cose atte ad essere percepite con il senso medesimo e, per quelle che non lo possono essere in modo diretto causa diverse ragioni quali lo star lontane o nascoste o l’essere scarsamente dotate di forze per produrre modificazioni su di noi, per queste, come abbiam detto, cerchiamo non altro aiuto se non la similitudine delle cose che abbiamo percepito. E noi non ci curiamo né ci degniamo di andare più in profondità nella comprensione razionale di quelle cose che percepiamo o possono essere percepite con il senso, infatti, data la loro vicinanza, la loro comprensione risulta già sufficientemente efficace, senza che vi siano ulteriori indagini della ragione».

Una logica ferrea governa questi concetti: tutte le conoscenze si formano attraverso passaggi progressivi che procedono tutti per analogia e quindi ogni ulteriore acquisizione di conoscenza trova le sua giustificazione e la sua verificabilità nella conoscenza precedente tanto che l’intelligenza umana non è una qualità in sé ma un dilatarsi del senso, non una facoltà superiore e autonoma, ma una espansione progressiva e faticosa delle possibilità insite nella sensazione. Tre sono i nuclei teorici che ora risultano più chiari e circoscritti: l’intelligenza dell’uomo si definisce come una sorta di memoria del senso; le cose, a causa della loro continua trasformazione, non sono tutte e interamente conoscibili -la conoscenza stessa è un atto di trasformazione e mutazione - e infine la ragione astratta mostra la sua totale inefficacia nei processi conoscitivi poiché il senso resta l’unico fondamento reale di ogni conoscenza possibile. Come si può allora teorizzare la fondazione delle scienze e in particolare della geometria dalla quale notoriamente si traggono norme e metodi per conoscenze più generali? Saranno i procedimenti analogici rigorosamente svolti e districati a condurci nel vivo dell’elaborazione dei principi generali attraverso i quali le scienze troveranno la loro piena giustificazione teorica e verificabilità empirica.

«Et 13 quoniam omnium consensu exquisitissima est geometria, ab ipsa itaque doctrinae ordinem et quasi modum sumpsisse videtur Aristoteles, num ipsa hoc pacto opus suum conficiat intueamur. Quoniam igitur magnitudines et quae magnitudinibus insunt acciduntque, puncta, lineas, superficies, angulos figurasque, res ominno tractat valde a communi hominuin sensu remotas et quarum n;, nomina quidem omnibus innotuere, et multae singulorum species sunt; his primum nomina indit, et quid singulae sint, solius sensus simplici opera usa ponit. Neque enim vel circulum vel triangulum ponens vel horum species, aliud agit nisi quod, quae circulo triangulisque et illorum singulis inesse sentit, ea illis illorumque singulis attribuit. Quoniam videlicet circuli omnes altero circini latere super centrum fixo, circumducto altero conficiuntur, et nequaquam proximioribus illis vel remotioribus sibi ipsis factis quid umquam, spatium itaque quod a centro ad circumferentiam est, non aequale modo, quin unum omnino idemque videtur omne; propterea, quae illud conficiunt, lineae sibi ipsis aequales ponuntur omnes. Tum quoniam quaedam conficienda sunt quae confici posse sensus ipse demostrat, et ut confecta supponi nihil impedit, obstat nihil; at fieri posse et confecta esse pervicaci homini probari non potest (veluti a puncto ab punctum lineam ducere, et centro quolibet, etiam spatio itidem quantovis, circulum describere), haec fieri posse et ut facta esse postulat».

