chiudi | stampa

Enzo Rega
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Quella ricchezza detta povertà

 

I sentieri di Paolo Bertolani

 

   Paolo Lagazzi pratica la critica letteraria non come un’asettica notomizzazione del testo letterario, ma, accanto all’acribia esegetica, comunque acutamente esercitata, si pone in dialogo con l’autore di cui parla e pone gli autori a loro volta in dialogo tra loro, come protagonisti di una attività letteraria intesa come continua con-versazione. È ciò che risulta evidente in questo libro dedicato a Paolo Bertolani (1931-2007), autore di raccolte di poesie in italiano e in dialetto e di testi di narrativa.

    Il libro di Lagazzi, Quella ricchezza detta povertà. I sentieri di Paolo Bertolani (pref. di Davide Rondoni, CartaCanta Editore, Forlì 2020), programmaticamente “frammentario”, raccoglie nella sezione centrale Di sentiero in sentiero (Appunti, frammenti) quanto Lagazzi è andato scrivendo su Bertolani in un ventennio, dal 1986 al 2007, da Seinà [Serata] a Raità da neve [Rarità della neve](queste, come diverse altre, sono raccolte di versi nel particolare dialetto del levante ligure), e a questo nucleo si aggiungono altri capitoli scritti ex novo (Questo piccolo libro; Chi era Paolo Bertolani; Ritrovare il proprio mondo; Lettere, biglietti, cartoline in versi), pur conservando il volume un carattere non sistematico: più un collage di appunti che un arazzo critico, come dice Lagazzi stesso a proposito della sezione Di sentiero in sentiero; una considerazione che vale dunque per la parte come per il tutto.

   A proposito del carattere per più versi dialogico dell’analisi critica di Lagazzi, possiamo già notare che nel capitolo Chi era Paolo Bertolani la sua figura viene ricostruita a un certo punto a due voci, da Lagazzi stesso e da Francesco Bruno, poeta e critico tra i più fedeli sodali dello scrittore ligure, un dialogo nel quale i ricordi dei due amici-critici si intrecciano integrandosi. Bertolani è nato nel 1931 a Serra, un borgo del comune di Lerici, nello spezzino, da una famiglia di umilissime origini, cosa che non gli consente di fare studi regolari, anche se ottiene un brevetto da radiotelegrafista con il quale avrebbe potuto imbarcarsi come marconista, ma non lo fa: “non era un uomo di mare ma di terra, e questo si riflette con grande chiarezza nella sua opera, che pure evoca il mare non poche volte” (p. 16). Lavora invece, senza elevare mai una contravvenzione, come vigile urbano, tipico mestiere terrestre. Lettore “onnivoro”, ma non “indiscriminato”, mostra poco senso pratico, tanto da riuscire a stare dentro al mondo pur senza essere davvero del mondo: “Potremmo dire - afferma uno degli interlocutori - che si sentiva naturalmente portato verso gli incontri umani ma era, allo stesso tempo, un’anima schiva, un carattere refrattario a tutte le forme di esteriorità, di inautentico” (p. 20).  Ciò non gli impedisce di avere importanti frequentazioni personali: con Bertolucci a Casarola, con Soldati e Sereni, con il poeta inglese Charles Tomlison e con Carmelo Bene.

   Nel capitolo successivo, Ritrovare il proprio mondo, la poesia di Bertolani viene posta in una triangolazione con quella di Attilio Bertolucci e di Vittorio Sereni. Triangolazione che si ripresenta anche in altre parti del libro. Libro che, quasi in chiusura, propone l’analisi di cartoline o lettere in versi, estrapolabili dalle raccolte di Bertolani, o anche inedite, in cui il poeta - rafforzando il carattere della scrittura come comunicazione diretta - si è rivolto a Bertolucci e allo stesso Lagazzi. Il critico dunque non è un neutro spettatore ed esaminatore, ma entra in ballo anche con la propria biografia che si intreccia con quella degli autori che ha letto e amato. È forse una modalità che può sottrarci a quella che tempo fa Mario Lavagetto ha chiamato Eutanasia della critica (Einaudi, 2005).

   Dunque, in Ritrovare il proprio mondo Lagazzi analizza due opere fondamentali di Bertolani, Incertezza dei bersagli, raccolta di poesie in lingua italiana del 1976, e Racconto della contea di Levante del 1979, libro di prose. Stabilita una affinità elettiva tra Bertolani e Bertolucci, in merito a Incertezza dei bersagli (per la presenza di “un’affabulazione calda, spiritosa e incantevole”, p. 25), lo accosta però al momento soprattutto a Sereni, che non a caso ha firmato il risvolto di copertina. Ciò che accomuna i tre poeti è una disposizione alla narratività, che però si dispiega concretamente in modo diverso in Bertolucci e Sereni: per quanto ambedue lontani dalla verticalità di certa poesia italiana, in Bertolucci la rêverie dà un ampio respiro narrativo ai versi, in Sereni invece la pulsione al narrare comporta un serrato lavoro strutturale quasi da antiromanzo nel quale prevalgono le occasioni di dubbio. E, osserva Lagazzi, “Anche su Incertezza dei bersagli pesa una specie di dubbio preliminare, l’ombra di un non sapere, di un non poter collocare il proprio bisogno di poesia entro un quadro chiaro, entro una prospettiva storica e umana nitida, ‘positiva’, liberatoria. L’‘incertezza’ nasce dal carattere storico, ambiguo della realtà contemporanea (la ‘malizia / delle cose’) [...]” (p. 29). Ma questo libro pur centrato sull’io (a differenza del Racconto della contea di Levante), passa dal monologo al dialogo cercando un’apertura; e in questo dialogo già si rivolge a Bertolucci verso la cui poetica Bertolani si indirizzerà poi più decisamente, così come testimoniano, nella raccolta, questi versi: “grazie attilio bertolucci / della tua pacata calligrafia / del punto necessario in fondo / a una mia poesia / per i gerani in luce nella torretta / per come ti ho immaginato gatto // grande felpato in una / delle acquette guadabili / di cui ti ho parlato // per la composta allegria / che un poco ha sciolto in vista / della sera l’altra aria // la lunga nevrastenia” (cit. alle pp. 30-31).

   E, tra i due libri qui analizzati, Lagazzi coglie il movimento verso Bertolucci, nella segnalata tensione Sereni- Bertolucci: “Mentre Incertezza dei bersagli è centrato in primo luogo sull’io del poeta - sulla mente dubbiosa, sui suoi passi vacillanti - e solo di riflesso, in modo contratto, frenato, bloccato, si rivolge anche al paesaggio umano delle sue origini, Racconto della contea di Levante è un libro di ampio respiro nella sua forza di evocare il retroterra antico, ma ancora vivo e palpitante, delle vicende personali dell’autore o del suo alter ego romanzesco. Tutto qui si offre e presta al tocco della rêverie, in primo luogo il linguaggio di chi racconta e dei diversi personaggi in scena, un italiano senza tregua tinto di dialettismi d’origine serrese, un dialetto reinventato in italiano con quella libertà, quella fantasia epica e lirica, quel gusto vivo del suono delle parole che solo i grandi affabulatori orali possiedono [...]” (p. 33).

   E così è non solo della lingua, ma anche dei contenuti, nei quali all’attenzione per la realtà si accompagna “la libertà inventiva di uno sciamano dei boschi, di un mago contadino, di un ‘contafavole’ vagabondo” (p. 34).  

   Tornando alla lingua, molte sono le raccolte che Bertolani ha scritto nel dialetto delle sue terre. Al riguardo, in un modo ascrivibile all’intera opera in dialetto, ma anche al suo modo di accostarsi al mondo, Lagazzi osserva: “C’è un fondo pasoliniano in Paolo Bertolani che, fatta salva l’originalità dello stile (straordinaria, anche a un solo sguardo), potrebbe fornirci una sua prima collocazione sul versante delle culture marginali, delle lingue da salvare” (p. 47). Ma è la sua un’opera (e un’operazione) viscerale e poco ideologica. Già poco prima, a proposito di Seinà, l’esordio in dialetto, aveva scritto il critico, citando altri illustri studiosi del dialetto di Bertolani: “La lingua è, ora, un dialetto, quello del paese dell’autore (La Serra di Lerici): lingua ibrida, ‘né ligure, né tosco-emiliana, non più marinaresca, non ancora appenninica’ (Giudici); lingua difficile, scontrosa, arcana, del tutto vergine di tradizioni letterarie. Ci voleva tutta la grazia, tutto il pudore di una mano leggera come una farfalla per piegare queste ‘parole di legno’ a dire tanto: la tropa passion e gli struggimenti da non credere” (p. 43). Per il lato padano, questa lingua, continua il critico, fa pensare a Ruzante o a Folengo, come nel caso dei versi: ‘N sboco de sanguassso e ciao a tuto… Oppure a “certi sfoghi di un amaro grottesco e inerme” nel caso di questi altri versi: E doman? / Retacàe a sfangàla, con en sbèrno / en spudo en pu (“E domani? / Riprendere a  tirare avanti, / con uno squarcio / uno sputo in più” (i versi sono citati a p. 44).

   Bertolani è dunque per Lagazzi uno dei maggiori poeti dialettali. Talvolta, l’uso del dialetto può servire a mascherare una carenza di originalità, ma non è così per Bertolani, come per Baldini, per fare un altro esempio: per loro “la voce ritrovata dei dialetti è davvero un impasto profondamente vitale, denso di succhi e di umori, in grado di schiudere alla nostra stanchezza riserve inattese e lancinanti di verità umane e d’invenzione fantastica” (p. 55).

    Un tratto distintivo della poesia di Bertolani è quello di insistere su poche cose, pochi temi e pochi oggetti, come nella nudità di un “gesto testamentario” nel quale lasciare un “niente di foglie”, “un fiato d’immagini” o “un’aria di mare” (cit. a p. 5). La densità è così dunque raggiunta attraverso la leggerezza. Lagazzi ricorda come per Blanchot la letteratura nasca a partire dalle proprie rovine. Dunque, “Tutta l’opera, in versi e in prosa, di Bertolani sa ricondurre la coscienza romantica del nulla alla luce di una modernità ferita eppure mai arresa nel bisogno, nell’ansia di testimoniare la bellezza” (p. 61). Così in particolare “la poesia in dialetto di Paolo Bertolani è la trascrizione magica (nel senso di un esorcismo contro le potenze dell’oblio) delle voci disperse nel tempo della sua terra” (p. 63). La sua dunque è una “voce delle voci” e c’è una grande ricchezza nella povertà apparente di una scrittura ridotta all’osso, all’essenzialità, a una sorta di grado zero di enorme potenzialità. Ecco spiegato il titolo che Lagazzi dà al suo libro, appunto: Quella ricchezza detta povertà.

   Un percorso vario, quello di Bertolani, pur nella fedeltà a un assunto di base, i cui sentieri Lagazzi ci aiuta a ripercorrere in sintesi in uno dei paragrafi, La luce che dura della sezione Di sentiero in sentiero, e che quindi ripercorriamo insieme. Bertolani, prima di passare al dialetto esordisce in italiano con Le trombe di carta (poesia) e i già ricordati Incertezza dei bersaglii (poesia) e Racconto della contea di Levante. Nel primo libro il poeta traccia già le coordinate del proprio spazio immaginario, “un paesaggio ligure saporoso e vero” (p. 79), per accogliere nella seconda raccolta, come già sappiamo, la lezione di Sereni, e approdare quindi all’esperienza “molto più decisiva” della raccolta di prose dedicate al Levante ligure, con uno sprofondamento nelle proprie origini propedeutico alla stagione della poesia in dialetto, l’“ibrido dialetto della Serra di Lerici [che] è senza dubbio una delle più alte, intense e originali creazioni dell’ultimo ventennio in Italia” (p. 80; Lagazzi sta scrivendo nel 2007). Un’opera però, nonostante l’avallo di illustri prefatori (Bertolucci, Giudici, Bandini, Conte) rimasta a lungo ai margini (non viene inserito nell’antologia Einaudi dedicata ai poeti in dialetto), forse a causa dell’apparente e spiazzante semplicità di una poesia lontana da certe categorie del novecentismo e del postmoderno, nonché dalle ideologie e dalle avanguardie. È la sua piuttosto una poesia naturaliter religiosa che scava (potremmo aggiungere anche qui: pasolinianamente) nel senso sacro delle cose e che ritrova la della bellezza divina nel mondo stesso.

   In questo contesto può inserirsi anche la pratica della poesia come dialogo aperto con le persone care, e dunque quelle cartoline o lettere in versi di cui si diceva. Ho fatto riferimento al testo in italiano nel quale Bertolani ringrazia Bertolucci per l’influenza che la poesia del parmense esercita sulla propria. In Seinà si rivolge poi in dialetto al maestro, esprimendo il suo desiderio di raggiungerlo a Casarola:

 

Oimé, 

Tilio,

come voriéi rivàe  adè a Casarola.

Nicò con na sigòla.

Nico sbolinà.

De prima maitinà

te me dessi ’r giornale

che dae te man ae mea

i devientiai poesia.

Pu tàrdia, a tòa,

te me svachessi ’r vin

co’ ’r gàibo de na farfala.

Er sóe, aa sea, dar Gropo Sorvàn,

i ne fiài tuti rosa: te, me

e chi te sè.

Parlàndome amodìn,

l’indoman i siai lì, ’nter prado,

a portada de man.

 

(“Ahimè, / Attilio, / come vorrei arrivare adesso a Casarola. / Anche con una cipolla. / Anche trasandato. / Di prima mattina / mi daresti il giornale / che dalle tue mani alle mie / diventerebbe poesia. / Più tardi, a tavola, / mi verseresti il vino / con il garbo di una farfalla. / Il sole, alla sera, dal Groppo Soprano, / ci farebbe tutti rosa: tu, io, / e chi sai. / Parlandomi adagio, / il domani sarebbe lì, nel prato, / a portata di mano”; versi riportati a p. 90). Un bell’esempio di poesia amicale e conviviale, di una convivialità immaginata sull’onda presumibile del ricordo degli incontri precedenti: Paolo partirebbe subito, anche trasandato e con il solo dono d’una cipolla per riassaporare i momenti  in compagnia di Attilio e della sua garbata ospitalità.

   Questo purtroppo un solo esempio dei diversi biglietti poetici rivolti a Bertolucci. Sette, poi, sono i testi indirizzati allo stesso Lagazzi all’interno delle opere di Bertolani. Il primo di questi viene paragonato da Lagazzi, che è anche studioso del mondo orientale, ai tanka che gli amici usavano scambiarsi nel Medioevo nipponico: ne riporto, per ragioni di spazio e per intenderne meglio il contenuto, la sola versione italiana: “Dove saranno adesso, dietro / a quale muraglia, le ore belle, / la siepe che rinfresca / (vi dorme un’aria fina); / la casa è di nuovo mia, / comincia la pioggerellina, e viene  presto sera? / Ore belle, / anche più lontane ora / che sentiamo dai campi / gli schiocchi dei baccelli che esplodono // e i cuculi, / che ci immalinconiscono dalle collinette” (cit. a p. 102). Un testo privato che però, osserva Lagazzi, con la sua reale e limpida simbologia parla a tutti: l’estate (nell’anno, ma anche nella vita) è una stagione troppo breve e le “ore belle” svaniscono presto.

   In questi testi rivolti agli amici è impossibile separare vita e poesia e la vita stessa si presenta “come dialogo incessante - scambio, intreccio, circolazione di vibrazioni, onde, fruscii, pulviscoli - tra gli esterni e gli interni, tra il plein air percorso di continuo da uccelli ‘minuti e grandi / e di ogni colore’ e gli spazi domestici resi incantevoli dall’amore” (p. 96).

   Questi intrecci tra persone - Bertolani, Sereni, Bertolucci, Lagazzi stesso – vengono restituiti dal critico al lettore coinvolgendolo a sua volta in questo incessante dialogo che è la poesia, che è la vita. 

   Ed è questo ciò che conta, e poco conta il fatto che il nome di Bertolani sia rimasto relativamente in ombra. Come nota Davide Rondoni nella sua prefazione, “tutt’altro intento ha il critico lettore che il ‘situare’ Bertolani in una enciclopedia o in un canone maggiore o minore, tantomeno in una nicchia da ‘caso’ letterario, anzi, fin dall’inizio Lagazzi confonde i piani, trucca le carte solite della critica presuntuosa di etichette e classifiche (del resto per lui, si sa, il critico è anche un mago) e libera da ogni necessità di sistemazione letteraria il suo poeta, per far emergere agli occhi dei lettori esperti o nuovi, la grazia fragile, viva di pena e di meraviglia, di un’opera ammirevole di poesia. E i tratti essenziali di una figura umana” (pp. 7-8).

