I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
*
- Filosofia/Scienza
A proposito di Poetica
Il Mattino di oggi 19 agosto 2011 scrive che alla borsa di Milano c’è stato panico. Alla fine della giornata l’indice Mib ha segnato -6,15%. Il governo è tutto preso a rastrellare risorse per una manovra che possa allontanare lo spettro del default. Se ne dicono tante, si paventa un ulteriore sacrificio per i soliti noti: i meno forti, come i lavoratori dipendenti, i pensionati ed i malati. A qualche ministro potrebbe venire in mente l’idea di una novella rupe Tarpea, magari in ogni città. A Bacoli, ad esempio, si potrebbe utilizzare il castello. Basterebbe uno scivolo, aprendo un varco nella muraglia di cinta che dà sul mare: si risolverebbe il problema degli invalidi della zona con un discreto risparmio. Qui a Terzigno c’è la discarica ed il cratere del Vesuvio. Un ministro più scaltro degli altri ha lanciato l’idea di risparmiare sulla cultura, perché ha detto: «non dà da mangiare». Ecco, io devo parlare del saggio di Marcello Carlino, Poetica, uscito per i tipi di Guida Editore Napoli, 2011. A sentire il ministro dovrei quasi vergognarmene visto che né il libro, né questo scritto potrà dare ossigeno alla borsa di Milano. Il guaio di questa compagnia di postmoderni prestati alla politica è la convinzione che i bisogni siano localizzabili dal ventre in giù. Altro, è lusso senza richiamo di mercato. Occorrerebbe una seria ricerca delle radici del degrado in cui si va crogiolando l’intera civiltà occidentale, con un occhio particolare alle zolle italiche. Forse si scoprirebbero strane cose, come la banalizzazione della conoscenza con relativo abbrutimento intellettivo insieme alla rinuncia del ruolo che l’arte avrebbe potuto avere nella formazione del gusto estetico ed anche e quindi nella indicazione di un modello di ricostruzione etica dell’uomo e della sua posizione nel mondo, perché il mondo non è il mercato. Ecco perché, proprio oggi, sento di dover parlare di questo librettino di 118 pagine, che Marcello Carlino, da par suo, ha reso denso, grazie ad una scrittura, come dire, pastosa ed elegante; ma anche sostanzioso, per la ricchezza di notizie e suggerimenti utili agli addetti ai lavori ed anche ai lettori di buona volontà. Inizia, come tutti, da Aristotele che definisce l’Arte imitazione. Sottolinea la matrice antiplatonica di quella poetica che ridà cittadinanza alla poesia che invece Platone aveva messo fuori dalla sua Politéia . Perché Aristotele ritiene che essa abbia nel suo DNA un impulso forte, uno stimolo a cercare la verità, essendo l’uomo spinto
36 all’imitazione dall’intenso piacere che ne ricava. Ancora bambino, utilizza la madre ed il padre come elementi catalizzatori per le prime conoscenze. Essi diventano il primo mezzo di trasporto gnoseologico. Vorrei far notare che, probabilmente, il fatto che l’uomo provi piacere ad imitare, derivi dalle iniziali esperienze preriscaldate da quel carnale legame parentale. Da ciò deriva, per la poesia, un’azione imitativa che, surriscaldando di piacere l’intelletto, lo pone davanti al reale per suggerne non la sua relatività specifica ma la sua verisimiglianza, il suo modo d’essere o il suo divenire potenziale. Questo può la poesia e con questo finalizzare la sua tensione conoscitiva fino al raggiungimento dell’universale grazie alla verisimiglianza alla verità, quella possibile che un testo poetico può produrre. Nella poesia e nella musica, per Aristotele, c’è addirittura la catarsi. Potrebbe intendersi, Aristotele non lo dice esplicitamente, il luogo dove l’emozione più che abolita, si sterilizza esaltandosi. Nell’arte, infatti, lo sguardo dell’uomo perde il suo orizzonte visivo limitato dal semplice rapporto d’amore, odio, timore, speranza e si dilata, grazie alla catarsi, in una visione che, distogliendo il suo occhio dall’oggetto con cui entra in relazione, lo ripropone nell’espressione della sua emozione rappresentata. Un altro aspetto della Poetica di Aristotele sottolineato da Carlino è quello che egli definisce “Poetica tutto fare”. In quel concetto c’è la sintesi di tre aspetti che noi moderni amiamo distinguere in estetica, teoria della letteratura e critica letteraria. Sono aspetti però subentranti, derivano dal testo poetico, dal suo humus. È curioso, ma anche lampante, il motivo per cui Marcello Carlino dedica in questo libro, tutto un capitolo di spigolature sull’etimo e la storia che richiama la parola poetica. Inizia dal lemma greco poiéin (fare), passa attraverso la radice sanscrita pu da cui germinerebbe il poiéin nella sua accezione di generare. Tutto questo perché Egli ha bisogno comunque di un elemento che renda l’azione del poetare simile al germogliare in natura, un atto creativo legato alla febbrilità del faber, quel modellatore di parole che spinto dalla sua febbre operativa si fa sempre più esperto. Passa poi ad osservare come, sotto il nome di poetica, specialmente nel sedicesimo secolo con qualche sparuta eccezione, germoglino trattatelli che per la maggior parte tendono alla semplificazione, assemblando prescrizioni e istituendo precetti e classifiche. E così, la Poetica di Aristotele fra il Cinquecento e il Seicento, subisce una dieta ferrea che con i generi si riduce a stilistica. In tal modo la letteratura rinuncia ai suoi talenti conoscitivi e proiettivi limitandosi a realizzare il già convenuto. In 37
