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Anna Maria Vanalesti
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Quasi un diario

 

Quando la scrittura diventa innanzitutto una restituzione a se stessi e agli altri, della vita e dell’esistenza quotidiana? Quando è poetica, quando si arrende alla poesia come via del rifugio e si lascia dominare da essa. È accaduto nell’ultimo libro di Elio Pecora, che si annunzia dal titolo con discrezione, come un diario, ma con la premessa di quel “quasi” che ne limita il carattere personale di confessionabilità e ne accentua la segretezza. Tutto nasce da un desiderio di ordine, da parte di un poeta che ha attraversato e traversato il nostro tempo, sempre da testimone attivo, mai da fustigatore altero che, un giorno, lo dice lui stesso, si ritrova davanti ad una mole di quaderni, di appunti, di diari e viene preso da “una febbre illusoria” di ricomporre e ricostituire lacerti di pensieri e riflessioni, disseminati per anni lungo il cammino, “scaturiti da eventi quotidiani oltre che da letture e riletture”. Una sorta di operazione da “salva con nome”, da realizzare più mediante tagli, eliminazioni e omissioni, che mediante recuperi integrali e totali. È un viaggio, iniziato tempo fa, che continua e prosegue con soste cercate, non obbligate, per riconsiderare e apprezzare “quel poco” che si è ricevuto ma che in verità è “tanto”. Si, perché Elio Pecora è forse l’unico poeta dei nostri giorni che abbia capito come la felicità consista in quel poco che abbiamo, nel godere dell’istante e trattenerlo. Le soste in questo libro coincidono con le quattro sezioni che lo compongono: Pensieri incolori, Scoloriture apprezzabili (Quasi un diario), Citazioni, La poesia. Quattro sezioni dense di vita e di pensiero, nelle quali si evidenzia un andare incessante, “lungo i giorni e le notti guardando, attendendo, cercando”. A governare tale cammino c’è la scrittura, c’è la parola scritta che reca in sé una grande responsabilità, quella di “consegnare” agli altri l’invito a resistere, senza disperare, collocandosi fuori e lontano dall’immenso “chiacchierio” che caratterizza questo tempo. Il poeta che sin dalla giovinezza ha creduto nel dovere di “restare”, compiendo ciascuno con integrità morale il proprio compito, conferma nel libro “quasi diario”, che ripercorre e riassume la sua esistenza, il patto giovanile stretto con la poesia, di non abbandonare mai la via dell’onestà, un patto che discende da Leopardi e passa per Saba e Penna, seguendo la via del canto.

“Chi può in un’epoca come questa – si chiede il poeta – starsene abbarbicato a una totalità impossibile, inesplicabile? Già è sorprendente ritrovarsi in qualche frase, averla consegnata al sé stesso che forse la rileggerà”. È un modo per abbattere le barriere tra sé, gli altri e le cose, così come la poesia è la stanza alta e irraggiungibile nella quale il poeta se ne sta contento.

Il concetto della “stanza del poeta” è connaturato alla poesia di Pecora, questa stanza alta e irraggiungibile è la meta che ha sempre inseguito, un rifugio segreto, un altrove ove tutto acquista senso e significato. Il poeta si rapporta continuamente con tale stanza, che è anche interiore ed è solo da lì che riesce ad aprire le porte della mente e a tenere a bada le cose e gli altri, ad allontanare le ombre, come ad allontanare le tenebre dai sogni.

Entra nei giorni l’autore del diario e li affronta con umore diverso, ora cupo, ora allegro, persuadendosi che ordinare il disordine della vita, comporta difendersi dalle paure e accettare le insicurezze, liberando i propri bagagli del superfluo, per viaggiare leggero, come aveva capito anche Giorgio Caproni e poter tenere sempre a bada se stesso.

Il fatto è che nella lunga strada percorsa ha incontrato tanta gente, amici e non, moltissimi viandanti e con loro ha conversato, dialogato, intrecciato esperienze, che sono rimaste dentro di lui e non si possono cancellare, perché sono momenti di vita e di formazione.

Leggendo questi passi, che si succedono nel libro apparentemente senza un ordine cronologico, ma in realtà secondo un iter continuativo interiore, il lettore si accorge che al di sopra delle sezioni o capitoli, si configurano alcuni grandi temi, o meglio alcuni grandi valori che il poeta ha individuato nella sua esistenza e che hanno via via segnato delle tappe precise della sua moralità e del suo carattere: la regalità, l’invitta giovinezza, la bellezza, l’estraneità dell’io ingovernabile e il giardino, il tempo degli insicuri, la promessa di salute, l’onestà delle parole, il sogno della mente. Forse nemmeno lo stesso autore si rende conto che il suo quasi diario ha rintracciato inconsapevolmente una mappa del viaggio, ritrovando e riscoprendo tesori nascosti, che amabilmente restituisce a se stesso e a noi altri. Proviamo a conoscere meglio tali tesori, cominciando dalla regalità.

Che cos’è la regalità? Un atteggiamento? Un comportamento o un portamento? Un insieme di dignità, decoro e nobiltà d’animo, che caratterizza una persona speciale, una creatura che naturalmente può essere considerata al di sopra degli altri, non perché abbia un titolo, o discenda da una stirpe nobile, ma perché sa essere se stessa in ogni circostanza e ha saputo raggiungere un’altezza mentale che inevitabilmente la rende fuori dal comune. In sostanza un tale individuo consegue una sorta di primato che lo contraddistinguerà per sempre. I due esempi che Pecora porta, di Rodolfo Wilcock e di Sandro Penna, sono molto eloquenti: entrambi assoluti padroni di se stessi nella povertà in cui vivevano, non curandosi affatto di ciò che loro mancava, ma accettando il poco che avevano dal punto di vista materiale e tenendosi il tanto che avevano dal punto di vista mentale e spirituale. La loro grandezza consentiva di accostare il tanto e il poco, facendoseli bastare, mettendo sul medesimo piano i due estremi e controllando il vivere quotidiano con la disinvoltura e la forza di un re. La stanza caotica e misera di Penna non ne sminuiva la regalità, anzi l’accentuava, così come la squallida baracca di Wilcock non gli toglieva quel suo aspetto regale, nel gestire i propri giorni. In tutto questo è implicito il concetto che Pecora ha di come dovrebbe essere l’uomo, e come quell’alterezza e quella apparente superbia che a volte sembrano esserci in un individuo, altro non sono che aspetti della sua regalità.

L’invitta giovinezza. L’aggettivo “invitta” significa invincibile, ma anche non vinta, indomita, eroica, indomabile. Ora, che la giovinezza come migliore età dell’uomo sia invincibile, nel senso che finchè dura è forte, combattiva e non fiaccabile, è un dato di fatto, ma nel concetto poetico di Elio Pecora sembra che vada al di là di questo letterale significato, perché la giovinezza può essere non soltanto un’età, ma una condizione perenne dell’animo, custodita e mantenuta attraverso “lo stupore”, la capacità di stupirsi sempre, malgrado l’avanzare degli anni. È proprio qui sta l’invincibilità della giovinezza, che quando diviene uno status dell’animo, acquista una durata perenne e manda lampi, accende bagliori, fa guizzare raggi di luce, alimentando l’amore e l’innamoramento, mai paga di porre al centro delle cose il cuore. È il segreto della “giovanezza leopardiana” a cui è “germano” l’amore ed Elio, ripercorrendo la sua strada a ritroso, si accorge della invitta giovinezza che porta dentro di sé.

La bellezza. Nessun poeta ha mai ignorato la bellezza, tutti ne hanno fatto un obiettivo da raggiungere e contemplare nelle proprie opere, ma i modi di perseguire la bellezza e raggiungerla sono stati differenti. Elio Pecora si lascia sorprendere dalla bellezza e non la trova soltanto nella natura, nei colori, nei suoni, nelle forme spettacolari che ci circondano, che rappresentano gli aspetti più facili e più consueti da vedere, ma anche nel gesto di un padre che bacia i capelli d’oro del suo bimbo, o di un cagnolino che smette di guaire quando da dietro la porta sente fermarsi una persona che lo chiama e non lo fa sentire solo. In sostanza la bellezza non è solo apparenza esteriore, ma è commozione, tenerezza, purezza interiore ed è propria della poesia, perché è la poesia che si riconosce in lei, non viceversa. Questo accade di continuo nella poesia di Pecora che sfiora cose e situazioni, penetra persino nei piccoli esseri che abitano un giardino e ne coglie il fremito, trasformandolo in parola, per restituire in forma di vita quella bellezza nascosta e segreta.

L’estraneità dell’io ingovernabile e il giardino. L’uomo non si rende conto che il primo estraneo con cui deve avere a che fare è il proprio io, che lui crede di conoscere, ma in realtà è un perfetto estraneo, non soltanto per le reazioni inconsulte che spesso ha, delle quali lui stesso si stupisce, ma per il suo continuo alfieriano volere e disvolere, che rappresenta la parte più ingovernabile di sé. E dunque il poeta prova a governare l’io, scrivendo, aggiungendo, abbandonando alcune pagine, per poi riprenderle, come per un gioco ininterrotto, che si compie a latere, oltre le sciagure quotidiane di cui parlano i giornali, oltre le vicende d’ogni giorno, oltre l’infinito chiacchierio e pettegolezzo di cui son pieni i media. Poi, tornando nella sua casa-giardino, l’uomo ritrova la pace e il poeta ritrova la poesia, che è lì ad attenderlo tra i meravigliosi verdi, splendenti dopo la pioggia e le piccole rose spuntate forse per salutarlo. Questa casa lui l’ama, ma dovrà lasciarla, per tornare a Roma, città che lo incanta ma pure lo incatena, intanto nel giardino scrive qualcosa che “gli pare riuscito”, in quel giardino che “compensa le mancanze” e che “parla una lingua senza parole, indenne da ogni sviamento e balbettio”, le due cose dalle quali Pecora si è sempre tenuto lontano. L’io non è più estraneo a se stesso.

Il tempo degli insicuri. Che tempo è quello nostro, vorticoso e tremendo, che fugge, mentre noi vi stiamo dentro ed esso sta dentro di noi? Tutto corre, tutto precipita, gli anni, gli amori, la prestanza del corpo, mentre noi siamo “il sogno che chiamiamo vita”. Il poeta scopre che, anche se il tempo gli fugge addosso, egli ne avverte l’eternità, oltre alla caducità e alla provvisorietà, il tempo lo consuma, ed egli consuma il tempo. Noi cambiamo, ma siamo ancora quello che eravamo prima, diversi e uguali. Eppure se ci guardiamo intorno scorgiamo una folla di insicuri, chini sui cellulari, sugli ipad, a caccia di distrazioni, più che di notizie, con cui autoingannarsi e ingannare il tempo. Dai media si attendono certezze e giungono invece annunci di catastrofi, discorsi colmi di insulti, si schierano su fronti opposti, uomini da poco che vogliono tenere il potere e comandare il paese, senza saper nemmeno comandare a se stessi. In contrasto con tutto questo la pubblicità impazza mandando immagini di vita felice, di piaceri impagabili che inaugurano ogni nuovo mattino, di famiglie serene, di volti contenti, come se fuori regnasse una serenità sovrana e non ci fosse alcun pericolo. Bisognerebbe mettere ordine nel tempo, cercare soluzioni semplici per una realtà complessa che sarebbe da scomporre. Bisognerebbe avere una maggiore capacità di comprensione, smettere di autogiustificarci come facciamo, attribuendo agli altri ogni causa di male.

Una promessa di salute. Il poeta prova a risalire alla prima volta in cui la scrittura si “palesò”in lui e arriva così all’adolescenza, ove ritrova la “consegna” che gli fu fatta, quella della scrittura appunto, non per diventare un suo bene esclusivo, ma per essere una “restituzione”. Avvenne allora il mirabile patto: poichè aveva ricevuto questo talento, “quello che avrebbe scritto di suo, sarebbe stato tutto da consegnare a sua volta, a quanti sostassero anche solo per poco nelle sue paginette”. Da quel momento non ci fu mai la resa. Bisognava guardarsi per scrivere ed Elio lo fece, bisognava aver certezza di sapersi guardare ed egli l’ebbe, né gli sfuggì che quella consegna fosse una promessa di salute, una voglia ostinata di restare. Per un poeta che ha sempre creduto nella responsabilità di rimanere al proprio posto e di farsi bastare quello che si ha, “restare” è un dovere, un’avventura, come egli stesso la definisce, alla quale non ci si può sottrarre. Scrivere è il modo di restare nelle cose e nel mondo, ma non per una fama acquisita, bensì per una partecipata esistenza insieme agli altri e a questo punto interviene la poesia che va al di là dei suoni e delle parole, valica “il niente” e accenna al mistero.