 

*

 

Opere di Paolo Bertolani

 

Poesia: Le trombe di carta (Marco Carpena Editore, Sarzana, 1960; poi con prefazione di Francesco Bruno, ConTatto, Lerici 2004); Identificazione degli uccelli (con Francesco Bruno, Losi, Lerici 1974); Incertezza dei bersagli (quarta di copertina di Vittorio Sereni, Guanda, Milano 1976; ripubblicato con risvolto di Giuseppe Conte, Guanda, Parma 2002); Seinà [Serata] (presentazione di Giovanni Giudici, Einaudi Torino, 1985); E góse, l’aia [Le voci, l’aria] (risvolto di Giuseppe Conte, Guanda Parma, 1988); Diario greco (nota introduttiva di Attilio Bertolucci, El Bagatt, Bergamo 1989); Dall’Egitto, con cinque acquerelli di Andrea Razzauti e una postfazione di Francesco Bruno (Galleria Art Valley, Forte dei Marmi 1991); L’occhio, le parole, Zolesi, Ameglia (SP) 1991; Avéi [Beni] (Garzanti, Milano 1994); Sotocà [Sottocasa] (presentazione di Giovanni Tesio, Lisboà editore, Dogliani 1995); Die [Dire] (prefazione di Paolo Lagazzi, Diabasis Reggio Emilia 1998; Libi [Libri] (con una nota di Giovanni Tesio, Interlinea, Novara 2001); Se de sea [Se di sera] (prefazione di Fernando Bandini, Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova, 2002); Itinerari del monte e degli amori, Una corrispondenza in versi, con Francesco Bruno (San Marco dei Giustiniani, Genova 2002); Piccolo cabotaggio (risvolto e prefazione in versi di Francesco Bruno, ConTatto Edizioni, Lerici 2004); Raità da neve [Rarità della neve] (San Marco dei Giustiniani, Genova 2005).

 

Narrativa: Racconto della contea di Levante (Il Formichiere, 1979; poi il melangolo, Genova 2001); La grande settimana con Mario Spagnol (Salani, Milano 1999); Il vivaio (prefazione di Anna Maria Carpi, il melangolo, Genova 2001); Il custode delle voci (con una lettera di Roberto Benigni, il melangolo, Genova 2003); Donne (con Oreste Lupi ed altri, ConTatto, Lerici 2004); A ritroso nel Golfo dei Poeti con Oreste Lupi (Salviati, Milano 2004); Colpi di grazia (con una lettera di Carlo Angelino, il melangolo, Genova 2007, postumo).

*

La vestaglia del padre

 

   Alessandro Moscè ci consegna con questa raccolta, prefatta da Roberto Cotroneo, un viaggio nel tempo e nello spazio, nel quale le coordinate spazio-temporali sono raccordate tra loro. Ci troviamo davanti a istantanee del passato e del presente, con un particolare significato dei recuperi memoriali, e con un movimento geografico che va dalla Roma dell’infanzia alle Marche e Fabriano dove l’autore vive tuttora. Il carattere identitario dei luoghi è evidente nell’insistenza di questi riferimenti. Il segno del tempo è in quella macchia di sugo rimasta sulla Vestaglia del padre, che a mo’ di sineddoche dà il titolo all’intera raccolta, come parte che sta per il tutto: la lacerazione prodotta dal ricordo e lo scarto doloroso rispetto al passato assumono qui particolare pregnanza. La fugacità del tempo viene espressa bene anche quando il dettaglio riguarda qualcosa che rimane estraneo, perché non c’è stato (appunto) tempo perché diventasse altro: “Non morire ad ogni ora / che te ne vai, ragazza che scendi dal treno / e che non rivedrò mai più”. Non a caso il titolo della sezione dedicata al padre è un Senza tempo, perpetuato nel ricordo e inciso nella propria stessa biografia, mentre Primo tempo (rispetto ad altri tre successivi) è il titolo della seconda sezione.

    Il riferimento ai due luoghi geografici – Roma, le Marche – si alterna nel libro, tra la Stazione di Roma e la Stazione di Fabriano, titoli di due poesie che si susseguono a un certo punto. Ma anche sfogliando altre pagine ci troviamo spesso a muoverci tra i due luoghi geografici e insieme nel tempo: “la tua Roma degli anni Sessanta e Settanta / disseminata di turisti inglesi con l’ombrellino di carta, / rifugiata nelle strade che ballano ancora / nel brusio delle scalinate di gallerie d’arte e nel belvedere di Villa Torlonia”; “Sei il vento umido di scirocco / che batte la costa adriatica / e rovescia le onde sulla spiaggia, / che scuote il rettangolo dei vigneti / e i casolari abbandonati di campagna”.

   Il recupero memoriale avviene a partire da un momento topico nella vita di ciascuno, la perdita del padre, che è perdita di se stessi e naufragio di tutta una stagione della propria esistenza che ci lascia orfani, ovvero etimologicamente “privati”, non solo del genitore, ma anche di noi stessi, di ciò che fino a quel momento eravamo. Privazione che dunque conduce il ricordo, e le parole, a riannodare i fili di una trama strappata. Così, aprendo il libro, nella prima sezione leggiamo: “Papà, quel passo oltre la soglia del reparto / strappato al tuo respiro, l’ultimo, il più lungo // nel prato verde di palloni spioventi / e di ingressi bianco-celesti in area di rigore, / di padre in figlio, domenica dopo domenica” (p. 7). Il doppio spazio tra i primi due versi e gli altri tre è insieme stacco e ricongiungimento tra due momenti temporali, quello più recente dell’approssimarsi della perdita e quello più lontano della complicità tra padre e figlio nella passione per il calcio e per il tifo per la squadra degli anni romani, la bianco-celeste Lazio.  Quello calcistico è un filo conduttore di questa prima sezione, e qualunque figlio maschio può ritornare agli episodi analoghi nel proprio rapporto con il padre. E laddove Moscè parla di suo padre e del loro rapporto, ci parla di nostro padre e del nostro rispettivo rapporto: il caso singolo, nella poesia, è esemplificazione di una dimensione universale. Ciò non toglie che il poeta abbia necessità di tornare proprio ai ricordi personali, che restano i suoi. E così la rievocazione dei nomi dei calciatori laziali Felice Pulici e Giorgio Chinaglia serve a ridestare una mitologia familiare, a ricostituire il pantheon degli eroi dell’infanzia. E non suona strano che la loro rievocazione si accompagni a quella dei propri familiari, perché tutti partecipi all’interno di quell’orizzonte domestico.

   Si tratta di “un album di fotografie, macchie seppiate / da rovistare nei cassetti di casa” (p. 22). C’è bisogno, per i vivi, di dare un senso alla morte e ritrovare i morti nella serie di eventi minimi, nelle piccole cose quotidiane – borsa dell’acqua, cravatte – e nelle persone in cui rimane impresso il ricordo. E così si può dire al padre: “Non sei mai in un luogo a mezz’aria, ma qui / nell’odore del sonno che rompe lo sperdimento / lieve nella spalliera, nella credenza, nei ninnoli” (p. 36). E se la perdita del padre è perdita di sé bisogna recuperare sé stessi identificandosi con il padre: “La giacca a quadretti mi sembra indifesa / e la prendo in mano con uno slancio imperioso, la indosso per assomigliarti”; “Due cieli, il tuo e il mio / sovrapposti di atmosfere alberate / lungo i porticati in una pausa di memoria”.

   L’identificazione è un gesto estremo, rispetto all’impossibilità di riportare indietro il treno della vita e del tempo trascorso:

 

La breve sosta sul ponte di un paese innevato

con i lumi rettangolari delle carrozze

di treni notturni di pece

sferragliati da una zoomata

e spariti dietro il colle,

no, non tornerà più.

Non tornerà con le frecce ad alta velocità

né con il biglietto comprato online

o con la guida del viaggiatore sotto mano.

Non c’è più un sogno d’infanzia

che si sposta con il treno.

 

   La seconda sezione, detta Primo tempo, s’intitola proprio Stazioni e si apre con il testo qui riportato e in essa compare poco dopo la già ricordata Stazione di Fabriano che, con il suo carico di pendolari “con l’auricolare e l’iPhone in mano”, ci riconduce all’oggi anche se per virare immediatamente verso un confronto con gli scompartimenti dei treni d’una volta; e la stazione successiva è a sua volta quella della Roma di oggi: “L’ombra immobile di Roma Termini / dove i maghrebini fumano sigari”, e c’è qui ancora una messicana e in un testo successivo albanesi ed etiopi: a segnare una realtà italiana diversa da quella autarchica e in bianco e nero degli anni d’infanzia. In queste stazioni ritroviamo istantanee nelle quali narrazione e descrizione non sono meramente cronachistiche e il paesaggio è spiritualizzato: “Le colline di confine / accompagnano le tue gambe / nella continuità di una forma, / nel paesaggio che ti assomiglia, / nella fotografia infinita / delle ombre riposte di taglio (p. 50).

   L’agguato dei ricordi continua a tramare tutto il libro, e sono loro, i ricordi, a compiere le Visite a cui è intitolato il Secondo tempo (e terza sezione): “La visita di nonna Irma con il cappello di feltro / da gran dama dell’Ottocento / e le mani lunghe, macchiate sul dorso / si apre ad un immortale vociare / che avevo dimenticato”, e compare poi anche il nonno Ernesto. E ben tre Natali, rispettivamente del 1975, del 1976 e del 2013 si riaffacciano alla mente, per far concludere che “Il Natale è spoglio nei condomini di oggi”. Queste visite, dunque, le si vorrebbe trattenere: “Raccogli le ombre, una ad una / e sistemale nell’album dei francobolli, / spogliale sul letto di un albergo / con l’indolenza dei liceali”; ma il compito non è facile e il poeta deve ammettere che i ricordi vanno “incontro alla mia mano / che li afferra / e non li prende”.

   Se il Terzo tempo (e quarta sezione), Degenza ci riporta nei reparti d’un ospedale, dai quali eravamo partiti per il ricovero del padre, e per incontrarvi ora, tra gli altri, il poeta Franco Loi, un camionista e un ragazzino biondo, il Quarto tempo (quinta e ultima sezione), Follia ci trattiene ancora nelle corsie della sofferenza. L’ex manicomio a cui il poeta si riferisce è quello di Perugia “dove tutto / è un’altra cosa dopo la legge Basaglia”: ma è pur sempre vero che “La follia è un mondo di guerre / che esiste nel turbine delle visioni”. Troviamo tra gli altri Primo, che fa venire il mal di testa alle donne cambiando continuamente canale in tv, e Marisa detta “la tenente”. Una galleria di sofferenza psichica che ricorda quella nella quale ci ha portati un altro autore marchigiano, Umberto Piersanti, in Anime perse ambientato in una comunità di accoglienza del Montefeltro. Se il poeta Piersanti in questi racconti sfiora la poesia, nel senso ampio del termine, rimanendo un narratore nel recinto della prosa, in questo suo libro, l’altro marchigiano Moscé da poeta ci restituisce racconti del tempo perduto restando con sobrietà nel recinto della poesia, una poesia misurata in un linguaggio piano che va in profondità. E chiudendo l’ultima sezione ci dona questa considerazione in poesia che rende il tono dell’intera raccolta:

 

 

L’amore è la necessità della mia malinconia,

la giovinezza rincorsa da un millennio,

la stazione che prepara un addio.

È vero che amiamo chi non c’è più

come la prima volta,

non durante l’abbraccio, ma dopo che se ne è andato?

Nessuno ha ancora capito che l’essere creati

non risparmia dalla solitudine di un parto,

l’intermezzo tra un io e un noi

nella quiete di ogni rinvio o illusione

per l’eternità dei figli mai nati.

 

*

Ostinato. Suite in versi

 

   Conoscevamo il precedente libro di poesia di Cinzia della Ciana Passi sui sassi (Effigi, 2017). Ora l’autrice ci regala questa seconda raccolta. Il postfatore Franco Di Carlo scrive che Ostinato “segue e rinnova l’itinerario creativo della poetessa di Montepulciano: i ‘passi’ e i ‘passaggi’ si fanno più serrati e rapidi, corrosivi e fluenti, assumono l’andamento di un ininterrotto, marcato registro espressionistico” (p. 163).

   Vedremo in che modo questo libro nuovo prosegue e porta avanti il precedente esperimento poetico. Intanto precisiamo il significato del titolo, che si riconduce alla poetica di Cinzia da lei già espressa con la formula “del suonar colle parole”. A sua volta il sottotitolo di Ostinato, cioè Suite in versi, ci rimanda alla sfera musicale. Ma a ben vedere è un rinvio imposto già dall’ambiguità semantica della parola “ostinato”, ambiguità semantica che proficuamente Cinzia pratica spesso nella sua poesia addensando più significati e più “svolte” nello stesso lemma. Se ostinato etimologicamente significa “star fermo saldamente” e di conseguenza il “persistere in un proposito”, dall’altro in musica indica un motivo che viene ripetuto ad oltranza restando nello stesso tempo invariato nell’altezza e nel ritmo, dunque una sorta di staticità continua che fa esclamare “eppur si muove” (al riguardo ci delucida la quarta di copertina, di pugno dell’autrice). Ma anche il suo più recente libro di narrativa, una raccolta di racconti “umoristici”, porta programmaticamente un titolo musicale, Solfeggi (Helicon, 2018), a testimonianza di una dispositio musicale (dispositio come “organizzazione” ma anche “inclinazione”) che risale ai giovanili studi di pianoforte ai quali torna con la scrittura.

   Anziché note qui abbiamo parole, è vero, ma con una particolare, ostinata attenzione al loro risuonare, alla combinazione di suoni, accenti e ritmi. Ostinato si divide in sezioni che fanno riferimento nel titolo ad altrettante danzee forme musicali. Per la precisione: Sarabanda, Aria, Passacaglia, Corrente, Pavane, einfine Stabat. Ogni sezione raccoglie testi grosso modo simili per forma ma anche omogenei nella tematica. Per esempio, l’ultima sezione, Stabat, sottinteso mater (tra Jacopone e Pergolesi), è dedicata appunto alla figura della madre (il secondo testo vede comparire Clitennestra e Agrippina, madri vittime di matricidio rispettivamente a opera di Oreste e Nerone), ma anche alla donna in generale. In Aria il riferimento è a fiori, piante, boschi e monti, cioè alla natura che in quest'aria vive e di essa si nutre. In Passacaglia protagonisti sono i luoghi, cioè il paesaggio antropizzato, urbano e naturale insieme (Napoli, Lisbona, Amalfi, Portofino ecc.): “Qui giunge cielo. / È oceano a masse / fragore gravidi di grancassa / luce virile percossa spinge / dentro. Entra rifrange / seme sul fiume e lume / rompe il Tejo in raggi / sparge incalcolabili ipotenuse”(Lisboa, p. 77). A proposito del Portogallo e dell’Oceano, vengono in mente i versi di Camões incisi su una stele a Cabo da Roca, uno dei punti più estremi del continente europeo: “Qui dove la terra finisce e il mare comincia”. Luoghi ritrovati come spazio antropologico (e naturale), di contro al mero spazio geometrico dei non-luoghi dei quali parla Augé.

  Dunque, in questo libro, e nella poesia tutta di Cinzia, la scrittura è un campo di incontro-scontro, una battaglia di grafemi e fonemi – contemporaneamente vediamo e sentiamo il loro inseguirsi, cozzare e dispiegarsi in un continuo dirsi e darsi della poesia, un divenire eracliteocome nota Di Carlo, un divenire che non a caso si concentra nel momento puntiforme del presente. Non diversamente, in fondo, da quell’ostinato che ripetendosi si muove, o si muove pur ripetendosi. Il divenire eracliteo è infatti unità degli opposti, così come appare nei versi di questo stesso libro: “Ma perenne / il movimento / sempre / forsennato orologio / innescato da Colui che non mente”, p. 26; “Fluirei impassibile al germinare di immagini / algide non morirei né diverrei / e il tempo starebbe immobile a guardare / me inane la parola al verso”, p. 31)È, eracliteamente, quella di Cinzia, una “poesia liquida”, panta rhei, e l’acqua compare anche nel titolo del suo romanzo Acqua piena di acqua (Effigi, 2016). Una poesia liquida nella sua corposità (altra coincidentia oppositorum), una corposità, una “petrosità” (più dantesca che petrarchesca)appunto già suggerita anche in questo caso fin dal titolo della sua precedente raccolta di versi, Passi sui sassi che ci fa vedere l’andare e ce lo fa anche sentire, perché il titolo all’orecchio suggerisce il rumore del piede sulle pietre.

   Ciò che l’occhio vede diventa dunque parola e suona fortemente e ostinatamente, in una poesiaecfrastica, quel genere di poesia che vuol rendere nelle parole ciò che il senso della vista ci presenta, per porgerlo quindi all’orecchio. Un esempio: “Incolonnati sporgono / ponti vegliano / sotto Superga / infilzo lo sguardo / tra balaustrati / pezzi del Po”(p. 93). Laddove la stessa scansione dei versi sembra suggerire il susseguirsi degli archi del ponte e gli squarci del fiume che tra essi, o meglio in essi, baluginano.