«Poiché la geometria, per unanime consenso, è la più eccelsa tra tutte le scienze, tanto che da essa Aristotele trasse l’ordine e il metodo del proprio sapere, vediamo se davvero questa disciplina, mantenendo le promesse, adempia al suo compito. Essa tratta delle grandezze e di ciò che ad esse si riferisce come i punti, le linee, le superfici, gli angoli, le figure, tutte cose assai lontane dal senso comune degli uomini e di cui persino i nomi sono talvolta sconosciuti; molte sono le specie trattate singolarmente e di tutte la geometria ci dice che cosa esse siano, cioè ci dà le loro definizioni servendosi unicamente della semplice opera del senso. Infatti nel porre il cerchio o il triangolo o le loro specie altro non fa se non attribuire ad essi e a ciascun loro elemento ciò che di essi singolarmente sente. Tutti i cerchi, ad esempio, si costruiscono fissando al centro un lato del compasso e facendo girare l’altro tutt’intorno, senza mai avvicinare né allontanare un lato dall’altro: in questo modo lo spazio compreso tra il centro e la circonferenza risulta non solo uguale ma anche uno e identico e le linee che lo circoscrivono si pongono tutte come uguali a se stesse. Così il senso stesso dimostra che vi sono alcune cose che debbono e possono essere costruite e nulla impedisce o vieta di poterle persino supporre come costruite; se il senso non può dimostrare a un uomo particolarmente ostinato la possibilità o la realtà di questioni geometriche come ad esempio il fatto che da un punto ad un altro si può condurre una sola linea o che è possibile tracciare un cerchio da un qualsiasi centro in un qualsiasi spazio, le può tuttavia a buon ragione porre come postulati».

Questa pagina telesiana e quelle che seguono, al di là della loro struttura linguistica apparentemente prolissa e ripetitiva, sono in realtà di grande interesse speculativo, poiché ci mostrano, forse in modo fin troppo scrupoloso, come ogni conquista della scienza sia, come abbiamo già detto, estensione e sviluppo delle conoscenze precedenti, tutte fondate sulla sensazione: gli stessi postulati della geometria che sembrerebbero opera della ragione astratta trovano in realtà la loro legittimazione teorica nel senso o, meglio, nel fatto che non contraddicono le sensazioni. Tutto il linguaggio della geometria si pone quindi allo spirito come il linguaggio di verità poiché si fonda o su esperienze sensitive dirette, o su analogie rigorose o, infine, sull’accertata impossibilità del senso di affermare principi opposti o contrari. La superiorità delle scienze più strettamente naturali come la biologia o la fisica su quelle matematiche e geometriche trova la sua ragione pratica e teorica proprio nel fatto che le prime hanno un rapporto più immediato e diretto sia con il mondo delle cose e degli animali sia con quello delle esperienze del senso. La vecchia distinzione metafisica tra il «quod est» e il «quid est» cioè tra la reale struttura e l'intima essenza delle cose non ha più motivo di essere; ed era attraverso questa distinzione che i peripatetici mettevano in moto il processo di costruzione della trascendenza. Tutta la filosofia scolastica era stata filosofia degli universali, vale a dire pensiero sostanzialmente dualistico che distingueva gli enti nelle loro manifestazioni naturali (quod est), e nelle loro essenze con i caratteri metafisici dell’assoluta necessità e universalità (quid est): era compito dell'intelletto lo studio di queste strutture generali, degli universali. La filosofia naturale telesiana, con una coerenza inoppugnabile, mostra la pretestuosità di quella distinzione riconducendo tutta la teoria della conoscenza nell’alveo della naturalità, dell’esperienza, della scienza empiricamente e modernamente intesa.

Abbiamo già visto come in Telesio non vi sia una reale e netta distinzione tra problema gnoseologico e problema etico: tutto viene ricondotto all’attività sensitiva dello spirito, ai movimenti e mutazioni reciproche del senso e delle cose; tuttavia l’incessante attività può produrre affaticamento il quale a sua volta può determinare errori, inesattezze, dimenticanze.

Si pone ora la questione, più metodologica che filosofica, di come far operare bene lo spirito, di stabilire preventivamente i limiti delle sue ricerche e delle sue indagini. È questo il tema affrontato nel IX libro da un angolo visuale e con un linguaggio che sembra più appartenere all’etica che alla gnoseologia ma che ha indubbiamente una valenza generale nel sistema della filosofia della natura.