L’onestà delle parole. Dell’onestà della poesia ha parlato Umberto Saba una volta per tutte. La poesia non può che essere onesta ed Elio Pecora, che dopo Saba e Penna ha portato avanti la linea del canto, ha fatto propria questa regola. “La poesia - egli dice - vigila sulla nettezza e sull’onestà delle parole”, la poesia significa “fare” e non può essere fatta da bugiardi. Pecora prende le distanze da tutto ciò che è falso e vuoto e quindi anche da una lingua che non sia viva e che non appartenga al tempo in cui ci troviamo. Nei tanti laboratori di poesia che ha tenuto in molte scuole italiane, uno dei punti su cui ha sempre insistito è stato il richiamo ad adoperare la lingua vera, dell’oggi, non del passato, come purtroppo alcuni tendono a fare credendo di conferire così una patina di aulicità ai loro versi e realizzando invece patetici svolazzi ottocenteschi. Il che non significa mancanza di eleganza, anzi, la lingua mantenendo la sua attualità di suono e di senso, raggiunge una dignità e compostezza che direttamente le assegna un tono alto e raffinato, ma soprattutto un’onestà di espressione.

Il sogno della mente. La poesia può toccare degli eccessi, accendersi e slargarsi in mille significati, ma deve sempre essere vigilata dalla ragione, per non rimanere solo un sogno della mente. Per questo la poesia deve essere disposta alla rinuncia e all’assenza e in merito a questo è assai valido il riferimento che Elio fa ad Orfeo, la cui testa, pur smembrata dalle Menadi, continua a cantare, e il suo è un canto di rinuncia e di assenza. Via dunque le chiacchiere, vada lontano ogni mormorio rumoroso dalla poesia, perché essa non vuole mostrarsi, non vuole ignorare le sconfitte, né affermarsi a qualsiasi costo! Sottovoce si confronta con i grandi, si autocensura, denuncia la menzogna, ma resiste alla sconfitta e al dolore. Molti gli esempi portati in questo libro da Pecora, specie nella sezione intitolata Citazioni, ove sono chiamati in causa i poeti più famosi, dai classici ai padri spirituali, della poesia del Novecento e del Duemila, testimoni di una intermittenza del cuore e di un unico, medesimo sogno della mente.

 

 

In definitiva il libro è percorso da un brivido che giunge fino a noi lettori, nel sentirci coinvolti in un itinerario umano che è nostro, che è di tutti, perché apparteniamo ad un universo che crediamo divino, in cui nasciamo e poi moriamo scomparendo, ma dopo essere stati parte integrante del mistero della vita. Il brivido che avvertiamo muove dalla poesia di Elio Pecora, che pervade la limpida e commossa prosa di questo libro, mutandola in una narrazione poematica con un suo singolare andamento lirico.

 

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Tingo il cuore di cielo

 

In questa silloge di venticinque poesie, nuova di stampa e da un titolo così fresco e originale, l’autrice disegna una spirale avvolgente, che parte dal desiderio dell’amore e torna al desiderio dell’amore, attraversandolo in tutti i suoi vari aspetti: l’affetto per i cari, la nostalgia dell’amato perduto, la tenerezza per la natura e gli animali, l’intenso ricordo di un’amicizia, il rimpianto per chi non c’è più, ma le ha lasciato un bene prezioso da custodire. La poesia, come parola riincarnata nel sentimento e concentrata nelle immagini, diventa nutrimento costante, che s’accompagna alla memoria e alla ricerca mai esausta, di riportare indietro dal tempo e dal passato, tutto ciò che è stato vissuto con pienezza e che merita quindi di essere salvato. Frequente il ricorso a termini come cielo, nuvole, acqua, sole, profumo, a conferma che proprio dallo scenario naturale lei attinga il suo vocabolario e i suoi colori, assetata di chiarezza e di luce, così come è assetata di corrispondenza di sensi. L’animo non arretra di fronte al dramma della morte e alle difficoltà dell’esistenza, ne prende coscienza e fa forza su di sé per andare avanti, per continuare il tragitto, malgrado le perdite e le delusioni, intuendo che al di là di tutto c’è una ratio impossibile da comprendere ma che trascende le tragedie della vita e rende quest’ultima degna di essere percorsa fino in fondo, con responsabilità. Lo sguardo si perde verso l’orizzonte, dove si compie il bacio eterno tra mare e cielo, il cuore si tinge di cielo, perché volutamente il poeta apre la sua disponibiltà alla speranza, le paure vengono polverizzate, la persona amata che è andata via, si ritrova nella voce di un bambino, o nella pioggia che irrora il terreno, non sulla gelida lapide, mentre si compie perfettamente la restituzione dell’assente al presente, grazie al “salva con nome” che solo la poesia può realizzare. Le parole, dunque, e i verbi in particolare, diventano parole chiavi, strumenti che creano campi semantici intorno all’amore. Il peso della sofferenza si smaterializza, diventa leggero, gli stracci di stoffa si trasformano in candida seta, la distanza incolmabile viene superata, l’ardore spentosi nell’ira, si placa, l’abbandono viene perdonato, il rancore è dimenticato. Ed è questa la cifra etica della Pugliese, la capacità di guardare agli altri e al prossimo ancora con pietas, nonostante il male ricevuto. E qui le soccorre il suo fedele amico cane, che ha la capacità di esprimere con la coda e con il movimento dei fianchi, la gioia che prova nello stare con la gente, o quando avverte rabbia e tenerezza. Nessuno ha la devozione che può avere un tale amico. La penna è il mezzo per i poeti per rappresentare i propri sentimenti, gli umori, le sensazioni, quasi una carezza da rimandare alle anime. Nella circolarità che lo contraddistingue, il libro si offre come un medicamentum per l’infelicità, un’erba medica quasi, che attenua, lenisce, conforta le ferite e impedisce loro di diventare piaghe. Per essere inoltre un’opera prima di poesia, rivela da parte dell’autrice un sapiente e sensibile utilizzo del linguaggio e della metrica: è stato scelto il metro libero, ma c’è un controllo rigoroso dell’armonia e della quantità in ogni singolo verso; spesso è adoperata la quartina che qualche volta, in combinazione con la terzina, genera lo schema del sonetto. Ogni lirica freme comunque di ansia di bellezza e di affetto, vibra di una tensione interiore verso il bene e si propone come sintesi di un pensiero poetante che non dà nulla per scontato, ma chiede in cambio una partecipazione autentica. 

 

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Briscoe Hall

 

Può un romanzo scegliere e proporre come mappa di orientamento l’erotismo? Può una tale mappa essere quella più attendibile per capire l’esistenza e trovare la propria identità, non solo sessuale, ma civile e morale? Se vi sono dubbi in merito a ciò, basterà leggere il recente romanzo di Giuliano Brenna che si offre al lettore in tutta la sua spudorata e sorridente franchezza, raccontando una storia giovanile, leggera e appassionata, con quel tanto di suggestiva patina antica che le viene dal passato, per di più da un passato ottocentesco.

Ambientata nella contea di Dorset, in Inghilterra, nel contesto di un affascinante paesaggio di boschi e colline, che circondano sontuose dimore nobiliari, si svolge la storia del protagonista, Briscoe Hall, poco più che ventenne, negli anni del puritanesimo vittoriano che alimentava la vita e la condizione di ogni famiglia inglese. Il giovane, alla ricerca di una sua autonomia e indipendenza dal nucleo familiare d’origine, compirà un vero e proprio cammino di formazione, al termine del quale non soltanto scoprirà e troverà se stesso, ma incontrerà l’amore.

Muovendosi in una società e in una realtà dove vige una profonda differenza di classe, tra ricchi e poveri e tra padroni e servi, molto spesso esperimenterà a sue spese l’autoritarismo dei forti sui deboli, esercitato anche attraverso la tirannia del sesso. Ed è infatti il piacere sessuale l’asse di equilibrio, o potremmo dire il perno, intorno a cui ruota l’intera vicenda del romanzo, che viene continuamente spinta e lanciata in una dimensione erotica di climax ascendente, conducendo lo stesso lettore ad una tensione emotiva fortissima.

È in gioco un’elaborazione linguistica straordinaria che consente all’autore di gestire le dettagliate descrizioni di ogni singolo momento erotico, non soltanto con un registro di alta tonalità  espressiva, ma anche con una qual certa ironia scherzosa che tende a trasformare le fasi della salita del piacere sessuale, in un orgasmo verbale che si scarica sulla parola e la allarga in campi semantici ampi e onomatopeici ( si pensi al verbo “titillare” usato frequentemente col significato di “solleticare”). Va detto, innanzi tutto, che a trionfare nelle pagine è l’omosessualità, come rapporto sentimentale più autentico, sia dal punto di vista della sensibilità, sia da quello della bellezza corporea, che viene presentata come esempio perfetto di virilità e prestanza, nel fulgore dell’età giovanile, ma che lascia un credito anche nell’età più matura, come dimostrano le storie incrociate dei personaggi: il bellissimo Briscoe, il forte e atletico Liam, il visconte Clifton, ma anche il maturo Conte, il maggiordomo Fillmore, l’esperto e rude fabbro Toby . È come se nel giro e nell’intreccio di queste vite, si realizzasse un’iniziazione continua al rito del piacere, che però include l’innamoramento e l’amore, anche se nel primo impatto di questi rapporti, potrebbe sembrare che i due elementi siano di secondaria importanza. Specialmente gli episodi che riguardano il conte e sua moglie, sono una spia per scoprire la noia e la monotonia dei normali legami matrimoniali, che attanaglia non soltanto gli uomini, ma anche le donne. In questo mondo che sembra così immutabile nella vecchia contea inglese, all’interno delle case delle migliori famiglie, apparentemente unite e felici, si consumano storie ormai trite di matrimoni, forse avvenuti per convenienza, in cui si è logorato lentamente e consunto l’amore iniziale, (se mai c’è stato) e si è giunti alla totale scomparsa del piacere dalla vita sessuale individuale. Dal che la ricerca da parte non solo degli uomini, ma anche delle donne (e con che foga da parte di quest’ultime) di nuove esperienze di piacere, nuovi giochi erotici, che valgano a riempire il vuoto della routine quotidiana.

Come non intravedere in tutto questo una sorta di denuncia del perbenismo e un capovolgimento della comune concezione del rapporto di coppia? I due personaggi femminili più esposti sono indubbiamente la moglie del Conte e la figlia Claribel, entrambe assetate di piacere, sebbene in apparenza pudiche e costumate, ed è importante la loro differenza d’età, che mette bene in risalto, come per l’appetito sessuale, non contino gli anni.

A fare da sfondo allo scorrere delle esperienze e degli incontri erotici, c’è uno scenario meraviglioso, in cui domina una natura incontaminata, attraversata da fiumi, che in alcuni momenti assumono quasi una valenza metaforica. Presso un fiume Briscoe ha ricevuto la sua prima sconfitta amorosa e presso un fiume ( il Nadder dall’acqua gelida) ritrova il suo nuovo amore. E poi vi sono le cavalcate, in mezzo alle radure e ai boschi, l’amore per i cavalli, quasi alleati dei giovani che si slanciano verso l’avvenire e la descrizione, sempre dettagliata ed elegante, di questa terra del Dorset, così lontana dai rumori della city, ma così pervasa dalle idee del vittorianesimo imperante.

Dunque, piacere, desiderio, sessualità sono le tre corde portanti del romanzo, nonché le tre coordinate di una nuova topografia esistenziale, che l’autore disegna con la sua raffinata prosa, ma che soprattutto cerca di affrancare da pregiudizi e considerazioni distorte e poi c’è la contemplazione della bellezza, non soltanto della natura ma del corpo dell’uomo, la cui rappresentazione diviene quasi michelangiolesca, man mano che il “modello” maschile, riprodotto in alcune figure, in particolare in quella di Briscoe, si afferma nella vicenda come prototipo dell’essere da desiderare e amare.