   Ma sono le parole a indagare la realtà, o la realtàè piuttosto un pretestoperché il linguaggio si dispieghi in una sapiente orchestrazione, perché si metta in moto la macchina della scrittura? In questo senso forse possiamo cogliere l’affermazione di Di Carlo che parla, per questa poesia, di espressionismo. Espressionismo, possiamo aggiungere, e quindi non impressionismo. Una poesia ecfrastica nella quale però non è il mondo che viene a noi, ma in cui siamo noi ad andare al mondo in una intenzionalità husserliana(nel rapporto noesi – cioè il pensiero – e noema – il pensato, che non è semplicemente il percepito); un’intenzionalità anche bergsoniananella memoria che si cerca per farsi coscienza. È dunque la “coscienza-di”(Husserl) quella che si interroga in un movimento che parte dalla nostra interiorità.

    I passi conducono la poetessa in vari luoghi, e di ogni luogo, ostinatamente, bisogna dire in una poesia perenne, in un ininterrotto componimento che si fa plurilinguismo e pluristilismo. Appunto, i titoli stessi delle sezioni suggeriscono questo diverso modularsi della voce, ma a questo ufficio adempie anche la codificazione musicale iniziale che, dopo il titolo, precede ogni testo: Andante, Adagio, Largo, Moderato, Andante variabile, Rapsodico ecc. Un’orchestrazione complessa che da un lato può sembrare un’operazione a freddo, quel tanto richiesto dal lavoro poetico – che non è solo un fatto di sentimento –, come appare in certi componimenti più tecnicamente ostinati e dove il referentesembra farsi evanescentee il testo come concentrarsi più sul significante che sul significato in una dimensione fortemente ludica(eppure, anche qui l’atto della scrittura non è mai puramente gratuito). Dall’altra però, in altri testi, la voce si fa più emotivamente coinvolta, liricamente espressiva, e più immediatamente comunicativa, come in Donne nere nella sezione Stabat: “Sono gazzelle, / danzano / senza scappare / non hanno parole / cieche scrivono / cogli occhi / neri” (p. 147). E questa scrittura, come d’altronde in altri svariati casi, si essenzializza, fino a farsi il verso olofrastico, riducendosi cioè a un’unica parola che sta per il tutto, come nella primigenia creazione del linguaggio nella quale il silenzio finalmente partorisce i suoni.

   Il divenire eracliteo – per tornare a esso – trascorre diversamente variegandosi. E così la voce passa dall’accogliere arcaismi alla costruzione di neologismi, laddove lo stesso neologismo può impastare suoni che hanno un retrogusto antico, come in Pucciniana: “Portarsi qui fino a dove il mare / è morto acché l’alma smemori / e lo spasmo ammelmi” (p. 131). E questi versi sono anche un buon esempio di quell’incontro-scontro di fonemi di cui dicevamo, ma qui il predominio della emme ammorbidisce il suono facendolo meno petroso, anzi c’è un morbido abbraccio di una terra quasi liquefatta. Qui c’è il mare. E non a caso una morbida assonanza si presenta nell’arioso dedicato all’Arno, altra massa d’acqua: “Mi siedo e attendo / che dal magma verde / salga lemma che suona, / levigato ad altri l’amalgama, / il recondito orchestra” (p. 94). E qui sembra confermata, nell’attesa del lemma, della parola, anche l’ipotesi che la realtà sia un pretesto perché sorga la parola, la parola in sé, che però è anche parola per sé, che si proietta verso l’altro a significarlo. Infatti si prosegue, illustrando anche la poetica di fondo che sottende questo libro e questa scrittura: “È il verso del fiume / fiero che a fiate fruscia / ad altre si fissa / e maggiormente fresco galoppa. / Qui s’innesta poesia / senza metro torna sorgiva / sopravvive perché melodia”.

 

*

Conto i passi. Storie di disamore

 

 

Sono ventinove i monologhi, le storie di disamore, che Michela Buonagura mette in scena in Conto i passi (2019), il suo terzo libro, dopo due raccolte poetiche. Sono quasi tutte voci di donne, vittime della violenza di uomini brutali, o di testimoni che raccolgono le voci di altre donne, come l’insegnante che si china in ascolto sulla drammatica esperienza della sua alunna. Ma anche alcune voci di uomini, colpevoli ma spesso ostinatamente e ottusamente inconsapevoli della gravità dei loro atti che una subcultura complice aiuta a considerare, in fondo, “normali”: se una donna non si sottomette – alla volontà dell’uomo, ai cliché una volta ma spesso ancora oggi imperanti –, ebbene, sa cosa rischia. Infatti, l’uomo maltrattante di un monologo – prima di redimersi, perché, sì, almeno lui si pente evitando di compiere gesti ancora più gravi, e si reca in un centro antiviolenza – si diceva: “Alzare la voce? Normale. Fare di tutto per averla vinta su tutto e farla sentire inferiore? Normale. Strattonarla? Normale” (p. 78). E, una volta redento, osserva: “Ora che voi mi ci fate pensare, ora che vedo le cose in un altro modo, mi rendo conto che pensavo solo a me, a quello che poteva accadere a me e accusavo lei di tutto. LEI aveva colpa del mio arresto, non IO per le mie azioni” (pp. 76-77).

Ebbene, questi atti e questa mentalità, Michela denuncia, perché purtroppo la denuncia è ancora indispensabile di fronte alla cronaca che riporta sempre e di nuovo tali misfatti. E alle donne che li subiscono bisogna dare voce.

I casi che la scrittrice riporta – pur con la consueta avvertenza che “ogni riferimento a fatti e persone reali è puramente casuale” – sono quelli nei quali la cronaca ci fa imbattere continuamente. La differenza, rispetto al resoconto giornalistico, è che la scrittura di Michela parla dall’interno, va a scavare nelle pieghe della mente e dei corpi di vittime e carnefici, ne riproduce il linguaggio fino all’uso del napoletano, lingua della sua terra. Scrive efficacemente Livia De Pietro nella Prefazione al volume: “Il monologo, infatti, pone al centro della narrazione la complessa dinamica della vita psichica del personaggio, di cui uno scrittore interpreta le percezioni sensoriali, in una sorta di autoanalisi continuata. [...] Scriverlo non è da tutti. Lo stile esige una competenza che più di altre forme di narrativa deve coinvolgere emotivamente il lettore, trasformandolo da fruitore in agente del messaggio” (p. 8).

Ecco allora la galleria di questi orrori domestici, di questa “banalità del male” (banalità perché il male spesso è praticato da persone apparentemente normali): la ragazzina irretita dalla rete, il padre di famiglia che uccide la ragazza da cui è ossessionato, il marito che uccide per gelosia, la bambina costretta a prostituirsi, il ragazzo che scopre che è stato il padre ad uccidere la madre, la violenza a opera del branco. Brutalità che si concludono spesso con l'assassinio della vittima, o nel momento del folle accecamento o per togliere di mezzo una scomoda testimone che possa far mettere in discussione una vita (apparentemente) specchiata. E spesso queste voci giungono da oltre la soglia che separa vita e morte: è proprio a chi non ha più voce, perché fisicamente eliminata, che Michela spesso dà (la sua) voce, proprio a coloro che hanno più bisogno di gridare al mondo ciò che hanno subito: “Sono volata giù come l’aeroplano di Mattia, ma non avevo le ali e ho fatto Boom. Io gli ho creduto a zio Lorenzo quando mi diceva Vieni, proviamo come vola Wonder Woman, io poi ti seguo, lo sai, sono Superman. Ma non ha funzionato, e zio Lorenzo non ha fatto Superman, ci avrà ripensato. La voce di mamma mi cercava. Fortuna! Fortuna! Ma dove ti sei cacciata? […] Sto gridando da ore e mamma neanche mi sente. […] Ma ti vuoi affacciare? Sono qui nel cortile, non mi vedi? Fa tanto caldo” (pp. 22-25) .

E più strazianti sono allora queste testimonianze quando ormai irrimediabile è la sorte della vittima.  E più straniante diventa la scrittura – scarna, spezzata, sincopata, tagliente – con la quale si dà loro voce. Come nel penultimo monologo, intitolato Il corpo, una vera fenomenologia della violenza, una stenografia straziante dell’aggressione subita e letteralmente patita nella quale le parti del corpo vengono personificate divenendo esse stesse i personaggi della tragedia rappresentata: “Vedo crack rosso di Mascella che si spacca. Vado in panico. Non capisco, perché un minuto prima Bocca, tenera, stava dicendo Cosa vuoi per cena? Un grumo di dolore s’attacca al Trigemino, Testa si catapulta su Clavicola destra, Capelli sbattono su Viso, Cuore pulsa impazzito. Mano si fa uovo per Mascella sfatta, corre da Occhio che grida liquido al pugno che lo colpisce” (p. 131).  Ma se tutta questa è una faccenda fisica, corporea appunto, essa non può non coinvolgere lo spirito tutto. E non a caso il testo che segue, l’ultimo, s’intitola Anima (p. 139), ed è ancora più teso e spezzato. Per darne un’idea lo riportiamo con gli a-capo originari e senza i segni di interpunzione (così come si dispiega sulla pagina), sottolineando che, dal punto di vista contenutistico, esso rappresenta una reazione vitale dopo i resoconti di ferite e morte:

 

E sono donna e uomo

Cammino scalza su chiodi arrugginiti su schegge di vetro

I piedi serrati in scarpe che stringono e mordono senza tregua su questi fogli bianchi con passi di fuoco

E mi torco e grido

E taccio

Dilaniata mi ricucio

Calpestata mi rialzo e ergo

Più forte risorgo

E non voglio abituarmi al dolore

[…]

 

Se da un lato questa scrittura è mimetica, calandosi nel linguaggio e nell'immaginario delle persone-personaggi delle storie raccontate, dall’altro, nonostante questo o proprio per questo, ha un alto tasso letterario, misurata e precisa come un bisturi che scava nelle ferite. Sembrano, questi monologhi, dei piccoli poemi in prosa che diventano direttamente poesia come nell’ultimo monologo, o nella vera e propria poesia posta in apertura e, in napoletano, in chiusura, da cui l’autrice ricava il titolo stesso del libro. Alto tasso letterario anche per il fatto che ogni monologo è aperto da citazioni in esergo che vanno da Nabokov a Shakespeare ad Alda Merini passando per John Lennon e Yoko Ono: un viaggio quindi nelle vite delle persone ma anche nella letteratura di tutti i tempi che la vita – il dolore, le speranze – ha cercato di dire.

Nei suoi monologhi, Michela getta, con pietas, uno sguardo in queste – letteralmente – “vite perse” contandone appunto i passi. Uno dopo l’altro. E facendoli seguire al lettore che diventa spettatore partecipe.

 

*

Viaggiamo fuori rotta

 

I versi di questo libro di Michela Buonagura non sono allineati a bandiera, su un lato della pagina, ma centrati: le parole appaiono dunque come onde che si srotolano, come un moto incessante, qual è la poesia che ditta dentro di noi. E la raccolta apre metapoeticamente con un testo che si intitola appunto Poesia e che parla della poesia, di ciò che essa è per l’autrice: “Tu sei furor di vento / che stringe e cinge il petto / di rosso melograno” (p. 3). E in chiusura frl testo, passando attraverso il riferimento alle Erinni, le Furie per i latini, si afferma: “E ribolle il mio sangue / che questa notte artica / non riuscirà a gelare” (ivi). La poesia dunque è ciò che dà vita e calore alla vita. Viene in mente La poesia salva la vita di Donatella Bisutti. Per Michela, dunque la poesia salva la vita perché la vivifica. Essa, abbiamo visto, è “furor di vento”. A p. 33 ricorre un altro richiamo al vento, quasi fosse una musa: “Cantami o vento”. Pensiamo che in greco anemos, da cui viene “anima”, significa “vento”, dunque il soffio vitale,che è anche il significato di spiritus in latino: soffio, brezza, respiro, sospiro. E Sospiro è il titolo della poesia che chiude il libro. Dunque, tornando al primo verso di questo libro, la poesia è anima, è vita.

In qualche modo questa prima poesia riguarda il privato, perché l’autrice parla dell’effetto che la poesia ha su di sé, ma, come abbiamo visto, c’è però al contempo un respiro universale. Proiettato sul civile è invece il testo successivo, la poesia eponima, che dà il titolo al volume, Viaggiamo fuori rotta (p. 4), nella quale si accusa il nostro mondo di aver perso la bussola; vi imperano Satanàs, Follia e Morte: una “Terra sfatta / dai congegni inceppati”. E il testo successivo, Abbiamo sognato (pp. 5-7), con il recupero memoriale della giovinezza sembra dialetticamente conciliare privato e politico. Come si diceva anni fa, “il privato è politico e il politico è privato”. L’autrice ricorda, con un linguaggio che si fa più quotidiano, il suo impegno politico negli anni caldi della contestazione: “E i pugni alzati e le rosse bandiere e gli slogan / erano le armi di lotta” (politico); “Se ricordo me stessa in quegli anni / un gran nodo mi stringe la voce” (privato). Era bella quell’idea: “Ci credevo / che un giorno lontano / l’avremmo cambiato ’sto mondo”. E viene in mente Noi credevamo, il titolo del film di Mario Martone, e del libro di Anna Banti che l’ha ispirato. Senza dubbio, Risorgimento, Resistenza e ’68 possono essere accomunati nella speranza di un mondo nuovo, poi non realizzato. Eppure l’autrice, anche se con modalità cambiate, non rinuncia a quello spirito: “L’ideale è ormai mito / è vapore di lontane memorie / ma io più ostinata la nutro / la mia ultima Dea”. Ciò a differenza dei tanti che invece il tempo ha mutato. Due pagine dopo, in E ti rivedo amica (pp. 9-10), Michela ricorda un’antica compagna, proprio la più pasionaria, oggi con “occhi spenti”, tutta ripiegata su “bucato / figli / lavoro” (e il verso si spezza olofrasticamente scandendo una parola alla volta).: ripiegata forse non per scelta ma per le necessità di un mondo maschile e maschilista che scarica sulle donne una serie di incombenze.

Sembra a ogni modo di ritrovare l’atmosfera di Mito di Cesare Pavese, quando l’adulto non ricorderà più le speranze del se stesso giovane: “Ora pesa / la stanchezza su tutte le membra dell’uomo, / senza pena”. Ma questa metamorfosi ricorda anche l’agnizione finale de Il tempo ritrovato di Marcel Proust, quando alla fine il Narratore a una festa incontra volti che gli sono noti, ma qualcosa ha cambiato i lineamenti, rendendoli quasi irriconoscibili: la vecchiaia.

A fronte della metamorfosi dell’amica di un tempo, l’autrice – torniamo al suo libro –ricerca ancora la sensibilità di un tempo. La poesia che si incastona tra le due ora analizzate s’intitola Dammi un cuore che ascolti (p. 8): cuore e politica, passione e ideologia per dirla con Pasolini: “Dammi un cuore che ascolti / le grida dei martiri immolati / gli schiocchi delle flagellazioni / i colpi dei chiodi delle crocifissioni / il dolore delle anime sante / disperso nella calca / delle notizie sfuggenti”. Tanto per fare ancora un esempio di questa vena civile, a p. 35 possiamo leggere: “Si stagliano netti i muri / se hai occhi per vedere. / Puzzano di rabbia i muri. / Della ricchezza e della miseria / dei bianchi e dei neri / degli uomini e delle donne / dei fortunati e dei diseredati. / Mugolano dolore i muri”. Sono questi “i lager delle disuguaglianze”.

I diseredati. Ecco allora in Grembo s’è fatta l’acqua (p. 42) il naufragio dei migranti: “Poi irrompe. // Inattesa / possente / assassina // L’onda” (anche qui con versi incalzanti fatti di una sola parola).

Le donne. In Zapatos rojos (“scarpe rosse”) leggiamo: “Conto i passi /. Passi di viva brace / resti di donne / rossi di sangue” (p. 48). Una poesia al femminile, questa, che dal politico qui espresso si raccoglie delicatamente sul privato in Medaglie (p. 39) nella sorpresa al primo apparire dei seni, prima portati con imbarazzo e poi con baldanza.

Tanti fili vengono qui ricuciti in circa sessanta pagine, e questo è il compito della poesia, che nello stupore di fronte all’immensità del cosmo cerca pure un senso, raccogliendo quanto la vita ci ha dato, come nella tela di Penelope, ma senza disfarla: “Breve è la vita. / E sovente  / solo sterminio / di istanti preziosi (Istanti preziosi, p. 22). Come Penelope altre figure del mito si affacciano in questi versi – Le Erinni, Aracne, Pandora, le Moire ecc. – modelli sempiterni buoni anche per leggere la modernità, il cui richiamo si affianca in questi versi anche a interventi sperimentali sul linguaggio, con neologismi – “assolo” nel senso di ritirarsi in solitudine ma anche di “illuminarsi”, “moto messaggioso”, o scrivendo parole attaccate come anche qui a ricucire fili in un solo soffio di voce.