Aristotele, teoria e prassi sono inscindibili e realizzano un rapporto biunivoco assai utile. Man mano che la teoria dimagrisce, si gonfia la prassi che si adatta alle logiche di potere, predisponendosi ai futuri cambiamenti ed al mercato. Quando il filosofo tedesco Baumgarten nelle sue Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus concepì l’estetica definendola poi in modo organico tra il 1750 ed il 1758 nell’opera omonima, i tempi erano ormai maturi. Nelle sue riflessioni egli la liberò dalla poetica consegnandole il compito della filosofia dell’arte. Con l’inizio della rivoluzione industriale e l’assunzione a ruolo dirigente della nuova classe borghese e commerciale, una cultura nuova invade l’Europa ed essa e di essa quella classe nutre e si nutre. La poetica continua a dimagrire raccolta in pratici libercoli per l’uso rapido. Il nuovo arriva dall’estetica che, fra il ‘700 e l’ ‘800, riceve il marchio d’autore dalle teorie dei filosofi idealistici che nutrono il Romanticismo. Qui le idee sul bello diventano elemento basilare per un giudizio sull’arte. Ed il bello, qui, è armonia, equilibrio, accordo cromatico e tonale. L’arte e la poesia hanno questo denominatore comune. La sua specificità può derivare solo dalle peculiarità dell’artista che deve funzionare usando la sfera sensibile dell’intelletto e non quella logico-razionale. Perché nell’estetica degli idealisti e dei romantici, il piacere che viene dall’arte deve essere immediato ed immediatamente recettibile. I primi risuoni si erano già uditi con Vico. Egli aveva osservato che la poesia può essere colta nel preconscio dell’uomo. Essa richiama per echi e sensazioni lo stato di natura, l’inizio dei tempi. Quindi, sul piano storico, la poesia appartiene alle epoche bambine dei popoli, mentre, sul piano filosofico, finisce in opposizione ai meccanismi dell’intelletto di ragione. Di conseguenza la creatività artistica, nella graduatoria degli strumenti utili alla conoscenza ed all’emancipazione dell’uomo, occupa un posto irrilevante, ritrovandosi nella preistoria dell’uomo. D’altro canto si può anche addivenire (vedi Schelling, Novalis etc.) al concetto che il richiamo alle condizioni percettive originarie che l’uomo aveva e che ha dimenticato per disuso, siano le sole capaci di ricongiungere la relatività dell’io al suo assoluto che può risalire dal suo inconscio. C’è la rivincita di Platone, ma c’è anche la critica del giudizio di Emanuele Kant. A Carlino non sfugge affatto la straordinaria modernità di quel filosofo. La dialettica alla base del suo criticismo, implica l’idea del relativismo anche nel rapporto tra soggetto ed oggetto. Perché il bello inseguito dal soggetto nelle cose, non è nelle cose in sé. È il frutto di un rapporto di sintesi prodotto dopo l’incontro. È la genialità di quel soggetto che produce l’arte. Quindi anche il
38 gusto diventa qualcosa di relativo: una guida minima per il giudizio sull’arte. Ora, essendo il Genio indefinibile, lo sarà anche il suo linguaggio: così il suo prodotto artistico si vestirà di miracolo contagiando il pubblico e modificandone il gusto. Nell’accezione idealistico-romantica il Genio può apparire come colui che non ha bisogno d’altro se non di se stesso per cui l’arte o la poesia che da lui deriva non ha bisogno d’altro, né di studio, né di tirocinio. L’arte non s’apprende né si programma né si costruisce seguendo regole oggettive dettate dal gusto. Tutto si risolve nell’impatto tra Genio e mondo. Ad ogni modo, e sebbene Kant, ci si rende conto ugualmente che, la Poetica, contenitore extralarge di Aristotele, di questi tempi, si riduce di molte taglie fin quasi ad essere completamente messa in angolo dall’estetica. A Carlino non sfugge neppure l’interconnessione tra idealismo, romanticismo, gestazione dell’estetica e processi socio-economici correnti. Le specializzazioni richieste dal nuovo capitale nell’industria, ma più ancora, la filosofia mercantile, investe anche l’arte e la letteratura. Cade la turris eburnea ed i frammenti arrivano fino a noi. Certo è che l’estetica che sembra voler innalzare l’arte, in verità le ritaglia uno spazio subordinato: prodotto dopolavoristico, di dilettevole masturbazione, talvolta servile, impotente, pressoché inutile. Tutto il Novecento è investito di questi problemi. L’estetica consolidata dall’idealismo borghese fa sentire il suo peso anche nel Novecento. Croce diventa l’ipse dixit di quel secolo da coerente mentore. Persino un insospettabile marxiano come Lukács cadrà in qualche tentacolo di quell’estetica. In Italia, infatti, il Novecento subisce un condizionamento di fondo. Deriva dalla personalità di Croce e dalla sua connotazione critico-filosofica che risente molto delle filosofie ideal-romantiche pur se in lui si agghindano di un vestito nuovo. È il suo Neoidealismo che ricalca tracce di pensiero ben consolidate e vincenti in tutta Europa. In Italia, la letteratura istituzionalizzata, dalla produzione al consumo, ha per lo più il marchio rassicurante di Croce dal momento che esso ricalca il gusto medio e l’opinione corrente dei più sulle finalità della letteratura. L’Estetica di Croce designa la poesia marcandone molto bene i confini. Funzionale ad essa è l’intuizione che è un modo non ragionato di conoscenza, il sentimento che è semplice elemento partecipativo e la soggettività priva però dell’elemento speculativo-razionale. Tutto quello che esce fuori da questi confini non appartiene alla poesia. Tutto quello che sa di morale, di filosofico, di politico, di scientifico mette in fuga la poesia. E Carlino, utilizza l’analisi che Croce fa della Commedia di Dante, (come non potrebbe?) per evidenziare il paradosso poesia-non poesia. Altresì utilizza la contestazione di un altro grande del 39 Novecento, Antonio Gramsci, per mostrare come l’opera d’arte è un insieme interdipendente, in quanto la struttura della Commedia, e cioè la sua architettura filosofica, scientifica ed etica, è ineliminabile e condiziona la poesia che di essa risplende. L’Estetica di Croce ritiene che l’Arte risulta tale a tutti, è dentro ciascuno di noi, non occorre niente di più perché il nostro inconscio l’ha ben digerita. Una tale concezione mostra tutto il suo elemento conservativo giacché non prevede mutamenti