«Et 14 manifeste qui a malis, quae immoderate vel vel segnius operantes excepere, affectus operationesque intendendas remittendasve esse admoniti, eo usque eas intendunt remittantve quo usque proposituni consequantur bonum nulloque ab iis malo afficiantur; qua oportet tandem mensura natura afficiuntur commoventurque et operantur. Quoniam vero qua spiritus afficiendi et qua juxta affectus operandum iis est, mensura haberi non potest, nisi quae ii appetunt bona, suine ipsorum gratia singula an ut ipsorum opera aliud consequantur bonum, appetenda sint omnia, itaque reliqua quae bona apparent appetunturque, eatenus bona expetendaque sint quatenus quod vere bonum vereque est expetendum procurant, notum fiat; utique illud in primis et bonum omnino, cujus consequendi gratia tot spiritui appetitus inditi sunt, inquirendum. Quod nimirum manifestum si fiat, mensura etiam, qua affectus et quae cos insequuntur operationes extendendae sint coèrcendaeve, conspicua etiam sit: tantos nimirum affectus tantasque operationes oporteat esse quantis propositum comparetur bonum».

«Coloro i quali sanno trarre insegnamento dai mali subiti per la loro intemperanza o lentezza rispetto ad operazioni che erano invece da intensificare o attenuare e quindi, correggendo le loro azioni, si comportano nel modo più conforme al conseguimento del bene proposto e sfuggono ogni inconveniente, costoro sentono, si muovono e operano rispettosi della giusta e naturale misura. Ma, poiché non è possibile stabilire la misura di quanto e di come gli spiriti devono sentire e di conseguenza operare (se non in termini generali per cui tutti i beni sono desiderati o per se stessi o perché permettono di conseguire un altro bene), risulta tuttavia evidente che quelle cose che si presentano come dei beni da desiderare sono effettivamente tali nella misura in cui procurano realmente ciò che promettono; pertanto occorre in primo luogo ricercare quel bene per conseguire il quale maggiori e più numerosi sono i desideri che agitano lo spirito. Se davvero questo bene sarà conseguito diventerà manifesta anche la misura dell’intensificazione o riduzione delle azioni e dei sentimenti relativi: azioni e sentimenti che dovranno essere di tanto numero e di tanta intensità quanta se ne richiede per il conseguimento del bene proposto».

Questa concezione della «misura» si innesta perfettamente nel complesso della filosofia del naturalismo: essa costituisce la chiave per capire non solo l’etica rinascimentale (dove risuonano non pochi insegnamenti stoici) ma anche e soprattutto lo spirito scientifico del filosofare cinquecentesco. La «misura» telesiana non è un concetto astratto, universale, dato una volta e valido per sempre, essa, sia che venga usata per il perfezionamento morale dello spirito sia che divenga strumento di conoscenza scientifica, si pone sempre come risultato non preventivamente conosciuto e neppure utilizzabile, nelle ulteriori ricerche, senza che ve ne sia una continua e costante verifica. La «misura» diviene così il simbolo della relatività del sapere umano e della perennità della ricerca scientifica.

La modernità della filosofia naturale di Bernardino Telesio trova i suoi fondamenti proprio in questa vittoria ottenuta sul pensiero dogmatico; l’attenzione al mondo delle cose, concreto e materiale e in perenne divenire, ha permesso la nascita di questa nuova e moderna visione della realtà.

Note

1Tutte le citazioni del «De rerum natura» sono state prese dall'edizione in tre volumi a cura di Vincenzo Spampanato, Bernardini Telesii, De rerum natura, Voi. 1, Modena 1910; Vol. II, Genova 1913; Vol. III, Roma 1923; Editore A.F. Formiggini. Il passo citato sta nel Vol. I, p. 5.