E Sospiro (p. 55) – come dicevamo – s’intitola l’ultima poesia. E dopo l’apertura alla poesia c’è come il senso di uno scacco, di un’impossibilità a dire davvero: “Ho l’infinito nel petto / ma mi si serra in gola”. È come se il desiderio rimanesse – per dirla con Freud, inibito alla meta. Ma è in fondo il destino della poesia, quello di muoversi sul crinale tra dicibile e indicibile.

 

 

Leggi alcune poesie tratte dal libro pubblicate nella sezione Poesia della settimana

 

 

*

Canzoniere dell’assenza

 

“Non immaginavo che l’amore / avesse il potere di sopravvivere anche dopo, / dopo che il suo profilo abbandona le forme / nella nebbia ormai grigia dell’ignoto” (p. 49). Questi versi, posti poco oltre la metà del libro (per cui il libro stesso si richiude come uno scrigno intorno a queste righe), probabilmente ci danno il senso stesso di questo dolente Canzoniere dell’assenza (Kairós, Napoli 2018, pp. 87, euro 12,00). Un amore che dunque fa assonanza con memoria, e verso la conclusione dello stesso testo quest’altra parola chiave compare con un altro termine topico dell’intera poesia di Spagnuolo, attinente alla dimensione onirica: “Non immaginavo che l’amore / avesse il potere di vertigini nel morso di memorie, / stregato dall’eterno sussurro, / inciso nel cristallo del sogno” (ivi). Amore/memoria/sogno. Dunque, come in un sogno, come nella dimensione atemporale del sogno, la memoria – anch’essa eternatrice – recupera l’amore, l’amore non perduto, ma sempre presente. È questo infatti un canzoniere dell’assenza/presenza, quella presenza che la poesia, freudianamente (e la psicoanalisi come nella premessa l’autore stesso sottolinea è fondamentale per Spagnuolo), recupera come in un sogno a occhi aperti, in un estremo appagamento di desiderio, il desiderio di avere ancora e sempre accanto la persona amata.

Amore, memoria, sogno una triade che si aggiunge all’altra che costantemente ha accompagnato la poesia di Spagnuolo, e cioè: seno/segno/sogno. Termini che ritroviamo anche qui ricorrenti. Il seno è la sensualità, l’erotismo che ricompaiono anche in questo libro in riferimento alla moglie ricordata anche nella sua corporeità: e ciò che manca è – al di là della stessa sensualità – il corpo come segno tangibile della presenza, e portatore accanto a noi dell’essenza stessa della persona Per fare un solo riferimento: “Ricordo le tue mani delicate, / diafane nel tocco della gioventù, / una carezza che sfugge nel sussurro / che mi opprime la mente ogni giorno / e rimbalza segreti inconfessati” (Mani, p. 33). E Spagnuolo, che negli ultimi anni è andato cantando il senso della vecchiaia ritorna qui invece delicatamente alla gioventù, anche se poi in un altro testo la tenerezza rima con la vecchiezza (“Tenerezza dicesti al tremore / degli anni che volgono a vecchiezza”; Tenerezza, p. 70). E il termine rughe che ha solcato recenti raccolte di Spagnuolo compare anche in questa più volte.

Dunque l’assenza, lo stare al di fuori dell’essere. Ma è invece dell’essenza, dello stare nell’essere che la poesia va alla ricerca. Anzi, è questa assenza che si fa presenza nelle parole stesse che la vogliono esorcizzare. Una precedente raccolta di Spagnuolo si intitolava non a caso Rapinando alfabeti (2001): cioè una intenzionale, insistita operazione di scavo nella lingua alla ricerca di ciò che in qualche modo dicesse l’indicibile. Ebbene, in questo Canzoniere compare invece l’espressione “germogliando alfabeti”, come in ascolto della voce della moglie: “Ascolta! Ascolta! Ascolta! / Il rintocco delle campane ha sempre l’eco / delle tue parole, / delle tue parole sussurrate in penombre vespertine, / delle tue parole incise nel mio ricordo / per incendiare convulsioni improvvise” (A sera, p. 72).

Questa assenza, questo silenzio producono dunque spontaneamente, naturalmente, naturalisticamente (germogliare, appunto), il bisogno di produrre un canto, un threnos. E la parola treno compare nel componimento Un treno in ombra (p. 19), sì, come simbolo del viaggio – della vita come “viaggio in sospeso” –; ma questo “treno senza meta” sembra rievocare anche il genere letterario, la trenodia, il canto per la perdita di un caro; in Specchio (p. 75) possiamo leggere, seppure declinato come impossibilità: “Non so piangere! Non so trasformarle lacrime in versi / e versi in lacrime”.

Il riferimento al treno e al viaggio ci permette qui di recuperare il tema del tempo, di cui sempre è tramato ogni riferimento alla vita, alla memoria che tenta di sottrarre all’oblio e all’ombra ciò che si è perduto scivolando dal piano del tempo finito a quello dell’infinità e dell’eternità dell’ombra. E c’è nel libro tutta un’insistenza lessicale, e dunque concettuale e sentimentale, sulle gradazioni – buio, ombra, penombra, luce, bagliore, oltre che un richiamo continuo ai colori che nella luce prendono vita, o anche e soprattutto alla “dissoluzione di colori” (p. 70). Ma non c’è un netto contrasto dialettico tra ombra e luce, nell’incertezza complessiva, nel dubbio che grava su tutto. Il riflesso della luce si fa riverbero, abbaglio, parvenza e quindi illusione (a cui corrisponde anche il “tranello” che è la vita).

Illusione, altro termine fondamentale in questo libro. Altro sentimento che, anche ontologicamente pervade l’esistenza.  L’illusione dell’eternità dell’amore, perché la morte ha strappato l’oggetto-soggetto d’amore. Illusione perché l’attesa del ritorno rimane insoddisfatta: Non ritorni è il titolo di un libro precedente del 2016, un altro capitolo di questo perenne canzoniere dell’assenza. E in questo recente libro leggiamo: “La tua assenza scivola, e affogo l’ultima illusione” (p. 80).

Eppure in questo abbandono, in questo gioco tra illusione-disillusione-delusione c’è un momento nel quale sembra di avvertire una fugace composizione, o almeno la traccia di questo bisogno. Emblematico è in questo senso il testo Insieme (pp. 46-47). Leggiamo, anche se il senso delle espressioni andrebbe ulteriormente indagato nella complessità del testo: “alterna fortuna aggrega persone”; “aggrega figure”; “bene comune”; “aggregare lingue”; “legami di sangue”; “la proiezione della comunità”. Tutto ciò “all’incrocio del golfo” – Napoli, la città, la comunità – e “ancorati alla Croce”, in una “convergenza del credo”, e compare anche il termine “vangelo”. In un libro tutto incentrato nell’immanenza di un sentimento terreno, pur fortemente spirituale oltre che fisico, si affaccia, per scorci, un elemento religioso: la Croce è scritta con la maiuscola. Sappiamo che pur nella sua ricerca laica Spagnuolo ha pubblicato ormai molti anni fa «Io ti inseguirò». Venticinque poesie intorno alla Croce. Qui l’inseguita è la donna amata, ma si rivede, in uno scorcio, la Croce, come in una momentanea pausa nel dolore dell’assenza: “dove tutto è sospeso nel luogo che accoglie”.

Ma, nonostante le violenze che ho praticato al testo estrapolandone lacerti che, a partire dal titolo, Insieme appunto, testimoniano pure una via d’uscita, prevale ancora e sempre il sentimento dell’assenza: “Le mie mani ti vorrebbero ancora, / ma stringo inutilmente le mie dita / tra il cuscino e il silenzio, / e rivivo riflessi nei rintocchi / di un orologio indiscreto” (Ironie, p. 77). E proprio in conclusione c’è un velo, seppure un “velo di malizie”, che, scrive il poeta, “avvolge il mio ricordo nel segreto”.

 

*

Madre di parole

 

Secondo una concezione della psicolinguistica, il linguaggio sarebbe stato inventato o almeno sviluppato dai maschi degli esseri umani ai fini del corteggiamento. Un’altra teoria ritiene invece che a crearlo sarebbero state le donne preistoriche raccolte intorno al focolare allo scopo di comunicare tra loro ma anche controllare la prole. Personalmente, mi piace più la seconda ipotesi che mi è venuta in mente leggendo il titolo di questa esordio poetico in volume di Lina Sanniti, Madre di parole (deComporre Edizioni, Gaeta 2017) che richiama, per la donna, non solo la procreazione di corpi, ma anche la (pro)creazione di parole. E il libro appare come un ritratto di sé dell’autrice come persona – e donna – e come poeta. Si tratta, in effetti, come dice Floriana Coppola proprio nell’apertura della sua prefazione, di un “laboratorio esistenziale” (p. 8), ma, come chiarisce successivamente la prefatrice, non solo individuale, ma anche interpersonale: “Tra le strofe emerge il ‘noi’, come la fotografia istintiva di una coralità a volte di tutti e a volte più femminile” (p. 9). Il primo testo s’intitola proprio Passi di donne. E nella seconda stanza del componimento leggiamo:

 

Le strade hanno passi di sangue

impronte cieche, pesanti, silenziose.

Corpi di donne che grondano colpe

ignare di un destino che cuce le bocche,

spezza le reni, sconquassa i cuori.

S’insinua sotto pelle una scheggia di dolore

che il tempo non dissolve, non risolve” (p. 15)

 

Laddove l’ultimo verso, ripetuto suggestivamente, con minima variante alla fine delle tre stanze di cui si compone la poesia, ci restituisce il senso stesso della vita, di ogni vita, che appare sospesa nell’arco temporale in cui si tende mai definitivamente risolta eppure lì, sempre lì, finché è concesso. E seppure nel prosieguo la poesia si sviluppa liricamente – lirica come confessione d’un io –, questo primo testo inquadra, impagina il resto all’interno di una prospettiva trans-personale: come di chi appartiene a un più ampio genere – genere femminile, genere umano – del quale la propria vita è testimonianza; e in fondo è inevitabile affermare: “il mio corpo fulcro del mondo” (p. 47) .  Così, di fronte all’assenza altrui, va rivendicato il proprio esserci: “La mia presenza / ciondola tra spazi e figure vuote / ignara della vita che scorre / eppure… io vivo!” (p. 27). Ignaro scorrere della vita che riecheggia ulteriormente quel non dissolversi-non risolversi. Ma se prima la cornice del proprio esserci era il tempo, qui è lo spazio, in un rapporto spazio/tempo fondamentale in questa raccolta. Una sezione – quella precedente in verità – s’intitola proprio Gli spazi vuoti. Nella terza e ultima sezione, quella che dà il titolo al libro, viene ripresa la metafora dei passi, ma declinata individualmente: “Proseguo il mio transito terrestre / a piccoli passi in cerca di un equilibrio / che non esiste ma mi tiene in vita” (p. 35). Di nuovo la magica sospensione tra il non risolversi ma neanche dissolversi.

Ne va quindi della propria identità, come è chiaro ne Lo specchio (p. 40):

 

Come in uno specchio invaporato

la mia immagine distorta

offusca sagome e storie

e le porge all’oblio di confusa memoria.

 

I bordi smerigliati e da sguardi incisi

la mia luce irradiano in ogni dove

tra fughe perdute e dolci ritorni

mi sorride ora quel volto che sarei.

 

Ma anche l’identità, che è ciò che conquistiamo in quel punto di equilibrio – nei vari punti di equilibrio –, non è mai assolutamente definita e definitiva. Che è ciò che emerge ne La forma (p. 44), la forma delle cose ma più specificamente la nostra: “mi piego, mi allungo, mi curvo, / ogni forma mi deforma”; e ancora, a chiudere: “Mi stendo, mi accolgo, mi arrendo / poliedrica posa ambisco e sfuma / mi allineo al tempo contromano / e a corrermi incontro rinuncio invano”.  E appare di nuovo come ciò che siamo sia il frutto dei passi – a piccoli passi o di corsa – che compiamo. L’indefinitezza dell’identità cercata/costruita è resa dal classico lemma “ombra”: “Seguo la mia ombra smarrita / l’abbraccio e la trattengo, siamo ‘noi’, / per questo le parole mi servono” (p. 46). E si presentano due questioni, a cui abbiamo già accennato: il ‘noi’ e le parole (alle quali pure si attaglierebbe il tema della “forma”: la nostra forma è quella che diamo alle parole con cui di noi stessi parliamo).

1) Il ‘noi’. Il noi è la famiglia: ed ecco il padre (“mi hai offerto il braccio e il pugno / eri l’ancora e la tempesta”, p. 16) che dissetava la sete di vita delle figlia che pure tendeva a smarrire la via. È la casa, o meglio le Case impopolari (p. 18) che raccolgono un’infanzia tra cielo, campagna, croci di cimitero e fumarole di fabbrica, tra il cortile sorta di prateria nella fantasia e le pareti come abbattute dal vociare delle madri con la comparsa solo serale dei padri (“Nell’alveare delle nostre nuove case / mi mancava più di tutto lo sgabello della nonna  / sul quale sapevo saltare e cantare felice”); si tratta anche de Le case degli altri (p. 50), da un titolo che evoca la Casa d’altri di Silvio d’Arzo: nel testo della Sanniti, tra il “restare” e l’“andare” si svolge una fenomenologia del luogo “altro” nel quale si gioca il senso della propria estraneità e inappartenenza, un luogo astratto e reso universale pur nella presenza di dettagli precisi – letti a baldacchino, venature del legno, colori alle pareti; precisa ed evocativa allo stesso tempo, nella sua concisa eleganza,  la scrittura, declinata in gruppi di versi ciascuno autonomo e insieme sviluppo del testo complessivo. Quindi, la citta cantata in Napoli intima (p. 22) che sa eternarsi nella passione di due fugaci amanti: “Ti cerco nell’abisso delle tue viscere / risalendo verso la luce del tuo mare / ogni strada, ogni crepa, ogni onda / mi è compagna e mi riconduce a te”. Infine (last but not least) l’amore e la sensualità (“All’ombra del cuscino  senza pace / mi svesto di sottana e di piacere. / Le braccia sono rami all’infinito / e le gambe piantano rovi forse ulivi”, p. 39).

2) Le “parole”, quindi, tracciano un “vivere scritto” anche se non sempre riescono – anch’esse come la vita – a raggrumarsi in un senso compiuto (“Microcosmi di sensi divenuti parole”, p. 30) nonostante il tentativo di legarle con la rima. Così proprio nel testo eponimo, Madre di parole (p. 43):

 

Affido la lingua al filo del fuoco

spengo parole povere di senso

sospeso il vuoto di un vivere scritto

scompongo gli argini carichi di segno.

 

Bianco il foglio del mio corpo aureo

il guizzo attende d’inchiostro etereo

nell’aria svolazza la rima impertinente

riprendo a memoria il racconto silente.

 

Non sono madre di niente se non di parole

E anch’esse a volte ramingano sole.

 

Una scrittura di classica misura che non ostenta le ferite o i piaceri della vita ma, a volte quasi sottovoce (“ingurgito il vapore del non detto”, p. 31), ne porge al lettore i ‘segni’ che pur restano, nella vita e nella coscienza – di chi scrive, di chi legge –, indelebili.

 

*

Passi sui sassi

 

Dopo il romanzo Acqua piena di acqua (2016), che fa seguito ad altre opere narrative, Cinzia Della Ciana esordisce in poesia con Passi sui sassi (Effigi, 2017). Come si vede (si “sente”) dai titoli, il lavoro di Cinzia Della Ciana è molto attento ai suoni. Nel primo caso l’iterazione di una stessa parola, nel secondo caso una sorta di rima interna al titolo, assonanza e consonanza insieme, con queste “s” che si ripetono in modo allitterativo. Così è anche per i titoli dei capitoli del romanzo (tutti incentrati sulla parola “acqua”) e delle sezioni delle poesie (“Scorticati passi”; Stazionati sassi”; “A spasso”; “Sorpassi”; “Sassaie”). Il lavoro sulla scrittura è dunque fondamentale: per usare la categorizzazione di Roman Jakobson, è pienamente centrata la “funzione poetica” nella quale l’attenzione è concentrata non tanto sul destinatario o sul contenuto del messaggio, ma sulla forma stessa del messaggio. “Nel caso del linguaggio verbale, essa [la funzione poetica] focalizza l'attenzione sull'aspetto fonico delle parole, sulla scelta dei vocaboli e sulla costruzione delle frasi. Il suo obiettivo è comunicare la propria forma, suscitare emozioni o riflessioni tramite la musicalità delle parole. L'alternanza regolare di fonemi vocalici e consonantici ha lo scopo di rafforzare l'espressività del messaggio” (wikipedia). In letteratura, in poesia soprattutto, è sempre così, ma ci sono autori nei quali tale aspetto ha una rilevanza maggiore. L’attenzione-concentrazione esasperata sul significante, il gioco fonosimbolico – fare del significato attraverso la “forma” del suono – sono una caratteristica della poesia di Cinzia, in un’accentuata sperimentazione che però non l’apparenta alla neo-avanguardia o ai suoi epigoni: una scrittura atipica oggi, ma anche nel panorama italiano. Questo scavo sulle risorse sonore del linguaggio l’allontana dalla linea petrarchesca che ha caratterizzato molta parte della lirica italiana – benché lei, nata a Montepulciano viva proprio ad Arezzo, patria di Petrarca. Questa poesia è invece ascrivibile al filone dantesco più petroso, e non a caso Dante compare in questo libro (vedi Ruina) il cui titolo richiama proprio i sassi, le pietre.