d’impasto per nuovi significati. Ma il Novecento non è solo Croce. Già all’inizio del secolo l’officina dell’avanguardia storica mostra allergia verso l’estetica del bello. Il futurismo esaltando la politica con l’arte, il surrealismo utilizzando l’arte come strumento politico sono già al di fuori dei suoi confini. Così, come sempre succede nelle azioni di contrasto, si tende alla soppressione integrale di quello che si ritiene l’avversario del momento. Ed in quel momento l’avversario è l’estetica e sempre più cresce il desiderio di partecipare ai suoi funerali. Il filosofo tedesco Walter Benjamin nel suo saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica del 1936 la mostra in due forme: cultura di massa e avanguardia artistica; entrambe prive d’aura. Avendo con l’aura perso anche l’aspetto sacrale, l’arte del ‘900 persegue l’obiettivo di cambiare la vita quotidiana delle persone influenzandone il comportamento. L’arte quindi diventa strumento di persuasione politica e come tale può essere usata in senso progressista o conservatore. In ogni caso, per la Poetica si aprono nuove prospettive. Anceschi ricorre alla fenomenologia per farle perdere ogni pregiudizio di sapore neoidealistico. Prende a guardare le forme della poesia nel loro manifestarsi, mettendo mano ad una Poetica fenomenologica, senza pretese di verità assolute, buona per dare un po’ d’ordine al caos. La sua fenomenologia critica mette in discussione la stessa estetica non tanto rispetto alle sue strutture che comunque tendono ad adeguarsi ai tempi, quanto piuttosto, rispetto alla sua stessa esistenza come disciplina specifica della contemporaneità. Hegel ha annunciato la morte dell’arte. Non è uguale ma comporta inevitabilmente un risuono: vuoi vedere che è morta anche l’estetica? Ecco perché Anceschi guarda ad un orizzonte entro cui le esperienze possono essere comprese e tende a dotarsi di un metodo che le relazioni, sottolineandone le differenze più delle somiglianze. Insomma per Anceschi bisogna ritornare alle cose senza lasciarsi imbrigliare da fascinose pronunce. Ne viene la centralità della poetica sia nella letteratura sia nella critica ed anche l’eteronomia dell’arte. Con la critica storicistica ed in particolare con De Sanctis, l’autonomia e l’eteronomia dell’arte tendono a bilanciarsi perché è rappresentata da autori di grande
40 personalità. Le ragioni storiche ed esistenziali del grande poeta e della sua poesia sono sufficienti per assicurare l’equilibrio. Sono esse a spingere critici come De Sanctis a continuamente riconsiderare la nozione di poetica. La poetica dunque serve: ma deve essere esplicitamente dichiarata? È il testo stesso? O deve essere ricavata da essa? Domande di difficile risposta che, tuttavia, pongono al centro dell’attenzione sempre il testo. E così nel ‘900 grazie a Luciano Anceschi ed a Binni, la poetica si radica e segna i manuali di letteratura, i libri e la saggistica. Negli anni ’60, prospettandosi la rossa primavera, diventa rock, per dirla alla Celentano, metterla nel proprio stato di famiglia; lento, rifiutarla. Quindi, come si dice a Napoli, cà nisciuno è fesso, fa ò fesso. Così come avviene con tutti i termini riconosciuti (vedi libertà, democrazia, giustizia etc.) quasi nessuno la nega apertamente anche se, di fatto, spesso, essa non realizza i miracoli che promette. Certamente la poetica può rivelarsi una boccata d’ossigeno per la scrittura perché è imparentata più a motivi storici che ad estri individuali. Oltre tutto, calata nella storia, e cioè nel linguaggio, modificandone i connotati, provocherà la reazione della tradizione. Dalla sintesi, in questa sorta di dialettica kantiana, sortirà una neo-tradizione. Per certi versi, storicità della letteratura e poetica cammineranno di pari passo. Infatti essa, pur rappresentando l’autonomia dell’arte nella specificità dell’autore, ri-conoscendo il mondo nel suo svolgersi e promuovendone uno nuovo e possibile grazie ai polisensi, riconduce il testo alla storia ed entra nei meccanismi di comunicazione dell’uomo. Da qui la conclusione di Carlino: si delineano due poetiche, una da parte di chi produce il testo, un’altra da quella dell’interprete. Io ne aggiungerei almeno una terza: quella rilevante dell’elastico esistente tra poetica esplicita e testo prodotto. Ad ogni modo la poetica prende le distanze dall’Estetica che si affaccia come filosofia dell’arte. Era apparsa come un modo di ragionare sul bello ed il testo era considerato una sorta di miracolo dell’estro. Buona parte di quei progressisti di cui sopra, la considera un modo di ragionare dell’arte a prescindere dal bello. In tal modo il testo può essere visto e considerato una realtà con più sfaccettature. L’Estetica costruita da Galvano Della Volpe è quella che più intriga Carlino. Perché nasce dal marxismo intelligente in combutta con alcuni elementi tipici dello strutturalismo. Il perno principale è il testo nella sua struttura funzionale. Pensate un po’, anche Della Volpe parte dall’ ipse dixit e riconosce una capacità gnoseologica al testo poetico. Ed è una capacità non da poco, certamente non di serie “B” anche se il processo di realizzazione risulta differente. Perché Della Volpe è convinto che tutte le attività conoscitive dell’uomo includono un concorso biunivoco di fantasia 41 e ragione: anche nella filosofia, persino nella scienza. In fondo, quante scoperte scientifiche poi sperimentate, nascono dall’immaginazione intuitiva? Quindi scienza, filosofia e letteratura pari sono. Non c’è distinzione ontologica: la letteratura non è solo immaginazione, la scienza non è solo ragione. Le differenze sono solo funzionali. In letteratura il modo di conoscere funziona diversamente dalle altre discipline in quanto realizza un testo con una sua peculiarità che è data dal senso arricchito, come dire, surriscaldato. Il