L’altra novità assoluta di questo romanzo è che l’autore nemmeno per un momento si è posto limiti morali, giudicandoli sicuramente ipocriti. Infatti mai i personaggi si lasciano guidare nelle loro scelte e nelle loro azioni da valutazione di carattere moralistico, giudicando il proprio comportamento sempre in modo naturale e umano. Mi spiego meglio: ogni atteggiamento erotico non è visto come una trasgressione o come una perversione dell’io, bensì come una spontanea risposta del corpo alle pulsioni naturali dell’uomo. Così si rivede e si corregge l’intera produzione letteraria erotica, che non può più essere considerata soltanto un divertissement, ma un codice nuovo per vivere totalmente la propria identità sessuale.

Altri grandi scrittori hanno battuto questa strada, pensiamo a Moravia che fece del sesso lo specimen per guardare all’esistenza e capire l’interiorità dell’uomo. Qui Brenna lancia la sua sfida, e lo fa in maniera scherzosa, volutamente esagerata a volte, mantenendo sempre la guardia di un regime linguistico che esige tatto e prudenza, che deve evitare eccessi e sproporzioni e ci riesce benissimo, grazie anche alla estrema raffinatezza della sua scrittura, che non scade mai nel volgare.

Una componente dell’erotismo, assai singolare, si estende sul cibo, in tutte quelle pagine che descrivono la preparazione dei pranzi all’interno delle case, soprattutto in quella del Conte. La cura con cui si parla degli alimenti, l’atmosfera degli interni delle cucine, i momenti dedicati alla cottura, o alla farcitura delle prede catturate durante la caccia, passatempo primo dei signori, sono tutti particolari che contribuiscono a diffondere sapori e odori che a chi legge pare quasi di avvertire e anche questo fa parte della sensualità e del piacere erotico, largamente diffusi nella narrazione.

Emblematico è inoltre il racconto che riguarda l’amico di Briscoe, Willy, il primo amore e la prima perdita, perché nella scelta che questo ragazzo fa, di rinunciare alla sua vera identità, per sposare una donna che non ama, in ossequio alle convenzioni sociali, c’è la condanna alla falsa moralità e la deprecazione del sacrificio della propria libertà nel rispetto di una società falsa e ipocrita.

È la libertà l’altro grande tema del romanzo, un tema serpeggiante dall’inizio alla fine, una libertà totale, che non si può affermare sul piano civile, se prima non si afferma sul piano personale e individuale, come affermazione del diritto di vivere secondo la propria natura e la propria sessualità, che è poi il diritto di essere uomini.

In definitiva il romanzo reca un suo messaggio sostanziale, che è il rispetto per l’altro, l’assoluzione piena del piacere non più considerato come un peccato, ma come veicolo naturale dell’amore e della propria individualità, è una celebrazione del corpo, non più visto come gabbia dello spirito, ma come la forma entro cui stare nel mondo, quella forma senza della quale non si può scoprire l’anima. In tal senso è illuminante l’espressione di Proust posta in esergo al libro:

 

Mare degli occhi navigammo nelle tue limpide acque

Il desiderio gonfiava le nostre vele rappezzate

partivamo dimentichi delle tempeste passate

sopra gli sguardi alla scoperta delle anime

 

 

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La tribù dell’eclisse



Dal suo vasto campo poetico, che non conosce periodi di maggese, perché perennemente seminato e coltivato, Giulia Perroni ha raccolto per il suo ultimo libro una copiosissima messe di versi, di periodi musicali, di strofe anomale ma originali, componendo un ampio disegno, che si offre al lettore come un nuovo e romanzesco genere letterario. Meglio sarebbe dire che ci ha regalato un romanzo poematico in cui un inarrestabile e immane discorso lirico si dispiega come un fiume, che a salti, per rapide e gorgoglianti cascate di parole, scorre secondo un circuito preciso, dando forma alla vita, ai sogni, ai desideri, ma anche alla morte e alle tragedie quotidiane, unitamente ad una serie infinita di perdite e di illusori ritrovamenti. C’è tutto il mondo privato dell’autrice e c’è il mondo circostante, con i suoi bagliori, con le sue paure, con i suoi ineluttabili condizionamenti. Il sostrato è un back ground culturale assai ricco, in cui si riconoscono ascendenze letterarie inconfondibili, da Emily Dickinson (alla quale si deve il titolo), a Ezra Pound e ad altri autori, la cui frequentazione ha formato e influenzato la Perroni. L’autrice nelle note finali al testo avverte che è ben consapevole che il suo io si mescoli a qualche personaggio, entrando e uscendo da esso, ma aggiunge che tutto questo avviene “non senza un’intrinseca ragionevolezza”. E infatti quel diluvio di versi che attraversa il libro, sarebbe farneticante e irrazionale, se non scaturisse da un’osservazione sempre attenta e circospetta della realtà e della propria interiorità, un’osservazione fatta non solo di sguardi penetranti e indagatori, come sa avere colei che nello Scoiattolo e l’ermellino, fissa ed individua una perpetua icona (la Dama con l’ermellino appunto) che ci guarda dall’al di là dell’arte. Tale osservazione è però integrata da una straordinaria capacità di ascolto delle persone e delle cose che sono intorno a noi. Già un’altra volta affermai che ciò che Giulia vede e sente si trasforma in versi, tanto che con Ovidio potrebbe dire quod tentabam scribere versus erat; ora direi che ciò che pensa viene pensato in versi. Lo dimostra la particolarissima disposizione dei suoi versi in questo libro, in alcune pagine in particolare, dove, quasi disarticolati l’uno dall’altro, con intervalli anche di spazio, si rincorrono, come inseguendo un’immagine, come volendo afferrare un’idea, per poco trattenuta e rivelata e subito poi nascosta e superata da altre. Assonanze, rime e ritmi si succedono vertiginosamente creando l’effetto silvae che ben ha segnalato Marcello Carlino nell’ottima sua prefazione all’opera, con riferimento sì alle Silvae di Stazio, ma essenzialmente all’intrico inestricabile e sapiente di pensieri, sensazioni, azioni, storia pubblica e privata, geografia di luoghi e di sentimenti, in un flusso di coscienza vorticoso che si guida da solo tra gli anfratti della poesia.

Dicevamo prima che il titolo nasce da un verso della Dickinson che ritroviamo in una poesia inviata per lettera a Susan Gilbert, sua cognata, moglie del fratello Austin, ma anche sua migliore amica, alla quale spesso inviava liriche chiedendo un parere e un giudizio. La lettera risale al 1859 ed Emily esordisce chiedendo se i versi che le sta inviando siano gelidi: (da The letters lettera n. 238 D)

 

Springs-shake the Sills-                                         Primavere scuotono le soglie

But the Echoes-stiffen                                          ma - gli echi resistono –

Hoos - is the window -                                         Canuta - è la finestra – e

Numb – the door -                                               torpida – la porta

Tribes of Eclipses – in tents                                  Tribù d’eclissi – in tende

Of marble                                                             di marmo

Staples of Ages – have                                          Ganci di secoli – sono

Pucked – there -                                                    fissati là.

 

È ovvio che il significato che la Dickinson dà a Tribù d’eclissi è assai diverso da quello che la Perroni intende esprimere, perché la poetessa americana allude a una certa memoria mitica di quegli antichi che assistevano all’eclisse con spavento, quasi fosse un evento divino, mentre nella nostra poetessa la memoria mitica è rimossa e assente, laddove invece è presente la storia. Si guarda alla Sicilia, e al Meridione in particolare, si allude alle questioni sociali attuali, alle piaghe del nostro tempo, sempre con un’incredibile percezione del dolore e della sofferenza altrui, da parte dell’autrice.

Procedendo spesso per ossimori, tra ombre e luci, chiaroscuri e luminescenze, traspare la realtà contemporanea, con tutte le sue inquietudini e le sue contraddizioni, eppure rifulgono improvvise accensioni stagionali, di primavere e di estati, tra colori e profumi che la poetessa custodisce e serba nel segreto delle sue memorie. Si affacciano talora personaggi, alcuni dei quali non ci sono più, ma hanno esorcizzato la morte e ricompaiono sulla soglia del tempo, in un tentativo di eternità.

In questa ininterrotta confessione di vita vissuta e di poesia pensata, non è facile, né agevole, muoversi per il lettore, che si trova a dover percorrere un terreno accidentato, senza grucce, né aiuti, a meno di non voler immergersi totalmente nel flusso delle parole, lasciandosi trasportare come da folgorazioni di immagini. Infatti è così che si presentano i versi, specie quelli singoli, spaziati dagli altri, come momenti inafferabili, attimi da godere nel suono e nella visività, senza tentare di ricomporli in un tempo unitario. Ci scorrono dinnanzi, nomi, eventi, fatti, temi che a volte appaiono opprimenti nella contemporaneità che li genera; vi sono macerie che la poesia raccoglie e tenta di assemblare, vi sono infiniti rimandi agli orrendi naufragi nel mediterraneo, ma vi sono anche case, di cui è dolce il ricordo, notti di stelle, o giardini fioriti, persone care e volti amati.  Si tratta di un lunghissimo monologo interiore che il prefatore definisce oratio soluta nel corso della quale ciò che spicca è la parola, usata come permanente veicolo del pensiero poetante e sempre in ossequio alla bellezza (termine che, com’è stato osservato da Carlino, ricorre assai frequentemente nel libro, come fosse una garanzia di salvezza e di riscatto nel buio dei tempi.

Accade inoltre qualche volta che i versi si raggruppino in strofe più normali e si compongano in un piccolo poemetto nel poema. Vediamone un esempio:

 

E tanto bella non ci fu altra mamma

non c’era mamma con due occhi verdi

un corpo piccolino sodo e stretto

d’ogni cosa portatrice in tenera abbondanza

di danaro padrona in sicurezza saggia nei giorni…

ma ogni cosa aveva l’ovale generoso del suo viso

che ha lasciato su me come un suo marchio

dio dalle sette balze di corona nel fiume degli inchiostri

 

Ma quale mostro nello specchio viene

per dire che io sola la frantumo?

 

Come il vento nel cuore dell’inverno

solo l’acero ha gridi di smeraldo

dentro al monte che suona

o al vento astrale del territorio fermo

 

Andavi con papà bella e leggera

brillava il tuo bracciale d’oro fino

ingentilito dal muschio delle pietre

 

Poi mi specchiavo ed io ero più bella,

perché nessuno mai mi rivelava

quel mio ovale perfetto

e i quattro sguardi incrociati nell’iride?

La vetrata lo specchio del giardino

era tutta in un magico perfetto

muta come un traliccio in soffio basso

di misura di tegole

 

Mamma così gentile come il cielo

che i gioielli officiavano in sereno

nel margine di un volto

 

“Io mi sentivo niente”.

 

La poesia continua ma fino a questo punto ci è sembrata una elegia alla madre, nel confronto con la quale, la figlia perde, si sente “niente”. Questo è solo uno dei tanti casi in cui dalla fiumana che scorre nel libro si stacca un poemetto a sé, si raduna un agglomerato di immagini che focalizzano un solo argomento, o meglio un solo vivo ricordo.

Non saprei se definire questo romanzo poematico un diario della memoria o più esattamente un libro della vita, perché l’autrice come tale lo scrive, quasi fosse un suo bisogno fisico di cercare “aria”, di raccontarsi e raccontare, per continuare ad esistere, di abbandonarsi alla poesia come all’unica luce che possa salvarla. E non c’è dubbio che Giulia Perroni cerchi la luce, lo ha fatto anche nelle precedenti sillogi, lo dichiara in questo libro quando dice:

 

Io ero intesa all’altezza

e le montagne mi chiamavano sempre

mi mancava la luce ed io soffrivo

e non sapevo mai perché soffrivo.

 

Io credo che un po’ la chiave della sua poesia stia in questa dichiarazione, chi è poeta soffre per mancanza di luce e finchè può cerca la luce.

Questo lavoro, così complesso, così stupefacente per la lingua diluviante e i versi-fiume, ci consegna una poesia della luce, una poesia non velleitaria, che non consola, né conforta, ma che illumina e accende speranze, incoraggia i cuori.