Passi sui sassi, un road-poetry, una poesia del viaggio, ma di un viaggio accidentato qual è quello di ogni vita, tanto che nei suoni, talvolta aspri, duri, prodotti da questi versi, e dal loro ritmo incalzante nell’incontro-scontro dei suoni, sentiamo il rumore delle pietre smosse dai piedi che compiono i passi. Un ritmo, come qualcuno ha detto, che può ricordare la musica di Beethoven che orchestra un’armonia di livello superiore, mai facile.

Di “viaggio iniziatico” parla Adriana Gloria Marigo nella prefazione, un viaggio arduo nel quale, “pagina dopo pagina, affiora con forza petrosa la catarsi resiliente che trova nella parola non consueta, ricercata, colta, arcaica, collocazione alta […]” (p. 7), con “voci trecentesche, molto sonore” (p. 8). La stessa prefatrice sottolinea il ruolo della poesia-manifesto La Route, una sorta di baudelairiano Invitation au voyage, possiamo dire, dove leggiamo: “Canto il cammino, nostro presente. / Meta è il passo sasso non teme, lo compie la mente / pronta risposta la staffa preme”. La meta è il passo, dunque il viaggiare stesso, in un eterno presente; il che ci ricorda, tra i tanti, il Nietzsche per il quale nel viaggio conta il viaggiare: non c’è meta finale perché ogni passo, ogni momento, è meta. Un viaggio non solo fisico, ma anche e soprattutto mentale. Questo viaggio è un nastro che si srotola, un fiume eracliteo che scorre. Ed Eraclito qui tiene insieme due eraclitei così diversi tra loro, il Nietzsche dell’inizio, ed Hegel della fine: “La strada dà il senso al nostro canto, / sarà così: d’improvviso scoprirsi arrivati, / col viaggio che ci avrà fatti e inventati” (p. 13). È il divenire che ci fa ciò che siamo, che costruisce la nostra identità che non è mai data all’inizio del percorso. Sono i Passi sui passi del testo successivo, altro gioco di parole sull’iterazione della parola intera e non solo sui suoni come invece nel titolo del libro (passi/passi invece di passi/sassi).

Il senso del viaggio, del movimento c’è dato, anche in altri casi, dal moto dell’acqua, protagonista anche qui, come nel romanzo menzionato. Due esempi possono essere, in due sezioni diverse, Telamonio, scoglio (p. 33) e The Thames (p. 51). Nel primo caso vediamo giocare fra loro tutti gli elementi fondamentali – la terra, il sole come fuoco, il mare come acqua e un movimento di vento che ci suggerisce l’aria: “Gemano le spume sprezzanti / e lacere taglino gli spruzzi acuti”. Nella seconda, un fiume, il Tamigi, appare come “mare aperto”, dentro un argine che sì, regge la forza dell’acqua, ma non protegge. E “l’animo erra”: erra dunque nel senso di vagare, ma anche sbagliare e smarrirsi. Infatti, più giù due volte si legge interrogativamente: “È così perdersi?”.

The Thames potrebbe essere considerata “poesia d’occasione”, nata dalla visita di un luogo; ma la visita diventa a sua volta occasione per una riflessione poetica universale. È così anche in altri casi, nei quali il luogo, il paesaggio vengono stenografati. Se nella tessitura sonora viene sollecitato il senso dell’udito – anche solo nell’immaginazione del suono nella lettura in silenzio –, in questi casi viene coinvolta la vista. E udito e vista – sensi elettivi – sono a loro volta i testimoni del viaggio. Alla fine di Miraggio – non a caso così intitolata in una crasi di “mirare” e “viaggio” –, subito prima di The Thames, leggiamo,: “Appigli i tuoi passi, / artigli i tuoi occhi, / miraggio lassù” (p. 50). Siamo qui nella sezione A spasso, che già nel titolo si pone come luogo di visitazione di luoghi. Proprio per questa sezione, anche la prefatrice pone in stretto collegamento poesia e sguardo, e pittura. La poesia si fa stenografia dei luoghi attraversati, delle immagini, secondo il motto oraziano Ut pictura, poësis, “come nella pittura, così nella poesia”. E la Morigo risale fino a Simonide di Ceo che scriveva “la pittura è una poesia muta e la poesia, una pittura parlante” – riecheggiato successivamente, possiamo ricordare, nel Trattato della pittura da Leonardo Da Vinci: “La pittura è una poesia che si vede e non si sente, e la poesia è una pittura che si sente e non si vede”. È la cosiddetta “poesia ecfrastica” che si è cimentata fin dall’omerica descrizione dello scudo di Achille nel rendere “visibile con le parole”. Ed esemplare, nel libro di Cinzia, è il primo testo di questa sezione, Santa Fiora (p. 48). Ma anche Sky Line (p. 37), nella sezione precedente, esprime il carattere ectodico di questa poesia, e nel finale compare un dito che dipinge: che dipinge, possiamo aggiungere, anche battendo i tasti di un computer. Tornando a Santa Fiora, c’è qui un neologismo – e i neologismi sono frequenti in questa ricerca poetica –, “grigiare”, nel quale, come altrove, un sostantivo diventa verbo rafforzando visivamente – in questo caso – la sensazione del mutamento atmosferico. Quindi l’immagine si fa poesia non solo attraverso il significato delle parole, ma più sostanzialmente attraverso la stessa materia sonora del significante. Anzi, sembra che le immagini stesse suggeriscano la sonorità che deve pronunciarle: “Mentre dall’alta piazza / palizzata di palazzi” ecc., e poi “aperta terrazza / carezza vuota”. Qui, e altrove, è come se dalle parole, dalla loro sostanza fonica, si volesse trarre tutto il possibile. Come scrive in una nota online Armando Saveriano (Facebook, 18 settembre 2017): “Una trafittura lessicale, una densità di scrittura e un intreccio che tien conto di tutte le possibilità offerte dalla lingua e dal reticolato di simboli, allegorie, arcipelaghi innovativi, al limite della generosità neologica”.

Non è solo il paesaggio antropizzato a essere investigato nella propria storia, ma anche la natura, rivissuta verbalmente come un quadro, come in Bosco lungo (p. 39), tra i cui alberi, in cerca di storie, muovono ora i passi. Il linguaggio si essenzializza poi, fino al verso di una sola parola, quando dal paesaggio lo sguardo si ferma sull’Umano, su quella parte dell’umano che il mondo femminile, l’altra metà – e più – del cielo: “Solo / umano / è / l’intera donna”.

L’insistenza sugli aspetti linguistici, sulla scrittura potrebbero indurre, leggendo queste analisi, a pensare a una poesia come puro divertissement formale il cui referente è solo un pretesto. Ma, come si diceva, la sperimentazione di Della Ciana è altro rispetto a quella volutamente ed allora necessariamente dissolutrice delle neo-avanguardie, e la ricerca del senso della vita è proprio portata avanti esplorando lo strumento che dice la vita, e cioè la parola. Questo viaggio nella parola tiene insieme presente e futuro, nonché il passato, tenendo insieme la vita stessa che tra passato e futuro si tende, rendendola eterno presente. Passi sui sassi, la poesia eponima, che chiude anche la raccolta, si conclude, rilanciando il viaggio: “E tu riparti col ricordo del futuro / nel seminare passi sui sassi / eterni il presente” (p. 81).

 

*

Impero



   Nella postfazione del primo libro di poesia di Bruno Di Pietro, Colpa del mare  del 2002, Alfonso Amendola parla di una “feroce limpidezza”. Nell’introduzione a minuscole del 2016 (la precedente raccolta), Mimmo Grasso parla di “eleganza”.Cifre stilistico-contenutistiche, la limpidezza e l’eleganza, che caratterizzano tutta la scrittura di questo autore, scrittura nella quale, all’interno di una misura e di un orizzonte classici, passa tutta il travaglio della modernità o tarda modernità. Se, come scrive sempre Amendola, “È l’andare greco il primo procedere della poesia di Bruno Di Pietro (a partire dalla scelta eleatica dell’unicità)”, è ora l’andare romano, latino, a segnare questo più recente Impero. Ma è il cinquecento fiorentino a far da sfondo alla plaquette Della stessa sostanza del figlio del 2008: qui il travestimento assunto da Bruno è quello di un eretico del tempo, Francesco Pucci, uno dei nomi che fa seguito a quelli di Ippàso o di Liside della prima raccolta, o ancora di Massimiano di acque/dotti del 2007 (tanto per fare solo alcuni esempi): ora è la volta degli imperatori romani da Augusto a Marco Aurelio. Nomi-simbolo come Di Pietro li definisce in una sua precedente nota d’autore, o travestimenti, ma forse non eteronimi, o almeno non sempre, soprattutto per Impero, nel senso di un Pessoa (vedi Ricardo Reis ecc.), o, più recentemente, di un Cucchi (da Glenn a Jeanne d’Arc). Più che altro, come dice Marcello Carlino nella prefazione di Impero, Di Pietro sembra ora fare da ventriloquo, prestandosi a dar la voce a una serie di personaggi che si esprimono in prima persona. Per citare il Walter Beniamin evocato dallo stesso Carlino per questo libro, possiamo aggiungere che la raccolta di Di Pietro appare come un benjaminiano libro di citazioni, o presunte tali. Per cui sembra di trovarsi di fronte a un citazionistico romanzo storico polifonico.

   La storia. Qui, come altrove per Di Pietro – e come è nella tradizione dei grandi romanzi storici –  la storia è il mezzo attraverso il quale parlare del presente. Diciamo “romanzo”, perché si dispiega in Impero una narrazione in versi che copre un lunghissimo arco di tempo. Solo che di poesia si tratta. Ora, la poesia, quella contemporanea, ha spesso avuto commercio con la filosofia – che c’è anche qui – o con la scienza (vedi un Edoardo Cacciatore in cui c’è l’una e l’altra insieme a un lavoro innovativo sulla “forma chiusa” della tradizione). Meno consueta oggi è probabilmente la poesia “storica”, il chiamare in causa appunto la storia, i suoi eventi, le sue trame e sotto-trame.

   Di Pietro ci parla senza dubbio dell’Impero romano e fa parlare i suoi protagonisti. Ma l’Impero diventa chiave di lettura dell’oggi, come anche Carlino mette in rilievo. E come fa Carlino possiamo chiamare in causa non il simbolo, ma l’allegoria in senso benjaminiano. Con il simbolo io dico una cosa attraverso un’altra che la richiama:  un symballein, un “mettere insieme”, come sottolineava Heidegger, ma con un ‘retrogusto’ di astrattezza, e, se vogliamo, di arbitrarietà: il gabbiano che simboleggia la libertà. Nell’allegoria invece significato e significante s’identificano in un grado maggiore di concretezza. Il teschio è la morte, e, in quanto tale, è allegoria della morte. L’Impero romano è, in questo libro, l’Impero romano, declinato nelle varie voci che ne parlano, ma, allo stesso tempo, è allegoria di ciò che possiamo chiamare Impero nell’età della globalizzazione. Ma l’uso dell’allegoria, l’armamentario metaforico al posto della escussione diretta dei documenti dell’epoca odierna, ci danno una sorta di “distanziamento melanconico”, di “pronuncia straniata”, che producono un effetto di diplopia, per dirla ancora con Carlino che scrive: “Sulla politica dell’Impero di allora, che si fa forte di un illusorio universalismo utopico, e sulle sue mappe si sovrappongono – scorrono in corrispondenza, ma senza enfasi declamatoria alcuna – le mappe dell’impero di oggi: eccoli i segni della globalizzazione: di una difficoltà insuperata di governo delle dinamiche economiche transazionali eterodirette, […] della dispersione centrifuga fino alla polverizzazione di assetti coesi, di condivisioni reali” (pp. 7-8).  Ieri come oggi, dunque, una tensione verso una dimensione sovranazionale che finisce per polverizzarsi nel particolarismo: i regni romano-barbarici una volta, e oggi il regionalismo (nella versione catalana e primoleghista) o il sovranismo di tipo trumpista-lepenista (e della Lega attuale). Ma l’analisi del critico letterario Carlino assume qui una virata economico-sociologica che può ricordare le critiche alla globalizzazione dei sociologi Zygmunt Bauman e Ulrich Beck. Ma viene in mente un libro di filosofia politica di diversi anni fa, che ha lo stesso titolo: Impero del 2001 di Michael Hardt e Antonio Negri. E il sottotitolo, almeno nell’edizione italiana, è proprio “il nuovo ordine della globalizzazione”. Scrivono gli autori nella prefazione: “L’impero si sta materializzando proprio sotto i nostri occhi. […] Di fatto, l’Impero è il nuovo soggetto politico che regola gli scambi mondiali, il potere sovrano che governa il mondo” (p. 13). Che si accetti o meno l’impostazione marxista degli autori, quello che è sottoscrivibile è la determinazione in termini di “impero” della globalizzazione odierna (ma, più in generale spesso si usa parlare di imperialismo come forma di controllo indiretto subentrato ai governi diretti del colonialismo), un impero che, viene specificato, non nasce né spontaneamente né per direzione unica e centralizzata. Una complessità dunque che, per altre strade, e con la concisione della poesia – una poesia a levare, e non solo nelle minuscole il cui titolo era già programmatico – qual è quella di Di Pietro.

   Ma quali sono, in tal senso, gli indizi nell’Impero di Di Pietro?

   Innanzitutto, il titolo della prima sezione, “Un solo continente un solo Impero”, laddove l’eurocentrismo dell’enunciato si spiega con l’orizzonte storico della romanità: ma “continente” appare sineddoche di “mondo”, e già la globalizzazione romana era transcontinentale. Nell’Impero romano si esprime l’utopia di ridurre a unità universalistica un intero continente, e che mutatis mutandis può corrispondere oggi a una Unione europea nella quale a Roma si sostituisce la Germania come cuore di un novello sacro romano impero germanico.

   In Di Pietro il sogno dell’Impero si presenta non solo come incubo distopico ma anche come utopia positiva: “luogo buono” se intendiamo l’etimologia della parola non solo come ou-topos – “luogo che non c’è” – ma anche come eu-topos.

  Nel proemio infatti leggiamo:

 

Inonda luna piena il tempo della luce.

Racconta luna nera i chiaroscuri

di chi ha governato

i luoghi più belli e civili della terra.

                Regalaci la parola

di quelli che vi hanno preso parte

in prima persona

                            o in disparte (p. 13)

 

   Abbiamo qui già indicazione del contenuto (il governo dell’Impero) e la forma (la parola di quelli che vi hanno dato vita). E nel testo immediatamente successivo, Il sogno di Augusto (p. 14) si delinea la pax augustea: un vasto territorio popolato da “città magnifiche” con fontane, templi e ginnasi, tra loro collegate da strade lungo le quali viaggiano merci, così come per mare sulle navi vengono trasportate mercanzie verso il vicino oriente: “Tutto il mondo sembrerà un solo principio e fine / così tutto sarà ordinatamente al suo posto. / Conquisteremo tutto o saremo perduti. / […] Lo chiameremo Impero / questo ordine austero.” “Il ponte sul Danubio” (titolo della terza sezione, o libro terzo) proietta l’impero sempre oltre, oltre il confine naturale rappresentato da un fiume. Ma anche i ponti servono all’economia, si dichiara al riguardo (e pontos era in greco un altro termine che stava a indicare il mare come mezzo di congiunzione tra terre diverse)

   Ma già nel testo che segue, Roma, la più grande delle città magnifiche, la capitale, è aggredita dal male (altrove, più di una volta Urbe rima con Turbe, lemma polisemantico che può stare per accozzaglia, moltitudine confusa di persone, ma anche per disturbi psichici, e quindi per disagio in generale): “La zanzara anofele e la malaria infestano la città / la gotta si diffonde quanto più cresce il lusso. / In Senato non si è più discusso delle cloache / ora che, principe fra i pari, gli ho restituito il potere”. La malattia morale vi appare come malanno fisico, e ciò che è stato il bene dell’Impero, le ricchezze accumulate, ne appare anche come tarlo del male. Infine, le gloriose istituzioni politiche come il Senato, non svolgono più il loro ruolo. L’Impero si dà una moneta unica, ma non basta formalmente coniarla, servono miniere, serve nuovo argento. E se l’Impero cresce, Roma e il popolo s’indebitano. “Fortunati i mercanti” si legge alla conclusione di un testo così intitolato (p. 16). Se vogliamo, possiamo vedervi in controluce, o in pieno sole, i riferimenti all’oggi: per restare in casa nostra, il senato conservato ma sempre imbelle in un parlamento incapace, o, a livello transnazionale, una moneta unica che aggrava problemi e indebita popoli. Prosperano in questo i mercanti, siano anche quelli degli odierni mercati finanziari, a scapito della gente. Vespasiano, per grassare il popolo, arriva a tassare anche i bagni, oltre a istituire tante altre tasse per città e province, tra cui quella riservata ai Giudei. Ma le tasse servono anche per le scuole di retorica volute da Quintiliano. E come il suo passano, in queste pagine, tanti altri nomi “in disparte”, accanto agli imperatori: Seneca, Plinio (e quelli di Mosè e Gesù).