testo si fa corpo unico i cui vari organi svolgono mansioni specifiche ma funzionali nella costruzione di un senso sovraesposto, pieno di risuoni. Tutto partecipa, tutto è essenziale, tutto vive per questo. Questo è il polisenso e Carlino dice che anch’esso è soggetto alla storia, è una sorta di astrazione che muterebbe in un contesto differente. È legato alla langue ed ad un soggetto che vuole designare e modellare e, talvolta, può costruire architetture straordinarie. E ripristina luoghi di autocoscienza sia per gli autori che per i lettori. Certo, nel polisenso c’è l’arbitrarietà del rapporto tra significante e significato, tra langue e parole, e c’è il piano della comunicazione. Questo comporta un equilibrio delle forze in campo: non c’è solo l’espressione che urge per dirsi. I componenti letterari non sono solo linguistici. Lo stesso linguaggio è polifunzionale e le scienze della comunicazione mostrano come un testo pubblico risulti un dosaggio al meglio di tutte le funzioni del linguaggio per la migliore resa, per meglio persuadere. Anche il testo letterario mira a questo e quindi non può accontentarsi della sola funzione poetica del linguaggio. Tutte, dico tutte le funzioni sono parte in causa anche la metalinguistica. Anche perché, dice Carlino, è denominatore comune sia della scienza che della letteratura. Procede per metalinguaggio la scienza, per metalinguaggio il testo letterario, per metalinguaggio anche la critica che ri-conosce un linguaggio con il suo linguaggio. Attenzione però. Il metalinguaggio di arte e letteratura può scivolare come Narciso sul greto della fonte e specchiarsi ed innamorarsi di sé. Si finisce per imbellettare il belletto. Può però produrre un risuono del linguaggio in modo tale da rinnovarlo e rivitalizzarlo. Come potrebbe altrimenti un’opera antica superare i secoli e parlarci ancora? Ad ogni modo non si può prescindere dal testo con il suo polisenso costruito nella tensione conoscitiva di un mondo mediato. E bisogna ringraziare Jakobson ed i formalisti russi che studiarono scientificamente la letteratura se anche noi possiamo coglierne l’elemento teorico. Ed ecco che Carlino, con uno scarto da par suo, ci porta sul piano pratico per mostrarci come sia possibile un metodo scientifico di valutazione della, diciamo così, meccanica dell’arte all’interno della comunicazione
42 autore-fruitore. Carlino avanza per gradi, ma io, anche per invitarvi a leggerlo, non vi dirò tutto. Vi mostrerò come egli avanza nella sua lettura critica dei Canti Orfici di Campana. Mi piace mostrarla anche perché la trovo davvero sorprendente. In più, Campana è il mio poeta. Stabiliamo alcune sigle: E=Estetica; LT=Teoria della letteratura; P(a)=Poetica proveniente dall’autore; T=Testo; Ts=Semantica del testo; P(a,l)=Poetica dell’autore ricavata dal lettore); P(l )=Poetica del lettore. Andiamo ai “Canti Orfici” secondo Carlino: nel corpo degli scritti di Campana è possibile ricavare una poetica esplicitata che mostra un programma d’arte che si motiva dentro il contesto storico del primo novecento. Esso è fortemente mediato dalla storia individuale dell’autore. Questi vuole un testo in cui ci sia il senso più profondo del vivere, un testo che fonda le arti e che vada oltre la soglia della sua funzione di rappresentazione. Questa è la P(a). Una tale poetica, dice Carlino, riporta ad un’estetica di tipo wagneriano, dove l’arte è pensata per riscattare la sua separatezza grazie al fatto che il poeta di Marradi insegue un sogno di potenza che probabilmente gli viene da Nietzsche. Questa è la Estetica di marca autoriale=E. Sempre secondo Carlino, la letteratura, è, di fatto, per Campana, di marca d’avanguardia, perché Campana è tutto votato alla sua opera a prescindere dalla sua rappresentabilità. Egli caricando le immagini fino al parossismo, le mette in tensione frantumandole. Questa è LT=Teoria della letteratura da parte dell’autore. Ovviamente, il polisenso che viene da un testo (T) così costruito e la sua semanticità T(s), suggeriscono al critico Carlino la persistenza di una tensione che squilibra e inabissa le strutture iniziatiche dell’opera, provocando uno scorrere delle immagini prima precarie poi violentemente travolte, tanto da penetrarsi ed interfacciarsi come in una figurazione astratta. Tutto questo convince il critico Carlino ed anche me per la verità, che Campana appartiene ad una diversa linea dell’Avanguardia la quale coglie non il trionfalismo futurista ma una crisi che non è rappresentata ma è dentro la scrittura e sulla pelle dell’autore che insegue un sogno esaltante, che lo porta a volare alto per farlo poi rovinare ogni volta giù, sempre alla ricerca di quell’impasto totalizzante. È sperimentazione da integralista e perciò disperata. Questa è la P(a,l)=Poetica mediata fra autore e lettore. C’è da aggiungere che Carlino non rappresenta un campo di forze isolato, per cui porterà con sé una sua poetica ed una sua estetica. Quindi, ecco la formula in sequenza: E_LT_P(a)_T_Ts_P(a,l)_P(l)_LT_E. È convincente Carlino e convincente è anche la sua poetica che parte dalla considerazione del degrado in cui versa società e letteratura. Pensa alla letteratura come strumento di resistenza ad ogni tipo di degrado. La 43 sua non è la poetica della resa al postmoderno che annuncia il nulla. In una società in cui i codici si fanno aleatori, la letteratura deve dotarsene per evitare di farsi yogurt e per aiutare la società a ripristinarli. Quindi la forma letteraria per Carlino, essendo anch’essa una forma di comunicazione, deve dotarsi di questo codice, vivaddio, che la renda collegata alla langue e cioè ad un repertorio posseduto o controllabile. Deve tendere alla consapevolezza ed alla conoscenza. Deve tendere a contrastare l’apparato di produzione esistente istruendo il sapere e la sua critica. Per