 

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Il gioco della campana

 

Scrivendo questo libro, che ha fortemente sentito e voluto, la Graziosi ha compiuto un viaggio, fuori e dentro di sé, ripercorrendo tutti gli itinerari e i sentieri attraversati, per ritrovarsi e per capir meglio la sua vita. E’ questo del resto che fanno i poeti, ridisegnano l’esistenza e mentre penetrano e ricostruiscono quella propria, spalancano finestre su quella altrui. Il gioco della campana , o della rayuela, come si dice in argentino, è titolo ma anche metafora di questa silloge di poesie ed il lettore ne è avvertito sin dall’incipit, non solo dalle parole della stessa autrice nell’introduzione, ma dalla lirica di apertura che dando il via alla prima sezione dell’opera, Autobiografia, annuncia il viaggio, ne mostra le difficoltà e le sofferenze, con una serie di frammentazioni di immagini che si potrebbero definire folgorazioni della memoria, unico filo conduttore e guida del procedimento poetico. E’ la memoria, infatti che presiede alla scrittura, rintracciando i momenti del passato e ricomponendoli con una proustiana operazione di recupero, per restituirli ad un loro più autentico significato. Il segreto è volver ( verbo spagnolo che intitola la prima poesia), cioè tornare indietro, non per restare, ma per riandare con maggior sicurezza avanti. Il viaggio comincia lungo una mappa che ha evidenti segni da distinguere, come il mare, il dolore, la notte, la nave, canti di sirena e poi sole, vento, natura. Sono parole chiave che troveremo disseminate nelle liriche, quasi a mostrarci come il poeta non possa che immergersi nella natura, per cantare il suo paesaggio interiore. La realtà è sempre presente, una realtà da deformare, come dice in una poesia, o da modellare, che poi significa riedificare, vivificata di senso e avvalorata dall’esperienza. C’è anche una continua esigenza di riaffermare l’amore, come necessario e indispensabile, infatti leggiamo che non risorgerà chi non ha creduto nell’amore( in Valchirie) e ne sentiamo la forte mancanza nel verso inesorabili labbra spensero/ la coscienza dell’amore( in Verso casa) e ancora in messaggi d’amore mai scritti è quasi presente il rimpianto di non averlo dichiarato mai abbastanza questo amore. Lacrime, solitudine, sogni, accompagnano il percorso, ma c’è sempre la speranza di rinascere, di progettare, di arrivare alla terra promessa. Tutto è espresso in modo molto emblematico, mai scopertamente, perché l’autrice custodisce gelosamente i suoi segreti, li conserva serrati nel cuore e parla per immagini, lasciando intravedere solo frammenti delle sue lacerazioni e dei suoi sentimenti. C’è un pudore che sorveglia la lingua e la ancora a metafore, a simbolismi, a figure, mentre la parola inventa nuovi paesaggi da posare su pagine bianche ( in Scrittura). La prima sezione termina con la lirica Al sud che è in qualche modo la conclusione del viaggio iniziale, dall’Argentina, terra natia, al sud d’Italia dove la Graziosi ha trascorso l’adolescenza, tra la Sicilia e Napoli: adagio al sud/la mia anima nuova rende l’aspettativa di un nuovo e migliore domani. In sostanza tutta la prima sezione è un racconto accorato e sofferto della infanzia e di quel periodo che vide l’autrice transitare in territori diversi, dal sud America, al sud di Italia con il carico delle speranze, dei sogni e delle difficoltà che lei e la famiglia affrontarono. Ciò che sorprende è comunque la fiducia nell’avvenire e il profondo senso di attaccamento ai cari e alla terra, che le impedisce di perdere le persone amate e, grazie alla poesia, gliele fa sentire vicine e presenti. La seconda sezione del libro si intitola Malattia e si svolge in un tempo ingrato, caratterizzato appunto da una lunga e grave malattia. Il poeta non dice di che cosa si tratta ma racconta e rivede quell’iter angoscioso attraverso la trasfigurazione che solo la poesia sa operare. Inventa uno stratagemma, ben evidente nella lirica intitolata Mongolfiera, prova ad astrarsi e a rappresentare la sua condizione dal di fuori, come se il cuore fosse fuggito tra terra e cielo, in una mongolfiera per guardare stupito il mondo e fottersi di risate. L’espressione è molto forte, trasgressiva e denigratoria ma proprio per questo vale a sdrammatizzare il male e ad esorcizzarlo. La paura della malattia, però, non svanisce, rimane, specie di fronte a quelle impronunciabili parole con cui la malattia stessa viene denominata. C’è un’altra presenza accanto a lei, sorella nel dolore, nel cui abbraccio ripone il suo capo di allodola, felice e poetica metafora, che indica tutta la tenerezza e la debolezza della creatura, ma ancor più felice è il verso in cui si ammette che in quell’abbraccio l’angoscia non poteva arrivare a trovare le sue vittime. La terza sezione si intitola Amore e reca, in apertura, la lirica Rayuela. Siamo nel vivo del gioco della campana: la bambina ha già saltato con una gamba sola nelle caselle per inseguire il sasso che ha lanciato, è ormai nel bel mezzo della vita, ma deve tornare indietro, alla casella di partenza, per non perdere il giro e ritrovare se stessa e soprattutto per ritrovare l’amore, un amore aspettato, atteso, desiderato. Proseguono le immagini che frastagliano il pensiero in sequenze naturalistiche che catturano lo sguardo: c’è il finire del giorno, c’è l’approdo immaginario all’infinita quiete di un’isola, c’è un abbraccio che scioglie ogni paura (Al calar del sole). E prosegue il flash back lungo i giorni trascorsi di un autunno in cui si scioglie una canzone a due voci, mentre il cammino va avanti insieme per scongiurare la meta, con un passo a due che conforta e dà coraggio. Il ritrovamento del compagno viene ad un tratto arditamente paragonato al momento in cui avverrà il ritrovamento da parte della morte, con dolcezza, come se anche la morte le dovesse mettere una mano sulla spalla, come ha fatto il compagno e dirle “ti ho trovata”. Sono versi che scolpiscono gli stati d’animo, li scandagliano impietosamente rappresentandoli con colori e suoni. L’amore per esempio viene paragonato ad un boato (nella lirica Questo amore) per l’esplosione di gioia e di passione che suscita, le giornate acquistano consistenza, cioè calore, odore e sapore soltanto se condivise con chi si ama; e ancora la bocca amata diviene una rosa e il poeta sente le ore cantare. Si avverte qua e là l’influenza della poesia di Prevert a cui l’autrice rende omaggio, ma soprattutto si sente il bisogno di condivisione, di stare insieme, di incontrarsi. Parole chiave sono calore, assieme, viaggio, corpi, ancora allodola. L’ultima sezione si intitola Intorno a me perché siamo all’oggi, al mondo circostante che c’è intorno al poeta, il gioco della campana si sta concludendo, con una vittoria ed un traguardo, il sasso è ancora inseguito, ma la bambina che lo ha lanciato non è più sola. Intorno ci sono persone amate, alcune delle quali scomparse come l’amica che appare nella prima poesia (Sandra) o il giovane ucciso a Monaco di Baviera, o Lorenzo che cade in un incidente stradale, tuttavia non c’è disperazione, dolore sì, ma lenito dalla certezza che il mattino possa far luce, nella solitudine ( si legga Giunchi). Ed è evidente in quest’ultima parte del libro che l’autrice parteggia per le donne, stima lo spirito femminile e lo crede invincibile: un dono ci rende regine……fatte d’amore/non temiamo la morte/ ci precedono angeli in cielo. Che altro c’è intorno? C’è la babelica Roma, il territorio in cui la Graziosi è approdata definitivamente dopo il suo lungo peregrinare, una città disincantata, colma di contraddizione, affollata, eppure lei ci vive, protesa verso un dio nascosto. Un altro omaggio ad un poeta letto ed amato è quello a Saint – Exupery, segno che la lunga frequentazione della poesia, viene anche da letture care e predilette: rosa, dolcissima rosa/pungesti le dita/ del poeta. Poi, di nuovo, uno sguardo di commiserazione alla precarietà umana, del mondo e della storia; i resti maestosi dell’impero, nello scenario romano, sovrastano la pochezza degli individui, la loro inconsapevolezza, dinnanzi alla quale il poeta è certo che le nostre idee non voleranno oltre questo cielo. Il libro si avvia alla conclusione, il gioco della campana sta per finire definitivamente, la bambina ha saltato tutti i quadrati, rincorrendo il sasso con bravura, pur su di una gamba sola. Si è difesa dalla vita, ha recuperato il tempo perduto, ha salvato l’amore, ha riannodato i fili della sua esistenza, ha incontrato un’altra se stessa, come dice in Rinascere, una se stessa che è rinata con ali di farfalla. Ora lo skyline che ha di fronte è completamente diverso, sembra quello delle case che si specchiano dalla collina nell’acqua, ma in verità è il confine e il limite di noi stessi che il poeta vede, di noi uomini né ignari mitili, e quindi ben consapevoli del destino mortale, né eterni fossili e quindi consci di non poter durare eternamente. Chiudono la raccolta due liriche assai emblematiche, Incantesimo e Compleanno. La prima fa pensare alla magia della parola poetica che copre la deforme realtà ed offre orizzonti di giada. Basterebbe riflettere su queste due espressioni per comprendere il potere salvifico della visione poetica che ogni cosa sa sostanziare di valore e di significato, creando un’immagine che ne idealizza la forma. La seconda ed ultima composizione, pur sembrando alludere ad una banalissima ricorrenza, quale può essere un compleanno, riassume l’intero percorso compiuto, nella vita e in questo libro: una strada disseminata di sassi scalciati da piedi in corsa, una strada su cui l’onda del vento ha sollevato piumini evanescenti di pioppo, una strada che conta gli anni vissuti e che ancora può portare lontano. Ma per raggiungere la meta, per sentire l’eternità, il poeta ha bisogno dell’altro, che l’altro sia vicino ed è ancora una volta una scelta di condivisione che suggella il cammino. In definitiva il libro della Graziosi si connota per una sua grazia interna, per una lingua leggera ma sostenuta sempre da un saldo legame tra significante e significato, per un ritmo quasi elegiaco, che non nasce dalla rima, ma da assonanze e consonanze sonore, facilitate da un armonioso disegno strofico che privilegia l’accoppiamento dei versi, disposti in una sorta di distici anomali a verso libero. Riguardo ai temi si è visto che i principali sono il viaggio, il ritorno, l’amore, il dolore, la morte, temi che Borges riteneva fondamentali in poesia, perché insiti nella natura umana. Si potrebbe aggiungere il tema del gioco, che qui è quello della campana, come canovaccio di fondo, archetipo del gioco della vita e al tempo stesso trama sottesa della creazione poetica.

 

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Du côté de chez Swann

 

[ 14 novembre 1913 - 14 novembre 2013, cento anni dalla prima pubblicazione con l'editore francese Grasset di Du côté de chez Swann ]

 

Iniziando la lettura del primo libro della Recherche dobbiamo essere consapevoli che stiamo entrando in una cattedrale, la prima forse che la letteratura del Novecento ha visto innalzare, splendida e misteriosa, solenne e altissima, in nulla inferiore alle grandi cattedrali dell’architettura medioevale europea. Ne parlò Luc Fraisse nel suo saggio L’Oeuvre cathédrale (Paris 1990) e lo stesso Proust dice nelle ultime pagine del Temps retrouvé, che uno scrittore che volesse scrivere un’opera sull’idea del tempo, dovrebbe prepararla “minutieusement.….le costruire comme une église” Dobbiamo quindi entrarvi da iniziati, spogliandoci di ogni pregiudizio critico, riconoscendo religiosamente che questo capolavoro non ha precedenti e non ha epigoni. Ognuno di noi pronunci dunque la frase di rito “Odi profanum vulgus et arceo” e si incammini in questo tempio della parola, che ha fatto crollare le fondamenta del romanzo tradizionale e ha destabilizzato tutte le regole e i canoni della narrativa. Qui domina sovrano il tempo, unico protagonista di un infinito racconto che ha, come solo strumento, la memoria e come oggetto centrale di studio il cuore dell’uomo. La mappa da seguire per percorrere il tracciato interno di questa cattedrale è piuttosto complicata, un intrico di figure che si sovrappongono in ogni persona che incontriamo, una trama invisibile di situazioni reali e immaginarie che si intrecciano di continuo, sotto lo sguardo indagatore di chi scrive, simile ad un navigatore solitario per un oceano senza confini. Come osservò Carlo Bo nella sua illuminante prefazione al primo volume dell’opera proustiana, nell’edizione dei Meridiani, Marcel “partito per raccontare le esperienze della propria vita, si è trovato a poco a poco a investire altri domini e a trasformare la realtà in una filosofia dell’esistenza”. Non era privo di bagaglio nell’intraprendere quel viaggio in mare aperto, aveva con sé le sue letture, l’inattaccabile tradizione del romanzo naturalista, la conoscenza del mondo dell’arte pittorica, specialmente attraverso la frequentazione di Ruskin, il critico d’arte inglese che per un lungo periodo Proust considerò suo maestro, dopo aver letto il libro di Robert La Sizeranne Ruskin et la religion de la Beauté. Sentiva di poter condividere il concetto espresso da Ruskin della bellezza come entità a se stante, essendo un assetato di valori assoluti e nella prefazione alla Bible d’Amiens, di cui fece nel 1904 una splendida versione, mostrò tutta la sua approvazione di quella teoria. Ma ciò durò solo fino a quando si rese conto che Ruskin, apparentemente oppositore degli esteti, era lui stesso un esteta, anzi un idolatra, pronto a sottomettere l’etica all’estetica. Proust, dotato di una sensibilità raffinatissima, che certo gli proveniva dalla sua diversità, si preparò attraverso una ricca esperienza di letture, al suo grande lavoro. Il metodo della lettura, le “giornate di lettura”, come egli stesso le descrive, furono già la prefigurazione del suo modo di raccontare e del suo stile di narratore. Quella tendenza a distaccarsi da tutto e da tutti, quando leggeva, quella capacità di uscire dal flusso degli avvenimenti circostanti, per vivere in un mondo e in un clima chiusi nella profondità del suo animo, quella trasformazione continua che operava della nozione di realtà, erano già i sintomi di quella che sarebbe stata la sua febbre di scrittore proiettato a far rientrare nelle pagine di un’opera vastissima, la sua ricerca del tempo perduto, per innalzare sulla precarietà e la fallacia della vita, le colonne di una costruzione imperitura, destinata a durare per sempre.