   Tra le ombre, anche le luci della cultura. Il testo che dà il titolo al libro secondo, La via della sapienza del diritto (che sa anche di filosofia orientale con il richiamo al tao, appunto la “via”) recita:

 

La via della sapienza del diritto

guadagna le massime astrazioni:

ci liberi la dottrina dalla tirannia

dai pratici e dai venditori di orazioni

dai compilatori di suppliche

dirette al potente di turno

ci liberi dall’arbitrio e dal cavillo

dalla consueta processione di avvocati

dalle magistrature speciali

sempre compiacenti e colluse.

Ci liberi la dottrina dalle norme confuse

E incomprensibili. Così la sapienza rivivrà nei secoli,

fin quando il sapere prevarrà sul saper fare” (p. 45)

 

   Roma è anche la culla del diritto, così come l’Italia ne sembra la tomba, mentre la Grecia ha visto nascere la filosofia. E “Rialzati Grecia” è il titolo del Libro quarto, e penultimo. Il richiamo, che può sapere di attualità rispetto alle odierne vicende (la Grecia, anche per colpe proprie, ha più risentito della scure europea) ci riporta ovviamente al tempo della nascente latinità: la Grecia vinta dai Romani ma vincitrice per cultura. L’Impero, quello di allora e quello di oggi, hanno necessità del patrimonio – non economico ma culturale – della Grecia. Il richiamo alla Grecia indica anche il ritorno alla vocazione mediterranea rispetto a quella atlantica, quel mediterraneo che già per Hegel era l’ombelico del mondo sul quale si affacciano i tre continenti che hanno fatto la storia del pianeta, prima che la via dell’Atlantico conducesse altrove: Europa, Africa e Asia.

   Ecco dunque l’esortazione all’Ellade cuore dell’Occidente mediterraneo:

 

“Rialzati, Grecia!

Padrona della sintassi originaria

sintesi di tutti i possibili paradossi

vinta e vincitrice al tempo stesso

portasti le arti nel rozzo e agreste Lazio.

 

Rialzati, Grecia!

Tuo sarà il pensiero comune dell’Impero:

[…]

 

Grecia vinta, sottomessa, genuflessa

Rialzati!

Il tuo destino non potrà mai essere oscuro

Poi che l’origine sempre è il futuro” (p. 61)

 

   È quanto l’imperatore Adriano avrebbe detto alla risorta assemblea del Panellenio, invocando il pensiero meridiano, che noi oggi diremmo nicciano, additandolo ai poeti, pochi dei quali frequentano il mezzogiorno, preferendo l’oscurità.

   E proprio ai poeti è dedicato il quinto e ultimo libro di questo Impero: “Alle navi, poeti!” che riecheggia di nuovo il nicciano “alle navi, filosofi”. Il filosofo Marco Aurelio lamenta che la filosofia non gli ha dato nemmeno una zattera. Forse solo la poesia, e i viaggiatori (Ulisse, Enea navigatori del Mediterraneo), possono porre rimedio all’assenza di senso, alla senescenza e alla decadenza. Ecco quindi un nuovo invito al viaggio, e contemporaneamente una spezzatura del cerchio che interrompa il cammino verso il declino dell’Occidente europeo e un’inversione di marcia. E così Marco Aurelio conclude: “Quanto povera è la filosofia! / Vorrei essere poeta per estinguermi nel canto. / Ho visto il quasi niente e il non ancora / ora e nell’ora della mia fine” (p. 83). E questo adagio che sa quasi di formula cristiana ci riporta alla fine di Augusto, laddove inizio e fine sembrano già coincidere.

  Infatti, nell’alba dell’Impero se ne intuisce anche la fine, che fa tutt’uno con la morte del primo imperatore, nei componimenti numerati VI e VII (pp-19-20). Dice Augusto attraverso il ventriloquo Di Pietro: “Il mio viaggio verso l’origine si ferma a Somma / non si può vedere l’inizio prima della fine” (un’ipotesi vuole che Augusto sia morto tra Somma Vesuviana e Nola). Da un lato, sembra di intendere che tutto riceve un significato, e svela il proprio senso, anche nel senso di direzione, solo alla fine, dall’altro si registra lo spaesamento di chi naviga nella storia, nel mondo, nelle cose degli esseri umani, con un ineludibile sensazione di cupio dissolvi, al quale, però, ricordiamolo fa da antidoto l’esortazione precedentemente ricordata rivolta alla Grecia, alla poesia, alla cultura, e al diritto. Continua il testo VI:

 

Svanisce l’erba in questi afosi giorni estivi

svaniscono le rose prima del crepuscolo.

 

È questa la notte dell’antico niente

e persino le ali della luce sono lente

e quando non sai più se l’ora passata

è un’ora persa o un’ora guadagnata.

 

Ascolta.

Il cigolío degli scalmi

Lo sciabordío dei remi

Annunciano l’avvento del battelliere

(e tu ne tremi)”.

 

   E qui la storia si fa senz’altro poesia, attenta e misurata. Ma se adesso la dimensione si fa intima e raccolta, possiamo chiudere con un ulteriore e ultimo riferimento alla dimensione globale di ieri e di oggi cui questo Impero allude. Non è Napoli a essere “porosa”, come la definiva Benjamin in quanto coincidenza di opposti, di esterno e interno. Ma è Roma, e cioè l’Impero:

 

“Roma porosa assorbiva la civiltà intera.

[…]

E non basteranno confini, eserciti, ponti

Nei confronti di popoli nomadi per elezione” (p. 77).

 

 

Nota: nelle citazioni fuori testo, alcuni versi sono riportati in corsivo, altri in tondo perché così nell’originale.

 

*

Sul corno del rinoceronte

 

   Inizia con il fermo-immagine della rivoluzione dei gelsomini del 2011, in Tunisia, il romanzo di Francesca Bellino, Sul corno del rinoceronte (L’Asino d’oro edizioni, Roma 2014): “Ombre di fucili disegnano movenze precise e lente sulle bianche case di Kairouan. I corpi statuari di soldati austeri e tristi sono l’unico elemento in movimento in uno scenario tetro e immobile. Saracinesche serrate. Strade deserte. Aria compressa. Carri armati sui marciapiedi. Ai bordi delle strade scarpe spaiate, spranghe, bastoni. Tutto è fermo, anche le nuvole in cielo. Il profumo rassicurante dei gelsomini e dei biscotti fritti della mia memoria è sostituito dall’odore acre dei lacrimogeni” (p. 11).

   Un gioco proustiano al contrario – la cancellazione di odori e sapori – mette in moto la memoria. Innanzitutto, questa sospensione: la rivolta, nel momento in cui sembra azzerare il passato, lascia tutti immobili, protesi verso un futuro che ancora non si conosce ma che ora diventa possibile.

   Quindi, da questo fermo-immagine, la memoria – e la struttura del romanzo – si muovono su diversi piani temporali in una sorta di contemporaneità emotiva. La protagonista, Maria ovvero Mary, un’antropologa innamorata di ciò che è altro, arriva in taxi da Tunisi a Kairouan per il funerale dell’amica – omonima in arabo – Meriem. Da qui, però, il racconto recupera, intersecandoli, momenti diversi: 1) l’arrivo a Tunisi di Mary e l’incontro con il taxista Hedi che la porta a Kairouan, terza meta sacra dell’islam dopo La Mecca e Medina, e che parla (a lei e a noi lettori) della nuova Tunisia in rivolta; e, indietro nel tempo: 2) l’incontro con Meriem a Roma, 3) il primo viaggio a Kairouan di Mary con Meriem.

   In questo andirivieni nel tempo, e nello spazio tra le due sponde del Mediterraneo le dimensioni si sovrappongono e finiscono per coincidere, perché la dislocazione spaziale – il viaggio nella Tunisia più profonda – significa anche un salto temporale in un mondo che appare, dall’ottica occidentale, sprofondato in un lontano passato. Le due realtà culturali s’incarnano nelle due donne che s’incontrano solcando mare, spazi, tempi e culture. Mary è profondamente occidentale, benché protesa all’ascolto delle altre “culture”, tanto che l’amico Kamel la rimprovera in occasione della prima visita a Kairouan perché si sta presentando a casa di Meriem con il suo succinto abitino di cotone: “Kairouan è una città tradizionale e la famiglia di Meriem è molto credente” (p. 71). Da questo mondo è arrivata invece Meriem alla ricerca di una propria identità che non sia appiattimento sulla tradizione. Ma il drammatico conflitto con se stessa e con il proprio mondo si conclude con la decisione di ritornare a casa dopo la lunga parentesi romana: e in quel primo viaggio a Kairouan Mary vi accompagna appunto Meriem, che fa ritorno anche per la fine del suo rapporto sentimentale con un italiano, legame che l’aveva spinta appunto in Italia.

   Con Meriem, Mary ha convissuto per un po’ nella sua casa al Pigneto, a Roma. Ed è proprio nel giorno in cui si trasferisce che la ragazza tunisina sembra uscire dal suo muto travaglio interiore per confidarsi con l’amica. Infatti. “Cambiare casa è voltare pagina, passare a un’altra fase, sognare cose diverse. Meriem voleva essere una donna nuova” (p. 77).  Ed è Mary a diventare per Meriem la “traghettatrice verso nuovi mondi” in un viaggio interiore che muta anche la donna italiana. Per dirla con l’antropologo d’origine indiana Arjun Appadurai – visto che siamo in tema d’antropologia – è l’etnopanorama stesso (il panorama etnico) delle due donne che si riformula sullo sfondo di una Roma essa stessa multiculturale: in particolare al Pigneto, quartiere contraddittorio tra “movida e criminalità, creatività ed elemosina, degrado e gentrificazione”, e con un’esplosione di variopinta natalità: “Ogni locale si era attrezzato di fasciatoio, seggioloni e giochi, per ospitare al meglio i piccoli clienti del futuro dai nomi stravaganti: Auronda, Nahuel, Ape, Frida, Zoe, Tea, Tomas, Adam, Leon, Martita, Alia, Denisa, Aden, Guergana, Atena, Alma, Laila, Jurij, Pavel, Maida, Morgana. Molti erano figli di immigrati o di coppie miste, ma anche gli italiani avevano cominciato a escludere i soliti nomi del calendario e a proiettare i loro piccoli verso un mondo globale” (p. 79).

All’interno di questo crogiuolo, Meriem va appunto alla ricerca della propria umanità, delle proprie emozioni – emozioni che, come le diceva la nonna, vanno cercate nell’acqua: e per questo, osserva Mary, il giorno in cui si erano incontrate, la tunisina “guardava con attenzione le diverse forme di acqua che la circondavano: dalle goccioline che si infrangevano e si agitavano nel perimetro limitato del finestrino di fianco a lei sul treno alle bollicine dell’acqua frizzante nella bottiglietta, alle gocce che colavano dagli ombrelli dei passanti” (p. 76).

   Il ritorno a Kairouan di Meriem, accompagnata da Mary e Kamel, è anche far rientro in una chiusura rispecchiata dalla disposizione stessa delle case che isola visivamente lo spazio privato e sacro da quello pubblico e profano. È anche tornare sotto il controllo del padre/padrone, appunto il “rinoceronte”, caratterizzato da un soprannome simile a quello del dittatore Ben Ali che verrà deposto proprio dalla rivoluzione dei gelsomini. Così appare la vita dei tunisini, e in particolare delle donne, tutti prigionieri nel loro stesso paese; limitati, anche dall’educazione tradizionale, nell’espressione delle proprie emozioni. Ma tant’altro, invece, cova nell’animo delle persone e rende più variegata la realtà: “I segreti sono nascosti negli occhi. Il mio primo incontro con la Tunisia sono stati gli occhi di Meriem. Poi mi sono imbattuta in quelli dei giovani in trappola, arresi ai bordi delle strade o persi davanti a squallide tazzine di caffè. Solo dopo ho incrociato lo sguardo saggio, affamato e sensuale di Faruk” (p. 90), il fratello di Meriem con il quale Mary ha una breve e bruciante relazione.

   Ma non solo il mondo maschile arabo appare incomprensibile a Mary, un mondo nel quale fin da piccoli, come lo stesso Faruk, i maschi devono imparare a nascondere le emozioni: neanche da neonati dovrebbero piangere. Ma anche il mondo femminile appare avvolto in un’atavica imperturbabilità. Sono le stesse madri musulmane ad allevare così i propri figli. E osserva Mary: “La madre di Meriem apparteneva a questa categoria di donne tradizionaliste e inumane. Il giorno in cui arrivammo a Kairouan fui colpita dalla sua freddezza […]. Si mostrò indifferente nel rivedere la figlia dopo tutti quegli anni […]. Restò muta, impassibile. […] I grandi seni si sollevavano a ogni respiro mentre il resto del corpo rimaneva immobile. Fissò la figlia lasciando trasparire a tratti rabbia, a tratti disprezzo. Le rimase distante” (p. 134).

   Alle donne è proibito anche piangere i propri morti. Per questo non sono ammesse ai funerali. E con questo pretesto Mary, finalmente giunta a Kairouan la seconda volta, viene respinta dallo stesso Faruk: non può essere presente al funerale, non può andare al cimitero. La frustrazione di Mary, il suo senso d’impotenza, portano al crescendo finale, al climax che anticipa la conclusione: la donna italiana si lascia sorprendere da un acquazzone e vaga sola per la città; e anche la scrittura, finora sorvegliata ed equilibrata pur nel descrivere emozioni e stati d’animo, assume toni più lirici e onirici, accompagnando una tempesta emotiva che si dispiega sotto lo scatenarsi stesso degli agenti atmosferici:

 

   “Il mio sguardo gira e rigira come un mulinello. Inizio a camminare a passo svelto tra i vicoli stretti, nelle tenebre che hanno ormai avvolto la città e il mio cuore. Per il momento cerco solo un riparo. Mi sento vulnerabile. Chiunque potrebbe farmi del male. Qualcuno mi fissa. Infiniti occhi mi osservano e mi giudicano. […] Tiro dritta in cerca di protezione dalla pioggia e dagli sguardi.

   Ogni stradina mi porta in un’altra ma nessuna offre una copertura. Non ci sono tetti, né portoni aperti, né ombrelloni. Non posso mollare, devo andare avanti. Per non fermarmi immagino di seguire una linea a terra che mi aiuti a proseguire senza guardarmi intorno. Le strade mi sono familiari. Sulle porte blu ci sono innumerevoli mani di Fatima che al mio passare si deformano. Le loro dita si gonfiano, poi si allungano per afferrarmi.

   Riesco a sfuggire la loro presa correndo dritta verso nuovi vicoli, terrorizzata. Sento di essere inseguita. Sento il fiato di qualcuno sul collo. Mi volto indietro e vedo un mostro con la faccia da rinoceronte. Ha un corno lungo e appuntito sulla testa e vuole infilzarmi. Accelero il passo senza urlare, senza sprecare respiro e cerco un ritmo” (p. 189).

 

   Nel gioco di specchi – due donne, due Paesi –, nella confusione della donna italiana rivive quella del Paese, la Tunisia, che Mary attraversa in questo road novel: un Paese minacciato da un rinoceronte, che è il dittatore, ma che è anche certa tradizione, un Paese alla ricerca di un suo nuovo ritmo. La scrittrice (Francesca Bellino), e la narratrice interna (Mary), in questo romanzo socio-politico e antropologico evitano il rischio evidenziato da uno dei padri dell’antropologia contemporanea, Claude Lévi-Strauss in Tristi tropici: l’amore per l’altro, per il diverso da noi ci fa accettare, come dato culturale intrinseco e imprescindibile di una certa cultura, ciò che critichiamo e rifiutiamo nella nostra. Il dialogo tra le due sponde, nell’ottica femminile delle protagoniste, è anche critica bipartisan di ciò che appare, che è inaccettabile. Non a caso la Tunisia è colta nel momento in cui si sporge sul ricominciamento della propria storia. E anche il finale a sorpresa del romanzo ripropone, in questo caso nelle singole e private esistenze, un nuovo inizio. Dopo il fermo-immagine.