Carlino non c’è niente di sacro in letteratura. I fiori del male hanno spazzato via il concetto del bello e dell’incanto. C’è il moderno e la sua mercificazione. C’è il gusto indotto dall’industria editoriale, il disincanto, e la necessità d’insubordinazione. La letteratura per Carlino deve schierarsi, politicizzarsi, rendersi utile. Affinare il linguaggio, fare in modo che il testo con il suo polisenso sviluppi il risveglio nella consapevolezza dei suoi limiti. L’allegoria è una delle chiavi. Come ci si potrebbe schierare contro queste cose? Ho cercato di essere il più vicino possibile al testo di Carlino che condivido integralmente a parte qualche minima considerazione più legata al transeunte che alla sostanza. Permettetemi di dire, però, qualcosina. Le vicende della vita mi hanno spinto all’essenzialità della ragion pratica. Vediamo un po’: l’uomo è diverso dal cavallo perché intelligente, cioè pensa. È uomo anche il poeta. Anche lui intelligente. L’intelletto ha una meccanica funzionale che corrisponde, fondamentalmente a tre modi, ma, attenzione, la distinzione è solo descrittiva perché l’intelletto è uno solo: senso, ragione e amore. Ciò che distingue il conoscere della poesia e cioè un testo di poesia da un altro qualsiasi testo, è il maggior grado di senso e di amore che investe la ragione e informa il testo. Da qui la semantica ed i polisensi. Insisto, l’intelletto del poeta è uno solo ed è unico come quello del filosofo e dell’uomo di scienza. Quindi non tutti gli intelletti hanno neuroni della stessa razza e qualità. Tutto qui. Io credo che anche i poeti subordinati pensano. Altro che se pensano! Dunque auguriamoci una poesia che conosca e non una che pensi. (Testo pubblicato nel libro quarantatresimo di SECONDO TEMPO Marcus Edizione (NA))
*
- Letteratura
Italo Svevo letto da Antonio Testa
Italo Svevo letto da Antonio Testa (*) Nel maggio del 1968 per conto delle Edizioni A. Longo di Ravenna, vede la luce il libro saggio dal titolo Italo Svevo che compendia gli studi di Antonio Testa sullo scrittore triestino. Sono circa 130 pagine che affrontano il problema Svevo, e, per il periodo in cui vengono stampate, per la maniera del tutto nuova e convincente, libera lo scrittore triestino dai laccioli cui era sottoposto da letture critiche tradizionali limitate e limitanti, per il grande difetto di prospettiva in cui cadeva la critica letteraria italiana allorquando cercava un metro di giudizio italiano per uno scrittore che di italiano aveva solo il nome. Il libro è organizzato in sei capitoli più un settimo dedicato alle note bibliografiche. Il primo capitolo dal titolo Introduzione in realtà anticipa le conclusioni a cui perverrà l’autore del saggio durante il suo viaggio attraverso i testi di Svevo ed in particolare nell’analisi dei tre romanzi principali: Una Vita che darà il titolo al terzo capitolo, Senilità che titolerà il quarto, La Coscienza Di Zeno il sesto. Il secondo capitolo, utilissimo per gli studiosi, mette insieme in una ventina di pagine tutte le conclusioni cui erano pervenuti i maggiori critici di Svevo. C’è un quinto capitolo titolato da Senilità alla Coscienza che già nel titolo indica un moto da, utile, per giungere a destino. Partiamo dal secondo capitolo: I Critici di Svevo. In queste pagine Testa mostra il teorema che la critica costruisce sui suoi tre romanzi, una sorta di schema che pone Senilità al vertice alto del triangolo evolutivo della sua arte. Partendo da Una Vita, il romanzo di Svevo, per questa critica, ha una evoluzione in Senilità ed un’involuzione ne La Coscienza di Zeno. Infatti, La Coscienza di Zeno, esplicitando chiaramente l’influenza di Freud, mentre provoca interesse e consensi nella critica francese, innesca incomprensione in qualche critico italiano, scorgendo nell’impiego dell’analisi più un problema che una soluzione stilistica. Così Ravegnani finirà per sostenere che La Coscienza è appesantita dalle frequenti incursioni psicoanalitiche per cui l’autentico Svevo è da ricercarsi in Senilità. Montale a sua volta mostra come Una Vita mantenga un equilibrio instabile fra i vari temi e Consiglio addita severamente il peso negativo che ne La Coscienza ha il materiale patologico. Per questa critica è solo un problema d’equilibrio tra soggetto narrante ed oggetto della narrazione. In Una Vita la bilancia pende troppo dalla parte degli elementi oggettivi e narrativi, ne La Coscienza il peso cala sul piatto dove trova posto il soggettivo e l’autobiografico. Solo Senilità mantiene il giusto equilibrio fra i due piatti della bilancia. Questo schema, secondo Antonio Testa, condizionerà anche critici come Spagnoletti e Bo che si impegneranno a ricostruire il rapporto tra biografia ed arte in Svevo. È con la rivista Solaria, anche grazie ad Elio Vittorini, che si avvia una decisiva prima indagine critica notevole. La rivista negli anni che vanno dal ’26 al ’36, entra in polemica con il genio italico contrapponendo i valori letterari europei (Proust, Joyce, Kafka) a quelli limitati e provinciali della nostra letteratura. Ne deriva che l’unico scrittore italiano che più si avvicina agli europei sia Svevo. In Solaria i critici possono sostenere l’europeismo e l’antiretorica di Svevo e apprezzarne la consistenza fuori da inutili estetismi e vincoli retorici. Sono questi critici che per primi provano fastidio a risolvere l’arte di Svevo con il semplice gioco equilibristico tra narrazione ed analisi. Ed è Solmi riproposto da Vittorini, ad evidenziare come non sia possibile riscontrare in qualsiasi momento dell’evoluzione artistica di Svevo un’accettazione sia pure problematica della poetica del naturalismo: Svevo non insegue mai paradigmi di principi naturali ma sempre l’annotazione psicologica avvolgente e dinamica. Quindi lo schema della progressiva eliminazione del naturalismo man