[ Dall'introduzione al romanzo Du côté de chez Swann pubblicato in eBook, scaricalo gratis e continua a leggere da pagina 5... ]

 

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Quanti di poesia

QUANTI DI POESIA
Antologia a cura di Roberto Maggiani


C’è chi cerca spazio per la propria poesia e chi crea spazio per la poesia: Roberto Maggiani, insieme a pochi altri, è tra coloro che creano spazio per i poeti, offrendo loro un “dove” pubblicare i propri testi; lo fa con la rivista on line La Recherche e lo ha fatto con questo “Quaderno di poesia” che ospita le voci di otto poeti, con un impianto fotografico originalissimo, aggiunto da suo fratello Paolo. Nella sua ormai dichiarata e codificata ricerca del nesso tra scienza e poesia, Roberto questa volta si appoggia alla teoria di Planck e alla fisica quantistica, osando quasi parafrasarne il linguaggio e le ipotesi, annoverando cioè la poesia tra i fenomeni che non si possono inquadrare in nessuna categoria determinata, al pari di alcuni fenomeni della fisica, quali l’energia elettromagnetica che si comporta come se fosse emessa ed assorbita per “quanti”. Le voci dei poeti qui raccolte, divengono in tal modo “quanti di poesia” e perciò inafferrabili completamente, assimilandosi sempre più a quelle cifre nascoste di una scrittura straordinaria che Novalis intuì per primo. Maggiani lo spiega nella prefazione, quando manifesta la sua intenzione di dare, con questa antologia, “avvio ad una ricerca poetica fondata su nuovi paradigmi scaturenti da una sorta di principio di indeterminazione tra senso della visione e parola”
E’ vero che la parola non può mai del tutto rendere ed esprimere una visione, perché contiene un’impotenza, che è avvertita dal poeta, benché si sforzi, per dirla con Dante, di adeguare “il posse e il velle”, ma è pur vero che la parola poetica, avendo un alto tasso di concentrazione, è l’unica che possa cogliere e penetrare i recessi più reconditi del reale. Più è determinata e precisa e meno comunica l’intuizione del poeta, più è indeterminata e vaga, più consente, a chi legge, di avvicinarsi a ciò che il poeta intendeva rappresentare. Il “vago” e “indefinito” di cui parlò Leopardi, sono elementi fondamentali nella poesia, che escludendo la determinazione precisa di una visione reale, (si pensi alla “siepe” che il “guardo esclude”) consentono di spingere al massimo l’immaginazione e di avvertire l’infinito. Ed è questa l’indeterminazione di senso a cui fa cenno Maggiani, presente in misura diversa, nel poeta e nel lettore, ma nel primo risolta con la consapevolezza piena di ciò che egli intendeva dire, nel secondo invece, irrisolta, per il fatto stesso che egli è persona diversa dal poeta e come tale, intende, sente e si emoziona, differentemente.
I “Quanti di poesia” sono per Maggiani i “ mediatori” del campo poetico, i “veicolatori” della parola poetica, attraverso i quali, sensazioni, intuizioni e percezioni del poeta divengono reali e comunicano quel “significato altro” del mondo che soltanto il poeta riesce a cogliere e che costituiscono “la cifra nascosta di una scrittura straordinaria”. In questa antologia, si affacciano, l’uno accanto all’altro, i quanti di poesia, rilevati e composti da otto poeti che si sono messi alla prova, accettando una sfida. Essi rispondono a domande di un’intervista estesa a tutti, in cui chiariscono che cosa sia la loro poesia, da quali atomi del reale potrebbe giungere, se fosse un “quanto” di luce e infine a che cosa serva la poesia oggi. Si viene così a disegnare una mappa, che per itinerari diversi, ma tendenti alla medesima meta, l’illuminazione della realtà, spiega ed esplicita la funzione della poesia, come vita altra che si intreccia alla vita reale e ne aiuta a comprendere il senso e il valore.
Avviene dunque che la voce poetica diviene un angelo assetato, caduto nella cisterna, nella poesia di Franca Alaimo, o desiderio di restare, mano nella mano, sulla terra, malgrado il tempo porti via tutto, nella poesia di Anna Belzorovitch, o tentativo di connettere tra loro le cose esistenti e di stabilire una relazione tra il conosciuto e l’ignoto, negli aforismi di Franco Buffoni, oppure dialogo tra l’io e il sé, ma anche assoluzione delle colpe, canto nel sogno, cattura dell’universo, nella voce di Salvatore Contessini. E ancora la poesia si fa interpretazione della vita nei versi di Francesco De Girolamo, lunghi, affastellati con ritmo serrato, di grande efficacia espressiva, si spezza e si frantuma invece nelle strofe brevi e guizzanti di Giacomo Leronni,, animate dalla voglia di decodificare la realtà, di capire la disperazione e il dolore, di dare un nome alle forme; la poesia si fa “stupore cromatico”, in Eugenio Nastasi, senza pretendere di razionalizzare, o spiegare le cose, ma semplicemente dando loro un nome, per raccoglierle, insieme, all’interno del cerchio poetico e ristabilire l’armonia di “un istante di pupille che si illuminano” e nella voce di Loredana Savelli , così sommessa, così pregna di umiltà e di senso dell’insufficienza, la parola poetica tenta un viaggio di luce, si identifica con la luce e compie l’avventura dei quanti, per rendere particelle di emozioni e comunicare un’estatica contemplazione della natura, pur nella precarietà del tempo (ci sfioriamo come foglie al vento) . A questo punto le otto voci si interrompono, essendosi ormai disposte all’interno di questo coro poematico, in cui ogni nota solista si annulla, per accordarsi indissolubilmente con le altre. L’antologia è conclusa, la suggella la fotografia di Paolo Maggiani, che scandisce la declinazione di questi quanti di poesia e li orchestra in un ordine sinfonico, in cui le immagini dell’acqua, della terra, di una roccia marmorea di Carrara, di un angolo di bosco, di un riflesso sull’asfalto, smerigliano la realtà e trasferiscono i quanti dall’uditività della parola poetica alla visività dell’arte fotografica.

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Se ne parla anche qui: http://www.robertomaggiani.it/pubblicazioni_curate.asp

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Tutto da ridere?

IL RISO INTERIORE DEI POETI
(a proposito del “Tutto da ridere?” di Elio Pecora)


Chi pensa che la poesia possa nascere solo da una condizione drammatica dell’animo, o e unicamente dalla sofferenza, si sbaglia alla grande, perché la poesia non è fatta solo di contemplazione del dolore e non sorge solo per cantare la negatività della vita, ma ha come sua primordiale origine lo stupore interno del poeta, nei confronti di tutto ciò che lo circonda, uno stupore che si traduce in canto e può avvalersi di varie corde, come dimostrano i diversi generi poetici (lirico, epico, satirico, ecc.). Ma che cos’è esattamente questo stupore interno, che dà al poeta il primo imput per comporre? E’ una singolare capacità di osservazione, distaccata e al contempo partecipe, una singolare inclinazione a cogliere il guizzo vitale che c’è in tutte le cose e in tutte le situazioni, persino nella morte, una sostanziale illuminazione, o meglio una tendenza ad illuminare il reale e riconoscerlo degno di essere attraversato e vissuto in ogni caso. Tutto ciò lo definirei “il riso interiore” dei poeti. Non sto percorrendo la strada pascoliana del fanciullino, non condivido né l’infantile rimpicciolimento degli oggetti, né la regressione all’infanzia, ma sto cercando di allinearmi con quanto già gli antichi (Aristotele in testa) sostenevano, che il riso illumina l’esistenza, ne scopre i significati più reconditi e l’intima bellezza. Del resto il vocabolo latino ridens significa anche giocondo, piacevole, bello, il verbo rideo poteva essere usato per indicare lo splendore di un prato fiorito (ager florum coloribus ridet) e Dante fa diventare il “riso” di Beatrice, lo splendore del suo sguardo (dentro a li occhi suoi ardeva un riso / tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo / de la mia gloria e del mio paradiso). Questa luminescenza del riso, trasferita in poesia, può produrre degli effetti straordinari, e non quando dà luogo all’umorismo e alla satira, ma quando genera quell’esplorazione di alcuni aspetti della vita, che di per sé potrebbero darci una sensazione di squallore e di sconforto e che invece, ripresi con la lente del riso, rivelano una verità insospettata, ma accettabile e persino leggera da assumere. E’,infatti, la leggerezza che il riso riesce a creare, quella leggerezza di cui la poesia è maestra, se è vera poesia, e di cui il lettore saprà avvantaggiarsi accostandosi ad essa. Sappiamo bene come, nel primo Novecento, il riso sia stato addirittura isolato come elemento centrale della poesia, basti pensare alla “poetica del divertimento” di Aldo Palazzeschi (Il poeta si diverte / pazzamente, / smisuratamente. / Non lo state a insolentire, / lasciatelo divertire), ma pur nell’esasperazione che tale centralità poteva comportare, il riso continuò ad esercitare la sua funzione illuminatrice, consentendo al poeta di testimoniare la crisi dei valori morali, storici e sociali, attraverso l’assunzione di una materia poetica, apparentemente priva di serietà e drammaticità. E che dire, infine, del riso interno alle leopardiane Operette Morali, rispetto alle quali non c’è niente di più riuscito, quanto a disvelamento dei mali dell’esistenza attraverso una scrittura leggera, ironica, piacevole e, spesso, addirittura divertente.
Oggi ritorna la dignità del riso nell’opera di un nostro poeta contemporaneo che non finisce di sorprenderci, perché dalla miniera del suo vastissimo serbatoio di umanità e poesia , ogni tanto estrae qualche diamante rimasto nascosto, lo pulisce della polvere del tempo e lo restituisce alla luce. E’ ciò che è accaduto per questo libro nuovo (mi sovviene il catulliano cui dono novum lepidum libellum?), dall’emblematico titolo “Tutto da ridere”, ma che da ridere non è, almeno dal punto di vista della serietà dei temi trattati e dei contenuti, espressi con leggerezza e levità, senza togliere nulla all’importanza del messaggio, all’autenticità delle parole e alla veridicità delle situazioni rappresentate. Per un poeta come Elio Pecora, che ha scelto di compiere “l’avventura di restare” dentro la vita e dentro la società, per continuare a denunciarne i guasti e i mali, ma anche a cantare la bellezza dei valori, la solidarietà tra gli uomini, la genuinità dei sentimenti, facendo circolare tra la gente la sua poesia, esprimendo sempre il suo pensiero, mantenendosi coerente nella sua integrale rettitudine di intellettuale e di poeta, il riso diviene lo strumento, non alternativo, del suo canto poetico, ma essenziale per sgretolare le falsità, demistificare le finzioni e restituire un’accettabilità all’esistente.
“Leggerezze” o “lepidità” le chiama nella prefazione queste sue poesie vagabonde, scritte in tempi diversi, forse dimenticate e poi riprese, ora “raccolte”, come egli dice e affidate ad un’editrice amica (perché nel mondo di Pecora tutto nasce da una relazione profondamente amicale con la gente che incontra), insomma una scrittura “ritrovata” per la quale ha deciso una rinascita, o forse la prima reale nascita.
Quando un’opera vede la luce, non è soltanto importante la fase della composizione, che non necessariamente avviene in modo consecutivo, ma ancor più fondamentale è la fase dell’edizione, che comporta la raccolta delle composizioni, la loro sistemazione riguardo all’ordine (che non è mai meramente cronologico), l’unificazione, che non è un semplice assembramento delle parti. La vera opera nasce dopo che queste operazioni sono state eseguite, pensiamo al lavoro del Petrarca per unificare le Rime sparse nel Canzoniere; pensiamo al lavoro del Leopardi, che dopo la prima edizione dei Versi, coll’editore Stella, riunisce le sue liriche negli Idilli e infine nei Canti (un lungo lavoro di composizione e ordine degli scritti, che segna l’intero percorso della poetica leopardiana). Per un poeta che guarda ogni istante attraverso la poesia, e che scandisce il proprio tempo e i propri rapporti con gli altri, inglobandoli sempre nel suo cerchio poetico, il riso è indispensabile per accettare ciò che lo circonda, anche quando è doloroso. L’idea espressa in limine al libro che il lettore possa partecipare al suo divertimento, fa da iniziazione del viaggio, per un cammino non impervio, che le poesie tracciano, lungo il quale, chi legge sia disposto a dimenticare per un po’ le opprimenti necessità quotidiane e a perdersi in un puro divertimento che vale per quello che la parola significa, un “volgersi altrove”, per guardare oltre e scoprire meglio se stessi.
“Il riso giova a traversare l’oggi” suggerisce sin dall’inizio il poeta ed è questo il segreto, continuare ad attraversare l’oggi, anche se pesa ed è difficile; ci aiuta la poesia, ci aiuta il riso, perché si può ridere di tutto, non deridere l’impegno del vivere, ma accettarlo, capirlo meglio, rinunciando alle pretese e cercando altre misure.
“Per altre misure” recitava un verso di Pecora in un altro libro, infatti, egli ha sempre cercato altre misure, per resistere ai faticosi affanni esistenziali, senza smarrire se stesso; non l’amor proprio che si confonde con l’egocentrismo, non l’autoreferenzialità, non la polemica distruttiva e il giudizio incondizionato sul prossimo.
E dunque, con passo cadenzato e leggero proviamo a ridere leggendo In margine, Il dono, Varie e svariate, in cui la vita è vista da opposti diversi, la passione è analizzata in tutti i suoi paradossali aspetti, e i protagonisti sono quelli che ben conosciamo e che affollano ogni giorno le nostre strade: l’uomo illustre e potente, il pensatore impegnato, il solito Narciso scontento, l’uomo che aspetta, il poeta che scrive brutte poesie. Il viaggio prosegue per circostanze, situazioni, confronti (Il padre e il figlio, Lui e lei, Il parlatore e l’uditore) fino all’ultimo incredibile poemetto La società dei poeti, dove l’ironia esilarante si accompagna al serrato ritmo dei versi e delle rime.
Parliamo di quest’ultime: Pecora sa scrivere in rima, conosce i metri, non li ha ripudiati come quei poetucoli ignoranti che pensano che per essere un Leopardi, basta scrivere in versi liberi. La rima nelle sue mani si trasforma in un pentagramma, su cui le note rimbalzano al punto giusto, accentuando i toni, creando effetti timbrici, concertando armonie musicali che rimangono nell’orecchio e divengono inconfondibili elementi di questa poesia. Dopo questa lettura , ci sentiamo meglio, non siamo più arrabbiati col mondo, anzi siamo disposti a perdonare. Pecora perdona continuamente, accetta, dimentica il male, accoglie chiunque generosamente e ride dei difetti degli amici, guardandoli con affetto e tenerezza, facendoli diventare quasi dei pregi, che li rendono più simpatici. Che inesauribile versatilità! Che straordinaria duttilità di pensiero! Che ariostesca visione del mondo! Non possiamo che stupirci dinnanzi a questo caleidoscopio di personaggi che specialmente nella società dei poeti sfilano ciascuno con una sua maschera , non pirandelliana, ma affettuosamente umana, che ce li rende cari.