 

*

L’adolescenza e la notte

 

La “poesia nomade” (come la chiamò Giuseppe Pontiggia) di Luigi Fontanella, dopo stagioni sperimentali, furori linguistici, ampi squarci prosodico-narrativi, sembra raggiungere una nuova misura, una nuova pacatezza. Questo raggiunto equilibrio formale recupera e riassume in sé le tematiche fondamentali della sua poesia: innanzitutto la memoria e il tempo. Quella di Fontanella è insieme poesia di lago e di fiume, dunque. Di fiume perché ha attraversato e sviscerato tutte le potenzialità della lingua. Di lago perché tematicamente ruota come un gorgo intorno a se stessa e ai suoi miti, alla sua mitologia personale. Per coniugare questi opposti – lago e fiume: ma il lago è fatto pure dal fiume di/da cui riceve le acque – mi viene di paragonare questa poesia, nel suo insieme, ai  “mitemi” di cui Claude Lévi-Strauss parla a proposito delle mitologie dei popoli: mitemi, cioè nuclei tematici ripetuti che però vengono riassemblati diversamente, producendo daccapo nuove contestualizzazioni pur riproducendo se stessi. E Fontanella scrive: “Partire da una macchia / per continuare un disegno / di senso compiuto” (p. 40).

Parlando di mitemi, mi viene da dire che questa nuova raccolta di Fontanella da un lato richiama una poesia di Cesare Pavese che proprio Mito s’intitola e che “spiega” la prima parte del titolo, e la prima delle due sezioni, quella dedicata appunto all’adolescenza  Scrive Pavese: “Verrà il giorno che il giovane dio sarà un uomo, / senza pena, col morto sorriso dell'uomo / che ha compreso. Anche il sole trascorre remoto / arrossando le spiagge. Verrà il giorno che il dio / non saprà più dov'erano le spiagge d’un tempo”. Così Fontanella è l’uomo, che forse con un sorriso meno “morto” di quello di Pavese, ricorda quando era lui il giovane dio. E scrive Fontanella: “Avrai i tuoi anni / le tue disgrazie le tue diaspore / le tue speranze” (p. 29).

Se Pavese c’introduce alla prima sezione, il nome tutelate che apre la seconda, dedicata alla notte, viene fatto da Fontanella stesso con un esergo tratto da un Novalis che si ripiega verso la “sacra notte … colma di misteri”. Ma un altro passo di Novalis vorrei ricordare, posto proprio nella prima pagina degli Inni alla notte e che ci permette di intrecciare, come congiunte sono, le due sezioni del libro di Fontanella il cui titolo potrebbe anche suonare come L’adolescenza ovvero la notte. Scrive Novalis in questo libro primo nel quale giorno e notte, vita e morte, vengono poste in rapporto dialettico: “Lontananze della memoria, desideri della giovinezza, sogni dell’infanzia, brevi gioie e vane speranze dell’intera e lunga esistenza vengono in grigie vesti, come nebbie vespertine dopo il tramonto del sole” (trad. di Roberto Fertonani).

Ma ora sentiamo Fontanella, la cui poesia nomade si muove dunque innanzitutto nel tempo, andando a recuperare l’antica stagione dell’adolescenza. Nel tempo, ma anche nello spazio, per l’indissolubile rapporto tra la contiguità spaziale e la successione temporale: “C’è solo da percorrere / lo spazio. La vita trasmessa / abbraccia la distanza” (p. 30). La lontananza temporale si misura allora anche come distanza spaziale. Un po’ rovesciando l’assunto manniano all’inizio della Montagna incantata, epopea del tempo, dove un allontanamento, uno spostamento fisico nello spazio dilata il tempo: ma nomade Fontanella lo è anche nello spazio tra due continenti.

Il ritorno rammemorante al passato adolescenziale è anche individuare un punto fermo nell’eracliteo divenire. Nello stesso testo, alla fine, leggiamo: “Il tempo è in quel concentrato assoluto, / fermo e preciso, come / il tiro secco in porta” (ivi). Ma come nel mito, quel momento è destinato a ripetersi indefinitamente, almeno nel rito della memoria, una memoria intenzionale, stuzzicata, saccheggiata, più dunque come quella di cui parla Bergson, rispetto alla memoria occasionale di Proust. Il mito o l’eterno ritorno dell’identico: “In certe Domeniche lente e lunghe / io m’attardo a osservare / le gocce d’acqua ai vetri / una pioggia che si ripete all’infinito, ogni volta, / nel mio percorso a ritroso” (p. 31), per cui “Nulla è cambiato” (p. 21), “Ora / per sempre giovani” (p. 20), perché “l’adolescenza / è assoluta ed eterna. / È l’unica cosa che resta”.

Un’intenzionale e ricercato percorso, le cui tracce vanno minuziosamente individuate. Allora, ecco le domeniche, appunto, o le bande giovanili nel gioco delle alleanze, le zuffe, le prime incerte e indefinite esperienze sessuali, le partite di calcio (che, come annota Paolo Lagazzi nell’intensa prefazione, ricordano i gesti sportivi adolescenziali immortalati da Milo De Angelis), il fratello, gli affetti familiari.

Siccome il tempo è anche spazio, il poeta ci dà anche alcuni indirizzi precisi, così come i dati anagrafi – nome e cognome – degli amici d’infanzia. E nel ritorno nel grembo notturno dell’adolescenza, della memoria delle origini, Fontanella circolarmente si riannoda al cordone ombelicale della sua città, Salerno, quella Salerno che per Alfonso Gatto era una “rima d’eterno”. “Notte catabasi, / Notte, / vieni, / rovinami addosso. / Rianima il sabba / i miei oggi / i miei ieri. / Sillabe ricontate / voci contorte / sussurri / volti invocati. / Sorella Notte, / Madre Notte: / Notte mente e niente / di tutti i miei pensieri” (p. 71). Prima del dispiegarsi relativamente più ampio degli ultimi due versi, questo fontanelliano inno alla notte si snocciola con versi brevissimi, anche di una sola parola, come a tornare a un infantile essenziale linguaggio. Che addirittura, nell’ultimissimo verso, dopo aver attraversato anche “il buio assoluto” (p. 83), il poeta arriva ad affermare, pavesianamente, nietzscheanamente, “Vietato parlare. Vietato scrivere” (p. 83). Solo così, forse, nella notte, si coglie l’indicibile “anima del mondo” (ivi). Per dirla di nuovo con Pavese, con il suo Notturno: “Tu non sei che una / nube dolcissima, bianca / impigliata una notte fra i rami antichi”.

 

Ma Salerno, per Fontanella:


Rivedi l’Irno oggi inaridito

ridotto a un rigagnolo tra sassi e sterpi

al centro della tua vecchia città

oggi ricreata in bellezza (p. 76)

Che sia ora così: tutto andato

tutto triturato. Ecco Via del Carmine

che faccio ogni mattino da Fratte

a Piazza San Francesco. Che sia tutto

benedetto in questo fermo mattino

in questo fumo demente e dimentico

un istante, questo, che ci vede in fila (p. 78).

 

*

psico@terra.pia

(testo rumeno e italiano)

 

Come una buona parte degli autori romeni contemporanei che ha amato, studiato e tradotto in italiano, Geo Vasile, cibandosi così della miglior produzione poetica del suo Paese, ci offre una poesia colta, piena di riferimenti espliciti o impliciti, di citazioni più o meno nascoste, di riscritture. Tanti i nomi nel testo, già a partire dalla Nota dell’autore, in apertura: oltre ai francesi, e al simbolismo con Verlaine, sono soprattutto autori italiani a ricorrere, da Pietro Aretino a Dante Alighieri a Mario Luzi a Luigi Pirandello a Dino Campana. E qualcosa di visionario, di onirico, e nello stesso tempo legato a irruzioni della quotidianità, ha, nel proprio sviluppo pluriennale (Vasile raccoglie il proprio percorso poetico dagli anni giovanili alla maturità), questa poesia.

Un onirismo “a grado zero”, questo, al quale si potrebbe applicare ciò che il Vasile critico ha scritto per l’amato Virgil Mazilescu (l’unico nome romeno esplicitamente fatto in uno dei testi, unito a quello della dantesca Beatrice): Mazilescu, in opposizione al dettato automatico, si “proponeva non di trascrivere sogni, bensì di crearli alla luce del giorno, di istituire una realtà analoga al sogno”. Per questo, si possono risentire anche le influenze di una “ragione magica” o di un “irrazionale sorvegliato”, tra Swedenborg e Dalì, come in Gellu Naum; o il “delirio sorvegliato” alla Buñuel di un Gellu Dorian (per rubare di nuovo cifre interpretative al Vasile critico): senza dubbio, siamo qui sopraffatti dalla “moltitudine caotica / delle immagini” (p. 13). Va poi ricordato quel movimento tra simbolismo e quotidianità di un George Bacovia (la storia e il tempo sono presenti nella poesia di Vasile in quanto entità sovrastanti la vita umana: ma c’è anche il concreto riferimento storico-politico al “dittatore”). C’è poi qualcosa anche di certa poesia americana: viene fatto di pensare alle poesie giovanili di Faulkner, autore qui nominato esplicitamente (p. 21).

Un onirismo, per tornare a tale questione, che, psicoanaliticamente, si serve a profusione del mito greco (ma anche di quello cristiano: bellissimo il componimento hölderliniano a p. 39), insieme a un erotismo, frequentemente a “fusione fredda”. Già nel viatico rappresentato dal primo testo (a p. 11), i lemmi seni/segni/sogni si susseguono, anche se il primo e il secondo divisi da più versi, e il secondo e il terzo, pur cuciti nella stessa espressione, allo stesso tempo disgiunti dall’enjambement: “urne dei seni” (v. 3); “i segni / dei sogni” (vv. 8-9). Molto insistito il lavoro sull’impasto linguistico, in un poesia che diventa pluriliguistica all’interno degli stessi testi in italiano (vera riscrittura più che auto-traduzione), tra latino e francese, oltre che per il gioco con il testo romeno a fronte. Nella versione romena di questo primo componimento, il gioco tra i segni delle parole e il mondo dei sogni (ma i sogni sono i segni del linguaggio onirico) ci è dato, giusto al centro del testo – con parole collocate rispettivamente al centro dei propri versi (vv. 9-10) – in questo modo: semnele/somnului (in italiano, vedi ancora, a p. 19, vizi/vezzi). Si scava, già nel testo iniziale, nella mistura del linguaggio, alla ricerca di termini meno consueti, con uno straniamento che richiede, secondo il monito di un Valéry, maggiore impegno al lettore, che non si distragga sul falso piano di una lingua sciatta: così, il ricorso al termine alchemico “nigredo” (nerezza, ovvero opera al nero nella quale la materia si dissolve, putrefacendosi), che trova una rima in “credo”, quasi all’inizio del verso successivo, e nel suo contrario “albedo” (opera al bianco, durante la quale la sostanza si purifica, sublimandosi), in fine di componimento.

Alchemica è questa poesia, che muove dalla “provincia universale” (romena), con “migranti parole” (p. 43), che, nella montaliana postazione della più volte evocata della “casa dei doganieri”, si muove al confine tra vita e morte, luce e buio: è vero, “il poeta è attratto dal buio” (p. 61), ma con la “luciferica” tentazione di portarvi luce. Il qui e l’altrove vanno allora congiunti, ricucendo, in “caparbie righe” (p. 11), i “filamenti sconnessi” (p. 71) del linguaggio: tra le “rivoltose parole” e “il sudario del silenzio” (p. 47). Questo il viaggio di Orfeo ritentato da Geo Vasile.

 

 

Pâine şi Vin 

 

citim în elegia Pâine şi Vin:

“...şi la ce mai sunt buni poeţii în vremuri sărace?”

părăsită fiind lumea de Zeu, 

asfinţitul acestor vremuri 

vesteşte deja noaptea,

acum niciun zeu nu mai uneşte în jurul lui 

oamenii şi lucrurile,

însăşi urma sacrului 

pare să fi dispărut,

ameninţarea abisului bate la uşă,

în aceste vremuri sărace doar poeţii 

aduc în dar

prin cântecul lor mireasma zeilor dispăruţi, 

ei rostesc sacrul, împreunează poezia

cu propria ei esenţă, 

răspândesc deasupra 

casei muritorilor de rând 

cântecul plinătăţii timpului,

poetul este ogarul urmelor sacrului 

aşa grăit-a Hölderlin

 

Pane e Vino

 

leggiamo nell’elegia Pane e Vino: 

«...e a che servono i poeti in tempi impoveriti?» 

abbandonato il mondo dal Dio, 

il tramonto volge 

verso l’universa notte 

adesso nessun dio riunisce intorno a lui 

le genti e le cose 

la traccia stessa del sacro 

sembra fosse svanita, 

la non-salvezza già bussa alla porta 

fortunatamente solo i poeti 

ci portano in regalo 

attraverso il loro canto la fragranza 

degli dei scomparsi, 

proferiscono il sacro, innestano nella poesia 

l’essenza della poesia, 

spandono sopra la dimora 

dei comuni mortali 

il canto della pienezza del tempo: 

il poeta è il veltro delle orme del sacro, 

parola di Hölderlin

 

 

*

La parte che ti ho affidato

   Senza dubbio, con questa seconda raccolta, la nolana Federica Giordano affina la sua vocazione e irrobustisce la voce poetica, confermando gli auspici positivi che la pur più acerba raccolta Nomadismi del 2008 permetteva già di arrischiare. E, come in quella raccolta, apre il suo volume con una riflessione meta-poietica: anzi, tutta la prima sezione s’intitola Il verso, come il primo testo che vi compare nel quale la composizione poetica, tra genesi e compimento, si dispiega in modo circolare: “Si apre ingenuo il verso”, ingenuo anche nel senso etimologico di non-generato ancora, e ancora di genuino, e ancora puro. Però, “Poi tocca la mente e la ragione”, perché l’ispirazione non sarebbe nulla, in termini di vera poesia, se non sostenuta dai mezzi intellettuali (sembra di sentire le considerazioni di un Paul Valéry e con lui di tanti altri grandi poeti), e poi: “Si apre sonoro il verso”, perché in esso fondamentale è ovviamente la musica; ma poi “Si chiude candido il verso / quando ritorna sull’istinto”. E questa è la chiusura circolare perché, passando attraverso il filtro della ragione, la poesia ritocca profonde corde interiori.

   Se in questo testo si chiama in causa il senso dell’udito – la sonorità come elemento fondamentale – in un altro testo, l’ultimo di questa sezione, Federica tocca l’altra componente fondamentale della poesia: le immagini. “Rimareggiare di immagini” dice con un neologismo che tiene insieme la parola rima e la parola mare, a rendere l’idea del movimento marino, ondoso dei versi e dello scorrere di parole, suoni, immagini. L’aspetto musicale della poesia è tematizzato in un testo come Cantante di strada, in un’altra sezione, nel quale la voce poetica si fa canto nella strada e canto della strada, cioè sua espressione, espressione della vita che vi brulica. E a testimonianza di questa continua attenzione per la musicalità poetica, sinesteticamente riunendo udito e vista, suono e immagine, ormai quasi verso la fine, leggiamo “Ascolti la voce / immergendomi gli occhi / nel nuovo universo sonoro”.

   Come emergeva già in Cantante di strada, la poesia, nonostante l’attenzione autoriflessa, è però mezzo e non fine, strumento che dà voce alla vita, al mondo, come indica pure il titolo della seconda sezione, Poesie naturali e urbane, nella quale possiamo leggere Gente di vicoli: “Scorre a ogni passo, / il sangue delle strade / il suo moto vitale, / anime dimenticate dai ritmi / in uno spazio di vedute” ecc.: e anche qui ritmi-vedute, suono e immagine; e il ritmo della vita si fa forma con uso più insistito di rime. Questo movimento urbano ci ricorda l’ossessione “flâneristica” di un Baudelaire, ma anche l’impossibilità di fare nostri i luoghi che pure vogliamo dire: “Attraverso le anime / dei luoghi, sentirsi sempre di passaggio”, dove anche l’enjambement sottrae l’anima ai luoghi. Questo trascorrente perdere mi richiama dei versi da una raccolta, non a caso intitolata Traversate (Melagrana, 2012) in cui Ciro Tremolaterra, nella seconda sezione intitolata Passeggiate, scrive lapidariamente in un solo verso “Noi andiamo, il paesaggio resta” (poesie urbane: questa s’intitola Via Caracciolo; ma, guarda caso, anche Federica ha nella sua raccolta una poesia che s’intitola Lanterne a via Caracciolo).