mano che l’arte di Svevo avanza è costruzione semplicistica e forzata. Bisogna convincersi che l’analisi è presente in tutti e tre i romanzi e li caratterizza unitariamente. Nella trappola dello schematismo cadono, da prospettive diverse, la critica estetica che giudica l’umorismo di Svevo antiretorico e saggio, privo di folgorazione fantastica, perciò torbido e patologico, questo perché Svevo è scrittore analitico, autobiografico, incapace di contemplazione, di trasfigurazione fantastica; la critica stilistica, contrapponendo lo stile narrativo tradizionale e quello analitico in una sorte di “sine qua non”, considera la scelta estetica di Svevo, scelta necessitata da scrittore che per limiti propri, si piega alle necessità della lingua, non riuscendo a piegare la stessa alle sue necessità. Si ha così l’assurdo che Svevo, per la critica estetica, è cattivo scrittore per eccessiva analisi, per quella stilistica, per troppo poca. Anche la critica più recente rispetto agli studi di Testa, (De Castris, Maier, Luti,) pur con meriti importantissimi, cade nella trappola dello schematismo costruito dalla critica classica, e se De Castris, per gli studi sulla formazione giovanile , il Maier, per l’imponente lavoro bibliografico, il Luti per lo sforzo di arrivare a comprendere in maniera più credibile il problema Svevo, regala strumenti indispensabili alle ricerche dei futuri studiosi, essa ,tuttavia, finisce sempre per soccombere, nel la lettura complessiva, in quel pregiudizio schematico della contrapposizione fra corpo narrativo ed analisi che fa intravedere un malinteso rapporto con Proust. Svevo era consapevole implicitamente della materia che andava a trattare già nell’ottobre del 1890 quando pubblicava sull’ Indipendente di Trieste la sua novella L’Assassinio di via Belpoggio. Precedente ad Una Vita (1892), in questa novella compare già un’eccezionale capacità di analisi sebbene le numerose annotazioni psicologiche siano poco approfondite. Giorgio, uomo placido, incapace di far male ad una mosca, da ubriaco, uccide per un mucchio di banconote. Giorgio, con il suo carattere, un’azione così eroica avrebbe potuto solo sognarla. Da sveglio ed in perfetta lucidità si sarebbe accontentato del sogno, e così soddisfatto, avrebbe continuato la sua vita in una inerzia totale senza sbocchi impegnativi. Dopo il delitto, prende atto della sua energia, ed il risentimento muscolare al braccio per il colpo menato, si impadronisce dell’intero corpo sgombrando la mente. Non c’è rimorso ma l’osservazione analitica dell’atto compiuto. La soddisfazione di essere riuscito a farlo, mostra come esso appartenga al suo desiderio inconsapevole. Giorgio torna con la memoria al suo passato, quando, a carico di sua madre, tirava avanti tristemente sognando una condizione migliore senza far niente per procurarsela. La mortificazione di tale condizione è il motivo inconscio del misfatto. C’è voluta un’ubriacatura per realizzare l’unico atto di protesta! Basta questo “eroismo involontario” a Giorgio per saziarlo e riportarlo nel suo tran tran inerziale. La storia finisce con la sua confessione. Basta un interrogatorio con voce suadente. Questa novella ha già in sé i contenuti poi sempre più sottilmente penetrati delle opere successive. È il primo tentativo di spogliare l’esistenza da ogni decoro contraffattivo. Svevo scopre essere quello, il suo nuovo mondo narrativo e ne è sorpreso, per ciò, tutte le annotazioni sue tipiche, non trovano il loro modo organico ma restano qua e là e devono essere organizzate dal critico lettore. Una Vita, in sostanza, appartiene a questo momento preliminare della narrativa di Svevo. Necessità di fare chiarezza nella coscienza, di eliminare quella retorica che complica la vita facile. Ad Alfonso Nitti basta “l’eroismo” della conquista di una donna altolocata per fargli dire di essere vissuto. Dopo di che, voilà, l’inerzia. L’ingresso del piccolo borghese che entra nel mondo dei troppo ricchi, facendosi ricco con i troppo poveri, masochista con l’altolocata Annetta Maller, sadico con la popolana Lucia Lanucci, non diventerà mai romanzo corale ma vivrà del racconto di una piccola avventura individuale in chiave ironica in cui il protagonista, dopo lo sforzo iniziale della conquista e del possesso di Annetta Maller, cercherà di proteggere la sua inerzia rassegnata con la categoria della saggezza, con l’alibi della moralità, dei buoni sentimenti. In realtà Alfonso è soddisfatto di aver superato con il possesso di Annetta il suo complesso d’inferiorità e di averla punita per questo. Quindi può permettersi con Lucia di farsi grande e lodare la vita equilibrata, laboriosa nella semplicità e nella pace. Il romanzo poteva finire naturalmente qui, invece…. Non c’è ancora la dialettica interna così sottilmente minacciosa fra inerzia e ansia. La si potrà notare poco dopo, con Senilità dove l’ironia si trasformerà in umorismo. Questo però non ci deve far dire, raccomanda Testa, che avviene per la variazione delle condizioni di vita dell’autore, bensì per la raggiunta maturità del narratore e della sua tematica , ormai più convinto dopo il noviziato. La necessità di narrarsi trova riscontro anche nell’ambiente concreto che è nudo, privo di orpelli, funzionale all’analisi interiore che mai travalica nel lirismo della solitudine. Quindi tutto è obbligato a funzionare in tal senso e se la narrazione cede all’orpello, questo e rigettato come spurio e come tale salta agli occhi. È il caso della morte per suicidio del protagonista di Una VIta che arriva come una forzatura letteraria a romanzo ormai concluso. Giustamente Testa fa notare che a leggere per la seconda volta il romanzo, il lettore, fattosi esperto, salta gli episodi (la morte della madre, il suicidio etc.) spuri, e scopre il tema unitario e necessario dell’opera: una specie di odissea