E’ un’impresa un po’ balorda
questo treno sillabato
per la Musa così ingorda
il percorso è interminato.
Ma chiudiamo con i fuochi
d’artificio alla Totò:
sette colpi di grancassa
ed un fischio, perché no!

E’ divertimento puro, condito con scoppi di grancassa, alla maniera musicale e ritmica di Pecora, che la musica e il canto ce li ha nel cuore.
Conta poi molto il messaggio finale:

Al dunque l’esclusione
mutata in inclusione
non può che farci ridere
ancor più che sorridere:
è una strada sicura
fuori della paura.

La poesia è questo, include ciò che in genere il consorzio umano esclude, riprende e recupera le macerie della vita sparse dietro e dentro di noi, le ricompone in un ordine che ha un significato, riorganizza strade, dove c’erano boscaglie impraticabili, vale a dire nel nostro pensiero e nella nostra volontà, annulla la paura, perché consegna a ciascuno di noi, che legge, o che scrive, una lucerna che ci guida, un riso che fa luce, dove gli incubi notturni avevano azzerato le risorse del coraggio.

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Scienza aleatoria

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“Una mente scientifica – diceva Einstein – è una mente che pensa e quindi dubita e ricerca”, ma se si unisce ad un animo poetico, che sa cogliere il respiro delle cose e l’incorporea presenza del reale, per inseguirla e catturarla, chiudendola nel cerchio della poesia, si compie il prodigio di un binomio perfetto di intelligenza e fantasia, di cifre e di parole, di forme e di suoni.
E’ questo che accade nel libro di Roberto Maggiani “Scienza aleatoria”, dove di aleatorio non c’è nulla, se non il rischio che capiti nelle mani di chi non crede nella casualità e non ammette dubbi.
L’autore, che è poeta, ma è anche un fisico, ha una precisa volontà di leggere e interpretare il reale attraverso la duplice lente, della poesia e della scienza, compiendo un’ardita operazione di razionalità e immaginazione, al tempo stesso, che comporta un continuo sforzo emotivo e linguistico.
Dichiarando Riparto dalle forme / in esse si manifesta / la cifra nascosta / la grammatica di una scrittura straordinaria / annuncia il viaggio che si prepara ad intraprendere, dall’esterno all’interno, dal concreto all’astratto, per capire le voci nascoste che solo l’intuizione può percepire. Si pone quindi in ascolto della natura, proteso verso il mistero che l’avvolge, servendosi delle cifre e delle formule con cui la scienza decodifica l’invisibile e lo traduce nel visibile e trasforma, così, la realtà metafisica in realtà metapoetica. Tutto questo è possibile grazie all’elaborazione di una lingua poetica particolarissima, giocata tutta sulla base di aree semantiche ben individuabili, che ruotano intorno ad elementi sostanziali e primari nella poesia di Maggiani. Stelle, per esempio, è parola chiave che apre un campo ampio e frequente in cui s’ infittiscono atomi, galassie, notti, nebulose.
Da Universo, si generano cosmi, mondi, vita e al termine realtà, si connettono gli aggettivi possibile, reale, immaginabile. L’armonia, invece, suscita luce, visione, equilibrio, mentre il campo semantico che accerchia l’uomo è connotato da vocaboli come peccato, costume, dolore, ferita, morte; infine le cose, si associano subito alle forme, allo spazio, al rumore e non manca un’area riservata ai colori, rosso, giallo, azzurro (il più frequente), bianco, contrapposto alle tenebre e all’oscurità. In tale vasta materia, magmatica e dinamica, si aggirano, costantemente insieme, il poeta e lo scienziato, l’uno in estatica contemplazione di una realtà ideale e irreale, l’altro alla ricerca spasmodica di una soluzione degli enigmi dell’esistenza, animato da un vibrante desiderio di svelare quel principio primo che gli appare ora, organizzatore, ora, creatore, ora semplicemente come Dio.
Il viaggio si svolge sotto il segno di alcune costellazioni che splendono, quasi archetipi di un’iniziazione misterica, nel cielo del nostro poeta: la mistica e totale immersione nel poema della natura, da parte di Sophia de Mello Andresen; la necessità espressa dal Novalis che la forma compiuta delle scienze sia poetica; la biblica opposizione di Isaia al convenzionale modo di intendere la sapienza e l’intelligenza; l’affermazione poetica di Amendolara della presenza del divino nell’umano. Si tratta di abbrivi che ogni volta rilanciano il viaggio, infondendo nel poeta e nello scienziato un nuovo spleen che li conduca al largo, in mare aperto.
La meta, ineguagliabile e sublime, è l’infinito, che però né il poeta vuole raggiungere con la sola fantasia, né lo scienziato vuole misurare solo con le sue formule, perché il marinaio, nel quale l’uno e l’altro si compenetrano, vuole soprattutto vedere, appagare il suo sguardo assetato di luna, di azzurri, di orizzonti.
Si legga la prima lirica che avvia il libro ( e il viaggio), in cui lo sguardo cade/nella distanza/dall’albero maestro alla Luna-/come una freccia/diretta nel bersaglio,/nell’occhio. Si coglie già la fermezza della volontà di colpire il bersaglio e raggiungere l’obbiettivo. Le tappe successive sono sequenze liriche precise, di brevi frammenti di vita e di poesia, nei quali sempre l’azione del “vedere” è in primo piano, pur, quando il poeta si mantiene tra la veglia e il mondo reale ( bellissimo il verso Torno dai luoghi della notte/ dove la mente riposa/), vigile nell’osservare le cose, spingendosi però con l’immaginazione oltre il muro ( che ci ricorda la siepe leopardiana), dietro le stelle e le galassie, per interrogarsi sulla vita, su come potrebbe cambiare, se il nostro calcolo probabilistico fosse solo uno scherzo. E ancora lo scienziato insegue e incalza il poeta, indagando sulla cosmogonia, riflettendo sulla contraddizione tra la materia dell’universo e la spiritualità degli umani che lo abitano e che lo incidono come un’eterna ferita. Intorno è uno sfolgorio di colori, di visioni, di immagini che emozionano il poeta ( sale nella gola un canto), ne trascinano lo sguardo sui prati, sugli alberi, fino alla sfera lunare, lo fanno sentire libero e insieme prigioniero nell’incorporea presenza del reale, lo fanno rabbrividire nell’avvertire l’invisibile. Dinnanzi all’invisibile il poeta arretra, cedendo il posto allo scienziato, che si riaggancia alle forme e alle cifre ( riparto dalle forme).
Ma è la poesia che insegue le forme/ traccia cerchi/ intorno alle cose, perciò è di nuovo il poeta a riappropriarsi del reale, anzi a catturare l’irreale per renderlo reale. La prima fase del viaggio si chiude con un bilancio di parità tra realtà e immaginazione, con una conquistata filosofia cosmogonica, direi, al centro della quale sta la dichiarazione che il mondo è retto dalla possibilità del reale, ma soprattutto che la parola poetica ha la forza/ necessaria a sorreggere questo mondo.
Dunque il pensiero di Maggiani è chiaro: è solo la poesia che fa leggere l’universo.
Novalis a questo punto può guidare l’autore e prenderlo per mano, nella seconda fase del viaggio: le scienze devono essere poetizzate ………laddove la scienza divide il poeta unisce. Da qui si dipana un attento e scrupoloso esame dei compiti e delle funzioni del poeta e dello scienziato e, conseguentemente, della poesia e della scienza, che lungi dallo sfociare in una tediosa e prosaica analisi, dà luogo ad una sorta di fuga musicale verso la luce, l’armonia, il sole del mattino, in un abbandono lirico che ha per protagonista ancora una volta lo sguardo. Il poeta ripete: io vedo,solo vedo/ amo guardare/ il sole del mattino/ sulle cime azzurre dei cipressi/quando l’azzurro/ s’azzurra ancor di più/ e dietro quel nitore/ vedo e immagino/ tutto l’universo/ e altre vite/ e penso: che piccolezza/ che inutile fermento-… Alta poesia! Sovviene il passo della Ginestra in cui Leopardi, con un analogo sentimento di estatico stupore e sconcerto per il confronto impari, mirando in purissimo azzurro…. quegli ancor più senz’alcun fine remoti/ nodi quasi di stelle/ esclamava: al pensier mio/ che sembri allora, o prole/ dell’uomo?
Il viaggio s’ interrompe, il rapporto tra la poesia e la scienza è stato messo a fuoco, il poeta non si sente poeta, ma scienziato, nel travaglio della sua ricerca sa però che la poesia soltanto è attenta alle variazioni del reale.
Quando il viaggio riprende, il poeta crea stelle, dilata un’area semantica a lui cara e gioca con anafore e allitterazioni appartenenti ad un medesimo e unico repertorio. Si produce da ciò una spirale concettuale: l’idea delle stelle introduce quella degli atomi, da questi deriva l’idea dell’aggregazione e quindi quella dell’organizzatore. Strano modo, questo, di denominare la divina mente organizzatrice del cosmo, ma anche geniale modo per sottrarla da qualsiasi confessionalità religiosa e restituirle il carattere di pensiero assoluto e immortale. Dall’idea dell’organizzatore, si passa all’idea della luce, che è colore, se vista dal poeta, è invece insieme di elettroni che saltano e tornano o fotoni non accettati – espulsi – se considerata dallo scienziato. A quest’ultimo ora la parola non basta più, non può definire verbalmente i campi elettromagnetici, che esistono nella realtà che lo circonda, ha bisogno perciò di ricorrere alle formule e alle equazioni di Maxwell. Nulla di più ardito si è visto in un poema: parole e cifre si rincorrono, con effetti talora devastanti per un critico letterario che voglia capire tutto, ma senz’altro sorprendenti per il sincronico alternarsi di due codici linguistici diversi, quello poetico e quello matematico. E’ la luce a ristabilire l’equilibrio, con una composizione di colori che restituisce alla poesia il suo status symbol di immagini e di suoni in Radiazioni luminose.
La quarta e ultima fase del viaggio mi sembra dedicata alla bellezza, naturale conseguenza di quella spirale concettuale a cui prima si accennava. Da una mente organizzatrice – creatrice dell’universo, non poteva che derivare la bellezza, perché quella mente, è essa stessa la Bellezza.
L’azione del “vedere” è di nuovo centrale, ( fatemi vedere ancora oltre), insegue la luce, viandante invisibile negli spazi oscuri e al poeta si rivela la bellezza del mondo, dall’informe tutto prende forma. L’organizzatore diviene ora creatore della bellezza del mondo che ha la sua matematica ed è precisa. Questa è la grande scoperta del poeta al termine del viaggio, la bellezza del mondo non sarebbe tale se non avesse le sue regole matematiche, poste dal creatore: così poesia e scienza possono incontrarsi, il poeta contempla e canta, lo scienziato sistema e ricompone, ma entrambi possono trovare Dio, chiamarlo oltre che organizzatore e creatore, anche evoluzionista, perché ha pensato e progettato l’evoluzione del cosmo. All’approdo, li attende la certezza che Dio sa che senza la nostra vita/ l’universo è sprecato-/ dal nulla ci ha destati/ e nel nulla non piomberemo/poiché un filo d’erba/ un pensiero, un’invenzione/ non avverrà senza il nostro consenso.
Il libro si chiude con un inno alla bellezza del mondo, alla vita, alla resurrezione, nella splendida lettura che dell’affresco di Piero della Francesca fa il poeta Maggiani, ma essenzialmente con un’esaltazione della poesia, mantello regale/ razionale/irrazionale visione del cosmo. Anche se tutto cambia, se le cose passano e finiscono, se ci attende una fine biologica, è dato all’uomo e in particolare al poeta, di desiderare di risorgere e se non ha chiesto la nascita, chiederà la vita, incorrotta e incorruttibile, dove gli alberi con le foglie traslucide/ alla luce tersa del giorno/ mai seccano.
Il poeta e lo scienziato hanno trovato l’infinito, superando per sempre l’orrore antico del pensiero della morte e il lettore, che si allontana da questo libro, reca in sé un senso di pace e di rasserenamento.