   Se qui siamo stati immersi in un contesto urbano, Capo Vaticano ci porta invece in un ambiente naturale che la memoria confronta con il passato, per ritrovare però lo stesso sentore della terra, quella terra, quella madre-terra che in Federica, anche in Nomadismi, ha avuto sempre grande importanza. “Qui”, secondo il prefatore Vincenzo Frungillo, “la raccolta trova il suo locus amoenus, il luogo ideale in cui la voce arriva a dire il mondo senza frizione o urti”:  questi versi, nei quali “Si abbandona il ritmo incalzante della città per una vena più classicamente elegiaca e descrittiva” sembrano a Frungillo “i più riusciti e compiuti della raccolta”. In particolare, aggiunge, quelli de Le sorgenti, aperte da un calco petrarchesco. Comunque, possiamo notare, se prima era il ricordo personale ad agire, ne Le sorgenti è invece la memoria collettiva a dispiegarsi, è una natura antropizzata, che sfocia in un’antropologia culturale: è il “passato sommerso”, che oltre la voce individuale, si fa voce della specie nel passaggio della memoria tra generazioni. Ma in Dietro queste facciate, attraverso l’ossimoro del “nuovo passato”, ciò che è stato si fa spinta verso il futuro e mallevatore di nuova storia collettiva. La dimensione storica si fa però addirittura cosmica in Dalla polvere stellare, a partire dall’unione sessuale, o, meglio diciamo dalla sensualità, che è concetto più ampio, per riscoprire lo zampillare naturale della vita: un componimento questo che rimette insieme i quattro elementi naturali: acqua (lo zampillare, appunto), aria (il vento), terra-fuoco (la polvere stellare). E anche la poesia che tutto ciò dice: “Adesso il suono / è questo zampillare naturale”. Di fronte alla vertigine cosmica, la reazione può essere quella di “rimbozzolarsi” a cercare un’ancestrale protezione, nel proprio letto, con il volto che ricerca il proprio calco lasciato nel cuscino, la propria sembianza atavica d’essere umano.

   Ma il volume si chiude con Rime di Margherita, nel quale la giovane germanista Federica Giordano, tra l’altro – come sottolinea sempre Frungillo – misurandosi con la forma del sonetto,  riprende la figura femminile del Faust di Goethe (quella che però subisce le conseguenze del patto con il diavolo), con l’amore, la nascita, la morte: “Dalla pancia arrivò nuova vita, luna sola tra nubi, / a sera un pianto nuovo fece risuonare la fronda, / una voce triste, l’ultima onda sulla dolorosa sponda. // Margherita zittì quella voce, soffocò quel respiro, / una punizione capitale al cordone ombelicale / e il buio della morte, della tomba, e l’uomo ancora fuori tiro”. Pur se questo libro appare meno verticale e più orizzontale del primo, più calato nella concretezza del vivere, e dei luoghi che del vivere sono ambientazione, che negli slanci metafisici tipici (anche) dell’adolescenza, tuttavia esso rimane spalancato sull’insondabilità del vivere stesso.

*

La fabbrica della parola

Non a caso il titolo del libro di Raffaele Urraro, La fabbrica della parola. Studi di poetologia su Leopardi, Baudelaire, Ungaretti, Rilke e altri (Manni, 2011, pp. 342, euro 25), richiama l’etimologia del termine “poesia”: quel poiein che in greco indica il fare, quel fare il cui prodotto è appunto la parola. Con il termine “poetologia” proposto nel sottotitolo, si riprende e si ridà dignità a ciò che viene chiamato “Poetica”, termine inizialmente importante e che a un certo punto finì per indicare solo la precettistica di consigli pratici, di mera “cucina” della poesia. Urraro invece gli ridà quella dignità che riconsegna alla Poetica lo spessore di visione completa sul fare artistico, in gara con ciò che poi viene chiamato Estetica. Urraro affronta così questione complesse, che travalicano anche nel campo della filosofia dell’arte e della Linguistica (per Jakobson la Poetica era parte della Linguistica stessa), ma con lo fa con una lucidità e una chiarezza invidiabili, che fanno di questo libro al contempo un  testo per specialisti e un vademecum per chi vuole addentrarsi nella riflessione sul fare poetico: perché, come suggerisce Marina Cvetaeva, la poetessa russa citata da Urraro fin dalla Premessa (e poi ripresa in un capitolo), non si tratta di dare precetti e consigli: non c’è nessun grande poeta che scriva sulla base dei consigli di un altro poeta; e anche le indicazioni che un autore dà a se stesso nascono in realtà a posteriori, a cose fatte, analizzando il proprio lavoro. E come osserva Urraro a ridosso delle annotazioni della poetessa russa, voler dare “consigli” ingenera l’equivoco di pensare che basti seguire tali consigli per diventare poeta. Cosa che è invece più complessa. E così chiarisce lo studioso vesuviano: “Insomma il mio intendimento, quando ho scritto queste pagine […] è stato quello di fornire, a me stesso e agli altri, materiali di riflessione, di approfondimento e di ricerca. E poi… ognuno per la sua strada! Meglio: ognuno per i ‘fatti’ propri” (p. 11). Ma nelle scelte che fa degli autori la cui poetica trattare, e nel dialogo che imbastisce con loro, concordando o anche dissentendo, probabilmente, trasversalmente, delinea anche la propria Poetica, da studioso che pratica l’arte della poesia in proprio: e lo fa nell’unico modo possibile: attraverso i lacerti delle altrui trattazioni. L’unico modo per rispondere alla domanda che cos’è la poesia? (e quindi anche la propria) è entrare nel laboratorio altrui e mettere insieme i tentativi di risposta. Ricorda un po’ il modo con il quale il grande semiologo e filosofo francese Roland Barthes affrontò un’altra questione indecidibile: che cos’è l’amore? Scrisse un famoso libro intitolato Frammenti di un discorso amoroso. E così la Poetica che questo libro ci offre è per Frammenti di un discorso poetologico.

   Questi frammenti, per la verità organicamente disposti e correlati tra loro, riguardano le riflessioni di autori che vanno dal mondo latino all’età contemporanea, chiudendosi con un poeta scandinavo: Orazio, Boileau-Despréaux, Leopardi, Baudelaire, Mallarmé, Verlaine, Rimbaud, Gide, Valéry, Rilke, Ungaretti, Cvetaeva, Montale, Lagencrantz. Di ciascuno, Urraro individua uno o più testi esplicitamente poetologici – in alcuni casi dei classici del genere, come Le lettere a un giovane poeta di Rilke o i Quaderni di Valéry – o scritti che meglio si prestano a trovare spunti interessanti in merito, come nel caso di Eugenio Montale, che non ha lasciato uno scritto di poetica, ma una messe sterminata di articoli di critica letteraria, dai quali è possibile estrapolare quanto occorre.

   Proprio quest’ultimo offre degli spunti per chiarire alcuni aspetti che riguardano la principale accusa che si fa alla poesia contemporanea, ma che riguardano probabilmente la fruizione della poesia in ogni epoca, della poesia in quanto tale: la sua oscurità. Montale, citato da Urraro, in una lettera del 1954, annotava: “Nessuno scriverebbe versi se il problema della poesia fosse quello di farsi capire. Il problema è di far capire quel quid al quale le parole da sole non arrivano” (p. 304). Ci si può immaginare come Montale, frainteso, fosse accusato di proclamare una deliberata oscurità della poesia, come a dire che la poesia “non vuole essere capita”. Ma come Urraro chiarisce acutamente, il problema è un altro, e riguarda la specificità della “comunicazione poetica” che si differenzia da altre forme di uso del linguaggio che invece mirano a una più immediata e diretta trasmissione di informazioni. La poesia serve ad altro. Scrive Urraro: “… tutti i poeti tendono a dire l’oltranza delle parole, non ad essere oscuri. Ed allora è vero che se il ‘problema’ della poesia fosse soltanto quello di ‘farsi capire’, cioè di comunicare concetti, nessuno scriverebbe versi per il semplice motivo che non sarebbe necessario né indispensabile far ricorso alla poesia: basterebbe esprimersi oralmente a parole, oppure con un articolo di giornale, con un saggio specialistico o con un’altra delle tante possibilità comunicative. La poesia è altro e serve ad altro. Ed anche se si fa con le parole essa vuole giungere a ciò che è inesprimibile con le parole. Al quid di cui si è parlato” (p. 305). Più chiari di così sulla questione della presunta oscurità non si può essere. Come pure qualcuno ha osservato, un’eccessiva ‘facilità’ della poesia – ma possiamo dire della scrittura letteraria in generale – farebbe sì che non ci si soffermi adeguatamente su quanto si legge, cogliendo solo ciò che è detto, senza essere costretti a gettare uno sguardo sull’indicibile cui pure quelle parole rimandano.

   Il tema dell’oscurità ci rimanda a un altro poeta, accusato in primis di oscurità per i propri versi, che ha lasciato notevoli considerazioni su altri aspetti del fare letterario: Paul Valéry. Riguardo all’oscurità, e al tipo di comunicazione proprio della poesia, Valéry scrive: “Compito del poeta non è comunicare un ‘pensiero’, ma far nascere in altri lo stato emotivo al quale convenga un pensiero analogo ma non identico al suo” (p. 230). Questa germinazione di pensieri analoghi si collega al carattere proprio della poesia, come sempre Valéry osserva: la poesia genera una molteplicità di significati perché essa gioca sulla non-univocità delle parole, gioca proprio su quell’intervallo, su quell’oscillazione semantica che le rende ambigue: le parole della poesia sono cioè equivoche, plurivoche, polivalenti ecc. Nella poesia c’è quindi una risonanza del pensiero, non una sua univoca trasmissione. Temi questi già affrontati con forza da Leopardi, pensiamo alle sue “idee concomitanti” ma anche alle “corrispondenze” di Baudelaire. Qui si giocano altre questioni sul rapporto tra poesia e filosofia (anche queste proprie di Leopardi che inizialmente anticipa la posizione crociana di distinzione degli ambiti, per seguire poi sviluppi diversi) che non è possibile approfondire, per quanto importantissime. La poesia non può diventare semplice esposizione di contenuti filosofici: i casi come quelli di Lucrezio sono rari come equilibrio tra livello dell’argomentazione filosofica e qualità poetica. Ma la poesia può avere, pur restando nel suo specifico, in quanto forma di conoscenza, una valenza filosofica. Lo stesso Valéry è stato studioso di Nietzsche, quel Nietzsche che aveva scelto la filosofia, l’arte come organon della filosofia. Proprio Valéry considera la poesia prodotto della razionalità, dell’intelletto, quasi sconoscendo l’ispirazione. Anche questo è tema fondamentale. La poesia, crocianamente, viene spesso ricondotta al sentimento: è quanto in realtà fa il senso comune. Eppure i maggiori poeti, nelle loro riflessioni, hanno insistito sulla poesia come “mestiere” nel senso alto del termine. Senza il “mestiere” non si fa vera poesia, tutt’al più si è versificatori. Per andare indietro nel tempo, come ci conduce per mano Urraro, Orazio stesso diffidava dei poeti che si affidavano soltanto all’estro e alla fantasia, addirittura additandone la pericolosità sociale perché agivano sulla sfera emotiva provocando disordini. Il problema è quindi, in generale quello di un equilibrio tra ingenium, cioè la fantasia, e ars, il mestiere appunto. Anche Boileau doveva insistere sull’importanza dell’impegno, del lavoro nel fare poetico. E sulla ‘fatica’ della poesia, di contro a una mera irruzione d’una estemporanea ispirazione insisteranno un po’ tutti.

   E vi insiste anche Raffaele Urraro, riproponendo l’importanza del fare poesia in un’epoca in cui la poesia, e la figura del poeta, appaiono ben poco accattivanti per l’opinione pubblica, ben oltre l’analisi che Montale faceva della diminuzione d’importanza del ruolo del poeta. Ma a fronte di una scarsa attenzione per la poesia, e di un esiguo numero di lettori, sono invece tanti, tantissimi, troppi i facitori di versi. Forse è opportuno ricordare, come fa Urraro, il monito dell’“aristocratico” Rilke: “Questo anzitutto: domandatevi nell’ora più silenziosa della vostra notte: devo io scrivere? Scavate dentro voi stesso per una profonda risposta” (p. 247).

 


*

Umano errare

Il libro di Mastroberardino rinnova il romanzo industriale che ha visto in Paolo Volponi uno dei maggiori rappresentanti: ricordiamo il suo Memoriale, che riguardava il punto di vista operaio, mentre le Mosche del capitale passavano al livello della gestione e progettazione. Anche nel cinema, un Ermanno Olmi, ad esempio, riprendeva i due livelli: se Il posto parlava di giovani alla ricerca del lavoro, con La circostanza ci si spostava nel mondo dell’alta borghesia. Ottieri ci ha lasciato l’ormai classico Donnarumma all’assalto e più recentemente Ermanno Rea La dismissione sulla fine di Bagnoli. Ma il clima rarefatto di questo romanzo dell’irpino Mastroberardino, titolare dell’omonima  e prestigiosa azienda vinicola di famiglia, ci riporta anche, pure per la questione dei tagli al personale, al surreale L’ultimo duello di Luigi Compagnone (ricordiamo: due impiegati devono giocarsi in uno scontro all’ultimo sangue la conservazione del posto di lavoro).

Ebbene, anche Umano errare è un romanzo aziendale, aziendale più che industriale, seppure non si fa capire, volutamente, di cosa si occupino le due aziende competitors, l’Extensa e la Tetragon (non a caso “tetragona” nel nome), poi fuse nella Extetra. Non sappiamo dunque cosa producano queste aziende, non sappiamo dove si trovino, e i protagonisti hanno cognomi italiani, inglesi, tedeschi, spagnoli, per mantenere il tutto in clima indefinito e straniante. anche se i profili dei personaggi vengono pure delineati in modo particolareggiato, un modo particolareggiato che però richiama in fondo, per dirla con Jung, dei “tipi psicologici”, cioè siamo di fronte a delle fisionomie paradigmatiche. Ritratti di uno spregiudicato cinismo, pur nell’evoluzione delle rispettive personalità, non statiche dunque, ma colte nella loro evoluzione ante quem (nell’analessi narrativa), nonché nel corso del romanzo: cosi com’è tipico di romanzo in quanto genere che ricostruisce i percorsi esistenziali dei protagonisti e il momento di svolta in tale “crescita”: ciò vale soprattutto per i due deuteragonisti, Stephan Berger e Elda Spencer, dei quali si coglie l’intimo contrasto tra istinto e ragione, che è tema di tutto il romanzo. Anche Elda, nella sua corazza (nella corazza che s’è costruita per protezione ma che diventa prigione), sente il bisogno di “deragliare”, di uscire dal binario sul quale ha messo la propria vita, ma che è quello che impongono le circostanze. C’è qualcosa di pirandelliano in questa ricerca d’identità dei personaggi e del cliché cui invece vuole condannarli la società (vedi anche l’illustrazione di copertina dello stesso autore in cui campeggia un volto indefinito, incompleto, di donna fronteggiato da un uccello in volo) e il romanzo stesso ha qualcosa di teatrale: anzi, diciamo che la metafora teatrale e la più insistita, accanto a quella bellica o sportiva, di incontro-scontro qual è la vita. L’incipit stesso del romanzo è teatrale con Stephan che fa ingresso nel wine bar (ci ricorda l’“Entrò Carla” dell’altrettanto teatrale romanzo borghese Gli indifferenti di Moravia). Quel locale nel quale casualmente sono convenuti gli altri personaggi, Elda, appunto, il capo, e Simone e Costanza, tutti coinvolti nel gioco che si creerà tra le aziende interessate. Cosi ci vengono presentate le caratteristiche dei personaggi attraverso un monologo interiore ricostruito da un narratore onnisciente che ci immerge nel calderone dei pensieri degli interessati. Un romanzo affabulatorio che appare come un meccanismo, un “marchingegno” già nel movimento di ingranaggi che ci presenta appunto i personaggi, agganciati come in ruota dentata che gira.

Questo meccanismo e il linguaggio tecnico-burocratico nel quale personaggi e vicende vengono immersi sono, formalmente, la trascrizione del contenuto, che è quello del freddo meccanismo degli affari, un meccanismo che vuole tenere al bando i sentimenti, sentimenti che invece trapelano nelle triangolazioni amorose (un controverso gioco di affinità elettive) che si creano fino a determinare decisioni che non sono poi il prodotto di disincarnate analisi. L’umano, troppo umano è sempre li a incombere. Se l’armamentario metaforico sembra diventare troppo pesante – e probabilmente lo è e sembra soffocare il dipanarsi della storia che coinvolge di più quando è portata avanti in modo snello –, è pero senz’altro funzionale al mondo che vuole descrivere. E la resa di un’opera letteraria va considerata appunto anche nella proporzione tra storia e racconto, ciò che si vuol dire e come lo si dice. Pensiamo appunto alla ridondanza tecnica di un romanzo come il già ricordato volponiano Mosche del capitale.  

  L’indeterminatezza degli ambienti, che rimane tale, pur nell’affabulazione avvolgente, dà poi un carattere di genericità, che si fa però universalità. Il cinismo degli scontri aziendali diventa a sua volta metafora della vita tutta. Un meccanismo che, pirandellianamente, ci stritola e dal quale, pirandellianamente, si vuole uscire con un colpo di scena. Come quello che ci propone il finale e che, nella sua ambiguità, non sveliamo.

L’umano errare è dunque quello di tutti noi. Errare nel senso di aggirarci nella vita. Errare nel senso di sbagliare. Anche qui una proficua ambiguità.