della rassegnazione. La limitazione di Una Vita per Testa, sta tutta in questo dilemma dell’esistenza, esistenza problematica solo perché astratta. La Banca è tutto il mondo di Alfonso, mondo nudo come la sua vita. L’autore-narratore può lì sbizzarrirsi con l’ironia ma non riuscirà a raccordarsi e ad intaccare l’altro mondo che pure lui ama (cultura romantica, naturalisti francesi, Schopenhauer). Egli ha per le mani un racconto che non lo convince per la nudità della trama e l’anti-eroicità del protagonista. Non si fida della materia narrata per sua necessità. La sente nuda e vuole raccordarla al suo mondo culturale. Il romanzo, così, vivrà la stessa contraddizione dell’autore. La stessa che c’è tra l’impiegato ed il frequentatore di biblioteche. La vita nel romanzo, la vita vera, non potrà integrarsi con motivi costruiti dalla sua cultura romantica e la sovrapposizione dei due elementi così estranei, balzerà immediatamente agli occhi. In Senilità (1898)invece, questa problematicità esistenziale non costituisce la sostanza del romanzo ma il presupposto. Infatti qui il l’ossessione esistenziale non si contrappone con la situazione sociale. Emilio Brentani, pur piccolo borghese come Alfonso, soddisfa con l’impiego le sue necessità materiali e con la letteratura il suo ego, diciamo così, sociale. Il romanzo non vive di questa problematicità. Mentre Nitti esaurisce le sue energie inseguendo le due carriere, il protagonista di Senilità, Emilio Brentani, pasce già nella sua inerzia alle prime battute. Morto il padre, Brentani scrive un romanzo per inerzia, immagina il suo personaggio come un giovane artista che viene rovinato da una donna misteriosa e fatale dal carattere e dalle movenze feline. In tal modo si è assicurata una certa rispettabilità letteraria. La sua immaginazione ha mostrato quanto egli sia attratto e nello stesso tempo terrorizzato dal mistero. Una volta esauritosi il mistero, l’adulto Brentani vorrebbe liberarsi dall’inerzia riprendendo l’impegno letterario. Non può più accontentarsi della favoletta immaginifica. L’impegno sarebbe eccessivo e qui cessano le sue ambizioni letterarie. Questo è il prologo: da una parte l’impiego che sazia il suo ventre, dall’altro la letteratura che gli ha procurato l’alloro su cui riposare. Lo scopo di Emilio è la vita tranquilla, senza scopo, senza responsabilità, senza impegno ma anche senza disperazione, perché è convinto della sua ricchezza interiore. Si sente a trentacinque anni “nel periodo di preparazione,(….) una potente macchina geniale in costruzione, non ancora in attività”. Ovviamente l’illusione cadrà ma sarà sostituita da altre illusioni che hanno la funzione di mantenere calma piatta. Inerzia quindi dall’inizio alla fine. Non c’è modo di ricamarci sopra, non è possibile costruire intorno ad un uomo superfluo una sostanza sociale. L’unico elemento caratterizzante è quest’inerzia che è puro movimento potenziale. In tal modo si può correre dietro a sogni e compiacersene senza muovere un dito per realizzarli. Ed anche quando egli insegue l’avventura amorosa, lo fa solo per realizzarsi un passato, in maniera da riempire a sufficienza la sua esistenza e farne una ricreazione mnemonica: senza assilli, senza crucci, senza insidie e senza ansie. La popolana Angiolina è donna facile per il piccolo borghese Brentani. L’approccio ,immediatamente, chiarisce i limiti dell’impegno: “non voleva compromettersi in una relazione troppo seria” Nel rapporto l’aggettivo qualificativo per eccellenza pare essere: cauti . Angiolina è all’altezza e disegna per Brentani un piano per evitargli noie e scaricare su di un terzo eventuali beffe. Brentani è estasiato e crede che il progetto sia solo un ragionevole modo di vivere l’amore. Quando Angiolina gli dichiara d’essersi fidanzata, si rende conto che il sogno è stato distrutto dalla realtà e che quello che egli aveva solo immaginato una volta realizzatosi non potrà più ritornare sogno. L’avventura leggera si fa problematica per cui necessita il ritorno alla vita tranquilla, inerte. Ha una sorella, Amalia, donna che pur austera s’innamora di uno scultore di poco conto ma molto ammirato dalle donne e amico di Brentani . Dalla stanza di Amalia, Brentani, sente provenire la sua voce in sogno mentre parla di viaggio di nozze ove tutto è lecito. Questo fatto procura a Brentani l’uscita di sicurezza dall’avventura con Angiolina ed il ripiego morale del ritorno al dovere. Si dedicherà alla sorella. Quando ella è moribonda, tenta di chiudere convenientemente con Angiolina . L’incontro non avviene come l’aveva immaginato. Pensava ad un dolce, tenero, appagante incontro, pieno di buoni sentimenti e senza rimproveri. Angiolina invece arriva di corsa ed ha fretta di liquidarlo. Tutto in modo prosaico, mostrando come la realtà è assai brutale rispetto all’immaginazione. Resta deluso e per qualche tempo ripercorre con la memoria luoghi e situazioni della sua avventura. Cerca di darle sistemazione coerente, compatibile con il suo sognato. C’è un breve momento in cui fa fatica a ritornare al tranquillo moto inerziale. Presto quel periodo, si farà ricordo e tanto basterà per farlo diventare il momento più importante della sua vita e grazie al ricordo, Angiolina, si trasformerà in un simbolo di donna amante, triste e pensante. Qui Svevo, secondo Testa, attraverso Brentani che cerca di organizzare la sua vita in una successione di avvenimenti prevedibili e perfetti, evidenzia la patologia dell’esistenza che vuole risparmiarsi la fatica dell’ impegno sociale. Per Svevo è tutto molto chiaro: e la poesia non può prescindere da questa verità. La lucidità dell’analisi da parte dell’autore lo rende indulgente verso gli attori del romanzo: il tono sarà ironico ma di un’ironia bonaria mai irridente. In effetti Una Vita si differenzia dal successivo romanzo, perché