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Il modo migliore di rovinarsi la vita

Il romanzo di un ingegnere giramondo


Le piccole case editrici, si sa, sono molto coraggiose e aiutano i giovani scrittori che vogliono pubblicare un libro, riuscendo spesso a lanciare lavori originali e pregevoli, che meritano di essere presi in considerazione. E’ appunto quello che ha dimostrato la casa editrice Albatros il Filo, pubblicando un curioso romanzo dal titolo “ Il modo migliore di rovinarsi la vita: essere ingegnere giramondo”. L’autore è un giovane ingegnere meccanico, Flaviano Di Franza, di Venaria reale (Torino) che a soli trentatre anni ha viaggiato per lavoro in tutto il mondo, accumulando un’esperienza umana straordinaria, che ha voluto raccontare, anche per meglio prenderne consapevolezza egli stesso. L’aspetto più singolare di questa pubblicazione inoltre, è che i diritti d’autore vanno a favore dell’ADMO, l’associazione dei donatori di midollo osseo, di cui l’autore fa parte (e questo fa onore alla causa).
Siamo di fronte ad un singolare romanzo, che di romanzesco non ha nulla, perché il contenuto è tutto vero, e che si snoda come un diario, tenuto giorno per giorno, il cui andamento narrativo è da romanzo, proprio per la volontà dello scrittore di inseguire la sua stessa vicenda per raccontarla agli altri e farli partecipi.
La vicenda è quella di un giovane appena laureato in ingegneria meccanica, al Politecnico di Torino, che comincia ad affrontare la vita lavorativa, con una smania incredibile di mettersi in gioco nelle esperienze più dure, per scoprire se stesso. L’occasione gli viene da alcune offerte di lavoro che molti avrebbero rifiutato, ma che egli accetta proprio perché riguardano luoghi rischiosi e pericolosi, in cui andare, come l’Africa, la Sierra Leone, in particolare, il Venezuela e l’Indonesia. Non è però lo spirito d’avventura che lo guida, ma il desiderio di contatti umani, con realtà poco conosciute, delle quali, l’immaginario collettivo, ha solo la conoscenza deformata che viene trasmessa dai mass media. Così, avviene il suo impatto con l’Africa, e con i problemi autentici di questo paese, rispetto al quale gli occidentali rimarranno sempre all’oscuro, nella loro presunzione di voler aiutare un popolo sfruttandolo. Intanto, ogni giorno il giovane si misura con gli altri, affrontando problemi d’ogni genere, compreso quello delle malattie (si ammala di malaria, tra l’altro) diviso tra l’affetto dei suoi cari lontani e il nuovo affetto per la gente dei luoghi dove lavora, per i bambini in particolare, per la loro ineffabile povertà. Analoghi sentimenti lo accompagnano anche nelle altre terre, come il Venezuela, ove la mercificazione del sesso e tante altre cose, è pane quotidiano. L’aspetto singolare di questa narrazione è che tutto viene descritto e narrato con grande ironia, quasi con una punta di umorismo, senza mai una sfumatura patetica, perché l’autore per primo non si prende sul serio e va avanti nella scrittura del libro con la forza di chi, vivendo in mezzo a difficoltà di ogni sorta, momento per momento deve riappropriarsi della sua esistenza, per non perdere di vista i suoi valori, i suoi obiettivi e la sua identità. Ne nascono pagine assai piacevoli, in cui vengono esaminati punti nodali di crescita della personalità, dalle amicizie, all’amore e al rapporto con le donne, viste come un universo da esplorare e capire. Ma quando si toccano argomenti come il mondo del lavoro, competitivo e aggressivo, la logica crudele e spietata del potere nei paesi sottosviluppati, con tutte le conseguenze tragiche di guerra e di morte che ne derivano, il tono della pagina diventa serio, sostenuto da un tragico pathos narrativo, che rende il senso del coinvolgimento da parte dell’autore. Lungo questo percorso, che possiamo definire di formazione, perché in effetti l’uomo che vive e racconta prende atto del suo graduale cambiamento e della sua progressiva maturazione, si avvertono alcuni referenti fondamentali quali Gino Strada, il cantautore Ligabue e Paolo Cohelo, accompagnatori ideali del cammino di Di Franza, con suggerimenti e stimoli, di notevole forza.
Il romanzo, un vero work in progress, non si conclude, o meglio non si conclude nel modo convenzionale, magari con un happy end che ognuno aspetta, ma con un “nostos” simbolico a quella che è l’Itaca dell’autore, Venaria, come luogo continuamente desiderato per ritornarvi, ma soprattutto come luogo che per primo gli ha dato gli stimoli e l’imput per partire. Ogni uomo ha la sua Itaca, basta saperla riconoscere e desiderare ritornarvi.

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Milano non esiste

Titolo intrigante, curioso, anche trasgressivo, questo che annuncia il romanzo di Dante Maffia, ma si sa che l’autore è un poeta e i suoi titoli sono sempre stati originali e sorprendenti. E’ una negazione dunque, che dà l’incipit al libro e lo caratterizza in qualche modo, conferendogli l’imprinting per un’attestazione di inesistenza di una città come Milano che invece non potrebbe avere un’esistenza più prepotente di quella che ha realmente. Dalla prima pagina si snoda, o meglio si sciorina, un lungo ininterrotto monologo, affannoso, ossessivo quasi, del protagonista che riattraversa tutta la sua vita, di operaio calabrese, trapiantato nel capoluogo lombardo, con un’unica prospettiva e un unico scopo, quello di ritornare al mare della sua Calabria e cancellare per sempre il ricordo degli anni trascorsi lontano dal suo vero mondo.
Lo scrittore si è immedesimato interamente in questo suo personaggio un po’ rozzo, ostinato, lavoratore e attaccato saldamente agli affetti e alle memorie, compiendo un’operazione linguistica assai interessante, perché ha abbassato volutamente il registro linguistico e il livello della scrittura, per avvicinarsi ancor più all’uomo del sud amareggiato e stanco, tradito dai suoi stessi familiari, nel sogno impossibile di ritornare al suo paese. Man mano che il protagonista ripercorre mentalmente l’itinerario della sua esistenza, si dipana la storia esemplare di un emigrante, capitato al nord per trovare lavoro, che pur avendo messo su famiglia, sposando tra l’altro non una sua conterranea, ma una milanese, non si è mai integrato né nell’ambiente della sua fabbrica, né in quello cittadino, chiudendosi a qualsiasi tentativo di comprendere la città e gli abitanti, sentendosi e credendosi sempre rifiutato da quella realtà che assolutamente egli considera ostile e desiderando soltanto di ritornare un giorno al paese di provenienza. Lavora molto e si affatica per accumulare il denaro necessario per costruire una bella casa in Calabria presso il mare, dove sogna di potersi trasferire con l’intera famiglia. Ma la moglie e i figli, non condividendo il suo progetto, con un gioco perverso e sottile di finzioni, lo illudono fino all’ultimo, senza mai accettare il paventato trasferimento. Così il calabrese parte da solo e raggiunge la terra amata, il suo paradiso, dove ritrova le origini, gli odori e i sapori dell’infanzia, che vorrebbe condividere con i suoi cari; perciò li aspetta, ogni giorno, convinto che essi arriveranno prima o poi, ma invano , perché essi non verranno mai in quel paese. La lunga e angosciante attesa della famiglia si traduce così in una snervante e reale attesa del treno Milano – Crotone, che ogni giorno arriva in ritardo e gli reca una nuova delusione, poiché da esso egli non vede scendere coloro che sta aspettando. E’ amaro questo bilancio della vita di un emigrante, specie oggi in cui erroneamente si pensa che i soli emigranti siano gli extracomunitari, mentre i nostri uomini del sud non hanno ancora superato l’impatto con la realtà dell’Italia settentrionale e di Milano in particolare. Milano è la grande metafora di una società estranea e ostile all’integrazione, non perché lo sia veramente, ma perché è l’uomo del sud che così la percepisce, l’uomo del sud perfettamente incarnato nel protagonista di questo romanzo. Il suo continuo farneticare intorno al mancato arrivo della famiglia e le sue ipotesi aggrovigliate e infondate circa i motivi di quell’ opposizione, sono scanditi con un ritmo implacabile da un linguaggio spezzettato e franto, isterico quasi, che se da una parte conferma l’ostinata volontà del calabrese di compiere una svolta nella vita decisamente opposta alla scelta forzata fatta nella giovinezza per necessità, di trasferirsi a Milano, d’altra parte, stigmatizza il suo rifiuto definitivo di tutto ciò che Milano ha rappresentato per lui e che gli ha dato, compresa la moglie milanese e i figli. Cancellare una parte della vita, densa di sofferenze, amarezze e umiliazioni subite, diviene dunque per l’uomo un obiettivo prioritario che si risolve non soltanto con l’abbandono della città detestata e col ritorno al mare della Calabria, ma soprattutto con la negazione dell’esistenza stessa di Milano. Quel treno Milano – Crotone, che per anni ha desiderato prendere e che, tornato al paese, aspetta con ansia che gli riporti la sua famiglia, è come un’ideale e utopistica via di fuga sempre esistita nella sua mente verso il luogo delle origini, verso un Eden incontaminato in cui ogni cosa gli è familiare e gli appartiene. Alla fine del romanzo, il cerchio si ricompone, ognuno è restituito al proprio mondo e rimane una separazione incolmabile tra il sud e il nord, che nemmeno gli affetti hanno potuto eliminare. Dante Maffia ha saputo penetrare in profondità nell’animo del suo personaggio, ne ha condiviso le pene, se non le ragioni, ne ha compreso le frustrazioni, immaginando una coraggiosa resistenza ad esse, ma si è arreso allo sforzo di sperare che un emigrante meridionale potesse alla fine integrarsi nell’ambiente milanese, fino al punto di preferire Milano al paese natio. Questo è impossibile per Maffia, calabrese egli stesso, che pure opera da tanto tempo lontano dalla sua regione. Egli è un uomo colto, che ha scelto di onorare il proprio paese, esaltandolo attraverso la poesia e la scrittura, mentre il protagonista del romanzo è un operaio sprovvisto di istruzione. Lo scontro tra Milano e l’uomo del sud è uno scontro fra tradizioni differenti e tra culture diverse, così come il conflitto tra il protagonista e i figli non è soltanto un conflitto generazionale, ma un problema di incomunicabilità dovuto a mentalità distanti tra loro, che non potranno mai uniformarsi.
Il romanzo pone sul tappeto problematiche attuali e antiche, al centro di un perenne dibattito, allargatosi oggi dagli emigranti meridionali, agli extracomunitari, che invano cercano condivisione, non essendo spesso essi stessi disposti ad accettare gli altri. Le ipotesi che Maffia lascia aperte sono molteplici, dal recupero individuale e solitario delle proprie radici, al sogno continuo e deluso di un ritrovamento degli affetti lasciati, ad una possibile futura comprensione, da parte degli altri, delle ragioni del ritorno, magari quando sarà troppo tardi per incontrarsi. E’ un finale irrisolto in sostanza, quello che chiude il libro, ma proprio per questo avvalora il racconto nella sua drammaticità e gli conferisce una venatura di profonda malinconia che rende le ultime pagine, particolarmente liriche. Il poeta Maffia non si smentisce, riporta anche la narrativa ad una dimensione poetica, trasfigurando i suoi patetici personaggi, in piccoli eroi perdenti che hanno tuttavia la forza di assumersi il coraggio delle proprie azioni, anche a rischio di tradire gli affetti più cari. In effetti al termine della vicenda è il protagonista a tradire i suoi cari per non tradire il suo paese e non piuttosto quelli a tradire lui nel non seguirlo. L’ossessione di riunire la sua famiglia non gli darà tregua, trasformandosi in un incubo che forse lo porta alla pazzia, se non addirittura alla morte.
Romanzo di denuncia, dunque, è questo, romanzo sofferto di accusa nei confronti della spietata divisione che da sempre separa il nord dal sud, ma romanzo anche di appassionata confessione d’amore verso la propria terra, bella e incompresa.