2Le traduzioni di tutti i passi citati sono state da me condotte senza troppo badare ad una letterale aderenza al testo latino, allontanando anche ogni tentazione letteraria, ma con l’intento esclusivo di esplicitare in lingua italiana i concetti filosofici.

3L’espressione è di Giordano Bruno il quale nel terzo dialogo del «De la causa, principio e uno» confutando il fittizio e pedante antiaristotelismo del francese Pierre De La Ramée (1515-1572) e dell’italiano Francesco Patrizi (1529-1597) osserva sottilmente che «per far onorata guerra» contro l’antico filosofo di Stagira occorre comportarsi come Telesio: studiare lungamente Aristotele e comprenderlo.

4Op. cit., vol. I, p. 6.

5GIOVANNI GENTILE, Il pensiero italiano del Rinascimento, Sansoni, Firenze 1940, p. 224.

6GIOVANNI GENTILE, Op. cit., p. 49.

7GIOVANNI GENTILE, Op. cit., p. 229.

8GIOVANNI GENTILE, Op. Cit., p. 230.

9 GIOVANNI GENTILE, Op. Cit., p. 230.

10Op. cit., Libro VII, Voi. III, pp. 1 e 2.

11 Op, cit., Libro VII, Voi. III, pp. 3-4.

12 Op. ci!., Libro VIII, Voi. III, p. 94.

13Op. e-il., Libro VIII, Vol. III, pp. 95 e 96.

14Op. cit., Libro IX, Voi. III, pp. 191 e 192.

 

*

- Letteratura

Il giogo della rima e ’l’homme très-faible’

Paolo Ottaviani

 

TRECCE SPARSE

 

ASSOCIAZIONE CULTURALE

LA LUNA

 

 

Il GIOGO DELLA RIMA E L’«HOMME TRÈS-FAIBLE»

 



«Malgré toutes ces réflexions et toutes ces plaintes, nous ne pourrons

jamais secouer le joug de la rime; elle est essentielle à la poësie française.

Notre language ne comporte que peu d’inversions: nos vers ne souffrent

point d’enjambement, du moins cette liberté est très rare: nos syllables

ne peuvent produire une harmonie sensible par leur mesures longues ou

brèves: nos césures et un certain nombre de pieds ne suffiraient pas pour

distinguer la prose d’avec la versification; la rime est donc nécessaire

aux vers français. De plus, tant de grands maîtres qui ont fait des vers

rimés, tels que les Corneilles, les Racines, les Despréaux, ont tellement

accoutumé nos oreilles à cette harmonie, que nous n’en pourrions pas

supporter d’autres; et je le répète encore, quiconque voudrait se délivrer

d’un fardeau qu’a porté le grande Corneille, serait regardé avec raison,

non pas comme un génie hardi qui s’ouvre une route nouvelle, mais

comme un homme très-faible qui ne peut marcher dans l’ancienne

carrière».

 

Questo passo di François-Marie Arouet (1694-1778), tratto dal suo

Discours sur la tragédie à Mylord Bolingbroke è risuonato con insistenza e

a lungo nella mia mente. Qualche capoverso prima Voltaire aveva parlato

dell’esclavage de la rime nella poesia francese rispetto all’heureuse liberté

del verso inglese quasi rammaricandosi che un poeta d’oltremanica

potesse dire tout ce qu’il veut mentre un francese ne dit que ce qu’il peut.

Eppure, nonostante questa libertà limita, chi dovesse abbandonare

la strada maestra dei versi rimati non verrebbe considerato come un

audace genio precursore che apre inimmaginati orizzonti ma piuttosto,

avec raison, come un pavido omuncolo talmente sciocco e debole che,

dopo aver perso lungo il cammino il carico più prezioso della propria

eredità, non riuscirebbe più nemmeno a camminare.