racconta una verità resa astratta dalla miscellanea di elementi spuri, di puro gusto letterario, con quello analitico; Senilità invece fa del racconto la verità irrinunciabile e necessaria alla poesia dell’autore. Qui niente è fuori posto, non una parola inutile od un’immagine da ricamo; l’ironia si arricchisce di pietas e tutto concorre a realizzare l’identificazione della poesia con la verità. Con La Coscienza di Zeno ( 1923) il ciclo si chiude. Lo scrittore ha ormai il bagaglio pieno della filosofia di Schopenhauer, delle teorie psicanalitiche di Freud e del la nuova concezione del reale di autori come Joyce o Proust. È ovviamente un bagaglio non semplicemente inteso, come dire, culturalmente appreso, ma completamente chimificato e trasformato in energia utile alla vita dell’uomo del suo romanzo. Insomma, filosofia ed analisi non servono a Svevo per creare schemi artificiosi entro cui calare la vita del suo personaggio, bensì per farsi esse stesse caratteristiche umane, di quell’uomo di Svevo che cerca di vivere nel miglior modo possibile con la minore fatica possibile e con prospettive più grandiose possibili. La Coscienza di Zeno è la scelta consapevole e matura di una vita senza grossi impegni e faticosi e quindi della necessità di un dotarsi di un atteggiamento propositivo, rinnovabile nel tempo, nella prospettiva di un domani migliore dell’oggi. Questo atteggiamento avrà il merito di tacitare i richiami interiori alla virtù e nel contempo permetterà di perseguire il piacere pratico. È il mai più con cui inizia il romanzo Svevo. È la definizione di quell’atteggiamento di Zeno Cosini verso il vizio del fumo: la malattia dell’ultima sigaretta che fa dire al personaggio che solo per lui il tempo ritorna, non s’arresta mai. Assaporare l’ultima sigaretta diventa estremamente piacevole per chi si propone seriamente di smetterla con il fumo. Si continuerà la trasgressione pur sognando di ritrovare il mondo normale. Ma ci saranno tante ultime sigarette: si trasporterà il domani nel tempo in un potenziale attuarsi (un po’ come il domani del pagherò di Totò) permettendo così al piacere di ritrovarsi ogni volta. L’analisi che Zeno fa dei suoi gesti è estremamente lucida: senza un serio proposito la vita futile è priva di interesse e peso tensivo, con esso si illuminerà d’intenzione. Zeno Cosini, intelligente, ricco, e di buona famiglia se la gode così. È così che accontenta i suoi vizi e risponde alle aspettative paterne: mai più (domani, direbbe Totò). Ma il padre muore. Per Zeno Cosini, una vera catastrofe. Non può più giocare con il domani. È costretto a crescere, non può più fare l’eterna promessa, deve giocare da professionista e così pensa di sposarsi. Ecco un nuovo più attuale proposito. Frequenta una casa borghese con quattro ragazze: Anna di sette e Alberta di diciassette anni non sono da considerarsi perché immature. Restano la strabica, grassa Augusta e Ada. Quest’ultima ha una severa bellezza. Zeno di lei ama la serietà degli occhi, il taglio severo dei capelli ed il suo parlare semplice. Insomma Zeno s’innamora di una moglie-madre. Vorrebbe sposarsi per ritornare figlio e continuare a fare le marachelle ma sempre avendo davanti l’obiettivo di essere tradotto verso una vita completa, virile, di lotta e di vittoria. Ma anche questo proposito viene rimandato all’infinito: si riprometteva di parlarle ma solo quando si fosse fatto più degno di lei. Che fretta c’era? Così tira avanti analizzando i suoi sentimenti e le sue preoccupazioni, dando l’idea di chi sogna una cosa ma ha paura che essa poi possa davvero realizzarsi. Infine sposa la strabica Augusta. Deve perciò trovarsi l’amante. Anche questo proposito va per le lunghe: trovata, l’amante diventerà sua complice. Entrambi, ogni volta, rinnoveranno il proposito di farlo per l’ultima volta. La Coscienza di Zeno è certamente l’impotente saggezza di chi guarda con occhio benevolo lo sforzo di raccordare le contraddizioni presenti tra il nostro essere ed il nostro voler essere. Questo più o meno il pensiero di Testa che legge Svevo. Un traguardo notevole in quegli anni. Io penso che oggi sia possibile sottolineare la solitudine dei personaggi di Svevo microcosmo di quella inquietudine ed angoscia del mondo borghese che conosce l’alienazione. Svevo utilizza l’analisi per impadronirsi della propria coscienza e del proprio subconscio: il mondo è dentro non fuori, e là, i fatti si dissolvono. La società appare malata e decadente. D’Annunzio, Fogazzaro e tutto il genio italico si illudono mitizzando e mistificando l’individualismo borghese. Svevo demistifica tutto questo. Scopre quanto sia irrazionale e tragica la realtà ma anche come la coscienza sia brava a creare autoinganni. Questo in Svevo non avviene per caso o per arbitrio. Il suo osservatorio non è collocato nella provincia italiana ma in quella Trieste crocevia della cultura europea. È testimone delle forme e maniere in cui la borghesia percepisce la propria crisi e quella del mondo austro-ungarico. Attraverso quella cultura e quelle maniere (analisi, monologo interiore, nuovo sentimento delle cose, passato tramite il presente, rappresentazione del negativo, dell’anti eroe, della coscienza individuale), Svevo mostra l’impossibilità di rappresentare il proprio tempo oggettivamente, al di fuori delle contraddizioni, crisi, malattie individuali. Emblematico là dove dice << forse…un uomo …come tutti gli altri nel segreto di una stanza…..inventerà un esplosivo incomparabile ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri…ruberà tale esplosivo…una esplosione enorme…….e la terra ritornata …..nebulosa errerà nei cieli…..>> (Antonio Testa, “Italo Svevo” Edizioni A. Longo – Ravenna 1968, pagine 131 lire 1200) Salvatore Violante (*) Testo stampato sul libro quarantaduesimo di “Secondo Tempo” Marcus Edizioni Napoli.
|