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Teatro

Alla scrittura teatrale non si approda per caso, ma solo dopo un lungo percorso che abbia attraversato altri impervi sentieri letterari, dopo una lunga frequentazione della lettura e non senza un’abitudine a guardarsi dentro e intorno, per raccogliere quelle voci che ci inquietano e ci agitano, ma che attestano che siamo vivi. E’ accaduto questo ad Elio Pecora che è e rimane prima di tutto un poeta, con una consuetudine allo sguardo interiore e all’ascolto , che gli ha permesso, ad un certo punto del suo itinerario , di tradurre in testi teatrali, quel teatro autentico che egli ha sentito sommuovere entro e fuori di sé.
La parola, che nella sua poesia è espressione pregna di significato e di significante, la parola attraverso la quale egli sa chiudere in un cerchio melodico e musicale le cose, si è trasformata in gesto e il gesto si è naturalmente inserito in uno spazio scenico, che è essenzialmente spazio dell’anima. E’ nato così un teatro, fatto di creature che si muovono all’interno di storie personali e familiari, cercandosi e trovandosi, pur nell’angoscia che sembra assalirle e devastarle. Si tratta fondamentalmente di donne, di madri , che tentano di uscire dalla gabbia in cui il loro ruolo le ha imprigionate, non per una ribellione , né per un rifiuto, ma più semplicemente perché vogliono un distacco da ciò che sono state nel passato, per essere ciò che sono nel presente, rimanendo al proprio posto e ripartendo addirittura dal proprio corpo.
Appunto “il corpo” è elemento prioritario nell’universo poetico di Pecora, perché rappresenta, come egli dice in una sua lirica, “quella gabbia di ossa e di arterie” dalla quale vigiliamo nel mondo, senza mai potercene separare, con cui dobbiamo sempre fare i conti per vivere. Questo spiega perché i suoi personaggi teatrali, pur nel momento del dolore, sono fisicamente molto evidenti con i loro vestiti, i loro caratteri somatici, persino con il loro bisogno di cibo: accade che in pieno dramma, una donna insista per preparare un te al gelsomino e lo offra con una fetta di torta, a chi si sta macerando nel desiderio di morte. E a proposito di questo, nel teatro di Pecora, la vita prevale sempre sulla morte, anche quando sembra non esserci speranza: un figlio “nell’altra stanza” è chiuso dal padre perché non vada in cerca della droga ed è prigioniero di un forte desiderio di morte, ma nello spazio intorno a quella stanza, si agitano persone vive, che litigano, conflittuano, si rinfacciano responsabilità; poi d’improvviso tutti appaiono disposti ad una tregua, per addolcirsi con un po’ di te e con una assaggio di crostata, perché il corpo reclama di vivere e di avere quei ritmi naturali che scandiscono l’esistenza quotidiana.
Le grandi metafore poetiche di Pecora, “il recinto”, “il paradiso dove è dato abitare”, “il Narciso”, “Il giardino”, “la partenza”, “il viaggio e il ritorno”, ci sono tutte nei suoi testi teatrali, dilatate in forma di spazio e circoscritte in forma di gesto, ma nello stesso tempo, ci sono i segni di una presenza, in mezzo e tra le cose, cose apparentemente banali, ma che appartengono all’uomo e lo accompagnano nella sua vita di ogni giorno: una tazza di porcellana, dei vestiti, un cappello, dei mobili antichi o soltanto vecchi, come un cassettone, una porta a vetri spalancata su un giardino, e altra suppellettile, che in questo teatro non funziona da scenografia, bensì da elemento sostanziale per rappresentare l’esistere.
Il nodo, l’irrisolto contrasto che si profila sin dall’inizio del dramma, si scioglie nel modo più naturale, tornando alla vita e alle cose. Come nella poesia Pecora non persegue le facili consolazioni, o peggio, le evasioni, così nel teatro, non punta alla distrazione, ma fa compiere ai suoi personaggi “l’avventura di restare”, già annunziata da un suo noto testo poetico. I personaggi in definitiva non tentano di raggiungere la salvezza , nè di realizzare la soluzione dei mali che li affliggono o di guadagnare l’uscita di sicurezza, ma piuttosto sono alla ricerca di una nuova misura, per fare un patto con la vita e seguitare ad andare avanti. Anche nella raccolta poetica “Per altre misure” Pecora conferma questa sua volontà di stipulare un patto con la vita e lo dice con chiari accenti: “non più la salvezza o l’uscita/ solo un altro patto/ una nuova misura, per seguitare.”
All’uomo come alla donna non tocca che recuperare “la voce perduta” e accettare il presente, senza sottrarsene. Questa nuova misura, che nella poesia l’autore propone, nel teatro sembra attuarsi più facilmente, favorita, dai gesti, dall’intreccio delle voci, e in particolare, dal gioco del “fuori scena” e “in scena”, che consente di allargare lo spazio oltre i limiti con l’immaginazione e il pensiero e contemporaneamente di delimitarlo a quello che davvero si vede e si percepisce sul palcoscenico.
La donna, domina tale spazio e vi si muove con un sapiente andirivieni di parole e di gesti concentrando su di sé l’attenzione dello spettatore, divenendo creatura di sofferenza e di riscatto, che si perde, si dispera, annaspa, ma poi si ritrova perché torna alla sua realtà corporea, al suo presente, o come dice il poeta “alla sua faccia”, “ai suoi piedi” .
I personaggi femminili condensano in sé nel teatro di Pecora, il dolore atavico , di tutti i tempi; sono creature educate alla paura, all’abbandono, alla solitudine, in esse c’è Arianna che piange sulla spiaggia deserta, Medea che compie la sua vendetta, punendosi, Al cesti che muore perché viva lo sposo. Eppure queste creature, che nella poesia di Pecora compaiono sempre in guerra con se stesse, nel teatro ci appaiono come pacificate, perché decise ad allontanare il passato e ad accettare una vita momento per momento, che possa loro bastare.
Non si vuole però asserire che i personaggi maschili non abbiano una loro rilevanza nel teatro di Pecora, vi sono e sono importanti, ma hanno un ruolo diverso perché, come dice l’autore nella prefazione, spesso sono “guerrieri distratti e stanchi, incapaci di cercare altre strade, dopo essersi così lungamente perduti”. A volte si ha la sensazione che tra loro e le donne si sia innalzato un muro, che mostra tutta la loro incapacità di comprendere, o meglio l’unilateralità della loro comprensione. Ma proprio questo li rende più vulnerabili e indifesi, irrisolti e chiusi nella loro impossibilità di liberarsi del passato e di vivere nel presente.
Ma torniamo ai testi e alla parola poetica. Nel teatro certo non si compie la magia della parola poetica che in poesia riesce a raggiungere una purezza di suoni e una perfetta identità tra suono e immagine. Nel teatro il gesto si deve sostituire alla parola, ed è in ciò la straordinaria capacità dell’autore di ricreare i gesti e le azioni, attraverso un meccanismo verbale di battute concise, rapide, sature di umori , che anche a sola lettura del testo, disegnano spazi e configurano situazioni, atteggiamenti, caratteri.
Abituato ad animare serate di reading tra poeti e artisti del mondo letterario romano, Pecora ha saputo utilizzare la sua esperienza di arte combinatoria per armonizzare la teatralità della poesia, con la teatralità della vita, realizzando dei testi teatrali, che nella loro brevità riassumono in pieno la sua filosofia , basata sull’accettazione fiera del dolore e sulla pietas
da spandere sulle tragedie umane, una pietas fatta di reale compassione, cioè compartecipazione, sostegno, resistenza paziente alla quotidianità dilaniante, mai fuga o rifiuto.
C’è molto della classicità del mondo greco, nel teatro di Pecora e non solo nelle opere più direttamente ispirate ad essa, come l’Alcesti e il Pitagora, ma anche in quelle per così dire moderne, ove donne e figli e mariti dei nostri tempi si muovono all’interno di una storia o di singole storie individuali. Certo mancano gli dei, manca il loro intervento, ma rimane la iubris, rimane, l’incomprensibilità del caso o del fato, rimane la lotta dell’uomo ridotto ad una marionetta inconsapevole che vuole però trovare se stesso e aspira ad un’impossibile armonia. Nel dramma “Nell’altra stanza” Ugo dichiara: “gli eroi greci sono incerti, bugiardi, ma agiscono per superare l’incertezza e la bugia” e ancora: “sanno che si portano dentro come una fame inesausta, l’attrazione del niente. Contro questa attrazione fanno una guerra di pensieri e di gesti. Inventano genealogie, costruiscono templi”.
Tutti i personaggi del teatro di Pecora, fanno una guerra di pensieri e di gesti , per non arrendersi alla sofferenza e alla morte, e alla fine trovano pace, sebbene una pace momentanea, quasi un breve ristoro dopo la lotta, nel rimanere al proprio posto, prendendosi cura di sé, dando attenzione alle cose che li circondano, nelle quali sembra serrarsi il segreto della sopportazione del male.
Il teatro di Pecora ha dunque un’indiscutibile eticità che è identica a quella della sua poesia: poesia alta e colta, di un intellettuale che non è mai sceso a compromessi, teatro originale e nuovo di un uomo che da sempre vuole rilanciare la dignità umana e ridare valore all’esistenza, agganciandola al bene, all’amore, alla solidarietà.