 

Le stesse limpidissime ragioni stilistiche e metriche che Voltaire

adduce per la rima nella poesia francese credo che, perfino con qualche

argomento in più, possano valere per la poesia italiana e, più in

generale, per la poesia delle lingue romanze. Ma la mia mente rimaneva

inchiodata su quel avec raison e qualcosa mi diceva che le ragioni più

vere e profonde del connubio rima-poesia non erano state ancora né

esplorate né esplicitate interamente. Doveva esserci un’ulteriore raison,

più intima al discorso poetico, decisiva, essenziale e che tuttavia mi

rimaneva ostinatamente nascosta.

 

Non potevo certo sospettare che l’aiuto più significativo a risolvere

il mio problema giungesse da un genio famosissimo per ogni virtù

poetica tranne che per la rima, pur avendo egli scritto delle satiriche,

tragicomiche sestine - I Paralipomeni della Batracomiomachia - che a

torto, molto a torto, sono state, rispetto al resto della sua opera, poco

studiate e amate: Giacomo Leopardi. Sfogliando lo Zibaldone infatti

mi sono imbattuto in alcune assai proficue riflessioni «circa l’infinita

varietà delle opinioni e del senso degli uomini, rispetto all’armonia

delle parole… Osserverò solo - dice Leopardi - alcune cose relative

all’armonia de’ versi. Un forestiero o un fanciullo balbettante, sentendo

versi italiani, non solo non vi sente alcun diletto all’orecchio, ma non

si accorge di verun’armonia, né li distingue dalla prosa; se pure non

si accorge e non prova qualche piccolo, anzi menomo diletto nella

conformità regolare della loro cadenza, cioè nella rima». E più oltre:

«Ne’ versi rimati, per quanto la rima paia spontanea, e sia lungi dal

parere stiracchiata, possiamo dire per esperienza di chi compone, che

il concetto è mezzo del poeta, mezzo della rima, e talvolta un terzo di

quello, e due di questa, talvolta tutto solo della rima. Ma ben pochi son

quelli che appartengono interamente al solo poeta, quantunque non

paiano stentati, anzi nati dalla cosa».

 

Ecco finalmente risolto in modo assai evidente, persino matematico,

il mio ostinato quesito! La necessità della rima è una necessità della

poesia molto più che del poeta. Incatenarsi a questa schiavitù non

solo può produrre un sia pur «menomo diletto» a chi legge o ascolta,

ma soprattutto offre la possibilità al verso di sprigionare insospettate

energie, inimmaginati rimbalzi di significato, ignoti allo stesso poeta,

talvolta totalmente, qualche altra per metà, talaltra per due terzi, più

raramente per un terzo. Ma quasi mai il concetto - come dice Leopardi

- appartiene totalmente al poeta. È una stima assai credibile perché

costruita non su una congettura ma sull’«esperienza di chi compone».

 

E questo significa che in quella raison di cui parlava Voltaire erano

racchiusi tesori forse neppure intuiti dal pensatore francese. Scrivere

piegati sotto il giogo della rima da una parte obbliga il poeta a liberare il

massimo della propria creatività, dall’altra lo rende impotente, in balia

del verso, dei suoni e dei significati che la poesia esige e il verso stesso,

più che il poeta, detta. Avere l’umiltà di abbandonarsi consapevolmente

a questo potere permetterà poi di godere di frutti di cui si ignorava

totalmente il fiore e il seme. È il verso cadenzato, regolamentato e

rimato quindi il maggior responsabile della creazione poetica. Voltaire,

paradossalmente e un po’ inconsapevolmente, aveva colto nel segno:

il poeta dice soltanto quel poco che può. Il miracolo della poesia non

gli appartiene. Se davvero le cose stanno così - e dopo aver ascoltato

Voltaire e Leopardi diventa più difficile dubitarne -, allora non resta

che scegliersi o, tutt’al più, inventarsi una regola nuova e poi, costruito

il giogo, chinare il capo sotto il suo peso e camminare lungo i solchi

che faticosamente ci si apriranno davanti. Con questa consapevolezza

mi sono apprestato ad allestire il fitto reticolato metrico e rimico delle

«trecce»: in questo quaderno ne vengono presentate 15 inedite.

 

Ogni «treccia» si snoda in sei strofe di cui quattro di versi martelliani

(o doppi settenari) e due di versi senari. In sequenza si dispongono,

ripetendo lo schema, due quartine di martelliani e una di senari. I versi

vengono ordinati e scalati in modo perfettamente bipartito da una

immaginaria linea ortogonale che solca dall’alto in basso il centro della

pagina. Viene così a formarsi una sorta di disegno in forma di treccia.

Le quartine di senari, disposte a rima alternata secondo lo schema abab,

fungono da nodi: qui i versi si chiudono o si raccolgono per poi riaprirsi

nelle ampie quartine dei doppi settenari. In questa libera accezione

entrambi gli emistichi dei versi martelliani possono essere piani, tronchi

o sdruccioli. E le relative strofe presentano, secondo un disegno costante,

rime esterne, rime interne e “rime al mezzo”: i primi due versi infatti

costituiscono un distico a rima baciata; il primo emistichio del verso 1

rima poi con il primo emistichio del verso 3; il primo emistichio del

verso 2 rima con il secondo emistichio del verso 3; il verso 4 presenta

infine la “rimalmezzo”.

Le joug de la rime, così rifinito e lucidato, può ora operare con tutto il

peso della sua musicale, poetica potenza e il poeta, se c’è un poeta, potrà

soltanto sostenerlo camminando chino lungo i solchi, un po’ come

l’homme très-faible di Voltaire.

 

Febbraio 2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Treccia della parola nella Poesia

 

 

 

Più bella incatenata da libertà eloquente

sta incisa la parola nel ritmo della mente:

non può vagare alata né far la capriola

ma sarà lei a guidarti con sempre nuove arti

 

per tortuose vie tra dubbi, salti, errori

finché giunge un mattino dischiuso sui bagliori

di sogni e fantasie notturne: cristallino

tra ardue rime ora il verso splende come un disperso

 

bucaneve viola

nel vergine bianco

di umile parola

che era già al tuo fianco.

 

Quanti assennati Orlandi vanno in cerca d’Angelica

tra boschi e praterie! Dalla bolla babelica

 che i padri venerandi, tra nausee e allegrie,

ignora, il verso brado s’alza sul più alto grado!

 

Ma io amo quella voce che ingenua uno spartito

tenacemente insegue col brivido infinito

di mai veder la foce. Qui non ci sono tregue:

la parola t’assilla. Poi, incastonata, brilla

 

di un più impetuoso

fuoco e, con sorpresa,

rende il generoso

dono dell’impresa!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Treccia per Glenn Gould adolescente

 

 

 

L’odore dell’abete rosso, quel muso buono

di Nickolson, le zampe del setter già dentro il suono

come corna d’ariete che il gregge sulle rampe

spinge nei carri e i pesci rossi quando al lago esci:

 

Bach, Beethoven, Haydn guizzano nell’acqua trasparente,

a casa il pappagallo Mozart guarda paziente:

sulla tastiera schizzano le dita e il tuo cavallo

sogni nella riserva con Oliver, una cerva

 

puritana amica,

i cani randagi

presi tra l’ortica,

curati negli agi

 

caldi di Manitouli. Revive us again canti,

ultimo sognatore d’austeri disincanti!

Diatonici cuculi suonano il tempo e le ore

si perdono tra un nero tasto e un bianco levriero.

 

Il tempo degli accordi lavora nel profondo:

ogni nota una stella nel tuo cuore errabondo

e raccolto, ricordi? “Cesellata è più bella!”.

Profumi di tastiera. Toronto in primavera

 

s’apre alla foresta,

si specchia nel lago:

la tua anima è in festa

e insegue il suo drago!